giovedì 31 marzo 2011

morte in culla - «Nella vita prenatale è nascosta la risposta a molte malattie» di Daniela Pozzoli, Avvenire, 31 marzo 2011

E’ nello «scrigno» della vita prenatale che si trovano le risposte a molte patologie dell’età adulta. Così, trovando una soluzione alle «morti in culla», prima causa di decesso nei Paesi sviluppati nei primo anno di vita del bambino, si svelano anche meccanismi che avranno conseguenze gravi nel corso della vita. Dopo trent’anni all’Istituto di anatomia patologica dell’Università degli studi di Milano, il professor Luigi Matturri si emoziona ancora quando parla dei corpicini stesi lì, sul tavolo autoptico, senza spiegazioni per la loro fine. Improvvise e apparentemente senza un perché. Messi a dormire nella culla dai genitori qualche ora prima e ritrovati senza vita. Oppure partoriti e subito deceduti. «Mi inviavano i primi casi e non mi spiegavo cosa potesse avere provocato quella fine – dice il luminare della Sids o 'morte in culla' –, ma negli anni la casistica a livello internazionale è aumentata e ha permesso di vederci meglio».
Un’urgenza di avere risposte certe che ha spinto Matturri a sostenere la Legge 31 che disciplina il «riscontro diagnostico sulle vittime da sindrome della morte improvvisa del lattante (Sids) e di morte inaspettata del feto». La legge del 2006 chiede a Regioni e Province autonome il compito di sviluppare la ricerca, la prevenzione, l’aggiornamento professionale, la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e il sostegno psicologico delle famiglie colpite. «Nei Paesi sviluppati – riprende Matturri, presidente onorario del Centro di ricerca 'Lino Rossi' – una gravidanza ogni 150 si conclude con la morte improvvisa del feto, spesso inspiegabile anche dopo l’autopsia di routine. Una cifra 6-7 volte superiore a quella delle 'morti in culla' che è di un neonato morto ogni mille nati. Ciò significa che ogni 150 gravidanze, una si conclude con un evento luttuoso».
Studi scientifici hanno messo in evidenza che «entrambi i processi condividono alterazioni comuni. Anomalie congenite sia del sistema nervoso autonomo o vegetativo, centrale o periferico, che modulano l’attività respiratoria, cardiaca, del risveglio e delle prime vie digestive che della centralina elettrica del cuore, anch’essa sotto il controllo del sistema nervoso autonomo». I fattori che moltiplicano questo «errore» della natura sono il fumo di sigaretta nelle donne incinte, come anche il consumo di alcol e l’inquinamento ambientale. «Incommensurabili le ricadute scientifiche – riprende il patologo – che derivano dalle conoscenze di queste patologie in un periodo talvolta oscuro, quello prenatale, ma che ancora racchiude molte risposte preventive a patologie dell’adulto e dell’anziano. Un esempio su tutti: le prime fasi del processo aterosclerotico, causa di malattie cardio-vascolari, si trovano già nelle arterie del feto e sono provocate dal fumo materno». 
morte in culla - «Nella vita prenatale è nascosta la risposta a molte malattie» di Daniela Pozzoli, Avvenire, 31 marzo 2011

E’ nello «scrigno» della vita prenatale che si trovano le risposte a molte patologie dell’età adulta. Così, trovando una soluzione alle «morti in culla», prima causa di decesso nei Paesi sviluppati nei primo anno di vita del bambino, si svelano anche meccanismi che avranno conseguenze gravi nel corso della vita. Dopo trent’anni all’Istituto di anatomia patologica dell’Università degli studi di Milano, il professor Luigi Matturri si emoziona ancora quando parla dei corpicini stesi lì, sul tavolo autoptico, senza spiegazioni per la loro fine. Improvvise e apparentemente senza un perché. Messi a dormire nella culla dai genitori qualche ora prima e ritrovati senza vita. Oppure partoriti e subito deceduti. «Mi inviavano i primi casi e non mi spiegavo cosa potesse avere provocato quella fine – dice il luminare della Sids o 'morte in culla' –, ma negli anni la casistica a livello internazionale è aumentata e ha permesso di vederci meglio».
Un’urgenza di avere risposte certe che ha spinto Matturri a sostenere la Legge 31 che disciplina il «riscontro diagnostico sulle vittime da sindrome della morte improvvisa del lattante (Sids) e di morte inaspettata del feto». La legge del 2006 chiede a Regioni e Province autonome il compito di sviluppare la ricerca, la prevenzione, l’aggiornamento professionale, la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e il sostegno psicologico delle famiglie colpite. «Nei Paesi sviluppati – riprende Matturri, presidente onorario del Centro di ricerca 'Lino Rossi' – una gravidanza ogni 150 si conclude con la morte improvvisa del feto, spesso inspiegabile anche dopo l’autopsia di routine. Una cifra 6-7 volte superiore a quella delle 'morti in culla' che è di un neonato morto ogni mille nati. Ciò significa che ogni 150 gravidanze, una si conclude con un evento luttuoso».
Studi scientifici hanno messo in evidenza che «entrambi i processi condividono alterazioni comuni. Anomalie congenite sia del sistema nervoso autonomo o vegetativo, centrale o periferico, che modulano l’attività respiratoria, cardiaca, del risveglio e delle prime vie digestive che della centralina elettrica del cuore, anch’essa sotto il controllo del sistema nervoso autonomo». I fattori che moltiplicano questo «errore» della natura sono il fumo di sigaretta nelle donne incinte, come anche il consumo di alcol e l’inquinamento ambientale. «Incommensurabili le ricadute scientifiche – riprende il patologo – che derivano dalle conoscenze di queste patologie in un periodo talvolta oscuro, quello prenatale, ma che ancora racchiude molte risposte preventive a patologie dell’adulto e dell’anziano. Un esempio su tutti: le prime fasi del processo aterosclerotico, causa di malattie cardio-vascolari, si trovano già nelle arterie del feto e sono provocate dal fumo materno». 
«Decido io». Ma i capricci non dettano legge– Dalla 194 sull’aborto all’ipotesi di eutanasia legalizzata: così un’interpretazione deformata del principio di autodeterminazione ha influito sull’opinione pubblica. E ha distorto la lettura del dettato costituzionale sull’assistenza medica di Tommaso Scandroglio - Avvenire, 31 marzo 2011

Un erroneo concetto di autodeterminazione è il minimo comun denominatore di alcuni fenomeni sociali che fanno a pugni con i «principi non negoziabili». Nell’aborto lo slogan «l’utero è mio e decido io» sarà pur vecchio di quaranta anni ma è ancora alla base dell’interpretazione corrente della legge 194. Legge nata dalla pressione ideologica per «tutelare» simile esigenza. Se invece madre natura non dona il bebè tanto desiderato, si pretende di averlo per vie artificiali e inoltre si esige che sia perfetto e che la legge accondiscenda a tutto ciò. Non acconsentire a simili richieste sarebbe ledere la libertà della persona. Oggi infine tocca all’eutanasia: la vita è mia e determino io la soglia minima di apprezzabilità della stessa, i requisiti minimi di sopportabilità per determinare se è degna di essere vissuta. Come negli esempi precedenti si pretende una legge che dia tutela a questa autonomia e che la sacralizzi. Ovvio che in tale prospettiva le Dat non possono che essere vincolanti per il medico perché espressione di un libero volere che non deve conoscere limiti. Tale interpretazione del principio di autodeterminazione però non è proprio condivisibile alla luce della ragione e del diritto vigente. La libertà non può essere intesa in senso assoluto, cioè sciolta da qualsiasi legame. Bensì la nostra libertà è relativa, è agire in relazione a ciò che mi detta la natura umana la quale pretende che si conservi la vita e la salute, mia («no» all’eutanasia) e degli altri («no» all’aborto e alla fecondazione artificiale). Un’autodeterminazione vincolata dunque. Intendere in modo diverso il principio di autonomia significa comprimere e quindi svilire il naturale anelito al bene dell’uomo e non aver compreso la sua intima essenza, così come ricordò Benedetto XVI nell’ottobre del 2008 in occasione del Congresso nazionale della Società italiana di chirurgia: «L’esaltazione individualistica dell’autonomia finisce per portare ad una lettura non realistica, e certamente impoverita, della realtà umana».


Da ciò discende che le leggi dello Stato devono essere certamente al servizio dell’uomo, ma al servizio del suo vero bene, non delle sue vogliuzze, dei suoi capricci, dei suoi impulsi autolesionisti. Da parte del legislatore ci deve essere perciò un riconoscimento oggettivo delle esigenze naturali dell’uomo: la vita, la salute, la libertà, etc. E un rigetto di tutte quelle condotte che seppur volute dall’interessato stesso vanno a ledere questi suoi diritti indisponibili. Qualcuno potrebbe obiettare: «Ma l’articolo 32 della Costituzione sancisce il diritto al rifiuto delle cure». Non è così. Il rifiuto di trattamenti sanitari è una mera facoltà di fatto, non un diritto. Vi sono almeno due ragioni a sostegno di ciò. In primo luogo l’articolo 32 della Costituzione non sancisce un diritto alla non cura, ma impone un limite alla cure coattive prestate dallo Stato. È una differenza non da poco: porre un «alt» al dovere di cura da parte dei medici non significa corrispettivamente riconoscere un diritto soggettivo a rifiutare le terapie. In secondo luogo la salute è qualificata dall’articolo 32 come «diritto fondamentale».


Di conserva discende il fatto che non può esistere un diritto diametralmente opposto a questo, cioè il «diritto fondamentale» alla malattia, alla mancanza di salute. E quindi non ci può essere il diritto ad evitare quelle cure che potrebbero farmi recuperare il mio stato di salute intaccato da una patologia. Se dunque non si può predicare un diritto alla non cura, non esiste parallelamente nessun obbligo giuridico in capo al medico nell’interrompere le cure rifiutate dal paziente. Infatti laddove si predica un diritto ci deve essere un dovere in capo a qualcuno di soddisfare questo diritto. In buona sostanza la persona ha la facoltà di sottrarsi alle cure, ma non pretenda che il medico collabori con lui in questo intento. Puoi buttarti da un cornicione, ma non venire a chiedere che qualcuno ti dia una spinta. A questo punto però viene da domandarsi: il principio di autodeterminazione che fine fa? Il suo ambito di applicazione in realtà è assai esteso. Di fronte a una patologia il medico illustrerà tutte le possibili soluzioni e i rischi connessi. Starà poi al paziente, sostenuto dai familiari, decidere quale strada terapeutica intraprendere, conscio che l’unico limite impostogli è il rifiuto di cure salvavita. 
«Il diritto alla vita fonda il nostro ordinamento» - C’è un presupposto sul quale si reggono tutti i diritti, compreso quello alla salute: è il «favor vitae» che ispira la Costituzione e l’intera struttura giuridica del nostro Paese Lo ricorda Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, che sottolinea come «il consenso informato non è una dichiarazione di sovranità assoluta del paziente rispetto alle competenze del medico» di Ilaria Nava – Avvenire, 31 marzo 2011

E’ il consenso informato il cuore della proposta di legge su «Dichiarazioni anticipate di trattamento, consenso informato e alleanza terapeutica» che tornerà in aula alla Camera a fine aprile per il voto finale. Ne è convinto Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale.

Partiamo dai princìpi del nostro ordinamento. È vero che a fonda­mento di essi c’è il «favor vitae»?

E di cosa si tratta?

«Nel nostro ordinamento esiste un diritto alla vita garantito dalla Costituzione e che costituisce il presupposto rispetto a tutti gli altri diritti, compreso quello alla salute.

Il diritto alla vita è tutelato anche da convenzioni internazionali, come la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; lì il diritto alla vita è posto a fondamento dei diritti umani.

Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proteggendo il diritto all’integrità fisica e psichica, protegge in sostanza il diritto alla vita.

Qual è la corretta interpretazione dell’articolo 32 della Costituzio­ne, che riguarda il diritto alla sa­lute?

La salute, intesa come condizione di benessere fisico e psichico, è considerata un bene dell’individuo e della collettività, La seconda parte dell’articolo 32 vieta che i trattamenti sanitari siano forniti senza il consenso del paziente.

Questo articolo nasce per assicurare una protezione alla persona che in passato è stata oggetto di sperimentazioni e interventi sanitari che ne minavano in qualche modo la dignità, sebbene ritenuti all’epoca positivi.

Penso alla lobotomia, che riduce la persona nell’assoluta incapacità di autodeterminarsi. Gli interventi sanitari non possono, quindi, ledere la dignità della persona neppure a motivo di un interesse generale; anche in presenza di un interesse generale, l’intervento non è legittimo se c’è un sicuro danno per la persona: pensiamo, ad esempio, ad alcuni tipi di vaccinazione. Al centro di questo articolo c’è il consenso informato, un diritto affermato anche dalla deontologia e dalla Convenzione di Oviedo sulla biomedicina.

Come definiamo il consenso informato e cosa comporta la sua centralità nel nostro ordinamen­to?

Innanzitutto tengo a chiarire che è qualcosa di diverso dall’autodeterminazione terapeutica. Il consenso informato, infatti, ha un contenuto e una logica relazionale, che si fonda sul rapporto tra medico e paziente. È una manifestazione di volontà che deve essere attuale, non può essere puramente ipotetico, né astratto né programmatico; esige una valutazione della persona in riferimento alla sua condizione concreta e richiede anche un rapporto di fiducia con il medico.

Non è corretto, quindi, affermare che il consenso informato dia luogo a una situazione in cui il paziente abbia la sovranità assoluta di decidere e il medico sia ridotto a strumento di attuazione della sua volontà.

Ritiene che la proposta di legge sulle Dat rispetti questi principi?

Mi pare che nel dibattito attuale si sottolineino soltanto alcuni aspetti, trascurandone altri fondamentali. Il nucleo della proposta è l’impegno del legislatore a fornire il sostegno e garantire il diritto alle terapie anche nella fase terminale della vita. Inoltre la legge assicura che i trattamenti vengano forniti in base a un’espressione della volontà della persona e non siano rimessi a presunzioni o valutazioni generiche. La partecipazione del medico nella valutazione assicura l’effettività di questa garanzia.

Anche la Convenzione di Oviedo stabilisce che i desideri espressi su un trattamento medico in riferimento a quando la persona non sarò più in grado di comunicare «saranno tenuti in considerazione»; le indicazioni del paziente per il futuro non sono vanificate ma non sono neppure di per sé decisive; questo perché non sono contestualizzate, manca il rapporto immediato tra medico e paziente, manca un consenso attuale. La legge prescrive una serie di garanzie: non è obbligatorio redigere le Dat, hanno una valenza di 5 anni, e anche dal un punto di vista terminologico mi sembra più corretto parlare di dichiarazioni anticipate anziché di testamento biologico, che allude al fatto che le dichiarazioni assumeranno valore quando la persona sarà già morta.

Questa deriva terminologica nasconde un crinale molto pericoloso perché ci invita a distinguere tra vita degna e vita indegna, andando a contraddire il diritto alla vita di cui parlavamo all’inizio.

Alcuni sostengono che non abbia senso dare la possibilità di scrive­re una Dat se poi il medico può agire diversamente. Cosa ne pen­sa?

È vero che il medico può agire diversamente, ma non può fare quello che vuole perché la sua azione non può essere arbitraria.

La legge, infatti, da una parte segna il limite del divieto di accanimento e di interventi che non siano fruttuosi alla persona, dall’altro impedisce l’abbandono dell’assistenza alla persona. In questo spazio d’azione non rende irrilevante la volontà del paziente.

È vero che essa non è di per sé determinante quando è decontestualizzata e non ha come fondamento un consenso attuale e informato. Neppure il fiduciario nominato con la Dat può sostituire la volontà della persona. L’attualità e la concretezza sono elementi che caratterizzano il consenso informato e che sono stati affermati dalla giurisprudenza della Cassazione anche in sentenze di segno diverso rispetto alla sentenza Englaro. Ad esempio, la Cassazione ha ritenuto lecite trasfusioni eseguite sebbene la persona avesse lasciato scritto di non volerne. Le ha ritenute legittime perché il consenso della persona non era attuale. La Cassazione ha specificato che il dissenso alle trasfusioni avrebbe dovuto essere manifestato in modo espresso, attuale, inequivoco e informato. 
«L’eutanasia sfascia le radici laiche della società» di Andrea Galli - Manfred Lütz, psichiatra tedesco, autorevole voce della Pontificia Accademia per la Vita, espone i motivi razionali che impediscono di considerare «disponibile» l’integrità della persona «Se per legge si indica ad anziani e disabili la via d’uscita a disgregarsi è il nostro senso di umanità» - Avvenire, 31 marzo 2011

Pensate che nella secolarizza­ta e multiconfessionale Ger­mania non c’è più spazio per la saggistica cattolica di suc­cesso? Manfred Lütz è la pro­va che così non è. I suoi ulti­mi due libri, scritti con humour e la capacità di parlare al grande pubbli­co – Dio, una piccola storia del più gran­de e Matti: curiamo quelli sbagliati, il nostro problema sono i normali – sono stati autentici casi editoriali. Psichia­tra, membro della Pontificia accade­mia per la vita e del Pontificio con­siglio per i laici, Lütz è anche tra i cu­ratori di YouCath , catechismo per i giovani che sarà pubblicato a breve in 13 lin­gue, con una premessa del Papa, in previsione della Gmg 2011. Con lui parliamo del vero te­ma che aleggia sul dibattito attorno al fine vita: l’eutanasia.

La Chiesa nella sua opposizione all’eutanasia viene accusata da alcuni di «biologismo», di abbracciare una difesa della vita nella sua pura materialità. Cosa ne pensa?

«Chi non si occupa da vicino del problema può pensare che sia così. Non è lo spirito, l’intelli­genza, non è la facoltà intellettiva dell’uomo a renderlo veramente tale? Quando sembrano ri­manere solo funzioni 'vegetative', non vuol di­re che è già avvenuta la morte dello spirito? Que­sta domanda apparentemente semplice ha a che fare non solo con le radici cristiane e occiden­tali della nostra idea di uomo, ma anche con le fondamenta delle nostre società laiche. Se noi definiamo l’uomo in base alle sue facoltà men­tali in atto, allora probabilmente il malato di Alzheimer in stato avanzato o colui che è affet­to da un grave handicap mentale non sarebbe­ro considerati più uomini, o comunque non sa­rebbero degni di protezione più di un abile scim­panzé, come sostiene non un tizio qualunque ma il famoso filosofo australiano Peter Singer. All’opposto, un altro filosofo, Robert Spaemann, sostiene che ogni uomo vivente è in quanto ta­le una persona, che pensi oppure no, che sia lu­cido o privo di coscienza, che sia in grado di aiu­tare gli altri o sia lui ad avere bisogno di aiuto. Per questo non ci sono nell’uomo funzioni 've­getative', nel senso delle piante. Tutto ciò che nell’uomo può ricordare la pianta o l’animale resta pur sempre umano. Il materialista è colui che considera l’uomo a partire dalla sua pro­duttività, mentre il cristianesimo ha insegnato che proprio la compassione nei confronti del più debole – ciò che non conoscevano i pagani – è l’atteggiamento che ha Dio nei confronti del­l’uomo. Il progresso scientifico tende sempre ad avanzare, ma questo non vale per il progres­so dell’umano. Per quest’ultimo dobbiamo sem­pre impegnarci. E se non lo facciamo rischiamo sempre di ricadere nella barbarie, mostrando ai deboli e ai malati una via di uscita che dovreb­bero loro stessi cortesemente scegliere affinché non dobbiamo farcene carico noi. Sarebbe il tramonto del senso di umanità, peggio del tra­monto dell’umanità stessa».


La società occidentale ha lottato per allungare l’aspettativa di vita della popolazione, siamo tutti ossessionati dalla salute, dalla possibilità di curarci per vivere più a lungo. E ora cresce la domanda di poter scegliere di morire, accorciando questa stessa vita. È contraddittorio?

«No. Per quella che è oggi la pervasiva e domi­nante religione della salute la morte è certa­mente il nemico numero uno, che si cerca di sconfiggere sudando in palestra e con un’asce­tica rinuncia all’alimentazione scorretta. Ma questo ha serie conseguenze sulla visione del­l’uomo in generale. Perché se l’uomo autentico è quello sano, allora il malato, soprattutto quel­lo per cui non c’è speranza di guarigione, sarà un uomo di seconda classe. Chieda a qualcuno a caso se è giusto che la società investa la stessa quantità di denaro per una persona che non può più guarire e per una che invece può tor­nare in salute. Riceverà risposte che contraddi­cono quel che è scritto nella Costituzione ita­liana. Chi vuole essere una persona di serie B ed essere un peso per i propri cari...? La 'società della salute' non ha misericordia».

Se l’eutanasia trovasse piena legalizzazione in Europa, cosa cambierebbe nel volto della società? C’è chi sostiene che in fondo il fenomeno riguarderebbe una parte minima della popolazione.

«Il governo olandese ha realizzato un’inchiesta sull’applicazione della legge sull’eutanasia da cui è emerso un dato agghiacciante: ogni anno 250 persone vengono uccise con un’iniezione – dopo la decisione dell’apposita commissione – nonostante siano in piena coscienza e non abbiano dato il proprio assenso. Ciò è contra­rio alla legge ed è venuto alla luce solamente per­ché le risposte ai quesiti erano protette dall’anonimato. La prova di come, una volta rotta la diga, non ci sia più nulla che tenga. Le case di riposo tedesche vicine al confine con l’Olanda registrano un crescente afflusso di anziani o­landesi. Le cure palliative in Olanda scontano un pesante ritardo a livello scientifico, perché c’è già una 'soluzione'... Se si introduce l’eutanasia nella legislazione cambia l’atmosfera in cui tutti vivono, quand’anche la suddetta legge non venisse mai applicata, perché ogni anziano o malato si sentirà in dovere di giustificare il per­ché sia ancora al mondo a pesare sugli altri. E ci si dovrebbe abituare a telefonate come quel­la che mi è stata riferita recentemente da una donna olandese: una sua cara amica l’ha chia­mata dicendole 'ah, tra l’altro, mio marito muore mercoledì prossimo e viene seppellito sabao, volevo solo informarti'. Bisogna farci l’abitudine? Non è fantascienza. Telefonate come questa avvengono, mentre lei fa questa intervi­sta, a poche centinaia di chilometri da dove si trova... 
La norma? Nel segno del dialogo - di Claudio Sartea - l’osservatorio – Una «giusta» soluzione giuridica deve far incontrare la volontà del paziente con l’etica clinica del medico. E il consenso non può essere finalizzato a richieste letali - Avvenire, 31 marzo 2011

Anche il pudore ha una sua rilevanza civica. Nel dibattito che sta accom­pagnando da più di due anni l’elaborazione del­la normativa sul cosid­detto fine vita, anche gli autori più favorevoli al permissivismo avevano fino a po­co tempo fa preferito non sbilanciarsi tanto da par­lare apertamente di eutanasia. In tal modo, pote­va vantare qualche ragione chi accusava di preci­pitazione quanti sostenevano, in realtà a buon di­ritto, che una certa concezione del testamento bio­logico equivaleva all’introduzione legale dell’eu­tanasia in Italia. Ora però il ventre del cavallo di Troia si è spalancato e vengono allo scoperto mol­ti fautori espliciti dell’eutanasia. Una sincerità scon­certante dilaga: non si tratta già di dare dignità le­gale alle anteriori volontà del morente incoscien­te, ma di imporre a chicchessia, con la forza di un diritto sanzionato legalmente, una richiesta di mor­te.
Qui però viene fuori un dilemma, che affonda le proprie radici nel senso stesso del diritto e della norma giuridica. È difficile negare che l’orizzonte giuridico sia caratterizzato dal con­senso: secondo alcuni, più attenti alla sostanza del­le cose, un consenso sulla natura dell’uomo, che ne fonda e garantisce le giuste relazioni; secondo altri, più formalisti, un consenso su regole condi­vise che tutti s’impegnano ad accettare. In entrambi i casi, il consenso mira a un qualche bene: un be­ne comune che alimenti l’umana fioritura, nel pri­mo caso, o nel secondo caso più superficialmen­te un contesto ove sia possibile coltivare in pace il proprio interesse individuale. Siccome sembra dif­ficile convincersi che in generale il porre fine vo­lontariamente a una vita possa essere considerato un bene, ha qualche significato pensare a un con­senso mirante a essa? In altri termini: ha senso i­potizzare una norma legale che costringa qualcu­no a subire un’altrui volontà ritenuta ingiusta?


Chiaramente, casi di accordo tra paziente (e fa­miliari) e medico si possono sempre dare: sia nel senso «fisiologico», della richiesta/pro­messa di cura, sia in quello, che possiamo defini­re «patologico», della richiesta/promessa di mor­te. È agevole tuttavia supporre che non siano que­sti i casi bisognosi di disciplina legale, o tali da sol­levare contenzioso giudiziario. La regola giuridi­ca, se mai, viene invocata quando tale accordo manca: solo che l’orientamento eutanasico per na­tura propria spinge all’estremo la tensione deri­vante dal dissenso. Da una parte c’è il paziente, che indica le condizioni alle quali intende essere soppresso; dall’altra c’è il medico, che deve e vuo­le fare i conti con la sua scienza e la sua coscienza, e di conseguenza sa di non poter assecondare ri­chieste letali.
Sergio Cotta anni fa aveva già spiegato che tale situazione di tensione non può conoscere u­na «giusta» soluzione giuridica: una norma le­gale o attribuisce potere al paziente, così toglien­do libertà (e responsabilità deontologica) al me­dico, o attribuisce potere al medico, ridicolizzan­do l’autonomia del paziente e lasciandolo alla mercé del sistema sanitario. Anche da questo pun­to di vista la legge ha una sua plausibilità: nel ri­conoscere diversi princìpi dell’etica clinica più a­vanzata (consenso informato, alleanza terapeuti­ca, autonomia del paziente e dell’operatore, e co­sì via), stabilisce un vincolo di legittimità sui con­tenuti dell’azione medica e della richiesta di cura, mediante il divieto di sospendere la nutrizione ar­tificiale, che ha il preciso scopo di sconfortare i guerrieri che scendono a frotte dal cavallo di Troia. 
Avvenire.it, 31 marzo 2011 - Fine vita: dire sì alla normativa sulle Dat - Per una legge che sia utile di Domenico Delle Foglie

Sì, questa è la stagione in cui per i cattolici è ancor più importante rendere visibile e tangibile la "cultura della vita". Una cultura che come cittadini italiani sappiamo di condividere con tanti non credenti, dentro e fuori le aule del Parlamento, nelle corsie degli ospedali come nelle aule scolastiche, nelle stanze dei tribunali e delle università, nelle famiglie come nelle associazioni e nei movimenti, nelle parrocchie e negli oratori come nei circoli, nei media tradizionali come nella rete, nei gruppi di amici e nelle più diverse articolazioni di questa nostra società complessa e postmoderna.

Una "cultura della vita" che può e deve ispirare – e accompagnare – i passi decisivi della legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) all’esame del Parlamento italiano. Una legge «necessaria e urgente» come ci ha ricordato il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco. Una legge che si rende «necessaria» se, da cittadini consapevoli, ci lasciamo guidare da quel sano principio di realtà che non dimentica quanto è accaduto solo due anni fa in questo Paese: a una persona indifesa furono sottratti acqua e cibo, in forza della sentenza creativa e intrusiva costruita da taluni magistrati. Dimenticare questa drammatica circostanza, o considerarla secondaria, questo sì che sarebbe colpevole agli occhi dei cittadini più avvertiti del valore di ogni singola vita, della sua insostituibilità e non replicabilità.

Ecco perché, nel considerare «urgente» una legge che ponga dei limiti a ogni tipo di scorciatoia eutanasica, il pensiero va allo stesso significato del concetto di democrazia, come strumento dei "moderni" per rappresentare tutti e garantire e tutelare i più deboli. Quando si fa osservare che ai credenti questa legge non aggiunge nulla, perché i credenti difficilmente farebbero ricorso allo strumento delle Dat, se non in funzione positiva, si dimentica che ciascun cittadino ha una responsabilità che travalica il proprio particolare. È questa responsabilità che spinge i credenti anche a servirsi di una legge che "cattolica" non è, per tutelare gli interessi dei più deboli che a tutti debbono stare sommamente a cuore.

Questa legge, infatti, risponde a un forte principio solidaristico, anche nella prospettiva di uno sviluppo sociale che vedrà crescere, a dismisura, la popolazione degli anziani. Uomini e donne che sempre più spesso si troveranno purtroppo a dover affrontare il "transito" in solitudine, a causa dell’espandersi delle famiglie mononucleari e dell’assottigliarsi e indebolirsi dei vincoli parentali. Per loro, forte sarà il rischio sia dell’abbandono terapeutico sia dell’accanimento. Di tutto questo un legislatore accorto può e deve farsi carico, proprio nello spirito dell’«alleanza di cura» che si fa espressione tangibile della scelta solidaristica scolpita a chiare lettere nella nostra Costituzione repubblicana.

Una legge "buona e giusta" quella sulle Dat? Si è lavorato al Senato e si sta lavorando alla Camera perché sia così. Ricordiamoci, però, che ogni legge è sottoposta al vaglio delle maggioranze – a volte trasversali, come in questo caso, e comunque transitorie in un regime di alternanza politica. E per tutte le maggioranze, presenti e future, dovrebbe valere il criterio di garantire, a ogni singola legge, una volta approvata, un periodo di rodaggio. È civile e necessario, insomma, che a queste disposizioni non venga riservato il trattamento ostile e la propaganda deformante già riservati, ad esempio, alla legge 40 sulla fecondazione artificiale, altra normativa "non cattolica" ma accettata dai credenti per chiudere l’era di "provetta selvaggia". Abbiamo già visto una parte dell’opinione pubblica, più ideologizzata e meno disponibile ad accettare il voto (trasversale, torniamo a ricordarlo) di un libero Parlamento, allearsi con una frazione della magistratura per tentare di demolire o, comunque, manomettere la legge sin dal giorno seguente la sua entrata in vigore.

Chi come noi alimenta con la ragione e le opere la "cultura della vita", sa di dover innanzitutto agire nella società per diffonderla in modo credibile e convincente. E questo facciamo, senza progettare scorciatoie ed elitarie manovre di potere e di (dis)informazione per far prevalere il nostro punto di vista. Parliamo chiaro e accettiamo il confronto a viso aperto nello spazio pubblico, forti delle nostre ragioni e della richiesta di non cancellare le voci nostre e di malati e disabili. Magari, per qualcuno, politicamente scorrette e scomode.
J’ACCUSE/ Quel supermercato della genetica dove si vende il feto "perfetto" - Carlo Bellieni - giovedì 31 marzo 2011 – il sussidiario.net

La rivista Nature del 20 gennaio 2011 lancia un grido d’allarme: “Siamo pronti per la inondazione di test genetici?”. Infatti, tra pochi anni sarà disponibile sul mercato un nuovo metodo per eseguire la diagnosi prenatale genetica: non più quella indiretta con valore probabilistico, che si fa con le ecografie e il rilievo di alcuni parametri nel sangue materno - il cosiddetto “triplo-test” o il “quadri-test; neppure andrà più tanto l’amniocentesi, che conta i cromosomi del feto andandoli a prendere dal feto stesso proprio nel pancione materno. Basterà fare un’analisi del sangue della mamma, per sapere non la “probabilità” della malattia fetale, ma la certezza, con l’analisi delle tracce dei cromosomi fetali nel sangue materno.
Ora ci troviamo di fronte a un paradosso: gli stessi media che mai o davvero di rado hanno ammesso che l’amniocentesi porta dei gravi rischi (dieci feti ogni mille amniocentesi muoiono come effetto collaterale, scusate se è poco!), adesso sono lì a raccontarli perché non vedono l’ora di aprire a questa innovazione. Temevano forse che la gente avrebbe pensato che il gioco non valeva la candela?
E c’è un altro paradosso: la diagnosi prenatale genetica finisce per essere uno screening, cioè non una diretta richiesta dell’interessata, ma routine, quasi automatica: chi tra le donne italiane non l’ha fatta nella forma del triplo test, o della misurazione della plica nucale o dell’amniocentesi? E questo è strano, perché uno screening si fa a tutta la popolazione quando c’è una convenienza economica o sociale, cioè una convenienza per lo Stato; ma che convenienza per lo Stato c’è nell’individuare i bambini Down prima della nascita, dato che non c’è terapia e che la maggior parte finisce in aborti?
La rivista Nature lancia un allarme: quando non sarà più così evidente per la complicatezza delle manovre - ad esempio, come nell’amniocentesi -, che si sta facendo un’operazione eticamente delicata, cioè da discutere approfonditamente, che marea di richieste verrà, e quali malattie verranno screenate, cioè ricercate a tappeto, con quello che qualcuno chiama “effetto retata”(Social Science and Medicine, novembre 2005)?
Il problema basilare si era posto anni fa, ma nessuno gli aveva dato importanza: la privacy del feto. Già, perché se di un bambino possiamo conoscere tutti i segreti genetici prima che nasca, un esito può essere che venga abortito; l’altro, che nasca e non abbia più segreti genetici, suo malgrado, cioè che il suo DNA sia pubblico, almeno ai genitori, senza che lui lo abbia richiesto. E i suoi genitori sapranno di cosa si ammalerà, e magari quali saranno le sue predisposizioni, dato che alcune sono legate proprio a tratti genetici. Vi sembra un’intromissione di poco conto, si domandano vari studiosi?
Ma anche fermandosi alle malattie, quali verranno ricercate con questo sistema? Solo quelle gravissime? E chi decide quali sono? E non pensate a come si sentiranno i malati di quelle malattie che vedono che esiste un decreto che impone di andare a cercare “quelli come loro” per non farli nascere, facendoli sentire come degli “sbagli della natura” o almeno come delle “imprudenze dei loro genitori”, comunque facendoli sentire “indesiderati”, fuori posto, dei “clandestini genetici”? Ma se invece si lascia carta bianca, dobbiamo sapere che si apre al supermercato della genetica, in cui chiunque potrà testare (ed eliminare) il figlio per ogni banale affezione, magari senza significato clinico.
Che società è quella che trasforma le donne, violentemente loro malgrado, in “sceriffi genetici”, in guardacoste che vigilano sull’accesso alla vita postnatale, respingendo gli indesiderati? Solo perché (la società) non vuole prendersi la bega di operare un’eugenetica esplicita? Nature spiega che questo sistema di diagnosi genetica può servire “a ridurre la sofferenza”, ma anche essere “un passo verso una regressione eugenetica”. Ma questo è il futuro. Già oggi il ricorso massiccio alla diagnosi genetica prenatale, che non serve a curare, ma a entrare nei segreti del DNA, e che finisce in aborto nella maggior parte dei casi di riscontro di anomalie, è un problema etico di non poco peso: sia per il diritto alla vita, ma anche perché quasi surclassa il diritto delle donne a scegliere, spingendole forzosamente dentro un meccanismo più forte di loro.
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mercoledì 30 marzo 2011

Il compito del medico? Lo indica il codice penale di Tommaso Scandroglio, 30-03-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Intorno alla querelle molto attuale del rapporto medico-paziente spesso si insiste giustamente che  il primo debba operare in scienza e coscienza. A questo riguardo però è opportuno ricordare che l’operato del medico non è svincolato da qualsiasi regola: agire secondo scienza e coscienza significa rivolgersi alla cura dei pazienti all’interno di un perimetro normativo disegnato dal Codice di deontologia medica e prima ancora previsto dal nostro ordinamento giuridico. In merito a quest’ultimo vi sono alcune norme, di carattere penale e non, che interessano da vicino la professione medica. Vediamone qualcuna.


Non impedire uguale a provocare.
L’art. 40 del Codice Penale recita: Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Il medico ha come responsabilità giuridica di impedire la morte del paziente o la lesione della sua salute. Se non si adopera con tutti i mezzi possibili e necessari per scongiurare eventi dannosi per il paziente incorre nel reato sopra citato. Ovviamente questo non significa che se il malato non guarisce o peggio muore il medico si trovi nei guai. I problemi di ordine penale ci saranno solo se il medico non si sia attivato diligentemente, non se i risultati dei suoi sforzi andranno a buon fine. L’onere di prestare le cure in punta di diritto non sussiste, e quindi non si applica l’art. 40, se il paziente cosciente rifiuta le cure stesse. Il rifiuto dei trattamenti sanitari deve avvenire però senza collaborazione attiva del medico. La signora Maria, la donna che nel 2004 morì a seguito del rifiuto dell’amputazione del piede, fece tutto da sé: non c’è stata collaborazione dei medici i quali si sono fermati di fronte al suo rifiuto tutelato dalla legge. Fu lei a sottrarsi alle cure, non furono i medici a sottrarle le terapie. Nel caso di Welby invece ci sono state condotte positive e collaborative da parte del dott. Riccio al fine di provocarne la morte – sedazione e stacco del respiratore – ed è per questo motivo che il GIP La Viola configurò il reato di omicidio del consenziente. Questo è l’aspetto importante: la rinuncia dei trattamenti deve quindi avvenire senza l’apporto positivo del medico.

Immunità penale?
Leggiamo un altro articolo del Codice Penale, il 50: “Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne.” Qualcuno applicando questa disposizione sui temi di fine vita potrebbe tradurre il suo contenuto così: se io medico stacco la spina con il consenso dell’avente diritto, cioè del paziente, non posso essere incriminato per omicidio del consenziente. Questa interpretazione è erronea perché l’articolo in oggetto fa esplicitamente riferimento a quei diritti di cui il titolare può validamente disporre. La vita è bene indisponibile ex artt. 579, 580 cp e 5 cc e dunque questo articolo non si può applicare nel caso in cui il medico con l’assenso del moribondo provoca la sua morte. Se lo fa si configura il reato di omicidio del consenziente.


La legittima difesa.
L’art. 52 cp concerne la legittima difesa: “Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta”. C’è una dottrina che sostiene questa interpretazione assai interessante e suggestiva: anche di fronte al rifiuto cosciente del paziente in merito alla somministrazione di terapie salvavita il medico può legittimamente intervenire applicando le stesse appellandosi all’istituto della legittima difesa. Io medico difendo il bene vita del paziente contro l’aggressione ingiusta che proviene dal titolare del bene medesimo, cioè il paziente, proprio perché la vita è un bene indisponibile, bene quindi che non è soggetto alla disponibilità assoluta di nessuno, nemmeno del malato terminale.


Le cinture di sicurezza.
La qualificazione della vita come “bene indisponibile” poi motiva altre scelte normative che hanno carattere coattivo. La legge 78/833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale vieta trattamenti sanitari contro la volontà del paziente salvi i casi di necessità. C’è da chiedersi se un “caso di necessità” non sia proprio una situazione in cui si paventi un serio pericolo di morte. In questo frangente quindi il medico potrebbe sottoporre a trattamenti salva vita il paziente stante il suo dissenso. La stessa ratio giuridica la ritroviamo ad esempio nella disciplina normativa che regola i parametri di sicurezza sui luoghi di lavoro e nelle disposizioni sulla circolazione stradale: obbligo di mettere le cinture di sicurezza, limiti di velocità, distanze di sicurezza etc. Tutti comportamenti da assumere coattivamente anche contro la volontà del lavoratore o del guidatore proprio al fine di tutelare la sua salute e la sua vita. Allora il parallelo è quasi scontato: se vi è un obbligo di prevenzione in capo al lavoratore e al guidatore per evitare possibili, ma non certi, rischi alla sua salute-vita, a maggior ragione sarà legittimo imporre cure salvavita laddove con certezza il paziente versi in stato di pericolo di morte. Detto in altri termini se sono legittime le misure coattive per tutelare anche il solo bene “salute” da possibili danni futuri, a fortiori saranno ancor più legittime quelle misure coattive mediche per tutelare il bene “vita”, più importante del bene “salute”, da un pericolo attuale e letale. Questa conclusione logica però cozza con l’art. 32 della Costituzione e la disciplina del consenso informato che permettono di non sottoporsi a trattamenti non voluti. La contraddizione rimane evidente e per ora insanabile.

Argomenti indigesti.
Certo, questi sono argomenti duri da mandar giù per la nostra sensibilità ultra libertaria dove l’individuo è padrone assoluto della sua vita. Sapere che qualcuno può metterci le mani addosso contro la nostra volontà ci infastidisce non poco. Però occorre domandarsi, e sta qui il punto, se la nostra volontà coincide con il nostro bene oggettivo.
Avvenire.it, 30 marzo 2011 - FINE VITA - Fine vita, a Casa Iride di Roma - le risposte di chi non si arrende, di Pino Ciociola

Ad Alfredo scende una lacrima sulla guancia se lo rimproveri troppo bruscamente. Rosaria invece pianta i muscoli e sbuffa se il fisioterapista le sfiora casualmente il seno durante gli esercizi. Danilo, ancora, se gli parli gira gli occhi verso te, sebbene forse non ti veda. Eppure sono inchiodati nel letto con la stessa diagnosi, stato vegetativo, da anni. Non vivi, li chiama qualcuno, oppure non morti. E giudica, definisce le loro esistenze prive di dignità.

Ma genitori o mariti o figli di questi cosiddetti non vivi scoprono in loro – e quindi credono – cose che a qualcuno parrebbe follia solo riportarle: sorrisi, piccoli movimenti, emozioni, "risposte". Le stesse cose che però scoprono anche i medici e il personale sanitario di "Casa Iride", a Roma, al 155 di via Torre Spaccata: nessuno escluso. Tant’è che, a sfidarli, rispondono tutti nello stesso modo: "Ma realmente vorrebbe convincere che ogni persona in stato vegetativo passata qui dentro percepisce in qualche modo ciò che gli accade intorno?". «Ognuna. Ne può essere assai più che certo». Anzi, tutti si spingono anche oltre con assoluta tranquillità: «Le dirò di più, ognuna di queste persone comunica. Dobbiamo imparare noi a capirla».

Alfredo (nome di fantasia come anche gli altri, ndr) ha la stanza tappezzata di giallorosso e un poster di Francesco Totti che copre mezza parete di fronte al suo letto. Mamma e papà stanno qui quasi ventiquattr’ore su ventiquattro. Lui è di quelli che vanno... presi di petto: ecco perché il medico o il terapista iniziano ad "attaccarlo" già dieci o quindici minuti prima... «Andiamo, che oggi non hai voglia di fare niente!», «Preparati, che ti spremo», «Su, sveglia, che c’è da fare!». Non importa che (apparentemente) non risponda: sanno che, grazie a questo, l’orgoglio di Alfredo reagirà e allora la sua terapia renderà meglio. Con Rosaria invece la sfida, perché possa arrivare a vincere, va spostata su un altro terreno: serve rilassarla, «anzi con lei serve dolcezza», desidera serenità e pazienza. Suo marito le è accanto ogni giorno, da quando smette il lavoro fino a sera, per tornare a casa dalla figlia: «Ho venduto tutto e non posso permettermi niente da quando lei è così, ma non mi occorre alcunché e non mi manca. Amo la mia Rosaria più di prima e ringrazio Dio», sussurra, accarezzandole le gambe prima e poi il volto.

Stamattina entra un gran sole da queste finestre: fa venir voglia di darci dentro senza arrendersi, ché le partite vanno giocate sempre e nessuno fino alla fine sa come possano andare. Le tivù nelle sette stanze di "Casa Iride" sono spente. Alfredo, Rosaria, Danilo e gli altri sono già stati lavati e hanno già anche fatto "colazione" grazie ai loro sondini. Adesso è il momento delle pulizie, proprio come per qualsiasi casa. Trecentosessanta metri quadrati colorati (realizzati coi criteri della bioarchitettura e della ecocompatibilità): ogni stanza ha l’angolo cottura, un lavandino, la poltrona-letto per il familiare, docce speciali per le barelle e un piccolo monitor di controllo, oltre a un armadio, una credenza, le veneziane alle finestre e appunto la tv. Ogni stanza è personalizzata.

Nell’edificio ci sono poi le sale per l’amministrazione, la medicheria, uno spazio attrezzato per la fisioterapia, oltre agli spogliatoi del personale di servizio. C’è un grande soggiorno comune, una tisaneria. E ci sono gli spazi esterni a disposizione, il giardino, i tavolini e gli ombrelloni. «Insieme è bello, noi, le famiglie, gli ospiti in stato vegetativo», spiegano Francesco Napoletano e Claudio Taliento, presidente e vicepresidente dell’associazione "Risveglio" (che ha ideato e gestisce Casa Iride, insieme alla Asl locale): «Questa Casa è veramente una... casa. Ed è un inno alla vita: qui c’è il sorriso sulle labbra, nonostante le situazioni di estrema difficoltà».

Storia della malattia e della cura 6 - Il "diritto alla salute"

Autore: Riva, Michele; Laguri, Innocenza  Curatore: Leonardi, Enrico
Fonte: CulturaCattolica.it

lunedì 27 dicembre 2010



L’approccio alla cura in epoca rinascimentale e barocca: progressi nella conoscenza, separazione mente-corpo, prosecuzione della distinzione tra poveri e malati e nuova visione della povertà.

Nel Cinquecento e nel Seicento si sviluppa un rinnovato interesse verso lo studio anatomico del corpo umano. Questa svolta è dovuta a più cause: nella filosofia di Cartesio il corpo (res extensa, realtà estesa e misurabile) viene distinto dalla realtà interiore pensante (res cogitans); Galileo poi sottolinea l’importanza della verifica sperimentale.
Proprio in questa direzione si muove l’uso della dissezione del cadavere: esso, per un verso permette la “verifica sul campo” di alcune ipotesi, tuttavia, per un altro verso, conferma la separazione tra mente e corpo. Infatti il cadavere è ormai solo un corpo - macchina che ha smesso di funzionare, dunque non coincide con la persona malata che è corpo vivo e interiorità insieme. Una nota importante: la possibilità di dissezionare i cadaveri non è stata affatto impedita dalla Chiesa, come facilmente si può sentir dire: è un luogo comune inesatto.
Per quanto riguarda la figura del medico, tutto questo fa aumentare la sua figura di scienziato-ricercatore che ha poco contatto con il malato, infatti in quest’epoca si accentua il fatto che i malati sono curati soprattutto da infermieri (il termine viene usato ora per indicare appunto chi si occupa degli infermi), continua anche il fatto che tale personale infermieristico è costituito da religiosi e/o volontari. Infatti gli ordini religiosi continuano a operare e ne nascono di nuovi che si dedicano agli ammalati. Va ricordato che fino a 30 anni fa, in Italia, buona parte del personale infermieristico era ancora formato da suore.
Prosegue il criterio di separazione tra poveri e ammalati/vecchi/disabili, nel senso che c'è la volontà di distinguere tra chi, povero, può però essere obbligato a lavorare e chi, oltre che povero, è inabile al lavoro perchè vecchio o handicappato.
Lo Stato si occupa e si preoccupa di obbligare i poveri a lavorare in appositi reclusori, perchè vede la questione della povertà come pericolo sociale, come serbatoio della criminalità e interviene con il criterio dell'ordine e della repressione. Siamo dunque ben lontani dalla concezione del povero da assistere dell’epoca medioevale. L’intervento dello Stato secondo il criterio dell’ordine sociale è molto evidente con la Monarchia assoluta in Francia.

L’Epoca dei Lumi e il Diritto alla salute
La mentalità illuministica e la Rivoluzione francese esprimono, in merito alla questione della salute e della malattia, l’idea che ogni uomo ha diritto alla salute e che la società e lo Stato glielo debbano garantire. L’espressione è decisamente contraddittoria, in quanto solo parzialmente la salute è un diritto che si può garantire. Infatti ci sono problemi fisici presenti fin dalla nascita, malattie, di fronte alle quali questo diritto non può essere garantito. Semmai si può parlare di diritto alla assistenza e alla cura. 
Il diritto alla salute, in questa epoca, può essere garantito solo dallo Stato, il potere politico si dà solo nello Stato, esso vede nell'autonomia delle varie formazioni sociali, tra cui quelle che si occupavano della cura dei malati e dell'assistenza, un ostacolo da eliminare. Questo cammino in cui lo Stato cerca di eliminare i corpi intermedi, sarà però lungo e conflittuale. 
Gli studi dello psicanalista Claudio Risé rivalutano la figura paterna, “assente inaccettabile” Di Rassegna Stampa - 29/03/2011 - di Elisabetta Pittino, da http://www.libertaepersona.org

“Se quello che i mortali desiderano, potesse avverarsi, per prima cosa vorrei il ritorno del padre”, dice Telemaco, figlio di Ulisse, esprimendo l’angoscia del figlio senza padre.

Ma chi è veramente il padre? Il prof. Claudio Risé, psicanalista, docente di Sociologia dei processi culturali e delle comunicazioni all’Università dell’Insubria (Varese), esperto della figura paterna, risponde così: “Il padre è colui che è consapevole della sua natura di co-creatore della vita in un disegno di felicità che si esplica secondo due aspetti. L’aspetto dinamico si configura come spinta originaria, donativa e vitale, atto maschile per eccellenza: il padre è colui che mette in moto il processo di creazione, è colui che realizza il getto del dono creativo, capace di promuovere una nuova vita e la stessa continuazione della vita. Il secondo è un aspetto di accoglimento, cioè di disponibilità alla fondazione e rifondazione della personalità del figlio, disponibilità alla quale il padre, roccia e rifugio, deve essere sempre aperto e che presuppone una disposizione all’accoglimento del figlio e all’offerta di rifornimento di energie allo stesso. Quindi il padre, come creatore, presenta da una parte un lato direttamente propulsivo, dinamico e attivo, dall’altra un lato di accoglimento che, proprio per la sua capacità di apertura, è in grado di fornire, silenziosamente e per lungo tempo, le energie necessarie alla crescita dei figli. Le due dinamiche, della spinta e dell’accoglimento, portano alla nascita del senso di appartenenza”.

L’esperienza dell’appartenenza, il fatto che io vengo da quella storia, da quell’amore per la vita, da quel padre, è costitutiva della personalità. “Solo a partire da un’appartenenza posso immaginare un destino. Solo se vengo da qualche parte posso andare verso una direzione”.

Secondo Risè lo sguardo che spinge (l’aspetto dinamico) è ben rappresentato nel San Giuseppe del Beato Angelico, mentre la funzione di accoglimento è magistralmente rappresentata nel Figliol Prodigo del Guercino, in cui il padre è raffigurato mentre è dedito alla cura del figlio, per metterlo in grado di ripartire nella vita. In due libri Il padre l’assente inaccettabile, prima, e Il mestiere di Padre, poi, Risé riscopre la figura paterna, “assente inaccettabile” della nostra società, con l'intenzione di contribuire ad una speranza: che il padre ritorni.

Perché il padre è diventato un “fantasma” nella società occidentale? Quali sono le conseguenze psicologiche e sociali di questo processo? Secondo Risé oggi c’è “nostalgia dello sguardo paterno… di un padre più coraggioso del corporate man, dell'uomo di azienda. Più coraggioso negli affetti, ed in particolare, in quello verso i figli. Un padre, insomma che non abbia paura di fare il suo mestiere”.

Continua Risé: “Il padre è oggi emotivamente assente, spesso addirittura respinto in una grigia terra di nessuno, da cui non può più guardare, comunicare coi figli, né loro con lui. La figura del padre è, infatti, costitutiva della creazione, della vita, e del suo sviluppo. Senza una significativa presenza paterna l’organismo vitale tende ad indebolirsi, ed a perdere interesse alla stessa esistenza. Tutto l'umano assume una forma definita, ed acquista il suo dinamismo, nel segno del padre, che lo genera, così come acquista tranquillità e sicurezza affettiva nell’esperienza della madre positiva, che lo accoglie. Ecco perché oggi proviamo, tutti, più o meno consciamente, nostalgia di questa presenza”.

La paternità e, quindi, la mascolinità si imparano attraverso un’esperienza che bisogna fare in una relazione affettiva con il padre. “La principale conseguenza di questa assenza è la perdita di identità del giovane uomo occidentale”. “La speranza è - scrive Risé - che i due libri insieme, possano dare un preciso e valido aiuto al grande popolo di persone responsabili, uomini e donne, oggi impegnato a trasformare quel fantasma ambiguo di padre, che ha preso forma nell'ultima parte del ’900 in Occidente, in una realtà di carne e di sangue, di pensiero e d'azione. Un soggetto autenticamente paterno, dotato di un suo sentire, e di una sua precisa conoscenza, e competenza, affettiva, e spirituale. Un padre che, proprio perché ama i figli, ed è profondamente affettivo, non si sottrae alla sua funzione di fornire loro indicazioni, norme, visioni del mondo. Un materiale di conoscenze e valori che spesso i figli rifiuteranno, o accantoneranno per lungo tempo nella loro vita. Un dono paterno di cui hanno tuttavia assoluto bisogno, per costruire, nel confronto con esso, la propria sicurezza, e la propria libertà”.

A tutti quelli che non hanno potuto fare l’esperienza del padre: c’è San Giuseppe, c’è Dio che è Padre, Abbà, papà e noi siamo suoi figli. In nome di questa speranza invitiamo i lettori a prendere visione ed a sottoscrivere il Documento per il Padre: http://www.claudio-rise.it/documento_per_il_padre.htm.

 Non abbiate paura di essere padri! da: L'Ottimista
«Ad un passo dalla morte ero straordinariamente vivo» di Raffaella Frullone, 30-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

«Prima del coma tante cose erano diverse, avrei certamente firmato le dichiarazioni anticipate di trattamento. Da medico, da uomo di scienza, ero convinto che avrei preferito spegnermi dolcemente piuttosto che lottare fino allo stremo con la certezza di non guarire.  Oggi è tutto diverso, sono stato ad un passo dalla morte eppure  sono vivo e sto benissimo». Umberto Scapagnini, medico, docente, uomo politico, racconta i suoi mesi di coma e ancora si sorprende

«Tutto inizia nel 2007 con un banale lipoma, sotto la tempia, vicino all’occhio sinistro dove vent’anni prima avevo tolto un neo. Una macchia nascondeva qualcosa da esaminare, una pallina, come la chiamavo io, ma bisognava andare a fondo». La diagnosi che avrebbe dovuto affrontare di lì a poco l’ex sindaco di Catania era terribile: neoplasia della famiglia dei melanomi. «Una diagnosi che avrebbe scosso chiunque ma io ero un medico e non solo conoscevo bene la malattia ma anche le reali speranze di guarigione». Una consapevolezza che Scapagnini  ha visto anche negli occhi del figlio Giovanni, anch’egli medico, che con le lacrime agli occhi gli comunicava il risultato dell’esame istologico. «Fu per far forza a lui che dissi: siamo due medici, lavoriamo, lottiamo e cerchiamo una via d’uscita».

Da quel momento inizia un calvario da un ospedale all’altro, su e giù per la penisola, consultando gli specialisti migliori  fino a quando la reazione ad una cura lo porta al coma. Irreversibile, dissero i medici che lo visitarono.  50 di pressione, 20 di frequenza, 6.8 di ph. Dati che a un non addetto ai lavori dicono poco o nulla, ma che un medico riconduce immediatamente ad un quadro clinico di “incompatibilità con la vita”.  Attorno a Scapagnini i familiari più stretti cominciano a temere il peggio e dalla disperazione passano ad uno stato di quasi rassegnazione. «Ovviamente non ricordo nulla – racconta – seppi solo al mio risveglio che i miei familiari avevano chiesto per me per ben due volte il sacramento dell’estrema unzione».

Ma se apparentemente Umberto Scapagnini sembrava morto, lui non si era mai sentito così fortemente attaccato alla vita. «Quello che è accaduto è qualcosa di straordinario. Negli 80 giorni in cui clinicamente ero in coma irreversibile ho vissuto una sorta di vita parallela.  Mi trovavo all’interno di un tunnel buio ma in fondo vedevo una luce, una luce verso la quale mi sentivo irresistibilmente attratto. Camminavo verso quella luce e ogni passo che facevo sentivo pace e tranquillità così procedevo lentamente ma in maniera decisa. Ad un certo punto ho sentito che qualcuno mi afferrava la mano sinistra con dolcezza: con grandissimo stupore ho visto mia madre, morta un anno prima, accanto a me nel tunnel. La mano destra invece mi viene fermata in maniera più brusca: e la mia meraviglia era enorme poiché a fianco a me c’era Padre Pio che in dialetto mi diceva “Ragazzo, ma dove stai andando? Tu devi fare la volontà del Signore”. Lo so che può sembrare assurdo o anche solo incredibile, ma io ho un ricordo nettissimo di quanto mi è successo. Non è un sogno, io l’ho visto e l’ho vissuto. Il coma ti mette in grado di vedere e sentire cose straordinarie, è tutto fuorché morte».

Parlando con lui al telefono, tono cordiale, progetti e un libro in uscita (Il cielo può ancora attendere, Mondadori), Scapagnini non sembra un uomo che è stato così vicino all’aldilà,  eppure sarebbe bastato pochissimo. «Mi sono chiesto diverse volte la ragione per cui non sono realmente morto. E la risposta che mi sono dato è che forse dovevo tornare per raccontare, per testimoniare che la nostra capacità di resistenza fisica e spirituale va oltre l’immaginabile, e che è solo il Signore che ci ha dato la vita colui che ce la può togliere. Forse il suo desiderio è che la mia storia di uomo di scienza incontrasse un’esperienza così forte nella fede tale da rendere la mia testimonianza ancora più significativa».

Una storia che Spagnini spera possa essere di speranza per tutti gli ammalati che, presi dallo sconforto, si lasciano andare. Tuttavia, ne siamo certi, farà riflettere anche il mondo della politica alle prese con la delicata legge sul fine vita. «Oggi dico che è estremamente difficile codificare la vita e la morte, estremamente difficile trovare un punto di equilibrio tra scienza e fede. Tuttavia – rimarca – la mia storia è una storia innanzitutto umana,  la vicenda di una persona ammalata che sta per morire e invece oggi vive, la vicenda di un credente blando che oggi può affermare con certezza che il Signore guida ogni nostro passo, fino all’ultimo».

martedì 29 marzo 2011

MARTEDÌ 29 MARZO 2011 - Chi decide della vita e della morte? - Da "Il diritto di non soffrire", di Umberto Veronesi, da http://veritaevita.blogspot.com/

"Ma i cittadini italiani vogliono veramente affidare ai medici la decisione su come desiderano morire? Tramite la Fondazione Veronesi, all’inizio del 2007 volli affidare la risposta a un sondaggio (...) mi sembra fondamentale rispondere alla domanda più importante, che il legislatore non può far finta di ignorare: a chi spetta la decisione? Agli intervistati è stato sottoposto un quesito molto dettagliato: «Se una persona è affetta da una malattia o lesione cerebrale irreversibile che le impedisce di esprimere la sua volontà e la costringe alla dipendenza da macchine, a chi dovrebbe aspettare la decisione di non somministrare o eventualmente sospendere i trattamenti che la tengono artificialmente in vita?». Ecco le risposte: solo il 5% degli intervistati ha detto che la decisione spetta al medico che ha in cura il paziente (in ospedale, in reparto di rianimazione, a casa), mentre il 50% ha risposto che la decisione spetta al paziente che ha espresso la proprio volontà in merito quando ancora era in piena lucidità mentale. Questa risposta è stata data dalla metà di coloro che si erano posti il problema e dal 40% di coloro che non se l’erano mai posto. Questa risposta mi sembra assolutamente illuminante e nettamente prevalente rispetto alle altre, che comunque riporto: il 20% ha risposto che la decisione spetta a un familiare (coniuge/genitore/figli o altri parenti), il 20% che la decisione non spetta a nessuno perché «la vita è un dono e bisogna fare di tutto per tutelarla», un altro 5% affida la decisione «a una commissione etica di esperti», e un residuo 1% «a un giudice/magistrato».


Dalla prolusione del cardinal Bagnasco:

"una legge sulle dichiarazioni anticipate di fine vita è necessaria e urgente. Si tratta infatti di porre limiti e vincoli precisi a quella “giurisprudenza creativa” che sta già introducendo autorizzazioni per comportamenti e scelte che, riguardando la vita e la morte, non possono restare affidate all’arbitrarietà di alcuno. Non si tratta di mettere in campo provvedimenti intrusivi che oggi ancora non ci sono, ma di regolare piuttosto intrusioni già sperimentate, per le quali è stato possibile interrompere il sostegno vitale del cibo e dell’acqua. Chi non comprende che il rischio di avallare anche un solo caso di abuso, poiché la vita è un bene non ripristinabile, non può non indurre tutti a molta, molta cautela? Per rispettare la quale è necessario adottare regole che siano di garanzia per persone fatalmente indifese, e la cui presa in carico potrebbe un domani – nel contesto di una società materialista e individualista - risultare scomoda sotto il profilo delle risorse richieste"


Umberto Veronesi e il card. Bagnasco sembrano concordare sulla domanda di fondo che sta dietro al progetto di legge sulle DAT: chi deve decidere, quando una persona è "indifesa", della sua vita e della sua morte?


Veronesi esprime con la consueta franchezza la sua opinione.

Il Presidente della CEI, da parte sua, mostra di credere che il contenuto del progetto di legge sia limitativo: "regolare intrusioni già sperimentate ... da certa giurisprudenza creativa".

Cosa viene limitato (anzi: "regolato")? "La possibilità di interrompere il sostegno vitale del cibo e dell'acqua".

E le altre decisioni? Sulla possibilità di interrompere la respirazione artificiale (non è un sostegno vitale?), sulla possibilità di non erogare terapie di tutti i tipi ...?


Leggiamo bene cosa dice il card. Bagnasco. Egli non afferma: "le persone devono essere curate sempre, a meno che non si tratti di soggetti morenti per i quali ci si deve astenere dall'accanimento terapeutico". Piuttosto afferma: "le scelte che riguardano la vita e la morte non possono restare affidate all'arbitrarietà di alcuno ... per esse devono essere adottate regole di garanzia".


Quali sono queste regole? Bagnasco non ne fa cenno; e allora leggiamole nel progetto di legge:

- se il paziente è minorenne i genitori possono decidere di non curarlo, fino alla morte

- se il paziente è interdetto il tutore può decidere di non curarlo, fino alla morte

- se un paziente è incapace e in stato di "fine vita" i medici possono decidere di non curarlo ritenendo le terapie "sporporzionate" o "non tecnicamente adeguate", fino alla morte

- se il paziente è incosciente i medici possono decidere di sospendere anche nutrizione e idratazione se le ritengono "non più efficaci";

-le dichiarazioni anticipate possono impedire ai medici terapie salvavita.


Se questa è la garanzia ...


Giacomo Rocchi