mercoledì 30 novembre 2011

Non si uccide un uomo solo perché è depresso



Quella pretesa superba di avere l’ultima parola di Luca Doninelli, mercoledì 30 novembre 2011, http://www.ilgiornale.it

Pur non condividendo alcune sue idee, ho sempre provato simpatia per Lucio Magri, così come ho sempre letto con interesse e stima il manifesto, da lui fondato. La cultura infatti non è tanto ripetere ciò che noi siamo, o pensiamo di essere, ma imparare da quello che non siamo.
La notizia della sua morte mi ha dato dispiacere, e ancor più dispiacere apprendere il modo in cui ha voluto dare fine ai suoi giorni. Non sono un prete e non intendo condannare. Non posso nemmeno escludere me stesso dalla possibilità di compiere io stesso un atto del genere: non perché ci abbia mai pensato, ma perché non sono così sicuro di me da sapermi a priori capace di affrontare certe situazioni.
So però una cosa: che, se venisse un giorno così, potrei sempre invocare l’aiuto di Dio e contare sull’aiuto di tanti amici, che sono la mano di Dio.
Magri è andato a morire in Svizzera, dove si può avere il suicidio assistito, dove cioè ci sono persone fidate, stipendiate, che ti aiutano (non so e non voglio sapere come) a concludere la tua vita. Non voglio nemmeno immaginare come sia la vita di questi generosi cittadini, cosa chiederà la loro moglie, la sera, quando rientrano a casa dal lavoro. Mi basta rilevare una differenza importante: per morire è sufficiente una persona fidata, rassicurante; per vivere, invece, questo non basta, occorrono degli amici, occorre una compagnia profonda. Si muore sempre per evitare qualcosa, mi disse una mamma davanti al cadavere del proprio figlio di vent’anni, morto di cancro.
Quanto alla modalità scelta da Magri per morire, la trovo particolarmente triste. In ogni suicidio c’è un messaggio, una lettera criptata. Impiccarsi non è come spararsi un colpo, tagliarsi le vene non è come buttarsi dal decimo piano. Sono tutti messaggi, lettere, biglietti: quelli veri (perché quelli lasciati scritti generalmente sono pieni di bugie).
Scegliere il suicidio assistito è, tra tutte le soluzioni, la più malinconica, per certi aspetti (chiedo scusa a Magri) la più proterva. Chi si uccide è come se dicesse: l’ultima parola su di me voglio dirla io. Ma nessuno, per quanto ateo, può essere così certo di questo pensiero: non possiamo escludere che la smentita dei nostri pensieri ci balzi davanti, all’improvviso. Ce lo ha insegnato Shakespeare, nel suo Essere o non essere. Per questo, e non solo per soffrire il meno possibile, di solito ci si ammazza in fretta.
Magri sapeva bene queste cose: la scelta di andare in Svizzera lo dimostra. Voleva cautelarsi contro la possibilità stessa di cambiare idea, contro i fantasmi della vita, che si possono incontrare anche nelle nebbie della morte.
Un’ultima considerazione, visto che la tragedia si è svolta in Svizzera. C’è da credere che il povero Magri abbia pagato chi lo ha aiutato nel grande passo. Ora, so che quello che sto per dire non è granché cattolico, ma io sono abbastanza d’accordo con l’idea, molto svizzera, che ciascun uomo abbia il suo prezzo. L’espressione «la vita umana non ha prezzo» è una di quelle che condannano chi le usa a perdere tutte le battaglie civili alle quali partecipa. È quasi matematico. Io cerco di non usarla mai perché non dice chiaramente nessuna verità.
Ma proprio qui sta il paradosso. Se la vita di un uomo ha un valore economico, vuol dire che la vita non è solo un fatto privato, e che togliersela dicendo «è roba mia» è insensato. Se un uomo bruciasse un miliardo di dollari (meglio lasciar perdere l’euro, per adesso) dicendo sono miei, ci faccio quello che mi pare, noi giustamente disapproveremmo: il suo gesto in qualche modo danneggerebbe anche noi.
Figuriamoci se, al posto di un mucchio di carta, c’è un uomo.
Con questo, mi guardo bene dal giudicare Lucio Magri. Ho solo cercato di spiegare perché, prima dell’accordo o del disaccordo col gesto in sé, una notizia come questa ci lascia tanto tristi.
© IL GIORNALE ON LINE S.R.L.

Eutanasia, in aumento le richieste ogni mese tre italiani vanno all'estero


Come dare un senso alla vita



Sulla vita è giunta l’ora di parlare chiaro di Alfredo De Matteo, http://www.corrispondenzaromana.it

Inutile illudersi: la battaglia contro l’aborto volontario ed in generale contro tutti gli attacchi alla vita umana innocente è estremamente complicata anche perché è necessario agire su più fronti se si vuole giungere al ripristino della vera legalità.

Da qui l’opportunità di un’attività a tutto campo che non tralasci né l’ambito culturale (il sovvertimento dell’ordine naturale ha anestetizzato le coscienze, il politicamente corretto ha eroso la capacità di ragionare sui fatti e le loro conseguenze, il relativismo morale e dottrinale ha reso vuote le affermazioni di principio) né quello giuridico.

E’ un dato di fatto che i due livelli si compenetrano fino a formare un’unica struttura: un cambiamento a livello culturale (ad esempio una maggiore sensibilità alle ragioni della vita) può riverberarsi a livello giuridico – normativo e viceversa. Nondimeno, costituisce sempre un dato di fatto che l’uomo è un animale sociale che tende ad adattarsi all’ambiente in cui vive e per natura rifugge dal sentimento di frustrazione che prova nel sentirsi isolato e in minoranza.

Per questo motivo le leggi fanno cultura, orientano il pensiero delle masse e influenzano le coscienze. All’epoca della promulgazione dell’omicida legge 194/1978 che ha regolamentato l’uccisione sistematica dell’innocente nel grembo materno una feroce e terroristica campagna mediatica guidata da minoritari gruppi di potere (femministi e abortisti) è stata all’origine del clamoroso “crollo” di un mondo politico già corrotto che ha portato ad approvare una legge di cui probabilmente la maggior parte delle persone non sentiva né l’urgenza né la necessità.

Dunque, un clamoroso scollamento tra il mondo reale e quello formato dalla politica del compromesso e dagli intrighi lobbistici e massonici. Eppure, sono bastati pochi anni per invertire la rotta e orientare la gente comune verso l’accettazione acritica dello sterminio di Stato. Allo stato attuale, dopo più di trent’anni, la situazione è disperata ed occorre ricominciare da zero per smuovere gli animi sopiti e addomesticati dall’illusione di un mondo falsamente solidale che invita ad ogni piè sospinto alla tolleranza ed al rispetto ma si accanisce senza pietà contro i più piccoli ed i senza voce.

Raccogliamo con favore, dunque, l’invito lanciato dal pro-life Carlo Bellieni dalle pagine del noto quotidiano on-line “La Bussola Quotidiana” circa la necessità di educare alla vita e non solamente di pensare ad incidere a livello legislativo (“Sulla vita è ora di educare”, 22 novembre 2011). Ci lascia però perplessi, alla luce della storia, l’affermazione secondo cui “fare buone leggi non serve a niente se la gente è convinta che siano leggi cattive”.

Malgrado la sproporzione di forze tra i fautori della cultura di morte e quelli della cultura della vita sia enorme, come giustamente ci ricorda Carlo Bellieni nel suo articolo, noi abbiamo un’arma che i nostri avversari non hanno e non possono avere: la verità e l’intrinseca coerenza del bene. Su ciò dobbiamo puntare per tentare di rovesciare la situazione senza appiccare incendi distruttivi ma neanche facendo i pompieri ad ogni costo.

"Ho inventato le trappole svela-tumori"



"Sei stressato? Fai la scimmia


E adesso la materia oscura inizia a svelare le sue curve




LETTERA/ Caro Bersani, la dignità è un'altra cosa... di Carlo Bellieni, mercoledì 30 novembre 2011, http://www.ilsussidiario.net

Gentile on. Bersani, arriveremo poi a conclusioni diverse, ma al convegno di Scienza e Vita (18 novembre, Roma) ha messo il dito sulla piaga. Ha detto che negli ultimi anni c’è stata una rivoluzione culturale: la gente che un tempo aveva paura della morte improvvisa ora ha paura della morte “senza dignità” (e spesso se la augura, la morte improvvisa).
Sarebbe interessante trarne le stesse conclusioni, ma questo richiede dialogo e tempo. La mia conclusione è che nulla può togliere all’uomo la sua dignità, dunque va combattuto il dolore, ma non si può pensare che il dolore renda la vita indegna. La dignità è intrinseca; un fiore può essere sbattuto, calpestato, strappato, ma resterà sempre un fiore.
Invece per alcuni la dignità consiste nel “poter fare una certa cosa”, e nel nostro immaginario finisce che l’idea che abbiamo di dignità coincide con le nostre passioni (o le nostre fobie). Tutte cose buone, per le quali impegnarsi, spesso; ma un po’ poco per pensare che “lì” risieda la nostra dignità. E questo ha riflessi sociali: come si pensa che certe malattie tolgano la dignità, così si pensa che certi lavori non siano “degni” (e i cittadini dei Paesi ricchi non li fanno più perché si sentono sminuiti). Non è vero. Perché non c’è nulla che tolga all’uomo/donna la dignità di uomo/donna, neanche il lavoro più faticoso o la malattia mentale. Perché la dignità non dipende dallo stato in cui siamo: anche in un lager si conserva la dignità, vedi Primo Levi (questo però non toglie che il lager vada cancellato).
Dunque la lotta vera è quella contro il dolore e la solitudine e anche contro le cure inutili; non sul credere che una certa vita è “indegna”, e che l’unica soluzione è toglierla o togliersela. E perfida è la società che lascia le persone sole, obbligandole a scegliere tra una vita disegnata come “indegna” e scelte letali (aborto, eutanasia, droga): che razza di scelta “libera” è?
Per questo non concordo con quanto scriveva Stefano Semplici sull’Unità (21 novembre): “La Chiesa non raggiungerà l’obiettivo (…) fino a quando insisterà che la crisi morale del nostro tempo dipende da un difetto di conoscenza”. Invece, credo, il punto è qui: ri-conoscere. Ecco un’altra rivoluzione: un tempo si accusava la Chiesa di essere tesa solo al soprannaturale, al primato della coscienza sulla conoscenza; non era proprio così, ma poteva sembrarlo; oggi di essere tesa solo al naturale, alla conoscenza, ed in parte è vero, perché la Chiesa invita a riconoscere il reale, mentre sono altri che mettono la “coscienza” (cioè il soggettivismo) al centro dell’etica.
Ma cos’è la conoscenza di cui parliamo? La conoscenza è dare alle cose il loro nome. E’ riconoscere che l’uomo non diventa mai “meno degno”, e che proprio per questo deve essere sempre e comunque tutelato, anche dalle sue paure. E riconoscere che non si può defraudare il salario, che non si può uccidere, che non si può violentare; e riconoscere pari dignità a qualunque essere umano, indipendentemente dall’età, dalla razza o dalla malattia. Le sembrano cose su cui si può discutere? E’ essere certi che su alcuni temi non ci sono “due verità”, a seconda di chi parla: stuprare è sempre un male, frodare le tasse o rubare al povero è sempre una male, aggredire il bambino (nato o non nato che sia) è sempre un male; poi ci saranno attenuanti, ma il male è certo.
Il problema è che oggi prevale l’etica dell’auto-nomia, cioè che se TU decidi che una cosa non è male, diventa BENE, a condizione di avere la FORZA per farsi valere. E certa bioetica utilitarista (“io valgo solo se so farmi valere, se sono legge a me stesso”) toglie la qualifica di “persona” a coloro che avrebbero “perso dignità” (feti, disabili mentali, pazienti in coma prolungato).
Insomma, on. Bersani, oggi siamo in una società spaventata e solitaria in cui si cerca di pararsi e ripararsi da tutto e da tutti, perfino dalla morte, perfino dai nostri cari che ci guardano morire; e dal lavoro che genera poco potere spicciolo e spendibile socialmente (e questo accade non solo al manovale, ma anche tante volte ai manager). Magari pensando che una decisione presa nel chiuso della propria stanza, di fronte ad un foglio di dati sia garanzia di libera scelta e dignità. Ma - e immagino che su questo potremo dialogare - la vera dignità è un’altra cosa, e la solitudine, sommo ideale della società postmoderna, può farci scordare di averla.
Allora dobbiamo garantire che nessuno si senta mai abbandonato: empatia da parte di chi cura, accesso a cure psicologiche, ad un ambiente non deprimente, alla compagnia dei cari, provvedimenti che diano agevolazioni e addirittura mettano al di sopra degli altri le persone con disabilità e malattie gravi. Cioè ri-conoscere, leggere la realtà. Diamo queste poche ma forti garanzie a chi sta male. Poi, solo poi, si potrà domandare se la vita è degna; solo poi si può discutere sulle leggi.


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Cure negate e discriminazioni contro malati di Aids, http://www.laogai.it, 30 novembre 2011

Si stringe sempre di più il controllo sui dissidenti cinesi mentre alcuni attivisti denunciano che le autorità spesso negano cure e assistenza ai malati di Aids. Lo riferisce il sito di Radio Free Asia. In base a quanto riferito da Hu Jia, da poco rilasciato dopo aver scontato tre anni di carcere per sovversione, in vista della giornata mondiale dell’AIDS, che si terrà giovedì prossimo, il governo ha intensificato la sorveglianza di alcuni attivisti particolarmente impegnati nella tutela dei malati di Aids. Hu ha detto di essere molto preoccupato in particolare per Tian Xi, che ha già scontato un anno di carcere dopo aver cercato di difendere le istanze dei malati di Aids nelle zone rurali cinesi. “Se Tian dovesse essere arrestato di nuovo – ha detto Hu – sono convinto che non ne uscirebbe vivo”. Tian era stato arrestato nel 2009 mentre manifestava, fuori al ministero della salute, proprio nella giornata mondiale dell’Aids. Secondo molti avvocati e attivisti, le persone ammalate di Aids sono costantemente bistrattate nel paese, a molti di loro vengono negate cure e trattamenti negli ospedali, con la conseguenza che molti nel frattempo muoiono. Le ultime stime fissano in circa 700.000 le persone affette da virus HIV in Cina e 85.000 le persone con la malattia conclamata. La polizia cinese ha negato che l’arresto di Tian Xi sia stato legato al suo attivismo a favore dei malati di Aids. Tian Xi, che ora ha 23 anni, ha contratto la malattia quando aveva solo 9 anni, a seguito di una trasfusione di sangue resasi necessaria per un incidente nel quale era rimasto coinvolto. Il governo locale gli ha dato 30.000 yuan (poco più di tremila euro) a titolo di risarcimento.
Tre aspiranti professori cinesi hanno denunciato, in un ricorso presentato al governo centrale di Pechino, di essere stati discriminati perche” sieropositivi. I tre insegnanti, ha precisato Yu Fangqiang, un attivista per i diritti dei malati, sostengono nel ricorso che una legge contro le discriminazioni approvata nel 2006 dovrebbe prevalere sui regolamenti della burocrazia, secondo i quali i funzionari pubblici non devono avere malattie infettive. I tre hanno fatto domanda per insegnare nei licei in tre diverse province – Anhui, Sichuan e Guizhou – ma il posto di lavoro è stato loro negato nonostante avessero superato brillantemente l’esame necessario per accedere alla professione. “I governi locali – ha dichiarato Yu Fangqiang in un’intervista alla Bbc – tendono spesso a far prevalere i regolamenti locali sulle leggi valide a livello nazionale”.
Fonte: Partecinesepartenopeo, 30 novembre 2011

Creato il virus che può uccidere la metà della popolazione mondiale - Polemiche infuocate nel mondo scientifico sulla pubblicazione dello studio. «Arma chimica». «No, aiuta a prepararsi alla pandemia», di Cristina Marrone, http://www.corriere.it, 29 novembre 2011

MILANO - I ricercatori dell'Erasmus Medical Centre di Rotterdam (Paesi Bassi) hanno prodotto una variante estremamente contagiosa del virus dell'influenza aviariaH5N1 in grado di trasmettersi facilmente a milioni di persone, scatenando, così, una pandemia. Gli scienziati, guidati dal virologo Ron Fouchier, hanno scoperto che bastano cinque modificazioni genetiche per trasformare il virus dell'influenza aviaria (che finora ha ucciso 500 persone nel mondo) in un agente patogeno altamente contagioso che potrebbe scatenare una pandemia in grado di uccidere la metà della popolazione mondiale. La sua elevata capacità di diffusione è stata dimostrata in esperimenti condotti sui furetti, che hanno un sistema respiratorio molto simile a quello dell'uomo.
LE RICERCHE - Le ricerche di Fouchier fanno parte di un più ampio programma mirato a una maggiore comprensione dei meccanismi di funzionamento del virus H5N1. È stato lo stesso virologo ad ammettere che la variante geneticamente modificata è uno dei virus più pericolosi che siano mai stati prodotti. Un altro gruppo di virologi dell'Università del Wisconsin in collaborazione con l'Università di Tokyo è arrivato a un risultato simile a quello di Fouchier.

LE POLEMICHE SULLA PUBBLICAZIONE - Ora il dibattito è se pubblicare o no la ricerca. Molti scienziati sono infatti preoccupati dalla possibilità che, in mani sbagliate, il virus potrebbe trasformarsi in un'arma biologica. Negli Stati Uniti le polemiche sono roventi. Thomas Inglesby, scienziato esperto di bioterrorismo e direttore del Centro per la Biosicurezza dell’Università di Pittsburgh è categorico. «È solo una cattiva idea quella di trasformare un virus letale in un virus letale e altamente contagioso. È’ un’altra cattiva idea quella di pubblicare i risultati delle ricerche che altri potrebbero copiare». Critico anche Richard Ebright, biologo molecolare della Rutgers University in New Jersey: «Questo lavoro non andava fatto». Pubblicare lo studio però, come sostiene lo stesso Fouchier, aiuterebbe la comunità scientifica a prepararsi a una pandemia di H5N1. Sulla stessa linea d'onda l'italiano Fabrizio Pregliasco, virologo all'Università di Milano: «Non pubblicare lascerebbe i ricercatori al buio su come rispondere a un focolaio. Lo scambio di conoscenze è fondamentale per prevedere la reale gravità di una pandemia. L'aviaria era sì una "bestia" nuova, ma non apocalittica. Con un maggiore scambio di conoscenze la diffusione di informazioni sarebbe stata più precisa e meno allarmistica».


SUICIDIO MAGRI/ Quella "vuota" compagnia che ha spento un combattente di Monica Mondo, mercoledì 30 novembre 2011, http://www.ilsussidiario.net

Viaggio programmato, un piano stabilito nei minimi particolari, qualche tentennamento, una resistenza infine domata e Lucio Magri è partito per la Svizzera, una di quelle cliniche asettiche e confortevoli, dove un medico “amico” gli ha infilato un ago in vena e ha chiuso la sua vita triste e sola. Suicidio assistito, in certi paesi si può. In certi paesi “civili”, dicono, che lasciano all’uomo questa suprema “libertà”. Qualcuno vorrebbe anche da noi, dove rigurgiti sedimentati di cultura cattolica ci impediscono i diritti della persona, tra cui quello di morire. Del suicidio di Lucio Magri ne parlano solo Repubblica (e il suo Manifesto) con malinconici coccodrilli affiancati dalla cronaca commossa di una scelta ineluttabile, coerente, stimabile.
Qualsiasi giudizio dubbioso è stroncato dall’incipit del pezzo con quella citazione di Pavese, “Non fate troppi pettegolezzi”, omettendo di ricordare che era il lascito di un uomo disperato, incompreso, nella stanza ombrosa di un alberghetto torinese. Repubblica dava voce al segreto custodito gelosamente dagli amici più stretti, riuniti a casa sua, davanti a un Martini, in attesa trepida della notizia sull’ora fatale. Gli amici della gioventù, di tante battaglie, perché Lucio Magri era un combattente, dicono. Un uomo inquieto, un ribelle, duro e puro; partito democristiano per approdare ben presto al Partito comunista e diventarne, da intellettuale appassionato, una delle teste pensanti. Mai organiche però, tanto che il suo nome è tra gli eretici fondatori del Manifesto, il 23 giugno 69: lotta agli albori del compromesso storico, appoggio della rivoluzione culturale cinese, ma anche il sostegno solitario alla primavera di Praga, che sancì la radiazione dal Pci.
Magri e i suoi lo scavalcarono a sinistra, ne seguirono impavidi l’ideologia, traviata secondo loro dalle strategie, dalle tattiche imposte dalla realpolitik dei vari direttori. Nasce il Partito di unità proletaria, un ricordo lontano, che suscita tenerezza. Dov’è finito? Coi suoi pugni chiusi, le sue grida? Di nuovo nel Pci, per poi liquefarsi con esso dopo la svolta della Bolognina. Fine di un sogno, per chi ci aveva creduto o finto di crederci. Tanto da paragonare la schiera politica cui aveva scelto di aderire al Sarto di Ulm, il protagonista del romanzo di Brecht che non sa volare, ma caparbiamente ci prova, finché si sfracella al suolo. È il titolo del suo ultimo libro, uscito
un paio di anni fa. Quando si dice, la fine delle ideologie.
Eppure Magri era un combattente: cosa gli ha impedito di usare la ragione, metterla a servizio della sua passione per l’uomo, continuando a vivere? La solitudine, la morte della moglie amata, la depressione. Non basta la politica, non bastano neppure gli amici, se non sanno farti compagnia nel dolore, dare un senso al distacco dalle persone care, cercare con te un significato per vivere. Stancano, le discussioni politiche di vecchi inariditi, con lo sguardo al passato, il rimpianto perché la realtà è diversa da come si era progettato. Non bastano le traduzioni dei libri, i riconoscimenti, gli inviti a qualche convegno di reduci.
La prima politica è vivere, questa è la buona battaglia, questo il coraggio. Aveva una figlia, Magri, una nipotina, amatissima. Non abbastanza, se il suo faccino non gli ha impedito quel volo oltreconfine. Oppure è stata la malattia, la follia: qualcuno allora si domandi, nel dolore della sua scomparsa, se non gli si poteva stare vicino, fermare in quella scorza di combattente quel cedimento, quella viltà. Morti così non chiudono il discorso, aprono una voragine di domande: non basta un Martini a placarne il tormento.


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Lotta alle malattie rare, nasce un'alleanza cattolica di Danilo Quinto, 30-11-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

La costituzione di un centro pilota per le malattie genetiche e la costituzione della prima rete cattolica italiana, assistenziale e scientifica, per la lotta alle malattie rare, quali il linfedema primitivo, le lipodistrofie, i lipedemi e le malformazioni venose. E’ questo l’obiettivo del protocollo d’intesa firmato il 29 novembre, a Roma, tra l’Ospedale San Giovanni Battista, dell’Associazione dei Cavalieri Italiani del Sovrano Ordine di Malta, e la MAGI non-profit Human Medical Genetics Institute.

Le malattie rare comprendono oltre cinquemila forme morbose, la maggior parte delle quali trasmesse con carattere ereditario (genetiche). Stime accurate sulla prevalenza delle malattie genetiche e rare sono inficiate dalle problematiche inerenti alle attività diagnostiche e dalla scarsità di centri altamente specializzati dislocati su tutto il territorio italiano.
Se si escludono rare eccezioni (centri regionali per la cura della fibrosi cistica), non esistono in Italia centri in cui i pazienti possano percorrere tutto l’iter clinico diagnostico a partire dalla formulazione di una diagnosi fino alla conferma diagnostica (con tecniche di genetica molecolare o citogenetica) ed alla strutturazione di un piano terapeutico e/o riabilitavo.

Inoltre, in molti casi, la stessa definizione diagnostica necessita di indagini genetiche che allo
stato attuale sono disponibili in Italia solo per alcune patologie (non più di 500 a fronte di una
media europea di 1.500 malattie diagnosticate); quindi deve essere fatta fuori dal paese con ovvi disagi per pazienti e familiari e notevole aggravio per il bilancio sanitario nazionale.
Per superare questa situazione e dare la possibilità di una diagnosi e di una cura, laddove sia possibile, si è inteso procedere a questo accordo operativo, tra Ordine di Malta e Magi, che segna un punto di svolta in questo campo.

Come spiega uno storico, l’Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme, oggi Ordine di Malta, ebbe questa genesi: “Molto prima che Goffredo di Buglione mettesse piede in Terra Santa, mercanti amalfitani erano riusciti ad ottenere dal califfo fatimita d’Egitto, pagando un tributo annuo, il permesso di edificare a Gerusalemme una chiesa e un ospedale, luogo di asilo e di assistenza per i pellegrini”. L’ospedale era in piena funzione alla data della conquista crociata di Gerusalemme ed era gestito dal monaco Gerardo, colui che istituì, nel 1099, una confraternita religiosa chiamata appunto Ordine ospitaliero di san Giovanni in Gerusalemme. Non basta però “prendersi cura dei pellegrini; bisogna proteggerli dalla furia dei saraceni. Così, nel giro di vent’anni, da uomini di carità e di fede quali erano, gli ospitalieri diventano guerrieri. È il successore del Beato Gerardo, fra’ Raimondo du Puy, secondo gran maestro, a trasformare l’Ordine in una organizzazione (anche) militare”. 

Il regolamento dell’Ospedale di Gerusalemme, steso nel 1182, prevedeva la presenza di chierici, laici, conversi e medici; disponeva che i letti per i malati fossero “comodi e adatti al riposo” e che vi fossero delle culle per eventuali neonati; richiedeva inoltre che “i responsabili della casa servano i malati di buon cuore, porgano loro ciò di cui hanno bisogno e li servano senza contese e senza lamentele; mediante questa buona azione possono meritare di partecipare alla gloria del cielo”. Era poi previsto che i malati mangiassero carne tre volte la settimana; che l’ospedale regalasse ai poveri, ogni anno, mille pelli di pecore grasse e raccogliesse i bambini abbandonati e li facesse educare.

L’Ordine Ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta ancora oggi gestisce, oltre ad ospedali e centri medici in Europa, anche ospedali in Benin, Burkina Faso, Camerun, Madagascar e Togo. In Senegal e Cambogia l’Ordine gestisce ospedali specializzati nella cura della lebbra, che per molti anni ha rappresentato uno dei principali obiettivi dell’Ordine nel terzo mondo.
L’Ospedale italiano dell’Ordine - il San Giovanni Battista di Roma – è specializzato in riabilitazione con particolare riferimento alla neuroriabilitazione.

L’altro ente protagonista dell’accordo per la costituzione di questa rete per la lotta alle malattie rare - la Magi – è nata a Rovereto quattro anni fa, ed ha attualmente due sedi operative (oltre a quella di Rovereto in Italia): una a Bruxelles, l’altra a Tirana. Se ne stanno costruendo altre due, la prima nell’est europeo, la seconda in Africa. La Magi promuove la diagnosi e la ricerca sulle malattie genetiche sia per l’individuazione di nuovi geni che causano malattie rare, sia per lo sviluppo di terapie convenzionali (medicina riabilitativa), che innovative (proteine combinanti). Si pone inoltre l’obiettivo di veicolare le conoscenze sulle malattie genetiche verso realtà sanitarie dei Paesi in via di sviluppo. Negli ultimi due anni, membri della Magi sono stati impegnati in diversi progetti a laureati provenienti dalla Russia, dalla Repubblica Ceca, dall’Albania, dalla Repubblica Slovacca, dall’India e dall’Africa.

La Magi ha stipulato convenzioni con l’Università degli Studi di Siena e di Milano e con l’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, l’ospedale voluto da padre Pio, al fine di poter usufruire delle consulenze del loro personale per accelerare lo sviluppo della diagnosi e della ricerca sulle malattie genetiche e rare.

Nel presentare questa prima rete italiana, assistenziale e scientifica, per la lotta alle malattie rare, il Presidente della Magi Matteo Bertelli, ha scritto: “L’esperienza di veder morire un figlio potrebbe rendere sterile il cuore delle persone, ma nel tentativo di condividere queste sofferenze (questa è forse la differenza sostanziale fra un normale centro di diagnosi e cura e la nostra onlus), si riescono a far fiorire dei frutti di solidarietà e di amore che spalancano porte che non si sarebbe mai potuto immaginare. Io sono un medico genetista, cattolico, e sono certo che il vero progresso scientifico non sia quello che ci permette di eliminare i bambini malati di malattie genetiche prima che essi nascano. Al contrario, sono convinto che la scienza debba portare a nuove risposte per dare sollievo alla sofferenza di questi malati”.

Proprio questo dovrebbe essere il compito della genetica medica, se vuole avere a cuore il rispetto della vita, dai suoi inizi alla sua morte naturale. L’accordo tra Magi e Ordine di Malta, su queste basi ideali, sarebbe certamente piaciuto al fondatore della genetica: il frate agostiniano Gregor Mendel.

Aborto, è anche un po' suicidio di Francesco Agnoli, 30-11-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Quando uno ha già qualche anno, non necessariamente più di trenta, è preso talvolta dai ricordi. Il volto di un amico non più frequentato, un gioco, un passatempo, un’avventura dolorosa o felice, risalgono dal pozzo della memoria sino alla superficie, con un gusto agrodolce: ciò che è stato non è più, eppure è ancora nostro. Ciò che è stato non possiamo più riprenderlo, purtroppo, e ci sfugge via. Però non è finito per sempre, in verità, perché ha contribuito a renderci ciò che siamo. Ogni esperienza vissuta si imprime più o meno fortemente in noi, nel nostro animo e nel nostro corpo.

Siamo così, un sinolo di materia e forma, di anima e di corpo, come diceva Aristotele. I materialisti non possono capirlo, perché vedono solo materia che si muove. Gli spiritualisti neppure, perché non capiscono cosa c’entri quel corpo, che pure, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, ostinatamente c’è, nonostante il loro desiderio di trascenderlo, di essere puro spirito, di “liberarsi”. Tutta la nostra storia è qualcosa di spirituale e di fisico, una fusione armoniosa e inestricabile. Il nostro affetto, che sentiamo nel cuore, che non tocchiamo, che ci sembra a tratti infinitamente grande, verso la persona amata, si traduce in un abbraccio, in una fatica, in un servizio, insomma in qualcosa di concreto. Il nostro odio diventa parole, sentimenti, gesti, digrignare di denti.

Così, quando abbiamo una relazione con una persona dell’altro sesso, una relazione affettiva naturale, questa diviene col tempo anche unione carnale, fisica, perché la nostra unità lo esige. Esige che amiamo con tutto noi stessi. Ma se abbiamo amato così, non possiamo poi tirarci indietro pensando che sia senza conseguenze: non possiamo divorziare, senza strappare il nostro passato e quindi anche il nostro presente, e il nostro futuro, senza che tutto ciò che ci portiamo addosso urli a noi stessi, di esistere, di essere stato, di essere in qualche modo ancora. Ma soprattutto, visto che è questo di cui si parla in questi tempi, nessuna madre e nessun padre possono pensare, dopo aver concepito un bambino, di potersene disfare impunemente, con un gesto, fisico, una IVG, come si suole dire con terminologia beffarda.

Ciò che è stato concepito, c’è, esiste, e vive nel cuore e nella carne del padre, anche se lo rigetta, perché in lui vive il gesto che ha determinato il concepimento, e la consapevolezza latente del suo significato. Esiste, soprattutto, il concepito, nella psiche, nella carne della madre. Il bambino non è parte della madre, come dicono gli abortisti, cioè proprietà di lei, come una casa o una macchina, come qualcosa che si possiede, ma che è altro da noi, fuori di noi. Quel bambino è parte della mamma esattamente quanto la mamma è parte di quel bimbo. Parte, sempre, in senso carnale, perché il bimbo è formato dall’ovulo della madre, nutrito in simbiosi dalla madre e ospitato dal suo grembo; “parte” anche spirituale, il concepito, perché in un certo senso “tutto ciò che è spirituale è anche carnale” e “tutto ciò che è carnale è anche spirituale”.

Mi sorprende che quando si affronta il problema aborto, questa verità così concreta non sia quasi mai sottolineata.
Quando il feto viene ucciso, intendo, anche una parte della madre viene uccisa: una “parte” fisica e una “parte” spirituale; anche una parte del padre muore, per sempre. Anche una parte del loro amore, se ne va, tanto è vero che vi sono coppie, come raccontano medici che hanno seguito questi casi, che si separano in seguito ad un aborto; altre che resistono, ma senza più amarsi come prima, tenute insieme magari dal rimorso di quello che hanno fatto e dal ricordo di chi ora potrebbe essere con loro.

L’atto chirurgico, è vero, stacca e uccide qualcosa che sembra a sé stante, che appare, superficialmente, una vita autonoma, seppure ospitata: in verità quella vita era sì individuale, unica, ma era anche l’incontro biologico e spirituale delle vite dei suoi genitori; era anche parte del sangue, del corpo, dello spirito, dei pensieri, dei sogni, della madre (e del padre). Trovo conferma di queste mie riflessioni, studiando un po’ la letteratura medica sul post-aborto, ad esempio nei bellissimi saggi dei dottori Rigetti, Casadei e Maggino, compresi nel libro “Quello che resta” (editrice Vita Nuova), sapiente mescolanza di saggi scientifici e di testimonianze di donne.

In questo testo si spiega chiaramente che “il lutto dell’aborto è plurimo, perché le perdite da affrontare sono molteplici e strettamente concatenate le une con le altre… una donna che interrompe la gravidanza soffre sia per la perdita del bambino che per la perdita di una parte della propria immagine come persona (nei diversi ruoli di figlia, donna, compagna, cittadina, appartenente ad una comunità religiosa ecc.)”. Secondo il DSM III dell’American Psychiatric Association, infatti, l’aborto è considerato un evento traumatico in quanto “produce un marcato stress, tale da creare disturbi alla vita psichica; sopprime gli elementi di identificazione (della donna) col bambino; nega la gravidanza ma anche quella parte del sé che si era identificata col bambino”. Le conseguenze, guarda caso, sono di tipo fisico e spirituale: “disturbi emozionali, della comunicazione, dell’alimentazione, del pensiero, della sfera sessuale, del sonno, della relazione affettiva…”.

Assai sintomatica di quanto si è detto finora, mi sembra proprio l’esistenza dei disturbi affettivi e sessuali, che si giustifica appunto come reazione ad un’esperienza sessuale, affettiva, di cui non è rimasto nulla, o meglio di cui permangono sensi di colpa, rabbia, paura, ripensamenti… Le occasioni del manifestarsi della sindrome post-abortiva sono anch’essi assai eloquenti: compaiono di solito in occasione di una nuova gravidanza, di un aborto spontaneo, di perdite affettive, di sterilità secondaria… Ecco perché un’esperienza d’amore che si conclude con un aborto, non rimane limitata a quel rapporto, a quella storia, ma si trascina e ripercuote anche su un’altra esperienza affettiva, proprio perché la donna, la persona, è una, sempre quella, pur nella molteplicità delle esperienze.

Per questo l’aborto si può configurare, almeno in parte, anche come un suicidio, o, come scrivono alcuni psicologi, un “lutto complicato” in cui si “rende necessaria l’elaborazione sia della perdita dell’oggetto (il bimbo), sia della perdita simultanea e concreta di una parte del Sé”, sia aggiungerei, di un perdita almeno parziale del rapporto col coniuge. Ha scritto la dottoressa Lerda, su una rivista fortemente a sostegno della 194 come Contraccezione, sessualità e salute riproduttiva: “Sia che la donna cerchi di cancellarne il ricordo, sia che continui a sentirne il peso, si tratta comunque di un lutto che si porterà dietro tutta la vita. È una scelta che influenzerà anche il rapporto con il partner e con gli eventuali partner successivi, una scelta che peserà nuovamente in caso di altre gravidanze”.

Magri, il vero volto dell'eutanasia di Mario Palmaro, 30-11-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Di fronte al caso di Lucio Magri, che è andato a morire in Svizzera con un suicidio assistito, vorremmo dire tre cose.

Innanzitutto, questa è una tristissima vicenda umana, che suscita sentimenti di pietà. Attenzione: pietà per un uomo che dice di non voler più vivere e che purtroppo trova persone disposte ad aiutarlo nel suo proposito. Non certo pietà per la “categoria”, cioè per quelli che si vogliono togliere la vita e ci riescono; perché, altrimenti, bisognerebbe “per motivi pietosi” modificare tutti i protocolli di soccorso e di emergenza pacificamente accettatati dalla nostra società. Bisognerebbe lasciare in pace quelli che si vogliono gettare dal cornicione, bisognerebbe sostituire i teloni dei vigili del fuoco con un letto di chiodi per fachiri, bisognerebbe non soccorrere e non salvare quelli che hanno tentato di uccidersi e non sono ancora morti. Ciò che fa pena è l’immagine di un uomo, intellettuale vivace, stanco di vivere, oppresso – dicono alcuni – dall’insopportabile percezione del fallimento dell’ideologia marxista; o – dicono altri - dal dolore per la morte della carissima moglie. Chi conosce la fragilità dell’uomo sa che non c’è peccato di cui, potenzialmente, non saremmo capaci. Compreso un delitto terribile contro la propria vita, come il suicidio, azione con la quale, recita un paradosso di Chesterton, è come se l’uomo volesse uccidere tutti gli uomini. 

Seconda osservazione: se è giusto provare pietà per le persone, non è affatto giusto provare pietà per le ideologie false e bugiarde. Magri è stato uno dei fondatori del Manifesto, e un colto rappresentante del pensiero marxista. E qui dobbiamo constatare che il comunismo, insieme a tutte le altre letture ideologiche del reale, scava nell’uomo un vuoto che diventa con il passare degli anni insopportabilmente pesante. Scenario viepiù aggravato dalla sconfitta clamorosa che la storia ha decretato per il socialismo realizzato. Si ha un bel dire, facendo gli spacconi, che Dio non serve. Può funzionare finchè la sorte ti sorride, ma arriva un giorno in cui le cose ti si rivoltano contro, e allora le pagine di Marx, o di Gramsci, o di Sartre, non riescono a dare conforto. E diventano, anzi, pistole armate nella tua mano. Dobbiamo dircelo e dobbiamo dirlo ai giovani: ci sono cattivi maestri e cattive dottrine, mentre la vita pretende una verità più grande, che la Chiesa insegna da duemila anni. Una verità che non rimuove le tragedie dall’esistenza, ma che le riempie di un senso che conforta perfino le persone disperate.


Terza, ma non ultima considerazione: la vicenda del povero Magri è un perfetto caso di scuola, che spiega che cosa intendiamo quando stiamo parlando di eutanasia. Il cosiddetto suicidio assistito, infatti, ha molto più a che fare con la fattispecie dell’eutanasia che con quella del suicidio: il suicida è uno che si ammazza con le sue mani; nel suicidio assistito ci sono altri che mettono la vittima in condizione di morire, e che quindi cooperano in modo decisivo a un atto che, forse, il poveretto non avrebbe la forza di compiere.

Ma c’è dell’altro: Lucio Magri non aveva, almeno secondo le notizie diffuse, una malattia mortale, o una patologia degenerativa che ne divorasse il corpo. Accusava invece un grave stato depressivo che lo ha spinto ad andare in Svizzera per ottenere la morte. Ora, da anni vogliono farci credere che l’eutanasia è una faccenda che riguarda solo i malati terminali oppure le persone con una sindrome progressiva inesorabile.

Ma si tratta di una truffa logica e concettuale: la vera posta in gioco è il potere di ciascuno sulla propria vita. Le motivazioni che spingono una persona a dichiarare che vuole la morte sono le più disparate: vanno dal dolore fisico assoluto al taedium vitae, cioè al disgusto per la vita che pure è priva di malattie del corpo. Se lo stato definisce che in alcuni casi si può ottenere la morte per mano di terzi, a quel punto stabilisce a quale altezza si deve collocare l’assicella delle vite senza qualità. E anche se in prima istanza respinge al mittente una richiesta come quella di Lucio Magri, con il tempo lo stato è costretto a rivedere il criterio e ad ammettere che, in fondo, se uno non vuole vivere è affar suo. Magri è purtroppo il simbolo di una tragedia più grande, che percorre la nostra società, la quale assomiglia sempre di più a una vera e propria civiltà dell’eutanasia. A un luogo, cioè, dove la vita è essenzialmente un non senso, e dove quindi chiedere e ottenere la morte è la cosa più normale del mondo.

Ovviamente, questa “cultura” avrà un suo effetto di “trascinamento” lungo il pendio scivoloso, e prima si legalizzerà la morte dei malati gravi con il loro consenso (reale o presunto); poi arriverà la morte di quelli che non l’hanno chiesta, ma poveretti quanto soffrono; e infine arriverà la morte di quelli che sono sani come un pesce, ma sono stufi di vivere. Il marxismo è morto, il liberalismo anche, e l’umanità sazia e disperatissima non si sente tanto bene. Solo un Dio ci può salvare.

Studio canadese: rilevato comportamento volontario negli stati vegetativi, 29 novembre, 2011, http://www.uccronline.it

Uno studio canadese, svolto effettuando un normale elettroencefalogramma ad un gran numero di pazienti in coma cosiddetto vegetativo, ha rilevato che la gran parte di essi è molto più vigile e consapevole di quanto non si pensasse. La ricerca è stata pubblicata su The Lancet, una delle riviste mediche più prestigiose al mondo.

Questa ed altre simili ricerche rimettono in discussione presso la comunità scientifica internazionale il concetto stesso di stato vegetativo. Il New York Times ha riferito che, quando ricercatori hanno chiesto ai pazienti in “stato vegetativo” di immaginare di stringere la mano a pugno o muovere le dita dei piedi, hanno trovato che il 20% delle onde cerebrali di questi pazienti risponde esattamente nello stesso modo dei pazienti sani. Uno degli autori ha concluso che l’esperimento è «un segno forte della nostra incapacità di diagnosticare correttamente le persone in stato vegetativo».

Bobby Schindler, fratello di Terri Schiavo e fondatore di www.terrisfight.org ha commentato così la notizia: «Non solo la diagnosi di stato vegetativo è aleatoria, non scientifica e molto spesso errata, ma è anche disumanizzante essere etichettati come un vegetale. Ancora più importante e più inquietante però, è che tale diagnosi venga utilizzata come criterio per uccidere deliberatamente le persone con disabilità cognitive, come mia sorella». Terri Schiavo, in coma dal 1991, fu uccisa su richiesta del marito nel 2005, mediante cessazione dell’idratazione e dell’alimentazione, nonostante desse alcuni segnali di attività cerebrale. La notizia è stata ripresa anche in Italia da Il Sole 24 ore.

martedì 29 novembre 2011


Il suicidio assistito di Lucio Magri - l'addio ai compagni: "Ho deciso di morire" - Il fondatore del Manifesto morto in Svizzera ha deciso tutto con lucidità; dalla fine alla sepoltura vicino alla sua Mara. Gli amici hanno tentato di dissuaderlo ma lui era depresso per la morte della moglie di SIMONETTA FIORI, http://www.repubblica.it

E ALLA FINE la telefonata è arrivata. Sì, tutto finito. Ora si rientra in Italia. Alle pompe funebri aveva provveduto lo stesso Lucio Magri, poco prima di partire per la Svizzera. Era il suo ultimo viaggio, così voleva che fosse. Non ce la faceva a morire da solo, così il suo amico medico l'avrebbe aiutato. Là il suicidio assistito è una pratica lecita, anche se poi bisogna vedere nei dettagli, se ci sono proprio le condizioni. Ma ora che importa? Che volete sapere? Non fate troppi pettegolezzi, l'aveva già detto qualcun altro ma in questi casi non conta l'originalità.

S'era raccomandato con i suoi amici più cari, quelli d'una vita, i compagni del Manifesto. Non voglio funerali, per carità, tutte quelle inutili commemorazioni. Necrologi manco a parlarne. Luciana si occuperà della gestione editoriale dei miei scritti. Per gli amici e compagni lascio una lettera, ma dovete leggerla quando sarà tutto finito. Sì, ora è finito. La notizia può essere resa pubblica. Lucio Magri, fondatore del Manifesto, protagonista della sinistra eretica 2, è morto in Svizzera all'età di 79 anni. Morto per sua volontà, perché vivere gli era diventato intollerabile.

 A casa di Lucio Magri, in attesa della telefonata decisiva. È tutto in ordine, in piazza del Grillo, nel cuore della Roma papalina e misteriosa, a due passi dalla magione dove morì Guttuso, pittore amatissimo ma anche avversario sentimentale. Niente sembra fuori posto, il parquet chiaro, i divani bianchi, i libri sulla scrivania Impero, la collezione del Manifesto vicina a quella dei fascicoli di cucina, si sa che Lucio è un cuoco raffinato. Intorno al tavolo di legno chiaro siede la sua famiglia allargata, Famiano Crucianelli e Filippo Maone, amici sin dai tempi del Manifesto, Luciana Castellina, compagna di sentimenti e di politica per un quarto di secolo. No, Valentino non c'è, Valentino Parlato lo stiamo cercando, ma presto ci raggiungerà. In cucina Lalla, la cameriera sudamericana, prepara il Martini con cura, il bicchiere giusto, quello a cono, con la scorza di limone. Cosa stiamo aspettando? Che qualcuno telefoni, e ci dica che Lucio non c'è più.

Da questa casa Magri s'è mosso venerdì sera diretto in Svizzera, dal suo amico medico. Non è la prima volta, l'aveva già fatto una volta, forse due. Però era sempre tornato, non convinto fino in fondo. Ora però è diverso. Domenica mattina rassicura gli amici: "Ma no, non preoccupatevi, torno domani". La sera il tono cambia, si fa più affannato, indecifrabile, chissà. Il lunedì mattina appare sereno, lucido, determinato. Ha scelto, e dunque il più è fatto. Bisogna solo decidere, e poi basta chiudere gli occhi. L'ultima telefonata nel pomeriggio, verso le sedici. Poi il silenzio.

Una depressione vera, incurabile. Un lento scivolare nel buio provocato da un intreccio di ragioni, pubbliche e private. Sul fallimento politico - conclamato, evidentissimo - s'era innestato il dolore privato per la perdita di una moglie molto amata, Mara, che era il suo filtro con il mondo. "Lucio non sapeva usare il bancomat né il cellulare", racconta una giovane amica. Mara che oggi sorride dalle tante fotografie sugli scaffali, vestita color ciclamino nel giorno delle nozze. Un vuoto che Magri riempie in questi anni con le ricerche per il suo ultimo libro, una possibile storia del Pci che certo non a caso titola Il sarto di Ulm, il sarto di Brecht che si sfracella a terra perché non sa volare. Ucciso da un'ambizione troppo grande, così almeno appare ai suoi contemporanei. Anche Magri voleva volare, voleva cambiare il mondo, e il mondo degli ultimi anni gli appariva un'insopportabile smentita della sua utopia, il segno intollerabile di un fallimento, la constatazione amarissima della separazione tra sé e la realtà. Così le ali ha deciso di tagliarsele da sé, ma evitando agli amici lo spettacolo del sangue sul selciato.

Aspettando l'ultima telefonata, a casa Magri. Lalla, la cameriera peruviana, va a fare la spesa per il pranzo, vi fermate vero a colazione? E' affettuosa, Lalla, ha ricevuto tutte le ultime disposizioni dal padrone di casa. No, non ha bisogno di soldi per il pranzo, ci sono ancora quelli vecchi che lui le ha lasciato. È stata lei ad assistere Mara nei tre anni di agonia per il brutto tumore, e poi ha visto spegnersi lui, sempre più malinconico, quasi blindato in casa. Ogni tanto qualche amico, compagno della prima ora. Ma dai, reagisci, che fai, ti lasci andare proprio ora? Ora che esce l'edizione inglese del tuo libro? E poi quella argentina, e quella spagnola? Dai, ripensaci, c'è ancora da fare. Ma lui non era convinto. Non poteva fare più nulla. Lucido e razionale, fino alla fine. E poi s'era spenta la sua stella, così scrive anche nell'ultima lettera ai compagni.

Sembra tutto surreale, qui in piazza del Grillo, tra squilli di telefono e porte che si aprono. Arriva Valentino, invecchiato improvvisamente di dieci anni. Lo accolgono con calore. No, non sappiamo ancora niente. Aspettiamo. Ricordi privati e ricordi pubblici, lui grande giocatore di scacchi, lui grande sciatore, lui politico generoso che preparava i documenti e nascondeva la sua firma. Ma attenzione a come ne scrivete, non era un vanesio, non era un mondano. Dalle fotografie sui ripiani occhieggia lui, bellissimo e ancora giovane, un'espressione tra il malinconico e il maledetto. Dietro la foto più seducente, una dedica asciutta. "A Emma, il suo nonno". Neppure Emma, la bambina di sua figlia Jessica, è riuscito a fermarlo.

Poi la telefonata, quella che nessuno avrebbe voluto mai ricevere. Ora davvero è finita. Le pompe funebri andranno a prelevarlo in Svizzera, tutto era stato deciso nel dettaglio. L'ultimo viaggio, questo sì davvero l'ultimo, è verso Recanati, dove sarà seppellito vicino alla sua Mara, nella tomba che lui con cura aveva predisposto dopo la morte della moglie. Luciana Castellina s'appoggia allo stipite della porta, tramortita: "Non avrei mai immaginato che finisse così". Il tempo dell'attesa è concluso, comincia quello del dolore.
(29 novembre 2011)

Il Tallone eugenetico




Dare medicine ai sani - Le case farmaceutiche fanno affari


Lotta al dolore "accreditata"



La vera e la falsa ecologia di Massimo Introvigne, 29-11-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Oggi, 29 novembre, si celebra la «Giornata per la custodia del creato», che coincide con l’anniversario della proclamazione di san Francesco d’Assisi (1182-1226) quale patrono dei «cultori dell’ecologia» da parte del Beato Giovanni Paolo II (1920-2005) nel 1979. In preparazione a tale ricorrenza, lunedì 28 novembre Padre Benedetto XVI ha ricevuto gli scolari e studenti delle scuole italiane che hanno partecipato al progetto «Ambientiamoci a scuola» promosso dalla Fondazione «Sorella Natura» di Assisi. Il discorso pronunciato dal Papa è stato occasione per tornare su un tema che gli è caro, la distinzione fra vera e falsa ecologia.

La festa del 29 novembre, ha ricordato il Papa ai giovani, ha una «profonda ispirazione francescana. Anche la data odierna è stata scelta per fare memoria della proclamazione di san Francesco d’Assisi quale Patrono dell’ecologia da parte del mio amato Predecessore, il beato Giovanni Paolo II, nel 1979. Tutti voi sapete che san Francesco è anche Patrono d’Italia. Forse però non sapete che a dichiararlo tale fu il [venerabile] Papa Pio XII [1876-1958], nel 1939, quando lo definì “il più italiano dei santi, il più santo degli italiani”. Se dunque il santo Patrono d’Italia è anche Patrono dell’ecologia, mi pare giusto che le giovani e i giovani italiani abbiano una speciale sensibilità per “sorella natura”, e si diano da fare concretamente per la sua difesa».

Continuando sul tema francescano, il Pontefice ha fatto notare agli studenti che «quando si studia la letteratura italiana, uno dei primi testi che si trovano nelle antologie è proprio il “Cantico di Frate Sole”, o “delle creature”, di san Francesco d’Assisi: “Altissimo, onnipotente, bon Signore…”. Questo cantico mette in luce il giusto posto da dare al Creatore, a Colui che ha chiamato all’esistenza tutta la grande sinfonia delle creature. “…tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione… Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le Tue creature”». Certo, «questi versi fanno parte giustamente della vostra tradizione culturale e scolastica». Ma non bisogna mai dimenticare che «sono anzitutto una preghiera, che educa il cuore nel dialogo con Dio, lo educa a vedere in ogni creatura l’impronta del grande Artista celeste, come leggiamo anche nel bellissimo Salmo 19: “I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento… Senza linguaggi, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio” (v. 1.4-5)».

Non dobbiamo scambiare san Francesco per un esponente di quello che in altra occasione il Papa ha chiamato un ecologismo pagano, che si mette in ascolto della natura divinizzandola. La natura parla, ma ci parla di Dio. «Frate Francesco, fedele alla Sacra Scrittura, ci invita a riconoscere nella natura un libro stupendo, che ci parla di Dio, della sua bellezza e della sua bontà. Pensate che il Poverello di Assisi chiedeva sempre al frate del convento incaricato dell’orto, di non coltivare tutto il terreno per gli ortaggi, ma di lasciare una parte per i fiori, anzi di curare una bella aiuola di fiori, perché le persone passando elevassero il pensiero a Dio, creatore di tanta bellezza (cfr Vita seconda di Tommaso da Celano, CXXIV, 165)».

Lo studio del creato da parte della scienza o la sua cura da parte dell’ecologia battono strade sbagliate o parziali se non riconoscono nel creato l’impronta del Creatore. «La Chiesa, considerando con apprezzamento le più importanti ricerche e scoperte scientifiche, non ha mai smesso di ricordare che rispettando l’impronta del Creatore in tutto il creato, si comprende meglio la nostra vera e profonda identità umana. Se vissuto bene, questo rispetto può aiutare un giovane e una giovane anche a scoprire talenti e attitudini personali, e quindi a prepararsi ad una certa professione, che cercherà sempre di svolgere nel rispetto dell’ambiente». Ma anche questo rispetto non è una semplice forma di umanitarismo ecologico. Nasce dalla consapevolezza che l’uomo prendendosi cura del creato diventa collaboratore di Dio. Se invece «nel suo lavoro, l’uomo dimentica di essere collaboratore di Dio, può fare violenza al creato e provocare danni che hanno sempre conseguenze negative anche sull’uomo, come vediamo, purtroppo, in varie occasioni».

Il Papa ha anche ripreso un tema centrale nell’enciclica «Caritas in veritate»: l’ecologia dell’ambiente è importante, ma non è credibile se non è accompagnata o meglio preceduta da una ecologia umana. È paradossale intenerirsi per certe specie di foche minacciate di estinzione e rimanere indifferenti di fronte all’aborto. «Oggi più che mai ci appare chiaro che il rispetto per l’ambiente non può dimenticare il riconoscimento del valore della persona umana e della sua inviolabilità, in ogni fase della vita e in ogni condizione. Il rispetto per l’essere umano e il rispetto per la natura sono un tutt’uno, ma entrambi possono crescere ed avere la loro giusta misura se rispettiamo nella creatura umana e nella natura il Creatore e la sua creazione». Se il rispetto per il creato prescinde dal Creatore possono generarsi infiniti equivoci.

Il Papa loda l’iniziativa della giornata del 29 novembre perché «ha una chiara prospettiva educativa. È infatti ormai evidente che non c’è un futuro buono per l’umanità sulla terra se non ci educhiamo tutti ad uno stile di vita più responsabile nei confronti del creato». Ma anche nella pedagogia occorrere riflettere su che cosa significa «creato». «E sottolineo – ha detto il Pontefice – l’importanza della parola “creato”, perché il grande e meraviglioso albero della vita non è frutto di un’evoluzione cieca e irrazionale, ma questa evoluzione riflette la volontà creatrice del Creatore e la sua bellezza e bontà». No, san Francesco non ci insegna un ecologismo pagano. Ci propone invece di «cantare, con tutta la creazione, un inno di lode e di ringraziamento al Padre celeste, datore di ogni dono».

Con il Rosario salviamo i bambini di Andrea Zambrano, 29-11-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

“CON la perseveranza salverete la vostra vita”. Andrea Mazzi, 45 anni (nella foto), una moglie e due figli, ingegnere della multiutility di Modena e si definisce "obiettore fiscale" perché non vuole “che lo Stato finanzi l'aborto con i miei soldi”, ha preso la frase evangelica e l’ha fatta propria. Però ci ha aggiunto qualcosa: “... Salverete anche la vita degli altri, specie se a rischio di non nascere”. Come? Seguendo alla lettera una frase profetica del suo padre spirituale, don Oreste Benzi. Eccola: «Ho trovato il modo per far cessare gli aborti in tutta Italia: andare a pregare di fronte agli ospedali». Mazzi racconta che quando nel 1998 il sacerdote riminese propose la cosa ai “ragazzi” della comunità Papa Giovanni XXIII era già chiaro fin da subito che per quell’intuizione profetica serviva principalmente la faccia tosta di chi sa di perdere tutto per trovare tutto. Così ogni lunedì a Modena e in altri giorni in altre 6 città (Rimini, Ancona, Faenza, Forlì, Bologna e Madrid) il servizio “Maternità difficile e vita” della comunità si ritrova da quasi 13 anni davanti agli ospedali per recitare il Rosario. L’ora è improba: alle 6.45.

Perché così presto?
«Perché quello è l’orario in cui le donne entrano in day hospital per abortire.

Ma scusi, perché non vi trovate nelle cappelle degli ospedali?
«Don Benzi lo ripeteva sempre: “Noi dobbiamo rendere pubblico quello che avviene nel silenzio degli ospedali”. Il fatto è che la società è anestetizzata. Che cosa accadrebbe se un giornale domani titolasse a sei colonne: “Ieri cinque bambini uccisi nell'ospedale della nostra città”. Direbbe una cosa vera?»

Sì, vera, ma scomoda. Eppure non si fa...
«Lo vede che la nostra società è addormentata? Un motivo della preghiera pubblica è questo. La preghiera è una forma di denuncia pubblica di una grave ingiustizia che si sta compiendo, noi preghiamo Dio ma anche la società affinché cessi».

Esclusivamente pubblico. Una provocazione.
«No. Siamo spinti dalla preghiera come principale dimensione spirituale. L’immagine è molto semplice: sotto la croce c’era Maria, che non poteva far nulla per togliere suo figlio da quel supplizio, ma stava lì e pregava. Ecco, noi facciamo lo stesso. Siamo lì, nell’ora in cui questi bambini vengono uccisi: non possiamo impedire la loro morte, ma stiamo vicino a loro e preghiamo per loro, ci ricordiamo di loro e delle loro madri, anch'esse vittime».

L’ideologia dominante parla di autodeterminazione della donna: guai a chi tocca questo principio. Faccio l’avvocato del diavolo: come vi permettete di giudicare la scelta di queste donne?              «Lo abbiamo sempre detto pubblicamente: non siamo contro le donne, non giudichiamo nessuno. Anzi, la nostra preghiera nasce sempre dalla constatazione del fatto che tutti siamo complici e quindi che la prima necessità è quella della nostra conversione».

Che cosa volete ottenere?
«Preghiamo per le mamme di questi bambini sperando che qualcuna vedendoci pregare possa ritornare sui suoi passi e decidere di accoglierli. Non siamo su un piedistallo a giudicare le “donne peccatrici”, questo lo pensano i tanti che ci attaccano e ci ostacolano anche con la violenza e la forza».

Addirittura?
«Cominciarono quando don Oreste era ancora in vita. Nel ’99 a Rimini venne a pregare anche il sindaco, così nacque un movimento che andò avanti per un certo periodo».

Che facevano?
«Osteggiavano la preghiera. A Bologna arrivarono con gli striscioni per buttarci fuori dai marciapiedi del Sant’Orsola. Altre volte chiamavano i carabinieri. Lo sa cosa disse loro don Oreste?»

No.
«“Ma guardate che i bambini li stanno uccidendo là, dentro l’ospedale, non qua”».

Contestazioni sulla sua pelle?
«A Modena c'è sempre stato chi ha criticato questa preghiera, abbiamo avuto una forte attenzione mediatica anche perché siamo piuttosto numerosi (agli inizi eravamo una cinquantina). Nell’ultimo anno gli attacchi sono diventati più forti».

Da parte di chi?
«Principalmente L’Udi (Unione donne in Italia), area cosiddetta “femminista”, oggi vicina a Sel».

Campagne mediatiche ostili?
«Non solo, attacchi diretti. Un anno fa c’è stato un “salto di qualità”, hanno alzato il tiro».

Perché?
«Dapprima hanno fatto un reclamo alla polizia municipale sostenendo che creavamo confusione e molestavamo le persone. Gli agenti sono venuti e hanno riscontrato l’infondatezza della segnalazione. Quindi hanno diffuso un comunicato dicendo che avremmo molestato una donna che si recava in ospedale, ma si erano basati su una telefonata anonima che loro sostenevano di aver ricevuto: così ci hanno accusato pubblicamente di una cosa assolutamente infondata. Non proprio carino...»

Come andò a finire?
«Con un nulla di fatto, ovviamente. L’Udi lo ha detto pubblicamente: “vogliamo che i “pregatori”  se ne vadano” e per questo “andremo fino in fondo”, fino a quando cioè non troveranno il modo di farla smettere».

Ci sono mai andati vicini?
«Noi non ci siamo mai fermati, e dire che di ostacoli ne hanno messi sulla strada. Le ho già detto dell’assemblea pubblica?»

No...
«Dopo il comunicato hanno organizzato un incontro pubblico per chiedere alle istituzioni di avviare una serie di azioni per impedirci di pregare. Lì hanno rivelato che da anni hanno una forma di attenzione periodica su di noi».

In che modo?
«Di tanto in tanto vengono a controllare quello che facciamo».

Ma voi continuate a pregare anche se siete sotto controllo dei "guardiani della rivoluzione"?
«Certo, l’unica cosa che abbiamo fatto è stato togliere temporaneamente alcuni cartelli che spiegavano le ragioni della nostra iniziativa per far risaltare meglio che siamo solo un gruppo di preghiera e non facciamo manifestazioni politiche. Così è rimasta solo la croce. Ma c’è anche un altro gruppo».

Quale?
«A ruota dell’Udi si sono mossi anche gli autonomi e i collettivi anarchici. A Modena c’è il Guernica, poi c’è un coordinamento donne di Rifondazione comunista, insieme hanno messo in campo azioni per attaccare la preghiera. Lo scorso aprile sono venuti due volte e con i megafoni, mentre noi pregavamo, ci hanno urlato ogni sorta di “complimento”».

E voi?
«E noi continuavamo a pregare...! Soltanto un amico si staccò dal rosario per scattare una foto e documentare la cosa».

Immagino, non l’avesse mai fatto...
«Un autonomo lo ha minacciato: “Se scatti un’altra foto, ti spezzo le gambe”. Ma noi abbiamo sempre mantenuto uno stile mite e nonviolento: abbiamo anche dato loro una lettera e ci siamo resi disponibili per un incontro, che però loro hanno rifutato. Alcuni giorni dopo hanno fatto anche una manifestazione davanti al consultorio e una in piazza».

Contestazioni a parte, c’è qualche risultato?
«Sì, abbiamo tante belle storie a “lieto fine”. Una volta una mamma a Rimini si stava recando ad abortire e poi...»

...e poi?
«E poi il miracolo della preghiera. Entrammo in contatto, le parlammo del bambino che aveva dentro di sé, la incoraggiammo che i suoi problemi si sarebbero pututi risolvere. Lei scoppiò a piangere e decise che non avrebbe abortito. E dopo settimane di angoscia provò finalmente un grande sollievo».

Che cosa le avete detto?
«Che è giusto dare al proprio bambino la possibilità di nascere e di conoscere la vita».

Questo è bastato a convoncerla?
«Non c’era bisogno di convincerla. Lei, come ci raccontò successivamente, sentiva già che doveva dare una possibilità al suo bambino, lui non aveva colpe e non doveva pagare per i suoi sbagli».

C'è qualche donna che cambia idea e torna indietro a ringraziare come nei casi evangelici dei miracoli?                                                                                                                               «Sì, tante. Addirittura a volte succede che qualcuna decida nonostante il nostro aiuto di abortire e poi ci ringrazi perché “almeno voi ci avete provato ad aiutarmi”. La preghiera raggiunge gli angoli più disparati. Ho ancora negli occhi quello che accadde ad una coppia ghanese».

Che cosa?
«Una mamma ci aveva notato durante il Rosario, le lasciammo un volantino. C'era una foto di un bambino nel grembo e la scritta “Why don't you let me live?” (perché non mi lasci vivere?). Salì in reparto e lasciò quel volantino su un comodino della stanza dove c’erano le donne in attesa di abortire. A fianco c'era una coppia di ghanesi. Lei non avrebbe voluto abortire, ma lui l’aveva convinta a farlo. Quando però lui guardò il volantino, rimase folgorato. Guardò la moglie e le disse: “Ma cosa stiamo facendo?”. Si alzarono di scatto e se ne andarono. Dopo pochi minuti sarebbe arrivato l'infermiere a prendere la donna per portarla in sala operatoria».

Folgorati?
«Sì. Abbiamo offerto loro un percorso di affiancamento, ma dopo un po’ abbiamo capito che preferivano muoversi autonomamente. E abbiamo perso i contatti».

Intanto una vita era stata salvata...
«Un paio di anni dopo andiamo a trovare in ospedale un'altra mamma ghanese e vi troviamo una sua amica: era la donna che scappò a pochi passi dall'aborto, Ci riconobbe. Mi disse una frase che non dimenticherò mai: “Ogni volta che guardo mio figlio penso a voi e a quello che avete fatto per me”. Certe storie ti riempiono il cuore, ma facendo questa attività devi confrontarti anche con tanti lutti».

Che cosa dice la Chiesa locale?
«La Chiesa deve essere il punto di riferimento. Don Oreste prima di dare avvio a questa preghiera, ne parlava sempre prima con il vescovo di quella diocesi. Così è stato anche a Modena, e anche il nuovo vescovo è a conoscenza di questa nostra iniziativa. Quando sono partiti gli attacchi alla preghiera il settimanale diocesano ha avviato una raccolta di firme a nostro sostegno».

Come reagiscono i medici e gli infermieri?
«Dentro agli ospedali c'è un grande disagio in chi opera nei vari percorsi per arrivare all'aborto. E' un disagio interiore che si oggettiva nel fatto che sono sempre di più le obiezioni di coscienza.

Non c'è il rischio che siano di comodo? Di chi dice: “Ma chi me lo fa fare?”».
«Quella che è cresciuta molto in questi ultimi anni è un’obiezione di coscienza “da saturazione”. Posso testimoniare con i miei occhi e le mie orecchie: ci sono medici, ostetriche e infermieri che non ne possono più di fare aborti. Capiscono di essere solo ingranaggi di un’orrenda macchina di morte e che non possono andare avanti per sempre a farsi scudo dietro al fatto che c'è una legge da applicare. Certe cose le vedono meglio di altri e faticano a tenerle nascoste perché li costringono a interrogarsi su quello che vedono».

Che cosa vedono?
«Soprattutto l'aborto in fase avanzata, è un piccolo parto. Il bambino nasce vivo ma non ha gli organi pronti per respirare e muore entro qualche ora, salvo casi come quello di Rossano Calabro (aborto alla 26esima settimana, il feto vivrà per un giorno dimenticato dal personale sanitario). Una volta terminato, quelle stesse ostetriche si girano nel letto a fianco e devono assistere un altro bambino, nato alla stessa settimana di gestazione, o poco più, che sta lottando per sopravvivere e si fa di tutto per salvarlo».

Dunque con il feto delle stesse dimensioni...
«E vedono l'orrore! L'orrore di una prassi ospedaliera che di fronte a due neonati uguali lascia morire chi non è destinato a vivere. Un operatore ospedaliero un giorno si recò in cella frigorifera e vide un feto che ancora respirava. E' l'orrore che si aggiunge all'orrore».

Avete conosciuto medici o paramedici che sono diventati obiettori?
«Sì, Un'operatrice ci ha raccontato di una frase che si dicono tra colleghe: “Andremo tutte all'inferno”. Loro lo sanno che è un mestiere tremendo, parlo ovviamente di coloro che fanno parte dell'equipe che segue gli aborti. Di altri sappiamo che sono andati molto in crisi.Dentro gli ospedali c'è un dramma fortissimo. E in tanti arrivano a dire: “Non ce la faccio più”. Anche da questo nasce la Ru 486, che ha lo scopo di aggirare il problema...»

Come accompagnate le donne che si avvicinano a voi?
«Anzitutto bisogna riconoscere, come diceva don Oreste che dietro ad una donna che vuole abortire, c'è sempre qualcuno che la fa abortire. L'aborto è un pensiero estraneo alla donna, è indotto.
Dal padre del bambino...?»

Certo: ricatti, violenza e inviti pressanti sono sempre più frequenti, ma non ci sono solo i compagni.
Ad esempio?
«L'atteggiamento ostile del datore di lavoro, l'ambiente circostante con le pressioni dei genitori o tutori che fanno leva su ragazze minorenni o donne con problemi psichici».

E gli assistenti sociali?
«Ci sono assistenti sociali che di fronte a casi di povertà si permettono di dire: “Pensaci bene, hai già altri bambini...”. E poi ci sono le spinte dei medici».

Che invitano ad abortire?
«Certi responsi di esami prenatali sono tremendi, perché identificano il malato con la malattia. Come si fa a dire a una donna: “Signora, lei aspetta un down?”. E a questo punto tante volte è il medico stesso a suggerire l’aborto. Senza neanche offrire alla coppia la possibilità di incontrare famiglie che hanno bambini con lo stesso problema, per capire realmente di cosa si tratta».

Quindi oltre che una mentalità abortista c'è anche una sorta di induzione sociale all'aborto, come se la donna dovesse affrontare un protocollo ulteriore?
«Altroché. Ecco perché ora l'urgenza è fare campagna di sensibilizzazione su questo tema. Fino ad ora abbiamo visto le campagne sulla libertà della donna di abortire, ma la verità è che loro abortiscono perché non vedono davanti a sé alcuna alternativa, hanno pressioni micidiali attorno che le spingono a farlo».

Avete già idee?
«Prendere a modello quello che accade in diversi stati del nord America.

Che cosa?
«In 12 stati degli USA sono state approvate leggi che prevedono l’obbligo di informare le donne che non devono essere indotte da nessuno. In Missouri e Idaho ci sono già leggi severe che prevedono sanzioni contro chi induce ad abortire. Oppure in Canada è stata presentata la “Roxanne’s Law”, che proponeva sanzioni pesanti dopo il caso di una donna immigrata, uccisa dal compagno perché si era rifiutata di abortire. Il progetto di legge è stato bocciato, ma è già un passo avanti che se ne parli. Una speranza in più, da alimentare con il Rosario del lunedì».

lunedì 28 novembre 2011


Anche il Messico ritiene che il matrimonio omosessuale non è un diritto dell’uomo, 28 novembre, 2011, http://www.uccronline.it/

In Inghilterra la lobby omosessualista si è inventata un altra forma di presunta discriminazione che subirebbero i propri adepti, ovvero la stessa parola “omosessuale”. Lo ha stabilito Gary Nunn sul quotidiano The Guardian, lanciando la campagna: “Basta con la parola “omosessuale”, è offensiva e discriminatoria”.

In Messico invece, dove la lobby ha minore presa, il vicepresidente della difesa dei Diritti umani dell’ufficio del Procuratore Generale della Repubblica del Messico, ha giustamente dichiarato che il tentativo di legalizzare il “matrimonio” tra persone dello stesso sesso non ha nulla a che vedere con i diritti umani. Juan de Dios Castro Lozano, che è anche consigliere giuridico della Presidenza della Repubblica, ha commentato questo durante una conferenza a Puebla il 16 novembre scorso discutendo sulla costituzione messicana. Ha sottolineato che le unioni civili per le coppie dello stesso sesso potrebbero ottenere un riconoscimento limitato, ma non quello del matrimonio. Castro Lozano ha anche espresso forte opposizione all’adozione da parte di coppie omosessuali: «L’adozione non è solo un diritto che appartiene agli adulti, ma anche ai bambini», ha detto spostando giustamente l’attenzione al diritto dei bambini di crescere con un padre e una madre.

Quella messicana (capitale a parte) è la stessa posizione assunta anche dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nel giugno 2010, quando ha stabilito che il matrimonio tra omosessuali non è un diritto. O meglio, negarlo non significare negare un diritto, né tantomeno una violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E’ stata data quindi ragione all’Austria, cui le autorità avevano rifiutato ripetutamente il permesso a contrarre matrimonio a due cittadini.

I ricorrenti sostenevano che era stato violato il loro diritto a sposarsi, come sancito dall’articolo 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e affermavano di considerarsi discriminati nel loro diritto a creare una famiglia. Il caso è arrivato fino a Strasburgo ma la sentenza conclusiva ha ribadito che gli Stati non sono obbligati, in base alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ad assicurare l’accesso al matrimonio alle coppie dello stesso sesso. I giudici della Corte europea hanno fatto inoltre osservare che in Europa non esiste un consenso al riguardo e che spetta alle autorità nazionali valutare in merito. La Corte ha anche stabilito che lo Stato che introduca tali misure non è tenuto a garantire con queste gli stessi diritti riconosciuti alle coppie eterosessuali.

Inoltre oggi, su 200 stati nel mondo solo in 11 è possibile contrarre un matrimonio omosessuale. In Europa solo in 7 stati su 45.

Radio Maria. Diretta Prof.Palmaro del  11 novembre 2011.  Tema: “Incontri con la bioetica.                  Bioetica : male minore e verità”
(trascrizione dalla registrazione)

Cari ascoltatori, buon pomeriggio. Ben ritrovati al nostro consueto appuntamento mensile con la bioetica. Quest’oggi la trasmissione ha come titolo  “Bioetica : male minore e verità”. Perché? Perché ci rendiamo conto da tanti sintomi, da tanti segnali che provengono dalla vita pubblica, dalla vita politica, dai mezzi di comunicazione, che in questi anni è diventata sempre più frequente all’interno della riflessione bioetica teorica, ma direi soprattutto a livello della bioetica pratica, cioè dell’applicazione concreta nella vita di tutti i giorni, di scelte morali nel campo della bioetica, è venuta sempre più in evidenza, mi pare,  una questione, un nodo non del tutto risolto o,  per lo meno, un nodo  risolto in modo come sempre  esemplare dalla dottrina cattolica, dal magistero della Chiesa e, in generale, da chiunque si metta nel solco della dottrina della legge naturale, cioè il problema del cosiddetto ‘male minore’, a fronte invece di un grande stato confusionale che nella prassi si agita intorno a questa categoria del male minore. Perché? Perché c’è un elemento – come dire – storico. Incominciamo da questo dato di realtà,  cioè c’è  un elemento obiettivo che osserviamo nel mondo in cui viviamo, e dal mondo in cui viviamo prendiamo le mosse, proprio perché come sempre il nostro approccio, come quello che caratterizza l’approccio della Chiesa, del cattolicesimo e, quindi, di questa Radio, è un approccio estremamente realistico.
Voi sapete – l’abbiamo detto più volte - che la Chiesa ha  frequentemente rimandato alla figura di Tommaso D’Acquino come vertice della storia della filosofia, del  pensiero filosofico d’impronta cattolica, perché Tommaso D’Acquino, fra le altre cose, è il fautore di una filosofia  che è nota anche come ‘realismo della conoscenza’.
Allora, senza farla troppo lunga e senza complicarci la vita in questioni teoretiche, realismo della conoscenza significa che la vera filosofia – la sana filosofia aristotelico-tomistica – muove dalla realtà, ha a che fare  con la realtà concreta.  Non si immagina un uomo surreale , un uomo che non è mai esistito, ma fa i conti con la realtà concreta.  Quindi, è esattamente il contrario di quell’accusa che talvolta ci sentiamo fare quando difendiamo un principio,  difendiamo un valore non negoziabile, l’accusa di essere fuori dal mondo, fuori dalla realtà, di  fare delle battaglie di retroguardia, di essere gente che non ha i piedi per terra….  quest’accusa  un cattolico la deve respingere al mittente perché nulla è più realistico del Vangelo, nulla è più realistico dell’insegnamento della Chiesa cattolica, nulla è più realistica della morale cristiana. Dunque per realismo intendiamo che ciò che ci viene  proposto, insegnato, dalla Chiesa, dal Vangelo, da Cristo stesso, è realizzabile: il bene è possibile. Il bene che ci viene insegnato, che ci viene proposto e a cui noi tendiamo, pur con tutti  i nostri limiti, i nostri difetti, i nostri peccati, è possibile:  non è qualche cosa di impossibile.
Allora questo bene possibile, è possibile  non soltanto nelle scelte individuali, nella testimonianza personale nella vita del singolo e nel segreto,  nel sacrario della sua coscienza, ma questo bene è possibile anche nella vita dei popoli, anche nella vita delle nazioni, anche  quindi nelle scelte degli stati e dei legislatori. Se questo bene è possibile, allora questo bene anzitutto deve essere conosciuto, deve essere insegnato, deve essere difeso anche quando ci si trovi in una congiuntura storica in cui questo bene non viene praticato, non viene insegnato, non viene difeso.
La bioetica si trova, suo malgrado per così dire,  al centro di questa  contraddizione storica, cioè nella necessità, da un lato di difendere la verità tutta intera, e dall’altro lato,  purtroppo, nella sconfitta pratica derivante dal fatto che la verità viene calpestata,  viene negata, viene taciuta, viene inquinata proprio da una prassi   che è anticristiana, che è contraria alla verità, che è sempre più secolarizzata, eccetera eccetera. Non ci dilunghiamo  su aspetti che caratterizzano la nostra società e che gli ascoltatori di Radio Maria ben conoscono. Dunque, la nostra premessa in sostanza ci dice :  - Parliamo oggi del male minore e del rapporto che il male minore ha con la verità perché  a fronte di questa dialettica, di questa  contraddizione tra il bene che deve essere insegnato, che deve essere praticato, che deve essere difeso, e la società secolarizzata relativista pluralista, che questo bene nega, che questo bene calpesta, che questo bene contrasta… che cosa accade anche all’interno dello stesso pensiero cattolico? Che si avanza, si fa strada, una dottrina vera e propria, una falsa dottrina, che tende a improntare l’azione del cattolico nella società pluralista e, in particolare, l’azione del cattolico in politica, nella prospettiva nella dimensione  riduttiva del male minore.
Detto in parole più semplici, la soluzione che viene sempre più spesso proposta, praticata e teorizzata, rispetto a questa condizione di conflitto  tra la verità che la Chiesa insegna  - badate bene, verità come sempre sotto il profilo della bioetica, che attengono al bene comune, che attengono alla legge naturale; quindi non stiamo parlando delle verità dogmatiche, delle verità de fidae che la Chiesa nella sua Tradizione non ha mai inteso imporre alle coscienze attraverso leggi dello Stato – stiamo parlando invece di quelle verità che hanno a che fare con quelle condotte che comportano l’uccisione, il furto,  la truffa, l’inganno, cioè quelle azioni che sono, oltre che immorali, delittuose perché offendono un bene giuridico fondamentale che può essere la vita, il matrimonio, la proprietà privata…. allora,  dicevo, quando ci si accorge che nella società (ed è successo nella nostra società da alcuni decenni) un bene fondamentale come quello della vita venga messo alla mercè della volontà del singolo dalla legge dello Stato (stiamo parlando della legge 194 del 1978, legge intrinsecamente ingiusta; stiamo parlando della legge 40 del 2004 sulla fecondazione artificiale, legge intrinsecamente ingiusta; stiamo parlando di  una  legge che dovesse approvare la legalizzazione delle volontà anticipate del paziente che contengano elementi di apertura anche strisciante, anche implicita, all’eutanasia (leggi ‘dichiarazioni anticipate di trattamento’)… ecco, di fronte a questo orizzonte,  di fronte a questa realtà che s’impone fattualmente, cioè che è nei fatti per cui non puoi negare che sia così; allora taluni, anche all’interno del mondo cattolico, propongono di risolvere il conflitto di coscienza che ne nasce con la soluzione del cosiddetto “male minore”. 
Cioè, in sostanza, si abbandona – attenzione, cari ascoltatori! -  si abbandona una posizione rispettosa della verità tutta intera e abituata a misurare le categorie morali sotto il profilo del buono e del malvagio, del vero e del falso, quindi attraverso categorie nette, categorie chiare, categorie che non ammettono sfumature almeno dal punto di vista dell’affermazione di un principio generale; ecco, si passa da una visione morale classica, che è quella che ho appena descritto per cui vi sono azioni che sono intrinsecamente inaccettabili sotto il  profilo morale ed eventualmente anche sotto il profilo giuridico,a una visione di tipo proporzionalista. Noi del proporzionalismo nelle nostre trasmissioni abbiamo già parlato, ma alle volte è  necessario ribadire certi concetti:  “Che cosa vuol dire ragionare in termini proporzionalistici?”  Vuol dire ragionare in termini morali che non ammettono più l’esistenza di azioni  cattive in se stesse o buone in se stesse, ma oggettivamente buone o oggettivamente cattive,  non ammette più l’esistenza di assoluti  morali, ma ragiona sempre in termini di proporzione tra il male che una determinata condotta comporta e il bene che si spera di ottenere  da quella stessa condotta, per cui il proporzionalista  è  chiamato così perché opera un bilanciamento proporzionale tra il male che prevede che una certa condotta comporti e il bene che da questa condotta ne può derivare.  Cosa significa questo nel nostro discorso bioetico?  Significa che ragionando secondo questa visione del male minore, il nostro agente (cioè per agente s’intende in chiave morale colui che deve agire  - può essere il politico, può essere il bioeticista,  può essere il moralista, il confessore, il penitente, qualunque essere umano è tenuto a prendere una decisione che ha un’implicazione morale significativa, invece che ragionare secondo le categorie che derivano dalla dottrina classica, quindi dal Decalogo (non rubare, non desiderare la donna d’altri, eccetera, eccetera), comincia a soppesare le azioni mettendo sulla bilancia  pregi e difetti, benefici e danni. Allora, non uccidere?  Bè, sì … non devo uccidere, però… se in quella determinata situazione al male che deriva dall’uccisione posso mettere sull’altro piatto della bilancia  un bene che considero più importante … allora questa azione diventerà buona  (chiave proporzionalistica).
Voi rimarrete certamente sorpresi dall’esito anche drammatico, inquietante, di questo modo di ragionare, però dobbiamo renderci conto che talvolta noi ci facciamo passare sotto il naso – per così dire – dei modi di ragionare di stampo proporzionalista, senza quasi accorgerci, soprattutto quando  lo scenario nel quale si muove il ragionamento, è lo scenario politico. Perché? Perché lo scenario politico è  obiettivamente, generalmente, riconosciuto come uno scenario nel quale le condotte sono determinate da una prospettiva compromissoria.Si dice che la politica è l’arte del possibile, è chiaro allora che lo scenario politico è uno scenario frammentato pluralistico, dove s’incontrano tendenze  posizioni  valori contenuti  principi,  differenti – se non opposti – e, quindi, l’esito dell’atto politico non può che essere un minimo comune denominatore delle diverse componenti che caratterizzano il quadro politico stesso.
Per scendere sul terreno della bioetica, prendiamo un argomento:  “fecondazione artificiale”.   Nel quadro politico e anche nel quadro sociale c’è una pluralità di posizioni che vanno da chi è favorevole a ogni tipo di fecondazione artificiale, , passando attraverso chi è favorevole a qualche ipotesi di fecondazione artificiale, arrivando a chi vuole la fecondazione artificiale ma solo in certi casi e a certe condizioni,  per giungere poi (sperando che ci sia  ancora qualcuno che pensa quello che sto per dire), a chi sia invece contrario a qualunque ipotesi di fecondazione artificiale extracorporea. Data questa varietà di posizioni la politica che cosa può produrre?  Può produrre un compromesso (qualcuno lo definisce onorevole) che  genera ad esempio una legge come quella in vigore in Italia. La legge 40 del 2004 è una legge compromissoria nella quale troviamo qualche elemento di restrizione alla fecondazione artificiale, qualche dichiarazione di tutela giuridica del concepito e  qualche espressione di riconoscimento del valore dell’essere umano fin dal concepimento, accanto alla legittimazione, alla  legalizzazione,  della fecondazione artificiale, che quindi può essere praticata come un vero e proprio diritto dei cittadini italiani.
Allora questo è un esempio di applicazione pratica di questa dottrina del male minore secondo la quale, quindi, le azioni non dovrebbero più essere valutate come buone o cattive, ma come l’azione ‘migliore’ o ‘meno peggiore’ che io posso tenere di fronte a un quadro pratico che non mi lascerebbe delle alternative; cioè non mi permetterebbe nel caso specifico, ad esempio,  di volere una legge integralmente rispettosa del diritto alla vita del concepito.  Allora qui,  intanto, due osservazioni  importanti (il tema ha tanti addentellati, ma noi vogliamo  essere didascalici, non vogliamo mettere troppa carne al fuoco).
Una prima osservazione di carattere morale, cioè spiegare bene come funziona la dottrina del ‘male minore’.  Quella vera,  non questo simulacro che viene utilizzato per legittimare qualunque cosa e ragionare in termini proporzionalistici, dottrina che è incompatibile con la dottrina morale cattolica.
Seconda osservazione invece, di carattere più giuridico,  con riferimento in particolare al citatissimo numero 73  dell’Evangelium Vitae sulle cosiddette leggi  imperfette, categoria di cui abbiamo già parlato, ma che richiederà ancora una specificazione da parte nostra.
Vediamo di affrontare, cari ascoltatori, la prima questione che è quella della definizione più precisa di che cosa sia lecito fare  - che sia bene fare – di fronte alla cosiddetta questione del male minore. Innanzitutto  abbiamo qualche  illustre consiglio di carattere autorevole, lo troviamo ad esempio nella Lettera ai Romani, dove si legge: “Non facciamo il male perché ne venga un bene”.  Qui Paolo stabilisce un principio fondamentale per cui non si può fare un male in vista di ottenerne un bene. Quindi, è sempre da escludere  il ricorso a un mezzo illecito in vista di un  bene. Questa legge aurea e immutabile del diritto della legge naturale ci aiuta a sciogliere agevolmente la gran parte delle questioni bioetiche; desiderare di avere un figlio è in linea generale un bene; il mezzo attraverso il quale lo vogliamo ottenere – se è il ricorso alle tecniche di fecondazione artificiale – costituisce proprio la violazione di questo precetto, cioè il precetto che dice che non devi fare il male anche in vista di un bene.  Detto in termini più moderni e alludendo al punto di vista dei filosofi eredi di Macchiavelli : “il fine non giustifica il mezzo”.
Quindi, data questa premessa, ci facciamo due domande. “Ma, fra due mali si può scegliere il male minore?”:  1^ questione.  2^ questione: “Ma, si può consigliare qualcuno a percorrere il male minore?”
Cominciamo dalla prima domanda: “Si può scegliere il male minore?”  Allora, se io mi trovo davanti a  due mali, scegliere di compiere il male minore non è mai lecito quando si tratti di due mali ovviamente di tipo morale, cioè quando le due azioni  di fronte alle quali mi trovo comportano entrambe – seppure  con una gradazione magari di gravità diversa – la violazione della legge morale. Quindi, questa è un’altra legge aurea da cui non si scappa.  Posti di fronte a due mali  che siano ciascuno una violazione della legge morale, non è possibile scegliere lecitamente l’uno invece dell’altro appellandosi al fatto che lo si valuta meno grave, meno brutto, dell’altro male. Quindi un male non può diventare bene, non può diventare lecito, soltanto perché comparato a un altro male fa la figura del piccoletto…. dice: “ma, ho fatto un’azione … però è sempre meglio che compiere un’altra azione più grave…”  Quindi,  questa comparazione è chiaro che rimane vera nella valutazione della responsabilità,  della gravità,  di quello che si è fatto,  perché  il male ha una sua gradazione.  Una bugia detta alla mamma non è una falsa testimonianza in Tribunale,   non è un furto con scasso, non è una rapina, eccetera eccetera;  ma …un male non può mai essere trasformato in un bene solo perché  confrontato a qualche cosa  che è  peggiore.
Ora  qui facciamo subito una traslazione sul piano giuridico. Viviamo costantemente immersi in un  flusso informativo, anche talvolta proveniente dal mondo cattolico,  che qualifica come buone delle leggi soltanto perché queste leggi appaiono meno brutte, meno ingiuste, meno sconquassanti,  di altre leggi magari in vigore in un’altra nazione, o di altri progetti di legge  che potrebbero essere approvati in chiave peggiorativa di quella stessa legge.  Allora, a fronte di questa comparazione,  ecco che una legge che è gravemente ingiusta comincia ad essere qualificata come  buona legge;  oppure, con un altro éscamotage dialettico, con l’espressione -  mutuata dall’antilingua -  come ‘legge imperfetta’.  E …pensate che questo grave errore - gravissimo errore -  di qualificazione morale e giuridica di una legge  ingiusta, viene addirittura impugnato da parte di alcuni  per perorare delle leggi ingiuste sostenendo che chi non le appoggia è in errore, è un reprobo, è qualcuno al  quale  bisognerebbe togliere la  possibilità di testimoniare  la verità,  bisognerebbe ridurlo al silenzio.
Ecco, questa prospettiva è una prospettiva evidentemente  completamente inaccettabile , completamente  di rottura rispetto a una ermeneutica della continuità delle prospettive morali, insegnate e praticate dalla dottrina cattolica in duemila anni.  Quindi, che qualcuno possa sostenere  che una legge che permette di produrre embrioni in provetta, di usarne una parte o tutti sapendo che sono destinati quasi sicuramente a morte certa, accettando che a migliaia, a decine di migliaia periscano ogni anno nell’applicazione di quella legge dello Stato, ecco chi sostiene che tutto questo è buono o tutto questo fa parte ed è conseguenza di una legge buona o di una legge da difendere in relazione al fatto che potremmo avere una legge che ne permetta la soppressione di un numero maggiore o che permetta un’applicazione più lassa, più vasta,  più ampia, della fecondazione artificiale… chi dice queste cose sta commettendo un errore concettuale, un errore di valutazione gravissimo – oggettivamente gravissimo – ancorchè questo errore possa avvenire in buona fede, sulla base delle motivazioni più diverse, le  più comprensibili sotto il profilo umano, tuttavia questo giudizio è un giudizio erroneo.
Dove però, ecco,  la valutazione di  comparazione fra una legge ingiusta e una legge peggiore si potrebbe verificare? Si potrebbe verificare – dice il n° 73 dell’ Evangelium Vitae -  quando o vi  fosse già in vigore una legge ingiusta e ci si trovasse nella strettoia parlamentare  della proposizione di una proposta di legge o di emendamenti a una legge precedente,  che tende a migliorarla in modo significativo, in modo rilevante.  Allora a questo punto – dice il n° 73 dell’enciclica  ‘Evangelium Vitae’  di Giovanni Paolo II -  al parlamentare cattolico è consentito, è permesso, di dare il proprio consenso elettorale (di dare il proprio voto) anche a una legge che rimane intrinsecamente ingiusta, ma – attenzione! – con una serie di circostanze, di prescrizioni rigorosissime, che sono :
1°) avere manifestato pubblicamente a tutti che il proprio voto  non va a sostegno di quella legge ingiusta, ma che è motivato solo dalla necessità di ridurre in qualche modo l’ingiustizia anche se quell’ingiustizia non viene eliminata;
2°) che sia stata preventivamente verificata la oggettiva impossibilità pratica, politica,  di abrogare totalmente la legge ingiusta;
3°) che il proprio voto sia determinante , perché se si accertasse che il voto non è determinante, non si deve cooperare.
Quindi, tutto questo che cosa fa capire? Che la prospettiva da cui muoveva, e muove, il Magistero cattolico nella persona autorevole di Giovanni Paolo II, non come teologo, ma nella sua funzione magisteriale di pontefice, la visione non è quella di elevare una legge ingiusta alla categoria di legge buona o di legge imperfetta, ma è quella di lasciare che quella legge venga ancora qualificata come ingiusta, circoscrivendo l’azione del parlamentare  soltanto a un male non scelto ma subito.  Ecco qui, il secondo aspetto che qualifica correttamente  la dottrina del ‘male minore’:  il male minore è qualcosa che può essere subito quando di fatto non ci sia nessuna forma di adesione libera e volontaria di adesione al male stesso.
Ora,  questo tipo di logica è molto chiara, è molto esigente anche – è molto chiara ed è molto esigente -  e permette anche di fare un passo ulteriore nella qualificazione di una legge come legge ingiusta.  Quando pure ci trovassimo nello scenario in cui ritenessimo che una certa legge è meno ingiusta, è meno spregevole di un’altra (quindi facciamo una comparazione), quand’anche ci trovassimo nell’ applicazione rigorosa specifica molto puntuale dei requisiti  che il n°73 dell’ Evangelium Vitae descrive (avete visto che sono requisiti molto stringenti, tutt’altro che approssimativi!)  quand’anche ci trovassimo in questa condizione,  quand’anche quindi si arrivasse ad una azione legittima, lecita, di sostegno di quella parte di variazione, di modifica di una legge,  in senso restrittivo per esempio,  una restrizione della legge 194, una restrizione della legge 40; quand’anche si compisse questo atto politico-giuridico in vista del raggiungimento di questo risultato parziale, noi saremmo forse di fronte – una volta ottenuta l’approvazione di questa legge meno ingiusta (se vogliamo usare questo termine comparativo), ci troveremmo forse in presenza di una legge diventata giusta, di una legge diventata buona,  diventata da difendere, diventata ‘imperfetta’?  Assolutamente no.
Perché la qualifica, eventualmente utilizzabile, di imperfetta rispetto a quella legge è una qualifica temporanea, è una qualifica che vale fintanto  che il gioco dialettico parlamentare che presiede l’approvazione della nuova legge rimane attivo, cioè finchè la discussione è viva , allora noi  possiamo fare una comparazione e, a ragion veduta,  dopo avere dichiarato pubblicamente  che siamo contrari ad ogni ipotesi di fecondazione artificiale…  attenzione,  perché questo oggi chi lo dice pubblicamente?  Chi lo sta ripetendo, oggi,  che non soltanto questo è un problema morale, ma è un problema di violazione dei diritti fondamentali dell’uomo, quindi un problema che dovrebbe trovare una soluzione giuridica nel divieto di ogni forma di fecondazione artificiale extracorporea!
Bene, una volta chiarito questo, il giorno dopo che viene approvata una legge cosiddetta imperfetta, quella legge cessa di essere imperfetta perché a quel  punto diventa tout-court una legge ingiusta, cioè una legge contro la quale io,  un minuto dopo che è stata approvata,  mi devo schierare. Tant’è vero che -  molti non lo ricordano, quasi nessuno lo dice -   la legge 40 del 2004 sulla fecondazione artificiale contiene un articolo (l’articolo 16) che prevede… che cosa? L’obiezione di coscienza!  Ma guarda un po’… una legge ‘buona’ che prevede la possibilità per i medici e gl’infermieri di fare obiezione di coscienza alle tecniche di fecondazione artificiale! Strano, strano che ci sia l’obiezione di coscienza, potremmo dire… no, non è strano perché le uniche due leggi in vigore in Italia ad oggi che contemplano  (per fortuna, grazie a  Dio!) almeno il diritto all’obiezione di coscienza, ammettendo così implicitamente di essere delle  leggi ingiuste, sono la legge 194 e la legge 40.
Quindi, cari ascoltatori, quello di cui stiamo parlando non è un aspetto per amatori della teologia dogmatica o  della teologia morale, ma è una questione fondamentale perchè è  diventata per molti versi anche una enorme buccia di banana su cui scivolano i cattolici; quella cioè di credere, di insegnare, di dire pubblicamente che la legge sulla fecondazione artificiale è una buona legge, o che il divieto della fecondazione eterologa è un provvedimento che tutela la vita dal concepimento.  Non è vero!!!  Non è vero, perché,  fermo restando che è meglio vietare almeno l’eterologa, fermo restando questo dato, come dire, quasi puerile in termini quantitativi perché si può presumere che in termini quantitativi questo riduca (forse) il numero di fecondazioni artificiali che si fanno; tuttavia rimane vero che la fecondazione artificiale che si fa a norma di legge in Italia  con la fecondazione artificiale omologa comporta una perdita (dicono alcuni),  la morte (dicono altri), la soppressione accettata deliberatamente (dicono altri ancora) della vita umana concepita di molti embrioni.  Molti embrioni vengono consapevolmente sacrificati facendo le tecniche di fecondazione artificiale!!!
Allora tutto questo discorso – uno potrebbe dire “ma sapere questo non cambia il quadro politico… poi soprattutto detto in queste ore che c’è un quadro confuso… molto problematico…”,  ma qui non si tratta di pretendere sic et simpliciter con un po’ anche di faciloneria, di cambiare le cose che non si possono  cambiare, qui si tratta di rendere innanzitutto testimonianza  (…)  prudente, forse in parte opinabile perché  poi  c’è anche nella valutazione dsei testi di legge,  sopratutto delle proposte di legge non ancora approvate, un certo grado di opinabilità; quindi dobbiamo anche dire che bisogna avere una granitica certezza sui principi, poi nella loro applicazione giuridica c’è sempre anche un certo grado di opinabilità derivante dalla complessità tecnica del diritto che va interpretato, che va applicato. Quindi, fatta salva anche questa quota di opinabilità nell’interpretazione di alcuni aspetti normativi, è chiaro che ad esempio la discussione sulla legge in merito alle dichiarazioni anticipate di trattamento è una discussione totalmente aperta all’interno del più sano orientamento cattolico.  Perché aperta?  Perché vi sono fondati dubbi che quel progetto di legge, che ancora non è stato approvato definitivamente dal Parlamento italiano, contenga degli squarci, delle feritoie, delle fessure che permetteranno di peggiorare il quadro giuridico attuale in senso eutanasico.
Ovviamente, su questo poi va riconosciuta una certa qual complessità interpretativa, ma sarebbe veramente inaccettabile qualunque tentativo di soffocare  questo dibattito interno alla migliore tradizione della bioetica cattolica italiana, che mette in luce elementi inquietanti nella proposta normativa che riguarda le dichiarazioni anticipate di trattamento. Quindi, nessuno si permetta, si arroghi il diritto, di intimare a chicchessia di dover sostenere queste proposte, questi disegni di legge simili,  anche perché, tra l’altro, esiste una nutrita letteratura bioetica della migliore tradizione cattolica che ha sempre affermato di non favorire il testamento biologico o di non favorire strumenti che ne siano – seppure sotto specie e sotto denominazioni diverse – la medesima attuazione.  Dichiarazioni anticipate di trattamento e testamento biologico sono infatti due modi diversi di definire uno strumento sostanzialmente identico.  Allora andiamo verso una conclusione della nostra chiacchierata , anche per lasciare spazio a qualche telefonata.
 Le notizie che i mezzi di comunicazione talvolta ci lanciano possono essere dei segnali interessanti di un ripensamento dell’opinione pubblica o delle forze politiche o di personaggi importanti del mondo della comunicazione sul fronte della vita umana. Quindi,  abbiamo avuto in queste settimane  un provvedimento,  una sentenza a livello dell’ Unione  Europea, contro la brevettabilità di ricerche scientifiche, di scoperte scientifiche ottenute con embrioni umani, con il sacrificio di embrioni umani (e questo è un fatto positivo); abbiamo visto e sentito l’amico Giuliano Ferrara – direttore de “Il Foglio” – schierarsi pubblicamente,  nella sua trasmissione televisiva, contro l’aborto procurato, e questo è un fatto positivo; abbiamo sentito anche recentemente una cantante come Laura Pausini  dire pubblicamente: “No, io l’aborto procurato non lo farò mai perchè è una cosa che non si deve fare”.  Questi segnali sono importanti,  sono da valorizzare,  però attenzione a non avere una visione obliterata della realtà, cioè parziale, perché dobbiamo portare questi segnali a confrontarci con la verità tutta intera.
 Quindi, la sentenza della Corte Europea non impedisce la sperimentazione sugli embrioni, quindi non passiamo un messaggio che sia troppo ottimistico; la posizione di Giuliano Ferrara è importantissima,  ma si accompagna a un errore concettuale quando non vuole mettere in discussione la legge che permette l’aborto in Italia. Non si può essere antiabortisti ed essere a favore della 194, anche se poi Ferrara parlandone rivela che in realtà questo è più un atteggiamento tattico che non una posizione di principio, e allora a questo punto lo si può condividere. E così pure è importante dire “io non farò mai quest’azione illecita”, ma è importante anche capire che non si tratta solo di una posizione soggettiva sotto il profilo della coscienza individuale, ma che deve diventare una norma avente valore erga omnes per tutta la collettività, perché è la tutela e la protezione di un bene oggettivo come quello della vita innocente  che non può essere affidato  alla sensibilità della coscienza individuale.
Bene. Abbiamo capito insomma,  cari ascoltatori, che non dobbiamo imboccare scorciatoie che in  nome del male minore ci facciano diventare cooperatori di leggi ingiuste, di consigli ingiusti alle persone, di soluzioni  compromissorie nelle quali ci illudiamo di salvare capre e cavoli, magari facendo qualcosa di sbagliato, di cattivo, ma un po’ meno cattivo e sbagliato di un’altra azione che presenta aspetti ancora più problematici. Bene, lasciamo ora spazio alle vostre domande in argomento con quanto abbiamo appena detto.
Domande degli ascoltatori
D.-  Mi chiamo Alessandra e telefono da Milano. Volevo dire: “Come possiamo opporci  a questa marea…. È come un’onda che ci sommerge… a volte si teme di non riuscire ad opporsi perché si infiltra nelle menti, è proprio una cosa tremenda, ecco …
R.- Grazie. Capisco perfettamente il sentimento anche psicologico alle volte come di soccombere di fronte a una marea montante che è resa ancora più impressionante, da un lato dal fatto che c’è una insensibilità morale, una leggerezza, una superficialità, una ignoranza anche proprio crassa,  in questa materia da parte della società in cui viviamo; della quale però alle volte, ecco io stesso mi sento un  po’ responsabile e mi chiedo quanto di questo disastro etico che si accompagna alla società in cui viviamo non dipende da ciascuno di noi, non solo non tanto per l’incoerenza di vita… per i difetti che abbiamo che in qualche modo sono sempre stati presenti nella vita della chiesa,  nel fatto  che la chiesa  è la comunità dei peccatori alla fine;  ma anche nella paura, nella codardia, nella confusione, nell’assenza di amore alla dottrina della chiesa, alla dottrina morale  che noi manifestiamo; quanto noi abbiamo sulla coscienza il disorientamento di tante persone che non sono cattive, ma che semplicemente non sanno, non sono state nemmeno  mai avvertite che quello che stanno facendo, che vogliono  fare,  è un male e che magari –  avvertite con carità – possono anche cambiare la loro determinazione.  Quindi, questa è la prima cosa:  vedere in questo apostolato della verità così ingrato una grande opportunità di fare il bene. Certo, l’elemento più scoraggiante alle volte è accorgersi che queste incomprensioni,  che sconfinano alle volte nell’ostilità, non vengono dall’esterno, ma dall’interno del mondo cattolico, come dicevo prima da bioeticista posso testimoniare,  posso documentare, anche questo smarrimento talvolta che ci colpisce  nel vedere che la  confusione è dentro le mura, non è fuori delle mura, e che talvolta si viene anche ripresi, si viene in qualche modo perseguitati se si resta aggrappati, non al nostro ego, alla nostra supponenza personale,  ma alla grandezza di una dottrina che certamente ci sovrasta, è più importante di noi, non è nelle nostre possibilità cambiarla.  Purtroppo gli interessi politici, le ambizioni personali sono delle tentazioni terribili -  che Tolkien ha rappresentato bene con la metafora dell’anello -  e queste ambizioni alle volte poi fanno usare in maniera strumentale della falsa dottrina per diffondere l’errore.  Però noi non dobbiamo arrenderci, dobbiamo essere sereni e stare  saldi nella consapevolezza che questa non è una battaglia nostra, ma che facciamo a maggior gloria di Dio.
D.- Io mi chiamo Anna e telefono da Torino.  In parte lei ha già risposto al cruccio che volevo esporle. Perché  purtroppo ecco io essendo  un sessuologo clinico (?) cattolico,  da trent’anni  io trovo molto duro lavorare, però il problema è che il grosso cruccio è correlato al fatto che quotidianamente io incontro coppie, incontro persone che sono veramente disinformate  perché probabilmente,  lei lo sa, che il dio denaro conviene a qualcuno,  però quante volte io facendo un’analisi spiego che cos’è e perché  non sono d’accordo sulla fecondazione perché professionalmente  eticamente io penso di poter esporre il mio credo;  quando parlo di contraccezione è peggio ancora…perché quando dico: “Lei ha già subito aborti spontanei o provocati?” “No, mai, niente”  “E qual è il suo tipo di contraccezione?”  “Ah, io uso la spirale da 20 anni”  allora io comincio a dire: “Allora contiamo in tutti i mesi di questi  20 anni quanti aborti ha fatto” ,  lo sa che c’è gente che si mette a piangere? Perché è veramente vergognoso da parte nostra, a volte io chiedo perché le persone – anche se non sono cattoliche -  perché non spiegano alla donna che si sta distruggendo, non solo dal punto di vista etico e morale, ma anche dal punto di vista fisico?  Perché comunque trattare degli organi  come fossero carta straccia… poi vediamo le coppie di 35 anni che vanno a fare fecondazioni su fecondazioni perché hanno sulle spalle 10 anni di estroprogestinici… 10 anni di spirale… sinceramente sono coppie che mi fanno pena, ma nessuno le ha avvisate prima, ecco… però lei nella sua risposta di prima ha già sottolineato questo grosso problema, che  probabilmente è la nostra categoria che sbaglia.
R.- Grazie perché  la telefonata è interessantissima e anche molto confortante  perché dimostra a tutti gli ascoltatori che ci sono dei professionisti che riescono a coniugare in modo molto naturale la professionalità con la coscienza retta e lei lo fa e questa testimonianza è grande. Però la cosa più forte è proprio la testimonianza del valore della verità e del valore di  conversione della verità perché tante volte la coscienza è una coscienza malformata, è una coscienza ignara, e questo dipende anche da una concezione della pastorale deforme, distorta, obbrobriosa, nel senso che talvolta si ritiene che pastoralità si coniughi con menzogna, cioè con il non dire come stanno le cose perché sennò  poi i fedeli hanno dei  malesseri di coscienza,  hanno dei rimorsi, come se il rimorso fosse una maledizione… il rimorso è una benedizione.  Noi  dobbiamo invocare di conservare  una coscienza che abbia la capacità di rimordere quando facciamo qualcosa di male, per cui ci vuole tanta serenità e anche tanto coraggio – purtroppo, devo dire, oggi -  nel testimoniare la verità tutta intera serenamente … non cambierò il mondo, non cambierò le leggi,  non entrerò in  Parlamento, non diventerò presidente di qualche organismo cattolico che conta… non importa, non sono stato messo in questo mondo per questo scopo, per questo obiettivo…. ci mancherebbe!  Siamo stati messi in questa vita per amare ed essere amati, accogliere ed essere accolti,  nella verità. Quindi è questa missione quella che ci deve caratterizzare senza inseguire facili consensi; sappiamo che i facili consensi si accompagnano spesso alla menzogna.
D.- Sono Michela da Bergamo.  Io ho un grosso conflitto. Essendo una persona che lavora nel campo sanitario mi sono  trovata in maniera concreta in quest’ultimo mese a lavorare con queste donne che accedono alla fecondazione artificiale e di conseguenza  è venuto fuori che io sono un’obiettrice e mi sto chiedendo proprio come sanitaria che cosa posso fare, nel senso:  vado via da questo posto, intendo dire, perché viene comunque – come diceva la sessuologa forse in maniera corretta -  dal punto di vista sanitario viene comunque esposta la legge 40 ognuno a proprio piacimento e  quindi, giustamente, chi fa quel lavoro spinge  sul fatto di farlo e io mi ritrovo comunque di  mezzo perché, essendo comunque un’operatrice,  mi trovo proprio in una posizione per cui potrei fare qualcosa in senso migliorativo nel senso di esporre la mia obiezione davanti alla donna, oppure questa  cosa potrebbe non essermi concessa e allora di fronte a questo bivio dovrei fare una scelta.  Fermo restando che come obiettrice devo – purtroppo (fra virgolette) -  comunque garantire assistenza. Io non sono direttamente implicata nella procedura, ma nell’assistenza.  E’ una domanda che mi sto facendo… non so se lei può darmi un consiglio.
R.-  Molto volentieri, sulla base delle informazioni che lei mi ha dato.  Nell’ordine. Intanto è molto positivo che ci si ponga  interrogativi morali di questo genere, quindi teniamo deste queste remore di carattere morale e non adagiamoci in atteggiamenti autoassolutori che talvolta ci provengono anche dall’interno del mondo cattolico, e magari qualche volta (Dio non voglia!) anche dagli stessi confessori che -  magari per mettere tranquilla la coscienza -  dicono: “Non ti preoccupare!”  Invece di queste cose bisogna preoccuparsi, eccome!  Lei  ha ragione Michela, perché in sintesi il succo è questo. Si tratta di una pratica – quella della fecondazione artificiale -  che ha numerose ragioni di illiceità morale che non stiamo a ripetere per l’ennesima volta perché di questo lei è già ultraconvinta.  A questo punto ci troviamo – 2° elemento -  in una situazione agevole perché la legge permette di fare obiezione di coscienza e ho capito che lei ha fatto questo atto. Quindi  benissimo!  Terzo. L’obiezione va difesa un po’ con i denti perché bisogna cercare in tutti i modi di ottenere di non cooperare,né in modo formale, né in modo materiale a queste tecniche; quindi direi senz’altro nulla a che vedere con tutti i passaggi e le procedure (mi pare che anche sotto questo profilo lei ci tranquillizzi che  questo le viene consentito). Qualche remora  è che c’è una qualche forma di  contatto con le persone interessate alla procedura. Allora io devo dire come regola generale che l’indicazione a mio modo da seguire è di dare priorità all’obiezione rispetto al possibile bene sperato che si potrebbe fare rimanendo nella procedura. Questo lo dico sempre anche riferito alla presenza nei consultori e in generale negli ambienti dove si processa (nel senso dove si segue la procedura) per l’applicazione della 194. Quindi la tesi secondo la quale è meglio restare dentro perchè restando dentro si può fare dissuasione, è una nobile aspirazione che però si scontra con il fatto che restare dentro implica anche cooperare alla realizzazione ( nel caso dell’aborto all’aborto, nel caso della fecondazione artificiale alla fecondazione artificiale). Quindi, tutto quello che implica una qualche forma di coinvolgimento deve essere evitato. Se poi, senza che questo accada, si ha occasione d’incrociare, d’incontrare, delle donne che si stanno  avviando alla fecondazione artificiale…bè questo potrà essere anche un modo, nella maniera che uno in coscienza ritiene migliore, di fare opera di dissuasione.
D.-  Sono Evelin dalla provincia di Firenze. Io sono contrarissima alla fecondazione artificiale pur essendo stata lontana dalla fede per anni.  Volevo dire: come mai però si promuove così poco la cultura dell’adozione?  (…)
R.- Sì, mi sembra sempre opportuna anche quest’apertura al tema della paternità e maternità diversa, ma non meno importante né meno vera della paternità e maternità biologica. Lei ha già anche risposto da sola  al fatto che è importante che questa apertura all’adozione non sia vissuta in chiave  egoistica, cioè come acquisto in qualche modo di un figlio che deve servire a porre fine alle sofferenze, al dispiacere di non riuscire (è una sofferenza reale, certamente!) a non riuscire ad avere un figlio per via naturale. Quindi è chiaro che è un equilibrio anche delicato della coscienza, che si può comunque  perseguire. Quindi l’adozione è certamente una delle strade (io direi non l’unica) con la quale si può dare una risposta alle coppie che desiderano avere figli e che purtroppo non riescono a soddisfare in modo lecito questo desiderio.
Bene, cari ascoltatori, siamo giunti al termine della nostra trasmissione mensile.  Anche oggi abbiamo ascoltato tante cose interessanti dalle vostre telefonate, tante cose anche avreste voluto dire ma speriamo che sarete più fortunati nelle prossime occasioni;  un ringraziamento a tutti gli ascoltatori, un saluto e a risentirci – a Dio piacendo -  alla prossima puntata.  Grazie e buon proseguimento con i programmi di Radio Maria.


(trascrizione dalla registrazione, non rivista dall’autore)