venerdì 29 aprile 2011

Te la do io la contraccezione di Francesco Agnoli, 29-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

In una scuola francese, di fronte all’emergenza ragazze minorenni-incinte, qualcuno ha avuto la pensata: perché non distribuire anticoncezionali nell’infermeria della scuola? Così eviteremo che le ragazze rimangano incinte e, secondariamente, che siano “costrette” all’aborto.
Cos c’è che non funziona in questo ragionamento, apparentemente così banale?
Tutto, purtroppo. Cerchiamo di capire perché.

Anzitutto i dati scientifici dimostrano ormai molto bene che la disponibilità di anticoncezionali non favorisce la diminuzione dei concepimenti e degli aborti. Al contrario. Sappiamo che ormai la contraccezione è sempre più diffusa in molti paesi “moderni”, dalla Francia, all’Italia, a Cuba, per citare un paese non europeo. Eppure ciò non toglie che specie in Francia e a Cuba, il numero degli aborti di minorenni sia sempre in costante crescita, oppure, in certi periodi, costante.

Questo per un principio banale: mettere a disposizione dei giovani metodi per non avere figli, in una cultura pansessualista come la nostra, non fa altro che incoraggiarli ad avere un maggioro numero di rapporti: “tanto, non c’è il pericolo di rimanere incinte”. Si crea così un circolo vizioso: l’idea che si possa fare “sesso sicuro” determina una crescita del sesso tra minori, e, inevitabilmente, per la fallacia degli anticoncezionali, per incuria, e per mille altri motivi, questo facilita gravidanze indesiderate e premature.

Ma la questione di fondo è più profonda, ed è educativa. Ogni educatore sa che per ottenere x deve chiedere x+5. Cioè che per raggiungere ogni traguardo bisogna mirare in alto; bisogna offrire ai giovani modelli positivi; bisogna indicare non un presunto “male minore”, ma il bene. Non diciamo ai nostri bambini piccoli: “Mi raccomando, se butti per terra le carte, per piacere, buttane poche”; e neppure: “Se proprio vuoi picchiare tuo fratellino, non in faccia, ma sul sederino, per favore”.
Perché se lo facessimo, sapremmo molto bene che il figlio butterà per terra le carte, prima piccole, poi grandi; che continuerà a picchiare il fratellino, prima piano, poi magari più forte…

Insomma: educare significa far capire chiaramente che esiste una distinzione tra bene e male, tra giusto e sbagliato. Che occorre sempre tendere al bene, perché è esso che ci realizza, anche se costa fatica e richiede impegno.

Nell’ambito che stiamo analizzando significa far capire ai giovani che il rapporto carnale tra due persone non è un gioco, un passatempo qualsiasi, bensì qualcosa che esige amore vero, rispetto, maturità, senso di responsabilità… Citando Venditti: “Non c’è sesso senza amore, è  dura legge nel mio cuore”.

Cosa succede, allora, se in una scuola - dove i ragazzi si aspettano di ricevere segnali chiari; dove osservano il comportamento e ascoltano l’insegnamento di persone che ritengono dei modelli- si dice loro: “l’importante è l’anticoncezionale”? Che la scuola non avrà fatto che assecondare l’istinto più brutale, il pansessualismo imperante, la infinita serie di bisogni sessuali indotti propri di una società che propina sesso senza amore in tv, sui giornali, per radio…ad ogni ora del giorno.
Il giovane allora penserà: “L’importante non è l’amore, la responsabilità, ma l’anticoncezionale, l’importante è che non ci siano conseguenze (immediate)…”. Così non solo finirà per avere rapporti carnali prima del tempo e con le persone sbagliate, ma addirittura per perdere per strada persino il concetto di amore.

Perché chi viene educato ad avere rapporti sin da giovane, purché “protetti” , diventerà quasi inevitabilmente un avido consumatore di sensazioni, un edonista, incapace un giorno, quando incontrerà la persona della sua vita, di riconoscere, la grandezza dell’unione sponsale; incapace di fedeltà, quando verranno i momenti difficili; incapace di auto-dominio, e dunque, di costruire la sua vita affettiva secondo l’ordine naturale e la legge di Dio.

L’unico vero controllo delle nascite, scriveva G. K. Chesterton, è l’autocontrollo. Nella società degli anticoncezionali, magari persino nelle scuole, invece, non aumentano solo le gravidanze premature; non aumentano solo, spesso, gli aborti, come “rimedio” all’errore; non aumenta solo l’incapacità di guardare  ai figli come ad un dono e non come ad un impiccio; non aumentano solo, come accade oggi, la sterilità femminile, dovuta anche alla precocità dei rapporti, e l’impotenza, maschile, ovvia conseguenza di un eccesso di sesso, ma crescono anche i tradimenti, le separazioni, i divorzi: l’infelicità, insomma.

Negli ultimi trent’anni, in parallelo alla crescita di modelli affettivi deresponsabilizzati, separazioni e  divorzi nel nostro paese sono quasi quadruplicati. Uno dei motivi è senz’altro la distruzione di quel periodo fondamentale di conoscenza tra un maschio e una femmina che è il fidanzamento: periodo in cui due persone si conoscono, non dal punto di vista fisico, sessuale, carnale, ma spirituale. Perché solo quando si saranno veramente conosciuti, apprezzati, compresi, ad un livello profondo, la loro unione carnale sarà vera, sentita, viva, e non un uso, momentaneo ed effimero, del corpo altrui, per piacere proprio.

Quando invece l’unione carnale, cosiddetta “sicura”, diventa solo un gioco, si finisce per prendere abbagli colossali. Si arriva a credere che quella persona che soddisfa, in un dato momento, il nostro desiderio fisico, sia poi capace anche di essere anche il compagno o la compagna di una vita. E ci si sposa avendo conosciuto corpi, non persone, con il rischio di accorgersene quando è troppo tardi…

giovedì 28 aprile 2011

Due pareri autorevoli sulle Dat - Di Rassegna Stampa - L'Arcivescovo di Ravenna e l'ordine dei medici di Milano, uno dei più grandi d'Italia, sulla legge sulle Dat. – da http://www.libertaepersona.org

1) «[...] La vita: amiamola e difendiamola sempre. Dal concepimento alla morte naturale. Non si può accettare l’aborto! Non possiamo accettare l’eutanasia! La futura legge di Dichiarazione anticipata di trattamento (DAT) resterà come una porta aperta all’eutanasia. Non possiamo dire che va bene. La legge verrà approvata. Ma aprirà una strada verso l’eutanasia. Se apro un foro in una diga (anche piccolo) prima o poi la diga crolla. Ce ne accorgiamo che cresce l’idea che l’uomo sia “PADRONE” della vita e ne possa fare ciò che vuole?!» [Dal “RisVeglio Duemila” N. 16/2011]

2) COMMENTO PROPOSTA DI LEGGE n° 2350-A DICHIARAZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO (DAT) aprile 13, 2011

In questa ultima fase dell’iter legislativo della proposta di legge sulle D.A.T. l’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Milano rileva le seguenti numerose criticità della condenda legge:

Gli obiettivi sono delineati nella relazione di maggioranza, che riporta anche alcuni limiti e criticità: a questo proposito nel testo si legge che “certo non è facile legiferare su una materia tanto complessa come il confine tra la vita e la morte. Ma la realtà chiede di essere governata.” La realtà a cui ci si riferisce è quella della progressiva affermazione della cultura dell’autodeterminazione, che però non dà “il diritto di chiedere la morte perché la vita e la salute sono beni indisponibili tutelati dallo Stato”.

Il come far convivere questi due principi è uno dei punti cruciali: noi riteniamo che l’indisponibilità del bene vita sia un principio gerarchicamente prevalente rispetto alla autodeterminazione e che il metterli sullo stesso piano possa determinare, tra l’altro nella pratica clinica, situazioni conflittuali.

Il discorso della pratica clinica rimanda alla definizione dell’ambito dell’esercizio medico che “non contempla solo la prevenzione, la diagnosi e la terapia delle malattie, ma anche il prendersi cura della persona … Il prendersi cura non ha come oggetto formale la patologia in atto o la sua remissione o la prevenzione di sequele. In questa dimensione, ogni malato è sempre curabile…”

Cioè, semplificando, si distingue tra atto medico e atto terapeutico. Nell’ambito del prendersi cura vengono collocate idratazione e nutrizione che “sono sempre da considerarsi sostegni vitali anche se richiedessero tecniche sofisticate per essere adeguatamente attuate”.

In quanto sostegni vitali non possono essere oggetto di DAT. Le DAT, di cui riteniamo sia una criticità decisiva la possibilità di espressione “ora per allora” su un qualcosa che non si conosce, danno al paziente “l’autonomia di orientare le scelte terapeutiche in un contesto per lui ignoto”, quando “dovesse trovarsi comunque privo permanentemente della volontà di intendere e di volere”.

 Viene aggiunto che bisogna “tenere in debita considerazione che […] privano della possibilità di contestualizzare e attualizzare la scelta”. Si torna, secondo noi, al suddetto punto cruciale del rapporto poco chiaro tra autodeterminazione e indisponibilità del bene vita: in questo contesto al medico viene assegnata “la responsabilità, nella situazione data, di attualizzarne le indicazioni”.

Per questo, si dice, le DAT non possono essere vincolanti per il medico (che però può essere sostituito). Il presupposto è l’alleanza terapeutica che “si concretizza nel dovere del medico di prestare tutte le cure di fine vita, agendo sempre nell’interesse esclusivo del bene del paziente” (art. 39 C.D.).

Una situazione da verificare alla luce del significato che si darà agli obiettivi dichiarati, cioè l’affermazione del diritto alla vita “sempre garantito in tutte le società” e della dignità anche del paziente in stato vegetativo permanente che “è una persona gravemente disabile, ma sempre persona rimane…”

Entrando allora nel merito del testo riteniamo positivo il riferimento alle cure palliative o alla necessità di intervenire sempre e comunque nelle situazioni di emergenza, mentre ci sembra che debba essere fatto uno sforzo per chiarire il significato di alcuni termini che possono essere variamente intesi (da cui sentenze della magistratura, come è già successo, diametralmente opposte): ci riferiamo ad esempio al significato di vita a cui qualcuno dà un’accezione qualitativa riduttiva che incide sul concetto di bene del paziente e di salute, di dignità che non tutti sono d’accordo sia data dall’esercizio di coscienze che si riconoscono in precisi valori, di una responsabilità che qualcuno ritiene sia limitata a se stessi, di un’alleanza terapeutica che va oltre il rapporto di fiducia e presuppone anche la condivisione di valori che per il Medico sono quelli del Giuramento Professionale, di un’eutanasia che bisogna capire se sia veramente ogni azione o omissione tesa a provocare la morte anche pietosa di una persona, di un’autodeterminazione i cui limiti reali andrebbero definiti al di là delle DAT, di accanimento terapeutico.

Tutto ciò premesso, il Consiglio dell’Ordine, nella seduta dell’11/4/2011 ha votato, all’unanimità, quanto segue:

1. La Legge proposta è ridondante dal punto di vista normativo posto che già esistono norme a tutela della Persona; 2. La Legge proposta è disumanizzante, interferendo nel rapporto medico-paziente, sostituendolo con le altre figure previste (commissioni, tutori giuridici ecc.); 3. Se non di segno opposto, non è comunque rispettosa del Codice Deontologico approvato nel 2006.
"Nozze" e adozioni gay, si protesta fino a sabato di Marco Respinti, 28-04-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Sabato 30 aprile scade il termine utile per protestare contro il tentativo della Commissione Europea di introdurre surrettiziamente in tutta Europa il riconoscimento forzato delle unioni civili, dei “matrimoni“ omosessuali e delle adozioni di bambini da parte di coppie gay.

La Bussola Quotidiana ha lanciato da tempo l’allarme contro la proposta dell’EuroCommissione di varare un provvedimento che consenta la libera circolazione dei documenti pubblici e il reciproco riconoscimento automatico degli effetti degli atti di stato civile in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, fra i quali appunto anche quelli riguardanti matrimonio e adozioni. Infatti, se la proposta passasse, sarebbe sufficiente che un documento pubblico venisse validamente emesso in un certo Paese per essere senza colpo ferire recepito in un altro. Per esempio un certificato di stato di “famiglia” omosessuale.

Ora, da quando abbiamo lanciato il primo allarme, il 7 aprile, diversi lettori ci hanno scritto o telefonato segnalandoci che l’indirizzo e-mail fornito dalla stessa Commissione Europea affinché fosse possibile a qualsiasi cittadino europeo intervenire nel dibattito appositamente da essa intavolato non funzionava, rimandando al mittente ogni e qualunque messaggio inviato.

Dopo avere più volte provato anche noi stessi, abbiamo segnalato il problema alla Commissione Europea attraverso i responsabili dello European Dignity Watch di Bruxelles, l’organizzazione non governativa che ci ha instradato alla campagna di sensibilizzazione.

A quel punto ci è stato fornito un secondo indirizzo e-mail, quello della persona direttamente responsabile della raccolta delle opinioni dei cittadini europei, e così abbiamo prontamente aggiornato il nostro articolo, arricchito nell’occasione di una nota esplicativa.

La cosa è andata liscia fino a pochi giorni fa, allorché un nuovo esercito di lettori è tornato a segnalarci un problema. I messaggi inviati dai cittadini europei al secondo indirizzo e-mail fornito arrivavano sì a destinazione, ma innescavano - innescano - una risposta automatica: la persona contattata è fuori ufficio fino al 2 maggio. Cioè dopo la scadenza utile del 30 aprile. Pare sia in missione. O in ferie. Sacrosanto. Ma allora? Allora pare che l’EuroCommissione abbia adesso sistemato il problema originario che affliggeva il primo indirizzo e-mail da loro – e quindi anche da noi - fornito. All’inizio pareva che il problema fosse l’“intasamento” della casella di posta elettronica dovuto all’eccezionale ed evidentemente inaspettato numero di messaggi inviati dai cittadini europei soprattutto polacchi. Sia come sia, adesso pare che il suo funzionamento sia stato ripristinato: abbiamo provato, il messaggio non viene rifiutato.

Certamente non vogliamo sovrastimare la questione, né gridare al sabotaggio. Epperò ci sentiamo di dire che la “democrazia diretta” con cui l’EuroCommissione interpella i suoi cittadini - che però se non fosse per certe brave ong di certi provvedimenti pericolosi non saprebbero alcunché - è alquanto farraginoso. Peraltro, se codesta farragine la si somma al palese colpo che il caso qui di specie infligge alle legislazioni democratiche promosse dai parlamenti democratici dei Paesi democratici dell’Unione Europa la cosa si fa esplosiva.

Scrivete allora il vostro dissenso all’indirizzo:

JUST-CIVIL-COOP@ec.europa.eu

Pare che finalmente funzioni. Mancano solo poche ore.
Tutti i rischi di una cattiva legge di Stefano Semplici, da http://www.europaquotidiano.it

Si avvicina dunque, a Montecitorio, il momento delle votazioni sul cosiddetto testamento biologico. Sembra davvero che tutto sia stato detto. Ci sono però tre punti sui quali vale forse la pena di insistere ancora. E di farlo misurando la portata del consenso possibile. Questa opportunità, d’altronde, si offre perfino dove meno ci si aspetterebbe di trovarla, come nel comunicato datato 3 marzo dell’Associazione dei medici cattolici, che vorrei tentare di rileggere in questa prospettiva, ben sapendo che, di fronte alla rigidità delle contrapposizioni che occupano quasi per intero la scena del dibattito pubblico, si tratta comunque di un esercizio accademico più che di una concreta opzione politica.
Questo documento è interessante innanzitutto per il riconoscimento che alimentazione e idratazione artificiali sono, senza possibilità di equivoco, un trattamento sanitario, per quanto «di sostegno vitale» e non terapeutico. Sono, in quanto tali, «atti » compiuti dal medico come parte del suo irrinunciabile dovere di «prendersi cura del paziente». Fin qui, si potrebbe dire, nulla di nuovo.
Non solo per i medici cattolici, naturalmente, ma per tutti i medici, che hanno un preciso obbligo giuridico, oltre che morale, di garantire ai loro pazienti tale sostegno e ogni trattamento utile alla tutela della loro salute.
Neppure il testo approdato all’esame dell’aula della camera, in fondo, nega questa evidenza. In esso non si parla di quel che compriamo al supermercato, ma dell’alimentazione e dell’idratazione «nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente». Non si può negare che la foga polemica di alcuni interventi abbia alimentato equivoci su un punto che appare così chiaro.
Ebbene: i medici cattolici non solo se ne tengono onestamente e decisamente alla larga, ma si dimostrano anche avvertiti delle conseguenze che questo riconoscimento implica e che vengono semplicemente eluse nel testo che, come tutto lascia pensare, i deputati approveranno.
Il dato più significativo di questo comunicato è in effetti il silenzio sulla pretesa che su questo trattamento una persona non possa esprimere, ora per allora, la sua volontà, contando almeno sul dovere del medico di tenerne adeguatamente conto.
I medici cattolici non dicono che, poiché alimentazione e idratazione sono atti di sostegno vitale, allora non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento. L’obiezione è scontata: questa conclusione è implicita nel tono e nel contesto di questo intervento. Mi pare però almeno lecito domandarsi se i firmatari avrebbero potuto, proprio in quanto medici, fare diversamente.
Alimentazione e idratazione artificiali sono un trattamento sanitario e dunque ad esse sembra doversi necessariamente applicare il divieto sancito dalla nostra Costituzione di imporli a chi assolutamente non li vuole. Di più. Tutti i medici sanno che tale imposizione è una violazione e non l’adempimento di quanto previsto dal loro codice deontologico, che afferma senza alcun margine di discrezionalità che «il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale», quando quest’ultima viene rifiutata da un paziente pienamente consapevole delle conseguenze alle quali va incontro. I medici cattolici, che nel momento stesso in cui definiscono l’impianto generale dell’attuale proposta «una base accettabile» ammettono la legittimità e forse addirittura la necessità di correzioni e modifiche, ribadiscono piuttosto la richiesta che il “testamento” non abbia carattere vincolante per il medico. Certamente anche nel caso dell’alimentazione e dell’idratazione.
Ma non solo in questo caso. Vengo così al terzo e più importante punto. Si potrebbe pensare che, per questa via, ci si prepari ad un’ulteriore contrazione degli spazi dell’autodeterminazione. È possibile, ma la sfida è più alta. Questo disegno di legge è partito pensando alla situazione estrema dello stato vegetativo persistente e riguarda adesso tutti i soggetti che si trovano «nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario». Non poche migliaia, ma diverse centinaia di migliaia di persone. I malati di Alzheimer, tanto per essere chiari.
E proprio la concentrazione ossessiva sulla questione della nutrizione e sull’idea che fosse possibile sganciarla dal vincolo rigoroso del principio del consenso informato per la sua natura non terapeutica ha prodotto un paradosso. I medici cattolici, giustamente, evidenziano come nella pratica quotidiana della loro attività il rischio più concreto sia quello dell’abbandono piuttosto che dell’accanimento. Ebbene: la legge, almeno nella sua versione attuale, rischia di aumentare gli spazi di tale abbandono, perché nelle dichiarazioni anticipate sarà possibile esprimersi su qualsiasi tipo di trattamento e rimangono nell’ambiguità i criteri in base ai quali il medico deciderà di seguire o non seguire le indicazioni del paziente.
Chiedere attenzione su questo punto non significa tenere in poco conto il valore dell’autodeterminazione. Significa affrontare il problema vero di una legge di questo tipo.
Il rifiuto consapevole di un trattamento sanitario da parte dell’interessato è un limite invalicabile che il medico non può violare. Si tratta però di un rifiuto che può implicare il lasciarsi morire anche quando il medico è in grado di far guarire e continuare a vivere e a vivere bene.
Ecco perché può essere ragionevole, per tutti quei trattamenti che la scienza medica considera ordinari e proporzionati, chiedere un bilanciamento più prudente – non vincolante – quando manca il requisito dell’attualità della volontà. Senza che ciò comporti il puro e semplice azzeramento di quest’ultima. Affrontare seriamente questo problema e dimostrarsi finalmente capaci di non ridurlo alla dolorosa vicenda di Eluana Englaro potrebbe aiutare a trovare una soluzione più condivisa.
Gli autorevolissimi intellettuali cattolici che hanno proposto su Avvenire un vero e proprio appello al parlamento sostengono che questa legge «va fatta adesso». Eppure è una legge che definiscono «migliorabile». Perché dovremmo rinunciare a farlo?
Controindicazioni di una legge che non fermerà l’eutanasia di Adriano Pessina - 22 marzo 2011 - © FOGLIO QUOTIDIANO

Un recente appello firmato da autorevoli personalità del mondo cattolico ha messo bene in luce i motivi per cui si ritiene urgente, oggi, varare la legge sulle “direttive anticipate di trattamento”. Personalmente condivido i principi ispiratori di quell’appello, e le preoccupazioni che lo animano. Per questo motivo ritengo utile contribuire alla riflessione con qualche ulteriore annotazione. Va precisato che la legge che andrà in discussione ha un titolo molto ampio, che rende ragione di un fatto: al suo interno si collocano articoli che riguardano l’eutanasia, il suicidio assistito, le cure palliative, il fine vita, gli stati vegetativi, l’alleanza terapeutica, nonché, ovviamente, il consenso informato. Ciò che, secondo gli estensori della legge, dovrebbe attraversare questi argomenti è appunto il tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento che un soggetto in grado di intendere e volere può redigere per esprimere dei desiderata rispetto a una situazione in cui non potrà dare il proprio consenso informato a prassi di cura e di assistenza.

Se guardiamo ai motivi che oggi vengono addotti dai sostenitori di questa legge, essi sono riconducibili all’impegno a favore della vita e della salute del cittadino, alla preoccupazione di vietare sia l’eutanasia, sia il suicidio assistito e di ripristinare la cosiddetta alleanza terapeutica. Sono motivi assolutamente condivisibili. Alcuni oppositori di questa legge, che in certi casi coincidono con coloro che per primi hanno caldeggiato, sotto un governo di diverso orientamento politico, l’introduzione del cosiddetto testamento biologico, lamentano le restrizioni poste all’esercizio della volontà del cittadino, chiedono che l’ultima parola non sia lasciata al medico, ma al paziente stesso, contestano l’articolo connesso all’impossibilità di rifiutare in anticipo alimentazione e idratazione e, in alcuni, più rari casi, si spingono a difendere esplicitamente anche l’introduzione dell’eutanasia e del suicidio assistito. Ora, partendo da una piena e incondizionata adesione ai principi ispiratori di questa legge, resta però da chiedersi se davvero si ottenga l’effetto sperato introducendo un riconoscimento giuridico delle direttive anticipate, che già ora potevano essere “prese in considerazione” dai medici (secondo quanto prescritto dal Codice deontologico e dalla cosiddetta Convenzione di Oviedo). A nessuno sfugge che in fondo questa legge consente ciò che già è consentito e vieta quanto è già vietato, lasciando l’ultima parola al medico. Perché allora una legge?

Ora, si dice, questa scelta è dovuta al fatto che con il caso Englaro si è creato un vuoto legislativo di fronte alla cosiddetta magistratura creativa che ha abusato in termini interpretativi delle pretese volontà espresse da Eluana e perciò bisogna chiarire i limiti entro cui la volontà pregressa di un cittadino può essere accolta dal medico e riconosciuta dalla società. Qui, a mio avviso, si colloca però una questione decisiva, che potrebbe capovolgere il disegno della legge stessa. Finora le dichiarazioni non avevano alcun riconoscimento giuridico e perciò l’ultima parola era lasciata al medico, il quale peraltro doveva evitare sia l’accanimento terapeutico, sia ogni forma di eutanasia. Se ci si fosse limitati a chiarire le fattispecie in cui si incorreva in un reato qualora si fosse prestato ascolto a dichiarazioni, spontanee e libere, che di fatto potevano contenere indicazioni atte a indurre comportamenti che potevano essere concausa della morte del paziente, si sarebbe ottenuto l’effetto di rafforzare la tutela della vita umana senza però dare eccessiva consistenza alla volontà pregressa del cittadino, facendo valere un atteggiamento fiduciario nei confronti della medicina e del medico. Ma facendo una legge che, come questa, riferendosi alla Costituzione e al principio del consenso informato conferma in modo autorevole il peso della volontà pregressa del cittadino, si apre facilmente una strada che può portare a stabilire almeno due situazioni non previste, ma prevedibili.

La prima è che, in nome di questo riconoscimento della volontà del cittadino, presente in questa legge, si tenti, ricorrendo ad ulteriore sede giuridica, di togliere i vincoli attualmente presenti e si aprano le porte sia all’eutanasia, sia al suicidio assistito. Non si può dimenticare, infatti, che questa legge non esclude affatto la legittimità del rifiuto di ciò che si può annoverare sotto la voce delle cure, per cui un cittadino, in previsione di trovarsi in uno stato vegetativo, potrebbe rifiutare preventivamente di ricevere degli antibiotici, o di poter usufruire di ossigeno e eventuale respiratore. La legge prevede soltanto che non vengano sospese alimentazione e idratazione. Chi si oppone ai principi ispiratori di questa legge troverebbe in questa impostazione, mi sembra, una breccia per poter dire che se il cittadino ha il diritto di rifiutare delle terapie, a maggior ragione può rifiutare ciò che non rientra nelle terapie.

In seconda battuta, si potrebbe sostenere che, una volta poste delle limitazioni alle scelte del cittadino, non avrebbe senso lasciare l’ultima parola al medico: se, infatti, ciò che si può chiedere è conforme alle legge, non determina alcun reato, risponde al principio per cui ogni trattamento medico richiede il consenso informato, allora non si capisce perché il medico possa poi decidere di seguire o no delle indicazioni scritte e certificate. Detto in altro modo, si potrebbe chiedere di trasformare le “dichiarazioni” in “direttive anticipate”, vincolanti l’operato del medico. Del resto non si capirebbe perché istituire un registro nazionale di pure dichiarazioni che in ogni caso verrebbero valutate dal medico nelle varie situazioni.

Queste brecce presenti nella legge sono dovute al fatto che, sull’onda del caso Eluana, se ne è di fatto seguita la logica. A mio avviso, soltanto indebolendo il valore giuridico delle dichiarazioni anticipate e rafforzando i criteri che permettano di riconoscere e vietare i casi di suicidio assistito e di eutanasia si potrebbe evitare ogni futuro abuso interpretativo delle dichiarazioni stesse, che pure moralmente hanno un loro specifico valore. Se si riconoscono giuridicamente le dichiarazioni anticipate si ottiene lo stesso risultato? Personalmente penso di no.

Chi, come lo scrivente, condivide i principi ispiratori di questa legge, ritiene che il nodo teorico che rende difficilmente praticabile l’auspicata alleanza terapeutica stia proprio nella questione del peso giuridico da attribuire a una volontà non attuale e al venir meno di un quadro generale di fiducia nella medicina e nell’assistenza, minata da un’enfasi irrealistica posta sul principio dell’autonomia e della libertà, che rischia di trovare indiretta conferma in questa legge.

Il dibattito su come scrivere una legge che favorisca l’assistenza e impedisca l’eutanasia è un campo in cui sono legittime diverse interpretazioni e certamente non lo si può trasformare in una prova generale di “consenso”, più o meno informato. Soprattutto è necessario non confondere mai le questioni di fine vita con quelle che riguardano le persone, giovani e meno giovani, che si trovano nelle condizioni di stato vegetativo o di minima coscienza: per loro la vita è un fatto e un fine, e non una fine. Ciò che sicuramente oggi ci è richiesto è quello di valorizzare le buone pratiche mediche e assistenziali che permettono di guardare con fiducia al gesto di affidarsi ad altri quando non saremo più in grado di essere noi il punto di riferimento per noi stessi e per coloro che ci amano. Perché, legge sì legge no, chi non vorrà fissare su un registro pubblico i suoi desideri merita di trovare lo sguardo attento e competente di un medico capace di comprendere il significato della proporzionalità dei trattamenti e della generosa perseveranza terapeutica.
Un testamento sconsigliabile - Accelerazione alla Camera per la legislazione sul modo di morire, di Giuliano Ferrara, Il Foglio del 28 aprile 2011

La lettera di Berlusconi ai deputati è pregevole, ben concepita. Il presidente del Consiglio racconta ai suoi che anche a lui legiferare sul modo di morire improprio e che un’idea metodologicamente liberale delle norme etiche dovrebbe comportare, in una questione che riguarda insieme la tutela della vita e la tutela della libertà di scelta dell‘individuo, il rispetto di una zona grigia in cui la decisione sulle procedure non si irrigidisce e non finisce per appartenere allo Stato, alla legge, allo spazio pubblico. Ma il leader della maggioranza aggiunge che questa discrezione, questa delega pietosa alla singolarità di ciascun caso di umanità e libertà, e impedita dall‘attivismo giudiziario, che si è fatto largo e a suo modo fa norma in aperto spregio di ogni considerazione per i diritti della vita umana, e della cura medica ippocratica. Il caso Englaro insegna.
D’altra parte il conflitto assurdo tra libertà e vita è un segno dei tempi tra i più sinistri, anche a non voler essere profeti di sventura, come li definiva il Papa del rinnovamento conciliare dei cattolici, Giovanni XXIII. Il diritto alla vita e quello alla liberta, inscindibilmente connessi, furono la coppia celebre della nascita del mondo di idee liberale, ma con l'idea contraccettiva dell’amore, di cui le varie forme di aborto (pianificato, libero, forzato) sono espressione ormai moralmente sorda, il divorzio è stato pieno e, in un certo senso, definitivo per la mentalità corrente. Basta leggere la bella intervista di un vecchio saggio come Emanuele Macaluso, che sull'Espresso accanto a tante cose vitali affida poi a un viaggio eutanasico in Svizzera, con elegante noncuranza, la prospettiva della fine dei suoi giorni che per fortuna allontana con le sue scelte di ardente amore per l‘esistenza. Il problema è che mentre una sentenza norma un caso, e solo così diventa precedente giurisprudenziale per fare a suo modo "legge", un testo normativo approvato dal parlamento é materia più difficile. Se preveda l'espressione di una volontà passiva per quando la volontà attiva non sarà più esprimibile, è contraddittorio o discutibile che neghi quella volontà chiaramente definita nei casi dell'idratazione e della nutrizione artificiali. La questione diventa spinosa, consente una dura campagna di delegittimazione della posizione del legislatore e anche del diritto di una maggioranza a schiacciare l`intenzione, sollecitata e formalizzata, del singolo cittadino.
I costituzionalisti e i giudici costituzionali avranno pretesti abbondanti per intervenire, e così, come denunciano non solo quei laici pazzi del Foglio ma anche autorevoli intellettuali e medici cattolici, le Dichiarazioni anticipate di volontà potrebbero trasformarsi nel varco aperto a decisioni eutanasiche. E' inoltre assai dubbio che un referendum sarebbe vinto da chi intende regolamentare l'atto finale di libertà di una persona. Siamo nel tempo della monte esorcizzata, della sua rimozione, e la cultura eutanasica, con la paura di ogni forma di accanimento e il terrore sacro del dolore, darebbe luogo a un dissenso esteso verso norme che “ti mantengono in vita a viva forza".
«Attenti a una cultura che sostiene e approva ogni scelta individuale» di Bruno Dallapiccola, Corriere della Sera, 28 aprile 2011

L‘attuale dibattito riguardo la legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) non deve farci perdere di vista
il contesto nel quale esso si colloca. Se ciò accadesse, non riconosceremmo più i veri valori da affermare, e ci allontaneremo dalle persone che la legge vuol tutelare.
La questione principale, infatti, non e quella dello stato vegetativo persistente, né quella dei life sustaining treatment. I temi sostanziali sono quelli della tutela della vita e quello della relazione medico-paziente e, più in generale, della natura stessa dell'atto medico. Con un duplice rischio: affermare un giudizio sul valore della vita basato su un criterio puramente utilitaristico e sfruttare il principio del consenso informato e la doverosa lotta all'accanimento terapeutico per introdurre di fatto procedure eutanasiche.
Cosi, l'edonismo di matrice utilitarista rafforza l'opzione culturale secondo la quale, in nome dell’autonomia del soggetto, ogni scelta individuale debba essere sempre sostenuta e approvata, Le ricadute educative e sociali di un tale atteggiamento sono già ben percepibili in altri settori della vita civile e si può facilmente immaginare il cortocircuito logico, culturale e giuridico che produrrebbe un ulteriore e grave messa in questione del favor vitae. Non si tratta, dunque, di presidiare o invadere il fine-vita, ma di evitare che, a partire dal caso Englaro, si diffonda un giudizio di disvalore sulle vite più fragili, che finirebbe per causare l'abbandono delle persone gravemente disabili, povere socialmente meno tutelate.
Non bisogna dimenticare, poi, le profonde ripercussioni sul rapporto medico paziente generate dalla «crisi d'identità» della medicina clinica. Questa si ritrova oggi schiacciata tra l'utopia della medicina dei desideri e l'incongruità della medicina difensiva. Nell`una il paziente vede il medico come un tecnico al servizio dei suoi desideri o come un incapace, se non un nemico, quando non li realizza. Nell'altra il medico percepisce la diffidenza del paziente e anziché curarlo al meglio pensa a difendersi da azioni legali contro il suo operato.
In mancanza di una legge sulle Dat, il delicato crinale del fine-vita può far esplodere queste problematiche e snaturare l’atto medico. Ecco perché, pur essendo auspicabile un rapporto di fiducia e di alleanza tra il paziente, i suoi familiari e il medico, sorge la necessita di fissare alcuni punti saldi per garantire adeguatamente tutti i valori in gioco.
Benedetto XVI ci ricorda che «campo primario e cruciale del Ia lotta culturale tra l'assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell'uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale» (Caritas in Veritate 11.74). Il dinamismo della tecnica e la complessità del mondo del mondo moderno vanno governati se si vuol costruire il bene comune. La politica, dunque, nel promuovere lo sviluppo umano integrale, non può sfuggire al suo dovere di legiferare anche in campi precedentemente riservati al solo giudizio di coscienza. La legge sulle Dat appare un punto di equilibrio capace di difendere i più deboli e di chiarire la differenza tra causare la morte e accompagnare, indicando così a tutti che il valore della vita è il presupposto per la stabilità della società e per il godimento di ogni diritto individuale.
Ungheria, aborto «danno sociale». Per Costituzione - Dietro il testo appena approvato la piaga delle interruzioni forzate di gravidanza imposte dal comunismo - di Giovanni Bensi, Avvenire, 28 aprile 2011

Una delle materie più controverse nella discussione sulla nuova Costituzione ungherese è il divieto di aborto, la difesa della vita «a partire dal feto». Questo atteggiamento è stato visto e denunciato dai sostenitori dell’aborto come un «attentato ai diritti della donna», come il prodotto di un «rigurgito clericale» che farebbe arretrare il Paese «al Medioevo». Certamente all’origine del rifiuto dell’aborto vi è l’imperativo di una coscienza cristiana, ma l’atteggiamento intransigente è dovuto anche alle caratteristiche sociali di Paesi come l’Ungheria ed altri dell’Europa orientale, che hanno dovuto subire la politica distorta dei regimi comunisti, dove l’aborto era praticamente quasi la sola forma conosciuta di contraccezione. È semplicemente l’esigenza di riparare a un danno sociale che spinge l’Ungheria alla severità verso l’aborto.
Secondo uno studio demografico ungherese, il numero degli aborti procurati in Ungheria è tre volte più alto che nei Paesi dell’Unione europea nel loro complesso, mentre «negli ultimi 100 anni lo sviluppo familiare in Ungheria ed Europa occidentale aveva mostrato tendenze simili».
Poco dopo la presa del potere da parte dei comunisti, nel 1949, il numero degli aborti era ancora limitato: 1.600 all’anno. Esso andò poi crescendo, anche come una via, per quanto illusoria, di ovviare alla condizioni di miseria in cui viveva la popolazione, fino a raggiungere gli 82.463 casi nel 1956, l’anno della rivolta antisovietica. Dopo la sua repressione, il nuovo regime di János Kádár liberalizzò ulteriormente l’aborto di cui un anno dopo, nel 1957, si ebbero subito 123.400 casi. E questo dato continuò ad aumentare fino al 1969 quando si ebbero 206.817 aborti.
Poi incominciò la discesa fino ai 43.200 casi del 2009. Ma una ricerca del «Programma nazionale di ricerca e sviluppo» ha mostrato che ancora oggi il 40% dei feti concepiti in Ungheria vengono abortiti e che la popolazione ungherese è in calo dal 1981. Una situazione che anche da un punto di vista laico richiede una stretta di freni. Questa situazione ha una corrispondenza nella maggior parte degli altri Paesi ex comunisti, a cominciare dalla stessa Russia. L’Unione Sovietica è stata il primo Paese a legalizzare l’aborto nel 1921. Un’iniziativa vista come una vittoria delle donne nella lotta per la loro liberazione secondo i dettami del marxismo-leninismo.
Ancora oggi, a 20 anni dalla caduta del comunismo, ha accertato Vladimir Kulakov, direttore del Centro scientifico russo di ostetricia e ginecologia, il 60% delle gravidanze in Russia termina con un aborto. Solo la Romania, fra i Paesi ex comunisti, ha più aborti pro capite.
Inoltre circa 6 milioni di donne russe sono sterili (su 38 milioni di donne in età atta a generare) e la autorità sanitarie ritengono che i reiterati aborti siano una «causa importante» di sterilità. Secondo Kulakov, il numero delle donne sterili è destinato a crescere, poiché circa uno su 10 aborti viene compiuto su giovani con meno di 20 anni. I dirigenti russi, il presidente Dmitrij Medvedev in primo luogo, lamentano il costante decremento demografico della Russia: anche questo Paese avrebbe bisogno di una stretta sugli aborti secondo il modello ungherese.
Statisticamente la Romania, il Paese colpito da una delle più dure varianti di comunismo, quello di Nicolae Ceausescu, ha il più alto indice di aborti nel mondo: attualmente 3 gravidanze su 4 terminano con un aborto. È difficile raccogliere dati accurati perché l’aborto è così facilmente accessibile in tutto il Paese, in cliniche sia di Stato che private, ma solo gli ospedali di Stato riportano i dati statistici sull’aborto. In Romania, una nazione con 23 milioni di abitanti, si calcola che vi siano circa 800mila aborti l’anno. Se questa proporzione si applicasse agli Stati Uniti, si arriverebbe a ben 8,5 milioni di aborti all’anno.
Cattivi maestri per un’«etica del suicidio» - Dal «dottor morte australiano» al professore Usa che teorizza di uccidere i neonati disabili: sono gli «ideologi» che anche in Italia hanno trovato spazio di Lorenzo Schoepflin, Avvenire, 28 aprile 2011

Una possibilità meravigliosa», «un diritto umano». Così Ludwig Minelli, presidente di Dignitas, autodefinitosi attivista per i diritti umani, ha descritto il suicidio in un’intervista rilasciata alla Bbc due anni fa. Al convegno dal titolo «Suicidio assistito ed eutanasia, una questione di diritti umani», tenutosi nel luglio 2007 e organizzato dal Partito radicale e dal gruppo dei liberali e democratici dell’europarlamento (Alde), Minelli intervenne ribadendo i medesimi concetti, lamentandosi delle difficoltà per garantire assistenza al suicidio per i malati di mente: «Il problema di come aiutare una persona malata di mente resta irrisolto», disse. In quanto a celebrità, il dottor Nitschke, noto come «dottor morte australiano» e direttore di Exit, un’altra organizzazione che opera a livello internazionale per divulgare le «migliori» tecniche per suicidarsi, non è certamente secondo a Minelli. Nel 2001, Nitschke, a colloquio con una giornalista del National Review Online, si domandò: «Perché gli adolescenti dovrebbero attendere di compiere 18 anni (per avere accesso al suicidio assistito, ndr)?». Oggi Nitschke, con la rete di Exit, diffonde le sue idee in tutto il mondo (suo lo spot tv portato in Italia dai radicali).
Non può sorprendere che il direttore di Exit abbia parlato di Jack Kevorkian, meritatosi prima di lui il soprannome di «dottor morte», come di «un eroe». Kevorkian è il medico di origine armena che nel 1999 fu arrestato negli Stati Uniti con l’accusa di omicidio (aveva praticato un’iniezione letale a Thomas Youk, affetto da malattia neurodegenerativa), dopo che aveva aiutato almeno 130 persone a morire. Interpellato dal Time Magazine nel 1993, che gli chiedeva se la malattia terminale fosse requisito necessario per ottenere l’assistenza al suicido, rispose: «Naturalmente no. E non deve essere neppure dolorosa. Ma la qualità della vita deve essere pari a zero». Minelli, Nitschke e Kevorkian hanno coniugato teoria e pratica. Ma sono probabilmente Peter Singer e H. Tristram Engelhardt coloro che hanno gettato le basi filosofiche moderne per la giustificazione di eutanasia e suicidio assistito, attraverso molti dei loro libri. Con «Ripensare la vita» Singer, professore di bioetica all’Università di Princeton, nel 1994 si propone di elaborare una «nuova morale per il mondo moderno». Tra i tanti passaggi favorevoli ad aborto, eutanasia, suicidio assistito e infanticidio, si può leggere: «Gradualmente impareremo a pensare che, nel caso di malati terminali o incurabili, un corretto esercizio della professione medica comprende anche la pratica dell’eutanasia». In «Etica pratica», del 1997, Singer afferma poi: «Uccidere un neonato disabile non è moralmente equivalente ad uccidere una persona. Molto spesso non è affatto sbagliato. È del 1986 invece «Foundations of bioethics» («Fondamenti di bioetica»), l’opera in cui Engelhardt, professore di filosofia alla Rice University in Texas, afferma che nel «contesto morale laico […] cosa ci sia di moralmente sbagliato nel causare direttamente o nel determinare la morte di un individuo innocente non lo si comprende più». E, più avanti, prosegue: «L’autorità morale può discendere solo dal consenso, dal permesso delle persone coinvolte».
Sono queste le idee a cui si ispirano coloro che oggi in Italia vorrebbero la legalizzazione dell’eutanasia.
Maurizio Mori, presidente della Consulta di bioetica, sull’Unità, in occasione della morte di Eluana, scrisse che «non sempre la vita è buona». La consulta si batte per la legalizzazione dell’eutanasia e nel 1993 produsse un documento in cui se ne affermava la liceità morale. Nel marzo 2009, ancora sull’Unità, Mori e altri firmatari, tra cui il dottor Mario Riccio, coinvolto nel caso Welby, pubblicarono un appello in cui si rivendica «la moralità e la desiderabilità» di eutanasia e suicidio assistito. Interventi di Engelhardt sono ospitati nella rivista pubblicata dalla Consulta. Pochi giorni fa, il Coordinamento laico nazionale, di cui la Consulta fa parte, ha contestato la presenza di Benedetto XVI in tv, con riferimento alla risposta in merito allo stato vegetativo, ribadendo il diritto alla «libertà di scelta».
Per tutelare la vita serve un testo senza ambiguità - Nel confronto alla Camera,e nel successivo passaggio al Senato, c’è spazio per interventi di messa a punto quanto ad aspetti specifici della legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento. Un testo indifferibile, ma che può essere ripulito da qualche possibile «zona grigia», di Alberto Gambino, Avvenire, 28 aprile 2011

Una legge sull’alleanza terapeutica medicopaziente e sulle direttive anticipate di trattamento si rende indifferibile. L’incertezza in materia sta infatti provocando confusione tra medici e inquietudine tra pazienti.
Si pensi soltanto all’ultima decisione della Cassazione di venti giorni fa, con la quale si è stabilito che il medico non debba operare in quei casi-limite che configurano interventi sproporzionati, anche dinanzi a una richiesta espressa del paziente. Con la conseguenza drammatica che, a causa dell’oggettiva difficoltà di valutare quali trattamenti siano effettivamente proporzionati davanti a un quadro clinico estremamente complesso, taluni medici potrebbero finire coll’optare per il non intervento piuttosto che correre rischi di responsabilità risarcitorie. Ed è facile prevedere – per converso – che tale stato di cose porterà all’incremento di denunzie di pazienti e familiari per omissione di soccorso, con l’effetto di aumentare le richieste di risarcimento, questa volta a carico delle strutture sanitarie colpevoli di non avere prestato adeguata assistenza.
Anche per questo, dunque, risulta davvero urgente la promulgazione della legge sulle Dat e sul consenso informato.
Occorre allora mettere definitivamente a punto alcuni aspetti del disegno di legge attualmente pendente alla Camera dei deputati.
Quelli che seguono appaiono profili che meritano particolare adeguamento.
La riconducibilità del fine vita ai soli casi di morte prevista come imminente. L’esigenza di una legge sul fine vita è avvertita in particolare per evitare che si riproducano nel nostro ordinamento vicende come quella di Eluana Englaro, in cui a una paziente giovane, in stato vegetativo persistente – che avrebbe dunque vissuto ancora a lungo – è stata interrotta l’idratazione al fine di provocarne la morte.
Sottesa a tale drammatica scelta vi è la messa in discussione della dignità della vita delle persone in stato di incoscienza prolungata nel tempo. L’attuale disegno di legge, con una serie di affermazioni condivisibili, mira a tutelare la vita umana quale «diritto inviolabile e indisponibile, garantito anche nella fase terminale dell’esistenza e nell’ipotesi in cui la persona non sia più in grado di intendere e di volere» (articolo 1.1, lett. a).
Problematica appare, allora, l’indicazione di due categorie di pazienti, quelli «in stato di fine vita» e quelli «in condizioni di morte prevista come imminente», al fine di prescrivere per ambedue le situazioni l’astensione del medico da alcuni trattamenti (articolo 1.1, lett. f). Con tale distinzione si intende affermare che le situazioni di «fine vita» non coincidano con quelle di «morte imminente», comprendendo nel primo caso proprio situazioni di degenza persistente e presumibilmente irreversibile: perché allora trattarle come quelle di persone che stanno sul punto di morire? Se così fosse, si disattende la motivazione più profonda della legge: evitare che le persone in stato di lunga e, forse, irreversibile degenza postulino minori esigenze di cura rispetto a quelle degli altri pazienti.
Il ruolo sempre e soltanto curativo dei medici e l’inesigibilità di interventi interruttivi di trattamenti salvavita. Il disegno di legge considera chiaramente le attività del medico e di chi assiste le persone «esclusivamente finalizzate alla tutela della vita e della salute nonché all’alleviamento della sofferenza» (articolo 1.1, lett. c). Ora, tuttavia, non è chiarito cosa accadrebbe nel caso di (legittima) revoca, da parte del paziente cosciente e consapevole, rispetto a un trattamento sanitario in atto e, in particolare, se i trattamenti salvavita (tipo il ventilatore artificiale applicato a Welby) siano configurabili come trattamenti vitali (articolo 2.5). In questi casi, infatti, il medico non si limiterebbe a non somministrare più una terapia, secondo i legittimi voleri del paziente, ma opererebbe attivamente il distacco di un presidio salvavita. Essendo il ruolo del medico esclusivamente curativo (come bene espresso nell’articolo 1.1, lett. c), appare coerente specificare che la revoca al trattamento è inefficace quando implichi da parte del medico un atto interruttivo di presidi salvavita.
Il grado qualificato di colpa medica per i trattamenti straordinari. Proprio i princìpi ispiratori della legge, che vedono nel ruolo curativo del medico un pilastro portante, implicano necessità di chiarimenti in ordine alla sua responsabilità, drammaticamente sottolineata proprio dalla sentenza di Cassazione richiamata in premessa. In particolare, per tenere fede all’obiettivo della piena tutela della salute e della vita del paziente e di evitare inerzie o mancati interventi dettati dal timore di responsabilità risarcitorie, occorre chiarire la diversa soglia di responsabilità professionale del medico nel caso in cui si trovi davanti a interventi curativi di straordinaria portata. In questi casi dovrà rintracciarsi, per la punibilità del medico, il più impegnativo elemento della colpa grave.
Il superamento della regola del consenso informato nei casi di pazienti incapaci. In punto di consenso informato espresso da chi ha la tutela del paziente, occorre preliminarmente sgomberare il campo da un equivoco: mentre per il tema delle direttive anticipate di trattamento c’è da sanare un vulnus provocato da una certa giurisprudenza creativa, che, a partire dal caso Englaro, ha legittimato alcune forme di testamento biologico, diverso è il tema del consenso informato (che riguarda, dunque, la persona in stato di coscienza) rispetto al quale l’attuale giurisprudenza, in tema di incapacità legale del paziente, non arriva definitivamente ad assegnare un ruolo di sostituzione delle decisioni del malato in capo ai soggetti che ne hanno la tutela (tantomeno all’amministratore di sostegno come invece intende l’articolo 2.6 del progetto di legge). Il disegno di legge introduce quale regola generale "innovativa" che tutti i trattamenti siano somministrati soltanto a seguito della manifestazione del consenso anche con riguardo ai soggetti incapaci, per mezzo di loro rappresentanti legali (articoli 2.6 e 2.7). Tale regola non può però assurgere a principio assoluto, che rischia di "burocratizzare" il consenso informato, trasformandolo in un meccanismo formale, la cui assenza, in caso di incapacità del paziente, finirebbe coll’impedire al medico di agire in tutti i casi di urgenza oggi pacificamente consentiti dal codice deontologico (secondo il quale, il medico deve agire – anche contro la volontà del rappresentante legale – se vi è «grave rischio per la salute» dell’incapace e non soltanto se vi è «pericolo di vita» per «evento acuto» o «grave complicanza» come prevede in modo riduttivo l’articolo 2.9).
Gli strumenti di tutela effettiva per impedire prassi di abbandono terapeutico degli incapaci. Ancorché il disegno di legge preveda che la decisione di tutore, amministratore di sostegno e genitore sia comunque volta alla «salvaguardia della salute» del soggetto incapace (articoli 2.6 e 2.7; finalità cui è tenuto, nel testo della Commissione, anche il personale sanitario, articolo 2.8) potrebbero, tuttavia, verificarsi in concreto casi di diniego del consenso da parte del soggetto che ha la tutela, configurabili come illeciti civili, se non penali, ma che comunque non consentono di per sé al medico di attivare i trattamenti adeguati. Per scongiurare tali zone grigie, senza tutela effettiva, occorre allora chiarire che i casi di inerzia e di inadempimento dei soggetti legittimati a esprimere il consenso, tali da attivare l’obbligo di segnalazione al pm da parte del medico, al fine di ottenere l’autorizzazione giudiziaria (una puntualizzazione in tal senso è opportuna all’articolo 8.3), comprendono anche il dissenso che appaia contrastare con la tutela della vita e della salute del paziente.
Il colpo di mano dell’«amministratore di sostegno» - Sicuri che una legge non serve, o che può attendere? Nel vuoto normativo attuale, a fissare regole con possibili effetti eutanasici non ci sono solo le sentenze del caso Englaro ma anche i decreti dei tribunali che hanno deformato  una figura giuridica alla quale viene ora attribuita l’autorità  di negare al paziente terapie salva-vita, di Ilaria Nava, Avvenire, 28 aprile 2011

Da qualche anno a questa parte si sono verificati casi di persone che hanno voluto esprimere in via anticipata i trattamenti a cui volevano o non volevano sottoporsi attraverso la nomina di un amministratore di sostegno. Si tratta di una figura introdotta con la legge 6/04 che prevede che «la persona che, per effetto di un’infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare». La legge stessa prevede che «l’amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata».
Ad esempio, con il decreto depositato il 5 novembre 2008 il giudice tutelare di Modena ha accolto la richiesta di un uomo che, ancora in buone condizioni di salute, ha chiesto di nominare la moglie «proprio amministratore di sostegno», ossia «garante delle sue volontà di fine vita», in caso di malattia invalidante. Le volontà da lui espresse prevedono che «l’individuato amministratore di sostegno potrà, in suo nome e avvalendosi di una già ottenuta autorizzazione del Giudice tutelare, negare il consenso a praticargli determinate terapie», in particolare «rianimazione cardiopolmonare, dialisi, trasfusione, terapia antibiotica, ventilazione, idratazione o alimentazione forzata e artificiale, in caso di malattia allo stato terminale, malattia o lesione traumatica cerebrale, irreversibile e invalidante, malattia che lo costringa a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione».
Lo stesso tribunale pochi mesi prima aveva già provveduto ad accogliere la richiesta di una donna affetta da una malattia neurodegenerativa, che aveva chiesto di nominare il marito amministratore di sostegno. La donna aveva lasciato per iscritto la propria volontà di rifiutare le terapie e il giudice, nell’accogliere tale domanda, specificò che tale intenzione avrebbe dovuto essere autorizzata anche in casi «rispetto a quali il Giudice si formi il convincimento, sulla base di elementi probatori convincenti, che la complessiva personalità dell’individuo cosciente era nel senso di ritener lesiva della concezione stessa della sua dignità la permanenza e la protrazione di una vita vegetativa». Un’affermazione, quest’ultima, che si ispira chiaramente a quanto stabilito dalla Cassazione nel 2007 con la sentenza Englaro, dove in mancanza di volontà scritte si è interpretato lo stile di vita e la personalità di Eluana per dedurne la volontà di morire. L’ultimo caso è quello del gennaio scorso, in cui il Tribunale di Firenze ha accolto il ricorso di Franco Santoni, un cittadino in piena salute che attraverso la moglie, nominata dal tribunale suo amministratore di sostegno potrà in futuro esercitare il diritto a far valere il suo biotestamento.
Ma questi sono solo tre dei diversi casi – almeno una decina – in cui i giudici hanno sancito la legittimazione della figura dell’amministratore di sostegno quale interprete ed esecutore delle volontà in caso di perdita della coscienza, autorizzando di fatto qualsiasi forma di rifiuto dei trattamenti sanitari, anche se espressa in anticipo e fuori contesto. Un rischio che la legge in via di approvazione alla Camera cerca di arginare, prevedendo forme certe (e quindi con esclusione, per la ricostruzione della volontà del soggetto, di «eventuali dichiarazioni di intenti o orientamenti espressi dal soggetto al di fuori delle forme e dei modi previsti dalla legge») e margini di valutazione per il medico che non è considerato mero esecutore delle volontà del paziente ma professionista la cui azione è volta alla cura della persona in dialogo con il fiduciario.
Avvenire.it, 28 aprile 2011 - Il «compleanno» di Angelo, abortito - Un anno un soffio di Lucia Bellaspiga

Oggi sarebbe un bambino di un anno. Lo avrebbe compiuto proprio il giorno di Pasqua, se la sua vita non fosse stata considerata un "errore", una svista, un increscioso incidente. Perché Angelo, venuto al mondo il 24 aprile di un anno fa, non era un neonato, era un aborto. Eppure, nato per "caso", piangeva e sgambettava come gli altri, almeno finché ha avuto fiato.

Accadeva all’ospedale di Rossano Calabro, dove Maria (nome d’invenzione) si era recata a interrompere una gravidanza già molto avanzata, troppo perfino per la legge 194, secondo la quale dopo tre mesi l’aborto è vietato a meno che per la madre non sussista un pericolo di morte o nel suo bambino non vi siano anomalie tali da costituire «un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna». Se poi il feto è già così formato da poter avere vita autonoma, come ormai era Angelo, la legge restringe ancora più il campo: niente aborto se la madre non è in gravissimo pericolo di vita. E comunque dopo l’intervento quel bambino-a-tutti-gli-effetti va salvato.

Quale terribile anomalia, allora, aveva Angelo, se un medico del dipartimento di salute mentale di Cosenza ha valutato un «grave pericolo per la psiche» di sua madre? Anzi, poiché il piccolo, giunto alla sua ventiduesima settimana, poteva ormai avere vita autonoma anche fuori dal ventre materno, di cosa stava morendo la sua mamma, al punto da costringere i medici a sacrificare quel figlio ormai formato? Angelo aveva una palatoschisi, più nota come labbro leporino, imperfezione risolvibile con un piccolo intervento. Per quel labbro difettoso un medico con un colpo di penna lo ha declassato da figlio ad aborto, ed entro la sera del 24 aprile a «rifiuto speciale»: è tra gli altri rifiuti dell’ospedale che è stato dimenticato, in una ciotola di metallo gelato, e non più guardato nemmeno da chi – sempre per legge – avrebbe dovuto accertarne la morte, anzi, salvarne subito la vita. Lo hanno gettato senza un’occhiata, e lui in quella ciotola ha trascorso al freddo e al buio la sua prima notte sulla terra, senza sentire mai il calore di una mano o ricevere una goccia di latte. Per ventiquattr’ore ha pianto e sgambettato invano, come gli altri neonati fanno sotto gli occhi innamorati di chi li ha messi al mondo, finché a sentire il vagito non sono stati il cappellano dell’ospedale e una dottoressa. Inutile la corsa all’ospedale di Cosenza.

«Supponevamo una morte certa», si sono difesi i sanitari di fronte agli inquirenti, mentre i risultati dell’autopsia affondavano anche l’ultima speranza: se avesse ricevuto le cure attribuite a tutti i neonati prematuri, sarebbe vissuto. Ma Angelo non era un neonato, era soltanto un aborto.
Storia di un anno fa, d’accordo. Ma in questo tempo di Pasqua di Resurrezione, che è anche il suo compleanno, chiediamoci: in un anno che cosa è cambiato in Italia, il Paese in cui vige la legge 194, perché questo orrore non avvenga più? Si può almeno pretendere che la norma, comunque amara e triste, sia davvero applicata tutta? La comunità scientifica stabilisce che alla ventiduesima settimana le probabilità di vita nei bambini abortiti sono già buone e la Regione Lombardia nel 2008 decise di applicare la legge concretamente, indicando in 22 settimane e tre giorni il limite oltre il quale l’aborto è vietato se la vita della madre non è in estremo pericolo.

Ma alcuni medici hanno fatto ricorso contro l’atto della Lombardia, e in gennaio il Tar ha dato loro ragione (erano rappresentati da Vittorio Angiolini, il legale di Englaro per la morte di Eluana). «Il feto non soffre fino alla ventiquattresima settimana – ha sentenziato l’associazione Consulta di Bioetica, dando per scontato ciò che Angelo, con la sua morte lenta, sconfessa ancora oggi minuto dopo minuto –. L’autonomia del feto è una favola astratta costruita ad arte da chi opprime i deboli e gli svantaggiati...». Debole e svantaggiato, Angelo gridava inascoltato la sua caparbietà di vivere, e questa non è una favola.

Molti nostri medici ogni anno si recano in Africa a operare i bambini nati con palatoschisi, poi come prima cosa insegnano loro a fare le bolle di sapone, perché il soffio con il labbro leporino è un gioco impossibile. Angelo oggi avrebbe soffiato sulla prima candelina.
Siamo quasi in 7 miliardi Avremmo dovuto essere in 9 di Colin Mason e Steven W. Mosher *, 28-04-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it

Il numero degli abitanti della Terra sta mandando in subbuglio i media. A un certo momento dell’ultima tranche dell’anno in corso o al più all’inizio del prossimo – la data esatta è ancora un po’ vaga – al mondo vi saranno contemporaneamente, per la prima volta nella storia, sette miliardi di persone.

Per gli opinionisti progressisti è l’occasione per versare fiumi d’inchiostro.
National Geographic si è preso lo spazio dell’intero anno solare per mettere sotto esame critico l’aumento demografico, dando la stura a un’infinità tra articoli, filmatini azzimati e servizi fotografici allarmistici sui presunti disastri della “sovrappopolazione” prossimi venturi, e il livello di allerta di numerose organizzazioni è già posizionato sulla modalità panico totale.

Persino in un recente convegno dell’American Association for the Advancement of Science, accantonata ogni obiettività scientifica e abbracciata la “scienza-spazzatura”, ci si è messi a intonano i consueti peana contro la crescita esponenziale della popolazione mondiale e l’impatto che essa esercita sull’ambiente. E così, a poche ora dalla conclusione del simposio, su Internet è divampato l’incendio dei titoli shock: se Yahoo News affermava che Nel 2050 il pianeta potrebbe essere “irriconoscibile”, il quotidiano Teheran Times si chiedeva angosciato Riuscirà l’umanità a reggere una popolazione di più di 10 miliardi di persone? (all’attenzione del giornale sembra essere  peraltro sfuggito il fatto che, grazie alla campagna di sterilizzazione organizzata nel Paese per volere degli ayatollah, in Iran le nascite sono oggi inferiori a quelle necessarie a mantenere il livello demografico attuale).

Ma il Population Research Institute la vede diversamente. Mentre nel secolo scorso la popolazione mondiale andava quadruplicando, l’aumento delle persone ha costantemente voluto dire aumento della prosperità. Oggigiorno gli esseri umani sono più ricchi, più sani e meglio educati che mai. E la percentuale delle persone ancora intrappolate nella povertà continua a decrescere.

Quel che sul serio ci preoccupa per il futuro non è dunque un numero di bambini troppo grande, bensì un numero troppo piccolo. I tassi della natalità umana stanno infatti crollando in tutti i continenti. Non solo, cioè, i numeri della popolazione terrestre non si raddoppieranno mai più, ma è pure probabile che non andremo mai nemmeno granché oltre i più o meno 8 miliardi di abitanti.

Ovviamente, senza l’aborto avremmo già toccato quota 8 miliardi di esseri umani sul pianeta.

Peggiori di qualsiasi tribù primitiva, infatti, noi moderni abbiamo sviluppato la cattiva abitudine di uccidere la nostra stessa prole, e di farlo a ritmi impressionanti.

Come afferma il più recente rapporto stilato dall’Alan Guttmacher Institute, ogni anno nel mondo si praticano 42 milioni di aborti volontari. Analogamente, il rapporto 2011 del think tank Planned Parenthood afferma che nel passato recente il numero degli aborti è stato ancora più alto: «Fra 1995 e 2003 il numero degli aborti procurati è sceso nel mondo da 46 milioni ad approssimativamente 42. Nel mondo circa una gravidanza su cinque finisce in aborto».

Ma la questione vera è che in realtà non sappiamo affatto se questi numeri siano affidabili. Dopo tutto, il Guttmacher Institute non ha modo di ottenere statistiche accurate relative a molti Paesi dove i tassi di aborto sono assai elevati. Il solo governo cinese impone alle donne del Paese tra i 10 e i 14 milioni di aborti l’anno. Il totale dell’aborto mondiale potrebbe insomma essere ben superiore ai 42 milioni stimati dalla fonti succitate.

Ammettiamo però che il Guttmacher Institute sia tutto sommato corretto, e così proviamo a fare qualche facile conticino. Al ritmo di 40 milioni di aborti l’anno, impiegheremmo solamente 25 anni per eliminare un miliardo di persone.

Dato che il businesss dell’aborto è iniziato sul serio solo attorno agli anni 1960, ciò significa che a tutt’oggi abbiamo più o meno eliminato il doppio secco di quella cifra, vale a dire circa due miliardi di esseri umani non ancora nati.

Riflettiamoci sopra.
Nel corso dell’ultimo mezzo secolo, dimessamente e senza fanfare, nelle città così come nei paesi più normali, e in decine di Paesi del globo, sono stati uccisi qualcosa come due miliardi di bambini. Bambini morti senza nome, spesso senza che nessuno li ambia pianti e riconosciuti come tali solo a volte.

Il secolo XX è stato violento in tutte le forme possibili. 37 milioni di persone sono state uccise durante la Prima guerra mondiale. Più di 60 milioni sono morte nella Seconda. Sei milioni di ebrei e altri sei milioni di cattolici sono deceduti nei campi di sterminio hitleriani. 20 milioni sono stai ammazzati per mano della autorità sovietiche. 65 milioni sono state eliminate dal Partito comunista cinese e altri 42 milioni sono morte di fame durante il Grande balzo in avanti voluto da Mao. E via di questo passo.

Ma tutti quei numeri impallidiscono di fronte alla cifra inequivocabile dei bambini che sono stati soppressi in quello stesso mezzo secolo.

È questo, cioè, il gigantesco evento demografico che davvero rileva. Mentre il genere umano si appresta dunque a celebrare, probabilmente in autunno, il settemiliardesimo bambino della Terra, varrebbe la pena di ricavare un minuto per ricordare il miliardo o due di bimbi che invece sono caduti - e ancora continuano a cadere - vittime dei coltelli degli abortisti.

Riposino in pace.



(traduzione di Marco Respinti)

* Colin Mason è direttore del settore media del Population Research Institute di Front Royal, in Virginia, di cui Steven W. Mosher è presidente.