martedì 31 maggio 2011

Senza Sesso

 I nostri sogni? Li decide una scossa elettrica di Enza Cusmai - articolo di martedì 31 maggio 2011 - © IL GIORNALE ON LINE S.R.L

Sono le oscillazioni cerebrali durante la fase Rem del sonno a determinare se e cosa si ricorderà al risveglio. Il cervello, quando dormiamo, è in grado di "trattenere" le fantasie piacevoli, scartando quelle sgradevoli
È tutta una questione di elettricità, altro che segni del destino. Quante volte ci alziamo al mattino «storti» per aver fatto un brutto sonno? E quante di buon umore per aver rievocato una vecchia fiamma o una persona cara scomparsa che ci regala dei numeri da giocare al Lotto, non si sa mai?
Se la risposta è tante volte, allora avete una modulazione elettrica della corteccia cerebrale molto attiva. Ma se la risposta è che ricordate i sogni poche volte, non demoralizzatevi, rientrate nella norma. Luigi Ferini Strambi, direttore del Centro di medicina del sonno del San Raffaele di Milano spiega che «tra i 50 e i 70 anni si ricordano mediamente 4-5 sogni al mese». E, secondo l'esperto, è meglio così. «A volte è preferibile non ricordarli, perché spesso sono brutti e sarebbero ricordi negativi». Dunque, meglio che alla mente emergano solo sensazioni piacevoli, per cominciare la giornata in modo positivo.
Ma attenzione, non c'è nulla di fatalistico nel ricordare quello che la nostra psiche mette a fuoco di notte. I sogni notturni, infatti, si ricordano solo in presenza di precise oscillazioni elettriche del cervello, le stesse che permettono di immagazzinare i ricordi veri. Lo ha scoperto uno studio pubblicato dal Journal of Neuroscience messo a punto dal dipartimento di Psicologia della Sapienza e dell'Associazione Fatebenefratelli per la Ricerca in collaborazione con i ricercatori delle università dell'Aquila e Bologna. Lo studio ha dimostrato che le persone ricordano il sogno appena prima del risveglio solo se la corteccia cerebrale presenta oscillazioni elettriche lente (onde theta), durante la fase Rem del sonno. Gli esperti hanno dimostrato che si tratta dello stesso meccanismo che si riscontra anche in stato di veglia per la cosiddetta memoria episodica, fenomeno già noto agli studiosi: «Quando si chiede a una persona di ricordare fatti e situazioni - spiega Luigi De Gennaro, coordinatore della ricerca - la presenza di specifiche oscillazioni elettriche nelle aree frontali rende possibile il ricordo. Se questo non accade, la memoria dell'evento apparentemente sarà perduta per sempre». C'è dell'altro. Il ricordo di un sogno dipende anche dal momento in cui ci si sveglia. «Durante il sonno abbiamo una frequenza di fasi Rem non rem - spiega Ferini Strambi - La fase Rem è quella collegata all'attività onirica ed è presente soprattutto nella parte finale della notte, quindi verso il mattino». Dunque, se ci svegliamo subito dopo la fase Rem, ci ricordiamo il sogno, se invece prima di svegliarci facciamo 10 minuti di sonno non rem, allora cancelliamo la capacità di ricordare il sogno. E chi si sveglia all'alba o in piena notte è favorito rispetto a chi si alza tardi al mattino.
«Questa ricerca - precisa Ferini Strambi - dimostra che per ricordare il sogno, al di là della fase in cui ci si risveglia, è importante che nella corteccia cerebrale ci siano delle oscillazioni lente dell'attività elettroencefalografica che trattiene la memoria del sogno». Ma non tutti siamo uguali in fatto di sogni. Le oscillazioni lente cerebrali possono variare come quantità a seconda del soggetto: chi ne ha molte ha più memoria e ricorda più sogni. Anche gli smemorati però sognano tutte le notti e questo meccanismo psicofisico è importantissimo perché, spiega Ferini Strambi «è una sorta di filtro che pulisce le nostre emozioni».

Un'oncologia da galantuomini

Trapianti: donatori viventi, il Sole24Ore 31 maggio 2011



Trapianti, la ricetta di Fazio


Guida al consenso informato



MEDICINA/ L’ossigeno risolve il "giallo" delle apnee notturne di Daniele Banfi - martedì 31 maggio 2011 – il sussidiario.it

Dormire, lo sappiamo bene, non è solo un modo per riposare il corpo, ma anche l’unico metodo che abbiamo per non sovraffaticare il nostro cervello. Il requisito fondamentale, però, è dormire bene. Quante volte ci siamo alzati la mattina mentalmente più spossati di quando ci siamo coricati? Spesso la ragione, soprattutto in estate, la attribuiamo al caldo o alla cena troppo pesante. In alcuni casi, però, il fastidio può essere continuo. Un fastidio alle volte silenzioso ma che, dati alla mano, è in grado di causare dei veri e propri deficit cognitivi.
Questo è il caso delle persone che soffrono di apnee notturne ostruttive. Secondo uno studio pubblicato dalla rivista American Journal of Resipratory and Critical Care Medicine, opera di un team in cui figurano anche i ricercatori dell’Ospedale San Raffaele di Milano, chi soffre di apnee notturne ha delle modificazioni strutturali a livello del cervello con conseguenti possibili deficit cognitivi. La ricerca apre, però, una speranza: utilizzando un particolare trattamento che prevede la somministrazione di ossigeno è possibile curare il danno.
La caratteristica principale delle apnee ostruttive è il temporaneo arresto del respiro, che può durare anche molti secondi, mentre la persona è comodamente nel letto a dormire. Questo genere di disturbo è conseguenza di diversi fattori come il sovrappeso, la conformazione del palato e la deviazione del setto nasale. Quando si dorme la muscolatura delle vie aeree si rilassa causando l’avvicinamento delle pareti che rivestono il canale dove passa l’aria che respiriamo.
L’avvicinamento non è dannoso, ma, se associato ai difetti elencati precedentemente, può raggiungere un livello tale da far letteralmente attaccare tra loro le pareti causando la temporanea ostruzione. Nel mondo si stima che circa il 2% delle donne e il 4% degli uomini soffra di questo disturbo. Percentuale che sopra i 40 anni raggiunge il 15%.
Nello studio appena realizzato si è evidenziato che nei pazienti che soffrono di apnee notturne gravi possono insorgere non solo dei deficit neurocognitivi, ma anche modificazioni della struttura della sostanza grigia cerebrale. In particolare sono stati studiati 17 pazienti affetti da apnee notturne ostruttive in forma grave e 15 individui sani di pari età e scolarità.
La valutazione neurologica è stata effettuata sia attraverso test neuropsicologici sia con risonanza magnetica funzionale. Successivamente le persone sottoposte al test sono state trattate con una terapia specifica chiamata Cpap. Questa tecnica prevede la somministrazione di ossigeno per via nasale durante le ore di sonno. Dopo tre mesi di trattamento le prestazioni cognitive si sono normalizzate e la sostanza grigia a livello dell’ippocampo e delle regioni frontali è ritornata al suo normale volume.
Come dichiara il professor Luigi Ferini Strambi, primario del Centro di Medicina del Sonno dell’Ospedale San Raffaele Turro di Milano e coordinatore dello studio, «i risultati di questa ricerca non solo evidenziano che il problema dell’apnea ostruttiva del sonno (Osa) va oltre la sonnolenza diurna, ma sottolineano anche l’importanza di un trattamento specifico del disturbo per normalizzare i deficit cognitivi di cui spesso il paziente non è consapevole. Inoltre, la terapia che garantisce una maggiore continuità del sonno e un miglior livello di concentrazione di ossigeno nel sangue, sembra modificare positivamente anche la struttura della sostanza grigia cerebrale».
Resta ora da chiarire un punto: la tecnica utilizzata è in grado di far “ricrescere” la corteccia cerebrale perché migliora il sonno o perché migliora l’ossigenazione del cervello stesso? I ricercatori sono già all’opera per risolvere il dilemma.
© Riproduzione riservata.
J'ACCUSE/ La Francia uccide gli embrioni e la libertà del medico di Filippo Vari - martedì 31 maggio 2011 – il sussidiario.net

Dopo mesi di dibattito l’Assemblea nazionale francese è sul punto di approvare una nuova normativa in tema di bioetica. Il progetto contiene norme che violano il diritto alla vita e suscitano una vivace e grave discussione: tra di esse la disposizione che consente, sia pure in casi particolari, di svolgere attività di ricerca - anche distruttiva - su embrioni concepiti in vitro mediante procreazione artificiale, che non formano più oggetto di un “projet parental”.
Il paradosso della norma è evidente. Si consente la sperimentazione solo sugli embrioni prodotti in vitro, implicitamente ammettendosi che quelli concepiti in vivo siano uomini. Ma qual è la differenza tra i primi e i secondi? L’uomo, sia pure concepito artificialmente, è ridotto a strumento rispetto al fine della ricerca, a oggetto, secondo una prassi - per riprendere l’analisi di Habermas, ne Il futuro della natura umana - “di reificazione” “oscena” che finisce per trasformare, ulteriormente stravolgendola, “la percezione culturale della vita umana prenatale”.
Altra norma al centro delle polemiche è quella che stabilisce che, nel corso della visita, il medico abbia l’obbligo di proporre alla gestante lo svolgimento di esami al fine di valutare la salute del concepito. La disposizione ha una chiara impronta eugenetica, ordinando uno screening sistematico di tutta la popolazione, in controtendenza rispetto al codice civile francese, che sancisce, invece, il divieto di “toute pratique eugénique tendant à l'organisation de la sélection des personnes”.
Nonostante tale divieto già oggi in Francia il 96% dei bambini con la trisomia 21 (cosiddetta sindrome di Down) è eliminato prima della nascita.
La nuova norma che l’Assemblea potrebbe introdurre - oltre a costituire una violazione della libertà di coscienza del medico e dei suoi obblighi deontologici - dà vita a una grave discriminazione, giacché essa sottende l’ingiusta idea che la vita di un malato valga meno di quella di una persona sana. Tornano, così, alla mente le parole di un grande giurista del secolo scorso, Francesco Carnelutti, il quale, sia pure ad altro proposito, sessant’anni or sono, criticamente annotava: anche “se un malato vale meno di un sano, a fortiori la vita, anche di un malato, vale qualcosa mentre la non vita non vale nulla. E questo, badiamo, non è un gioco dialettico ma il riconoscimento della più alta verità: a prescindere dalle possibilità sempre maggiori di guarire (… su cui ci si impegnerà sempre meno, visto che vi è un rimedio - terribile, nda - che consente di risolvere il problema con minor sforzo) per chi non confonde il male col morbo e col dolore, proprio la vita d’un malato può raggiungere le vette più alte: se Leopardi fosse stato un atleta, mancherebbe, assai probabilmente, al mondo una delle sue bellezze più pure”.
© Riproduzione riservata.

lunedì 30 maggio 2011

Terapie alternative, l’unica certezza è il business Il settore cresce più di qualunque altro comparto nella sanità, e ha ormai superato i 50 miliardi di euro di giro d’affari in tutto il mondo di Catia Barone – La Repubblica - Affari & Finanza, del 30 maggio 2011 di Catia Barone

L'ipnosi per dimagrire, la meditazione contro il dolore, pediluvi in grado di assorbire le tossine dall'organismo, gioielli e cristalli curativi, olio di serpente. E poi aghi, infusi, massaggi, pietre e magneti per combattere la depressione, lo stress e altri malesseri. Dove la medicina convenzionale non riesce a dare risposte, siamo disposti ad abbracciare qualsiasi tipo di trattamento pur di guarire. A raccontarlo è la storia, con le terapie a base di sanguisughe, salassi, erbe e radici di ogni genere. A dimostralo sono le innumerevoli soluzioni alternative sul mercato che rendono la medicina non convenzionale un business. In alcuni Paesi oltre la metà della popolazione ricorre a rimedi alternativi in una forma o nell'altra: si stima che con oltre 50 miliardi di euro di spesa globale annua sia il settore in crescita più rapida della medicina (Trick or treatement? Alternative Medicine on Trial, 2008, di Simon Singh e Edzard Ernst). In base al Rapporto Eurispes 2010 gli italiani che fanno uso di medicine non convenzionali sono passati dal 10,6% del 2000 al 18,5 dell'anno scorso con 11,1 milioni in tutto, ma secondo altre stime la quota si avvicina al 25%, una buona fetta dei circa 100 milioni di affezionati europei. La terapia complementare più diffusa, secondo l'Istat, è l'omeopatia (7%) seguita da osteopatia e chiropratica (6,4%), fitoterapia (3,7%) agopuntura (1,8 %). Solo per i prodotti omeopatici siamo il terzo mercato in Europa, dopo Francia e Germania, con un fatturato annuale di circa 300 milioni di euro (dati Eurispes, Omeoimprese).
Non è semplice orientarsi nella medicina complementare e alternativa. E ancor meno identificare quali rimedi siano davvero efficaci e quali semplici placebo, che funzionano solo grazie a buone strategie di marketing. C'è un uomo che ha dedicato tutta la sua vita professionale a far luce su queste zone in ombra, sottoponendo le terapie non convenzionali a test scientifici, come quelli obbligatori per tutti gli altri farmaci, con l'intento di verificarne la validità: è Edzard Ernst, il primo professore al mondo di medicina complementare ma anche il suo più attento critico. Nel corso di ben 18 anni Ernst e il suo gruppo di ricercatori del Peninsula Medical School in Inghilterra, hanno eseguito studi clinici e pubblicato più di 160 metaanalisi (una metaanalisi è una tecnica statistica per estrarre informazioni da serie e blocchi di prove che non avrebbero di per sé affidabilità statistica).
Non parla a nome della lobby farmaceutica, tiene a chiarire: il professore ha riassunto le sue conclusioni nella Guide to Complementary and Alternative Medicine. I risultati sono da brivido: il 95% dei trattamenti esaminati in campi come l'agopuntura, la fitoterapia, l'omeopatia e di riflessologia sono risultati statisticamente indistinguibili da trattamenti placebo. Solo nel 5% dei casi i ricercatori ne hanno riscontrato l'efficacia (l'erba di San Giovanni, per esempio, può aiutare persone affette da depressione lieve mentre l'artiglio del diavolo per i dolori muscoloscheletri). Le conclusioni del professore sono nette: «L'agopuntura funziona quasi solo per la nausea, la chiropratica per alcune forme di mal di schiena; l'omeopatia non è plausibile e non è riuscita a dimostrare di esserlo dopo due secoli e quasi 200 studi clinici; la fitoterapia offre certamente alcuni rimedi interessanti, ma quelli dubbi, sconfessati e addirittura pericolosi che si trovano in commercio sono di gran lunga più numerosi».
In un altro libro, Trick or treatement? Alternative Medicine on Trial, Ernst riporta i risultati delle sue analisi con casi concreti. Incrociando gli studi a disposizione, il professore ha rilevato una scarsa efficacia dei rimedi fitoterapici a base di mirtillo per le malattie degli occhi, le vene varicose, la flebite e i dolori mestruali, così come quelli a base di timo per la bronchite e di vischio per il cancro. Quanto alle candele auricolari, lungi da eliminare il cerume dalle orecchie, lascerebbero invece secondo Ernst un deposito ceroso che prima non c'era, e poi sono state riscontrate ustioni, occlusioni del canale uditivo, perforazioni del timpano. Nessuna controindicazione, ma solo effetto placebo, per i Fiori di Bach, ovvero degli infusi di piante estremamente diluiti e mirati a curare squilibri emotivi, usati per un’infinità di malattie. Identica conclusione, ovvero effetto placebo, per le diverse forme di guarigione spirituale come le preghiere d'intercessione, il tocco terapeutico, il sistema di guarigione di Johari, il reiki, addirittura gli incantesimi per guarire le verruche praticati in certe zone della Gran Bretagna 8dove per la medicina alternativa si spendono 350 milioni di sterline l’anno). Particolarmente dura l’analisi per la pranoterapia, e in generali per i casi in cui ci sarebbe una non meglio precisata energia curativa incanalata nel corpo del paziente dal guaritore. E pericolosa viene definita la medicina ortomolecolare, l’uso in alte dosi di vitamine o minerali per prevenire il tumore.
Non è finita. Ernst ritiene potenzialmente nociva e del tutto priva di prove scientifiche l'ossigenoterapia, cioè l'applicazione diretta o indiretta di ossigeno o ozono al corpo umano utilizzata da alcuni per trattare una varietà di malattie, compresi il cancro (contro il quale ci sono anche inutili terapie a base di vischio), l'aids, le infezioni, le malattie cutanee, i problemi cardiovascolari e reumatici. Stesse conclusioni per l'idrocolonterapia (ovvero l'uso di clisteri per ripulire l'organismo via rettale) nell'ambito delle cure disintossicanti usate nella medicina alternativa. Tra le terapie più discutibili, la magnetoterapia: «Oggi il mercato mondiale dei magneti ammonta ad oltre un miliardo di dollari all'anno – scrive il professore e comprende braccialetti, solette da scarpe, collane, guanciali: i fabbricanti vantano le proprietà terapeutiche dei magneti sistemati vicino al corpo per la cura di vari disturbi come accelerare la guarigione di fratture, migliorare la circolazione sanguigna, alleviare il dolore, ma rigorose ricerche condotte sulla magnetoterapia non suffragano alcuna di queste affermazioni». E poi c'è chi ricorre alla cristalloterapia, l'uso di cristalli come quarzo o altri minerali allo scopo di "curare l'energia", ma anche a tecniche diagnostiche alternative, spesso costose, che possono portare a diagnosi erronee. Insomma, rimedi da prendere in considerazione ma con cautela e senza dimenticare di consultare il medico.
Gli occhi si curano con le staminali di Marco Crescenzi - Il Secolo XIX del 30/05/2011

Negli ultimi anni abbiamo sentito parlare spesso delle cellule staminali e della possibilità di sviluppare avveniristiche terapie grazie ad esse Molte volte si è discusso polemicamente, perché alcuni tipi di queste specialissime cellule possono essere derivate solo da embrioni umani. I ricercatori, d'altra parte, hanno sempre insistito sulla necessità di condurre ricerche sulle cellule staminali, sostenendo che rappresentano l'unica possibilità conosciuta di realizzare tecniche terapeutiche altrimenti impensabili. A onor del vero, è sembrato che per molti anni questo campo si nutrisse più di meravigliose prospettive che di promesse mantenute, ma una recente notizia contribuisce fortemente a modificare questa percezione.
Ricercatori giapponesi hanno dimostrato che è possibile coltivare cellule staminali embrionali di topo, in condizioni semplici da ottenere, che le sono portano a costituire una perfetta retina, la parte più nobile dell'occhio, quella che riceve la luce e ne trasmette i segnali al cervello.

La scoperta è avvenuta per caso e ha lasciato tutti senza parole, i suoi autori per primi.
Non si pensava infatti possibile che una struttura delicata come la retina potesse formarsi spontaneamente in laboratorio al di fuori di un embrione in via di sviluppo. È facile immaginare con quale meraviglia, invece, gli sperimentatori si sono accorti che i gruppetti di cellule staminali identiche fra loro con cui lavoravano erano in grado di dare origine a tutte le diverse cellule che compongono la retina. Non solo: si disponevano spontaneamente a formare i diversi strati cellulari di cui la retina è composta e l'intricata rete di connessioni che li congiunge fra loro. Una reazione incredibile esattamente come se le stesse cellule avessero formato una struttura complessa come un dito o un orecchio.

Al di là dei suoi aspetti esclusivamente scientifici, pure estremamente importanti, il potenziale terapeutico di questa scoperta è notevolissimo. La maggior parte delle cecità non curabili, infatti, è dovuta a grave danno, degenerazione o distruzione della retina.
Poiché la parte più delicata ed importante di quest'ultima è composta da neuroni, cioè cellule che non si dividono, non esiste la possibilità di rimpiazzare le cellule retiniche perse. In linea di principio, dunque, il recente risultato dovrebbe consentire di effettuare trapianti di retine già perfettamente formate, ricostituendo così la capacità visiva di persone cieche o che si avviano a diventarlo. Ogni problema è risolto, dunque? Certamente no. In primo luogo, le cellule utilizzate dai ricercatori giapponesi sono di topo. Bisognerà vedere se lo stesso risultato è ottenibile a partire da cellule staminali umane. Sebbene sia lecito essere ottimisti circa la possibilità di trasferire questa tecnica all'uomo, l'esperienza ci insegna che la ricerca si scontra spesso con ostacoli imprevisti, che possono tenerla in scacco per anni. C'è poi la difficoltà sull'origine delle cellule: ottenere quelle staminali embrionali richiede di solito la distruzione di uno o più embrioni, cosa che molte persone considerano inaccettabile.

Questo ostacolo è però ora aggirabile: grazie ad un'altra eccezionale scoperta giapponese, da pochi anni è infatti possibile ottenere in laboratorio cellule staminali con le stesse caratteristiche di quelle embrionali, a partire da cellule dell'adulto, per esempio della pelle. Questo elimina ogni dilemma etico, ma rimane ancora un problema: le cellule staminali, di qualunque origine, hanno una certa tendenza a formare tumori proprio a causa delle loro speciali caratteristiche. I ricercatori dovranno dimostrare con molta chiarezza che è possibile produrre retine che non contengano più alcuna cellula staminale, ma soltanto cellule che si trovano normalmente nell'occhio.
Questa dimostrazione è difficile da ottenere con il rigore richiesto dalle applicazioni alla terapia umana. Ci vorrà quindi del tempo, non è possibile precisare quanto, prima che le scoperte di oggi si tramutino nelle grandi terapie di domani. I risultati degli scienziati giapponesi aprono comunque le porte a possibilità sinora insperate, non solo nel campo della terapia dell'occhio, ma in ogni settore della medicina in cui sia necessario ricostruire strutture complesse.
Indicano anche che il potenziale delle cellule staminali non è solo un frutto della fantasia dei ricercatori ma che, dati tempi e investimenti sufficienti, può davvero condurci a scoperte entusiasmanti e a terapie rivoluzionarie.
Dal Parkinson a Ebola la carica dei super vaccini 'È la nuova frontiera' La Repubblica, 29 maggio 2011 — di Corrado Zunino

ROMA - I vaccini rappresentano la nuova frontiera della medicina di massa. Nella farmacologia contemporanea gli studi che si occupano della prevenzione hanno ormai superato - per il numero delle ricerche, per le risorse impiegate - i lavori sugli antibiotici e in generale sulla medicina tradizionale. Gli ultimi convegni pubblici e privati hanno messo in evidenza come oggi allo studio ci siano 144 vaccini, un impegno scientifico che somiglia a un boom. Si stanno mettendoa punto rimedi preventivi per pandemie come l' Aids, contagi mai sconfitti come la malaria, la Dengue, il virus Ebola. Si annunciano vaccini contro almeno quattro tipi di tumori e malattie degenerative come l' Alzheimer e il Parkinson. Si studia in laboratorio, per dire, una molecola contro lo streptococco aureo resistente alla meticillina (Mrsa), uno dei batteri più pericolosi per le infezioni ospedaliere. Ma con i vaccini del futuro prossimo si curerà l' obesità, si potrà smettere di fumare. Ecco, questa è la novità: non serviranno solo contro le malattie infettive, gli antidoti immunogeni saranno sempre più utilizzati contro patologie non legatea virus e batteri. In Gran Bretagna sono oltre mille i pazienti coinvolti nella fase 3 della sperimentazione del vaccino contro il tumore del pancreas. «Al contrario della ricerca sugli antibiotici, che langue in tutto il mondo, quella sui vaccini è in forte espansione e il settore si avvia a diventare il principale dell' industria medica», spiega Paolo Bonanni, docente di Igiene generale e applicata dell' Università degli studi di Firenze. Alla Tuft university school of medicine di Boston si sta mettendo a punto un inibitore preventivo in grado di bloccare lo sviluppo e la diffusione del papilloma virus umano (hpv), responsabile di una larga parte di tumori. Un rapporto del centro ricerche specializzato Kalorama international, che ha raccolto le sperimentazioni più promettenti fra le 144 in corso nel mondo, ha rivelato che oggi in fase 3 ci sono vaccini contro il virus dell' herpes, molecole che proteggono dal diabete di tipo 1, da alcune allergie e persino dalla dipendenza dal fumo. Se si estende la ricerca alla fase 2 il rapporto cita come promettenti gli studi sulla sclerosi multipla, le epatiti C ed E e l' ipertensione. Spiega il professor Bonanni: «Non tutti porterannoa risultati positivi, ma di sicuro tra qualche anno l' arsenale a disposizione contro le malattie sarà molto più nutrito. C' è da combattere, va detto, un atteggiamento negativo nei confronti dei vaccini dovuto alla disinformazione che corre su Internet e a un' attenzione parossistica da parte dei genitori a qualunque effetto collaterale: gli effetti sono infinitamente minori rispetto alle malattie che prevengono». Il 60% delle ricerche si sta realizzando in Europa e in Italia sono state sviluppate molecole per prevenire l' epatite C e due tipi di tumori (melanoma e linfoma di Hodgkin), oltreché il vaccino Tat contro l' Hiv realizzato dall' Istituto superiore di sanità, l' unico nel mondo ad aver iniziato la fase 2 della sperimentazione. Il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, sostiene: «La strada da perseguire contro l' Aids è quella dei vaccini, consentono ai pazienti una qualità di vita positiva». Bill Gates, secondo finanziatore dell' Organizzazione mondiale della Sanità dopo gli Stati Uniti, a Ginevra ha detto, applaudito, che con i vaccini si potranno salvare fino a dieci milioni di vite umane da qui al 2020: «I governi devono accrescere i loro investimenti nei vaccini e le società farmaceutiche devono fornirli a prezzi accessibili per i paesi poveri: oggi si può porre fine alla poliomielite». Su scala italiana, Giovanni Mario Salvino Burtone, membro della XII Commissione Affari sociali della Camera, dice: «I vaccini contro la meningite devono essere gratuiti in tutto il paese». 

Comunicazione dell'errore al paziente


Aids - La prevenzione? Nei comportamenti

Cassandra aveva ragione: ma se fossimo tutti Cassandre il mondo non andrebbe da nessuna parte. - Fonte: la Repubblica, di Angelo Aquaro N.Y., 30 maggio 2011

Per questo siamo tutti ottimisti per natura: anche chi è così pessimista da nasconderselo. Non è un mito: è scienza. La scienza dell'ottimismo che proprio nell'annus horribilis di tsunami e alluvioni - per tacere della recessione - scoppia improvvisamente di salute. Libri. Studi. Inchieste. Tranquilli: non è l'ennesima moltiplicazione di opinabilissimi psicologi. Il mondo ci appare rosa perché così ha deciso nel corso della nostra milionaria evoluzione l'unico demone a cui dobbiamo davvero - nel bene e nel male - obbedienza assoluta: il cervello. Finalmente abbiamo le prove: quella fotografia particolare che si chiama risonanza magnetica e ricostruisce il gran da fare della nostra corteccia cerebrale. È l'area che si sviluppa dietro alla fronte e che in quel primate da primato chiamato uomo è molto più grande che tra i cuginetti più pelosi. È l'area formatasi più recentemente: quella che sovrintende alle funzioni del linguaggio e dell'individuazione di uno scopo. Ed è qui che - adesso si scopre - si nasconde anche il segreto della positività.

L'insostenibile leggerezza dell'ottimismo è stata messa in discussione per anni dagli scienziati che spingono invece dall'altra parte: "Optimism Bias" contro "Pessimism Bias". Bias è una parolina pericolosa che in inglese ha un significato biforcuto: come quel farmacon che già nell'antica Grecia voleva dire "droga" e "medicina". Bias vuol dire "pregiudizio" ma anche "influenza". E "The Optimism Bias" si chiama il libro di Tali Sharot che il settimanale Time ha celebrato con un'inchiesta di copertina. Sharot è una neuroscienziata che lavora tra gli Usa e l'Inghilterra. Ma la scienza dell'ottimismo ha varcato da tempo i confini delle neuroscienze. The Rational Optimist è il titolo con cui l'esperto di evoluzione e genetica Matt Ridley racconta perché il mondo è destinato a inseguire - malgrado quello che siamo tentati di pensare - le sue magnifiche sorti e progressive. E il futuro in rosa ha conquistato perfino due economisti come Manju Puri e David T. Robinson che hanno dato forse la definizione più colorita ma efficace del mistero. L'ottimismo è come un buon bicchiere di vino rosso: un bicchiere al giorno fa bene ma una bottiglia potrebbe essere pericolosa.

La cosa più curiosa è che la superiorità "genetica" dell'ottimismo - il fatto cioè che si sia dimostrato più utile all'evoluzione e per questo è uscito vincente nella furiosa battaglia della selezione - è paradossalmente dimostrata dall'esistenza del meccanismo appunto opposto: il pessimismo. La fotografia della corteccia cerebrale segnala l'attività che si configura soprattutto in due aree: l'amigdala e la corteccia cingolare anteriore. La prima è responsabile delle emozioni. La seconda delle motivazioni. Gli studi e le "foto" dimostrano che l'attività e l'interconnessione tra queste due aree aumentano nelle persone più ottimiste: mentre diminuisce in quelle più depresse. L'equazione tra depressione e pessimismo non deve trarre in inganno. "La gente depressa tende a essere più precisa nella previsione del futuro: vede il mondo così com'è" scrive Sharot. Che conclude: "In assenza di questi meccanismi neuronali, che generano l'irrealistico ottimismo, gli esseri umani sarebbero tendenzialmente più depressi". Eccolo dunque il segreto: quei meccanismi neuronali che ci portano a vedere il mondo non com'è realmente ma come vorremmo che fosse. Insomma quelle vituperate "lenti rosa" della tradizione popolare: senza le quali resteremmo rinchiusi nel nostro grigiore.

Il nostro innato ottimismo è tradito anche dalla statistica. Uno su dieci crede di poter vivere fino a cent'anni. La realtà è molto meno rosea - la percentuale è dello 0,02 per cento: ma perché non provare a crederci? Gli americani, che sono culturalmente più ottimisti di tanti altri popoli, riducono addirittura a zero la percentuale di probabilità di divorzio: ma questo nel momento in cui si sposano, quando cioè scommettono su una scelta che cambia la vita. In realtà, dagli anni '60 a oggi la percentuale dei divorzi è passata dal 5 al 14 per cento. Confermando l'aforisma di Samuel Johnson: il matrimonio come trionfo della speranza sull'esperienza.

Proprio l'incapacità della maggioranza di intravedere il baratro su cui si affaccia ha portato però Nassim Taleb a elaborare la teoria del "cigno nero": l'avvenimento così altamente imprevedibile da essere conseguentemente ineluttabile. La risposta di Taleb - che l'altra sera ha riassunto la sua teoria all'Istituto italiano di cultura di New York - è pedagogica. Di fronte all'ineluttabile imprevedibile l'unica difesa è la riduzione del danno: quindi l'allargamento delle opzioni di scelta. Taleb è filosofo ma anche investitore: arricchitosi - alla vigilia della recessione che ottimisticamente nessuno aveva voluto prevedere - scommettendo su tavoli multipli. Cigno nero contro lenti rosa: chi ha ragione?

La verità è che troppo ottimismo stroppia: portandoci appunto a sbagliare calcoli. Lo dice anche Tali Sharot elencando le banalità che ci fanno male. Il check-up medico? Non servirà. La crema solare? Precauzione inutile. Eppure per progredire l'uomo ha bisogno di ingannarsi: un altro mondo è possibile. Quanta retorica sull'esperienza e la necessità di non dimenticare? Tutto giusto. Eppure proprio lavorando sui superstiti dell'11 settembre gli studiosi hanno scoperto quegli straordinari meccanismi che Sigmund Freud aveva già chiamato di rimozione: e che la moderna neuroscienza spiega individuando l'area dell'ippocampo. È quella parte del cervale fondamentale nella costruzione dei meccanismi della memoria: ma anche nella costruzione del futuro. E gli ultimi studi hanno dimostrato che il nostro sistema non è disegnato per rivolgersi al passato: ma per partire da qui (dall'esperienza appunto) per elaborare mappe del futuro. Ecco perché dopo appena 11 mesi i ricordi dei superstiti di Ground Zero erano accurati solo al 63 per cento. Il sistema cancella ricordi (negativi) per fare spazio all'elaborazione del futuro (positivo).

Non solo. Malgrado i cigni neri l'ottimismo sarebbe un meccanismo così forte da influenzare i mercati finanziari: con il boom che naturalmente può trasformarsi in bolla. Benedetto De Martino è un studioso che ha lavorato anche con Tali Sharot ma è più orientato a scoprire i meccanismi motivazionali che agiscono per esempio nel capo finanziario. "Il nostro cervello produce continuamente credenze per conseguire azioni particolari. E le azioni sono frutto di scelte che non sono mai neutre". Ottimismo e pessimismo si sfidano su questa scena. E la finanza è uno di quei mondi in cui davvero l'ottimismo può determinare il futuro. "Le nozze di Kate e William hanno risollevato, anche se di poco, la sterlina sull'euro". La gente "ci crede" e la sterlina va davvero su perché la domanda di un prodotto tiene alto il prezzo. Poi, certo, avrà ragione la solita Cassandra. Ma intanto l'economia s'è data una mossa.
Nuovi studi: importanza della famiglia e problemi per i figli delle coppie di fatto -  27 maggio, 2011, da http://www.uccronline.it

Mentre gli atei razionalisti esultano per ogni divorzio in più (cfr. Ultimissima 30/7/10), la società sta tornando a schierarsi sempre di più a favore della famiglia, pietra angolare della comunità umana e principale strumento di benessere degli individui.

L’importanza della famiglia, rivela l’agenzia Zenit.it, emerge anche in un recente rapporto sulle famiglie dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) afferma che «le famiglie forniscono identità, amore, attenzione, un ambiente per la crescita e lo sviluppo dei loro membri e costituiscono il nucleo portante di molte strutture sociali». Il rapporto, intitolato “Doing Well for Families”, riconosce inoltre che la povertà è in aumento per le famiglie di quasi tutti i Paesi membri dell’OCSE ed invita i Governi ad adottare politiche di sostegno, sopratutto verso la procreazione (oggi la media attuale di figli per donna è 1,7).

Un secondo studio, valutato su un ampio campione di famiglie nel Regno Unito, è stato pubblicato dall’Institute of Social and Economic Research dell’Università di Essex. Tra le conclusioni figurano anche questi due punti: sulla base di una serie di fattori indicativi, risulta che le persone conviventi sono significativamente meno felici nel loro rapporto rispetto alle persone sposate, i figli che vivono con un solo genitore sono meno propensi a dirsi del tutto felici della loro situazione.

Nel commentare un terzo studio, pubblicato negli Stati Uniti dall’ente di ricerca Child Trends dal titolo “Parental Relationship Quality and Child Outcomes Across Subgroups”, Elizabeth Marquardt, redattrice del sito Internet FamilyScholars.org, ha spiegato che esaminando le tabelle e le statistiche dello studio, i figliastri hanno una probabilità doppia, rispetto ai figli che vivono con i propri genitori sposati, di sviluppare problemi comportamentali. La problematicità è ancora superiore per i figli che vivono con una coppia di fatto, i quali presentano una probabilità tre volte superiore di avere problemi. Queste macrodifferenze sono confermate anche per altre categorie come i rapporti sociali e la condotta a scuola.

Un quarto studio, realizzato dal dr. John Gallacher e David Gallacher della Cardiff University’s School of Medicine, pubblicato sulla rivista BMJ Student e apparso anche in sintesi sul quotidiano Independent, ha preso in esame la questione se il matrimonio sia un bene per la salute: «Il dato di fondo è che, dal punto di vista medico, il gruppo che presenta la maggiore longevità è quello degli sposati», ha afferamto il dr. Gallacher. Secondo anche questo studio, i figli che vivono con la sola madre presentano maggiori problemi comportamentali rispetto a quelli che vivono con due genitori, e questi problemi peggiorano con ogni rottura di un rapporto e instaurazione di uno nuovo.
NEUROSCIENZE/ L’arte del cervello che riconosce la bellezza di Nadia Correale, lunedì 30 maggio 2011, il sussidiario.net

Le neuroscienze possono costituire un punto di vista che ci permette di comprendere meglio l’arte e la nostra percezione estetica? Il neurologo Stefano Cappa - ospite nella seconda serata del ciclo di incontri sulle neuroscienze organizzata dal Centro Culturale di Milano, dal titolo: “Percezione, memoria e bellezza” - sostiene di sì e lo afferma non solo in qualità di Direttore della Divisione Neurologica della Fondazione San Raffaele, ma anche a partire dalla sua passione per l’arte. L’importante è non ridurre la produzione artistica, e ciò che essa suscita in noi, alle conoscenze ottenute sfruttando i metodi neuroscientifici.
In base a essi, spiega Cappa, due sono gli approcci possibili. Il primo, il cui principale esponente è il neurofisiologo inglese Semir Zeki, consiste nel concepire il complesso processo della visione non disgiungibile dal significato dell’espressione artistica; motivo per cui occorre conoscere bene il primo per comprendere appieno il secondo. In base a questo punto di vista, vengono studiate le modifiche della produzione artistica in correlazione alle patologie di natura cerebrale dell’artista: lesioni o malattie progressive come l’Alzheimer.
In molti casi, da parte di persone affette da demenza fronto-temporale, si evidenzia perfino uno sviluppo di espressività artistiche che prima non si possedevano. L’ipotesi di Cappa è che le distorsioni o alterazioni nelle forme e nelle dimensioni di molte immagini corporee presenti nell’arte possano rappresentare un riverbero di particolari esperienze interiori degli artisti; infatti, chi è affetto da determinati disturbi psicologici, come la bulimia o l’anoressia, è indotto a percepire una falsa immagine del proprio corpo.
Un altro approccio possibile dal punto di vista neuroscientifico è quello che va a indagare la risposta estetica del cervello, la sua reazione fisica al “potere delle immagini” (è il titolo di uno dei libri più noti su questo tema, del neurologo David Freedberg). Esso si basa sulla recente scoperta di particolari neuroni, definiti “a specchio”, che si attivano non solo se il soggetto osserva un’azione motoria, predisponendolo a copiarla, ma anche in presenza di semplici immagini e quindi di opere d’arte.
Ad esempio, si è riscontrato che la visione di una statua classica ingenera l’attivazione delle aree frontali e parietali, dove hanno sede questi neuroni; inoltre, se la statua è ben proporzionata, l’insula - ossia quella parte della corteccia cerebrale più nascosta ove convergono e si integrano informazioni provenienti sia dall’esterno che dall’interno - si attiva di più; tale effetto è stato definito di canonicità.
Si è osservato che se un’immagine è bella si attiva di più l’amigdala (un’area coinvolta nei sistemi di memoria emozionale), se è brutta si attiva di più la corteccia motoria. Secondo studi portati avanti dallo stesso Cappa, confrontando il comportamento del cervello sottoposto alla visione delle statue con quanto avviene di fronte a dei giocatori di rugby, si è riscontrata la presenza di un’attivazione specifica, posizionata anch’essa nell’insula di destra. Quest’area potrebbe perciò rappresentare la sede dell’esperienza estetica. Inoltre, in questo caso il lobo temporale superiore è più sollecitato, mentre non si riscontra l’effetto di canonicità.
Il secondo relatore, Giovanni Maddalena, Docente di Filosofia Teoretica presso l’Università del Molise, ha spiegato l’incidenza del pensiero ipotetico sull’atto creativo, caratteristica essenziale di qualsiasi espressione artistica. Secondo questa prospettiva la creatività si qualifica come un genere di razionalità non sistematico e non deterministico, suscitata da eventi nuovi che costituiscono degli indizi preziosi in quanto predispongono il soggetto a considerare nuove ipotesi, nuove vie possibili diverse da quelle già collaudate.
È quanto emerge sfruttando un metodo logico di tipo abduttivo, introdotto dal logico-matematico Charles S. Peirce. Esso si distingue nettamente sia dal metodo deduttivo - secondo cui il punto di partenza è la legge generale e che di per sé non esplicita da dove possano sorgere le nuove scoperte - sia da quello induttivo, il quale, partendo da singoli casi osservati, è incapace di fornire leggi generali. In sostanza, consente di non sottovalutare tutti quegli aspetti non definibili o formalizzabili, eppure presenti, che permettono a un uomo - che sia un ricercatore, che sia un’artista, che sia una persona comune - di orientarsi in modo ragionevole nelle proprie scelte artistiche o nell’ideazione di ipotesi creative e libere attraverso l’interpretazione dei segni circostanti, che altrimenti non avrebbero alcun significato.
© Riproduzione riservata.

sabato 28 maggio 2011

28/1/2010 – MEDICINA - Cellule della pelle trasformate direttamente in neuroni - L'esperimento non ha richiesto il passaggio dalle cellule epiteliali a celule staminali - Copyright ©2011 La Stampa

WASHINGTON
Nuova speranza nel campo della medicina rigenerativa. Un gruppo di ricercatori di Stanford, scrive Nature, è riuscita a trasformare nei topi semplici cellule epiteliali direttamente in neuroni senza la necessità di ricorrere a staminali di alcun tipo.

L'esperimento potrebbe un giorno consentire di prendere campioni di pelle e trasformarle in tessuti su misura per trapianti o per trattare malattie degenerative del cervello come Parkinson o Alzheimer, o riparare il midollo spinale.

«Questo studio rappresenta un grosso passo avanti», ha spiegato Irving Weissman, direttore dell' Istituto della Biologia delle Cellule Staminali e la Medicina Rigenerativa dell'Università di Stanford in California. In precedenza oltre a ricorrere alle staminali embrionali, che avevano forti implicazioni etiche, si era riusciti a far regredire cellule epiteliali in staminali e poi a trasformarle in altri tessuti. Con questa nuova tecnica si salta il passaggio intermedio.

Secondo quanto riportato da Nature i ricercatori hanno usato “tre geni” per ottenere la mutazione da cellule epiteliali in quelle nervose, battezzandole “cellule neuronali indotte”, “in grado di replicare le funzioni di quelle autentiche”.

Semplicemente «abbiamo indotto un tipo di celula a diventare un altro tipo completamente differente», ha spiegato il dottore Marius Wernig coordinatore dello studio. L'equipe di Stanford punta ora a replicare l'esperimento sull'uomo anche se tutto è molto più delicato.

Resta comunque un grosso svantaggio: «Le nuove cellule ottenute saltando un passaggio al momento non si moltiplicano e non vivono a lungo come le staminali». Wernig crede comunque che «trovando il giusto cocktail di fattori di trascrizione (quei geni che dicono cosa fare agli altri) si potrà trasformare qualsiasi cellula in ciò che si vuole». 

Bagnasco: cattolici, unità sul terreno dei valori irrinunciabili


«Time» e la Chimica dell' Ottimismo se la Felicità diventa una Scienza di Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 27 maggio 2011

Lo scrittore francese Georges Bernanos (che per di più era un fervente cattolico) diceva che l' ottimismo «è una falsa speranza a uso dei vili e degli imbecilli». Ora una copertina di Time ne fa un oggetto della scienza: «La scienza dell' ottimismo, un tempo disprezzata come una provincia sospetta di retorica, sta aprendo una nuova finestra sul funzionamento della coscienza umana». In realtà, il nostro cervello non sarebbe solo modellato proustianamente sul tempo passato e sulla memoria, ma sulle aspettative per l' avvenire. Dunque se riusciamo ad attivare quella piccola area cerebrale che stimola il pensiero positivo verso il futuro, allora siamo a cavallo: la scienza ci salverà da ogni sorta di depressione, malinconia, prostrazione e raggiungeremo un livello di speranza che ci permetterà di tirare avanti senza cadere nei buchi neri che ci riserva quotidianamente la vita. «Studi recenti - dice l' articolo di Tali Sharot - dimostrano che un malato di cancro pessimista ha più probabilità di morire entro otto mesi rispetto a uno ottimista». Gli scienziati ci avevano già rassicurati, qualche anno fa, sulla non coincidenza tra denaro e benessere psichico: i soldi non danno la felicità, del resto, lo dicevano già le nostre nonne. Gli americani e i giapponesi non vivono più contenti degli africani: anzi, il consumo non produce altro che insoddisfazione. Il quoziente intellettivo, l' educazione, la cultura non procurano effetti diversi. L' età? Tantomeno. Quanti sono i ventenni infelici? Non certo meno dei settantenni. Il lavoro sicuro? La fama? Neppure per sogno. E allora? Allora forse, come suggerisce uno scienziato forse più ragionevole anche se altrettanto prestigioso, Jonathan Haidt, sarebbe meglio abbassare l' asticella e accontentarsi di un equo benessere: che non può abitare solo nel cervello, ma nelle relazioni con gli altri, con il mondo, oltre che con le proprie attività e aspirazioni. Un equilibrio che certamente la nostra società (quella del capitalismo cinico, con i suoi dislivelli scandalosi, e della pubblicità che promette senza mantenere) non favorisce. E poi, se avesse ragione il grande scrittore Kurt Vonnegut nel sostenere (lo ricordava Goffredo Fofi in una recente intervista) che i maggiori ottimisti del Novecento sono stati Hitler e Stalin? 

In crescita i trapianti, ma i donatori invecchiano

Sos fertilità. Wwf: veleno nei cibi

Basta tecniche, si torni agli affetti

Aborto minorenni - pillola del giorno dopo

Aborto minorenni

La piaga sempre aperta dell'aborto minore, Gianfranco Marcelli, Avvenire

venerdì 27 maggio 2011

Avvenire.it, 27 maggio 2011 - LA VITA FRAGILE - Aborto, la ferita nascosta delle minorenni di Antonio Maria Mira

L’aborto delle minorenni è un fenomeno «sempre di preoccupanti dimensioni». Ma anche quello clandestino è tutt’altro che scomparso. Malgrado i pochi casi scoperti. Anzi, come segnalano vari procuratori, «l’esiguo numero di procedimenti non rifletterebbe la reale portata del fenomeno, che si presume invece essere diffuso e praticato anche in strutture sanitarie private, e riguarderebbe in misura sempre maggiore donne extra-comunitarie». È il doppio allarme lanciato dal Ministero della Giustizia nell’annuale «Relazione al Parlamento» che affronta i fenomeni degli aborti clandestini e di quelli delle minorenni autorizzati dal giudice.

Ma vediamo i numeri. I procedimenti penali aperti presso le Procure nel 2010 per violazione della legge 194 sono stati 199 e le persone indagate 293. Il dato più alto dal 1995 dopo i 208 procedimenti del 2009. Il 46,7% dei casi è stato al Nord, il 20,1 al Centro, il 21,6 al Sud e l’11,6 nelle Isole. Secondo una tendenza di questi anni, come segnala il Ministero, è «marcata l’incidenza degli stranieri».

Lo scorso anno «la percentuale sul totale delle persone iscritte presso le Procure è stata del 33,9%; tale incidenza risulta essere piuttosto elevata, soprattutto se si pensa che la popolazione straniera residente al 1° gennaio 2010 costituisce solo il 7% circa dell’intera popolazione». Ma se si restringe l’analisi alle sole persone che hanno commesso delitti di tipo esclusivamente doloso (il vero e proprio aborto clandestino), l’incidenza sale addirittura al 55,2%.

Passando al tema delle minorenni, troviamo che sempre nel 2010 sono state 1.233 le richieste di autorizzazione all’aborto da parte di donne al di sotto dei 18 anni, il 47% al Nord, il 25 al Centro, il 22 al Sud e il 7 nelle Isole. Numeri che non accennano a diminuire. Erano state infatti 1.186 nel 2009. Come segnala il Ministero (sono queste le «preoccupanti dimensioni»), siamo di fronte quindi a una media dal 1989 a oggi di circa 1.300 richieste all’anno. E queste – lo ricordiamo – sono solo una parte degli aborti delle minorenni, quelli per i quali la ragazza si rivolge al giudice in mancanza dell’assenso dei genitori. Se, infatti, consideriamo invece anche i casi che vedono i genitori consenzienti arriviamo a più di 4.000.

Ma torniamo agli aborti illegali e, soprattutto, alla crescente presenza delle immigrate. Due i motivi. «Secondo alcuni procuratori una parte degli stranieri coinvolti non è a conoscenza dei meccanismi socio-amministrativo-sanitari e penali della legge. Per ovviare almeno in parte a questa carenza informativa, essi propongono di adeguare i consultori pubblici in relazione al loro attuale bacino di utenza, ormai cambiato dal ’75 anche a causa del rilevante fenomeno dell’immigrazione». Ma poi c’è quella parte di stranieri «operante in ambienti di per sé malavitosi» che «violerebbe intenzionalmente la legge penale, istigando e favorendo l’aborto clandestino.

Questo si verificherebbe in prevalenza nell’ambiente della prostituzione per eliminare gravidanze indesiderate, e le investigazioni, anche a causa delle condizioni di assoggettamento e di omertà proprie di questo tipo di ambiente, risultano spesso difficoltose». Ma altri procuratori denunciano come molti fatti «rimangano nascosti, anche perché gran parte delle forze di Pubblica sicurezza viene impegnata su altri fronti investigativi, quale ad esempio quello della criminalità organizzata, soprattutto al Sud».

Particolarmente gravi le analisi del Ministero sul fenomeno degli aborti delle ragazze: «L’ambiente in cui si trovano le minorenni che maturano la terribile decisione è in genere abbastanza desolante, essendo spesso caratterizzato da gravi disagi all’interno della famiglia, soprattutto di tipo sociale (genitori separati, o in conflitto tra loro o con la stessa figlia) oltre che economico, dalla mancanza di dialogo e, a volte, anche dalla salute precaria di uno dei due genitori».

Non basta: anche «i rapporti con il padre del concepito sono quasi sempre molto labili e a volte del tutto occasionali». Tutto ciò, denuncia il Ministero, «fa sì che la minorenne, anch’essa quasi sempre senza lavoro, non riesca a trovare in definitiva un sostegno morale né materiale». Dunque aborto come frutto del degrado sociale? Non solo. «Vi sono anche casi – si legge ancora – in cui la minorenne vive in un contesto socio-familiare positivo, caratterizzato anche da buoni rapporti con i genitori.

Malgrado ciò, la ragazza non adduce espressamente nessun motivo particolare per voler abortire se non quello di rifiutare categoricamente il figlio avvertendolo semplicemente come un peso. Anche la possibilità di poterlo disconoscere sembra venire rifiutata a priori, quasi intendendo voler cancellare in modo radicale il problema senza nessuna possibilità di riesaminarlo per trovare una qualche soluzione». Situazione senza uscita? No. «Queste minorenni appaiono ferme e decise nel loro triste proposito ma, considerato il contesto positivo in cui vivono, sembrerebbe che un consiglio da parte dei genitori potrebbe forse aiutarle a ponderare maggiormente il problema».

Ed è proprio quello che manca. Più del 60% delle ragazze non consulta nessuno prima delle decisione, il 37 solo la madre, e meno dell’1 entrambi i genitori. Il motivo? Soprattutto «timore» ma anche «mancanza di dialogo» e «conflitti tra gli stessi genitori».

giovedì 26 maggio 2011

La mia salute riguarda tutti. Lo dice la Costituzione di Emanuela Vinai - La vita di ciascuno è interesse della collettività: basta leggere (senza omissioni) l’articolo 32 della nostra Carta fondamentale per capire che non c’è spazio nella legislazione italiana per autorizzare l’autodeterminazione assoluta. Perché nessuna azione ha conseguenze solo per chi la compie E la difesa del più debole trascende sempre il singolo - Avvenire, 26 maggio 2011

Qual è il rapporto tra il diritto dell’individuo e l’interesse della collettività? Come si pone la tutela del valore della vita nei confronti dell’autodeterminazione del singolo, specie nel momento della sua massima fragilità? In attesa che riprenda la discussione alla Camera della legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat), e alla luce di quanto ricordato lunedì dal cardinale Angelo Bagnasco nella prolusione all’assemblea della Cei, è opportuno evidenziare alcuni punti essenziali del dibattito. Il tema è di complessa definizione; per dipanarlo al meglio abbiamo interpellato un giurista, un medico e una bioeticista: tre diverse prospettive per focalizzare un’indagine a tutto campo.
Partiamo da una premessa necessaria: il rilievo della vita come fatto non solo privato, ma di interesse collettivo, così come delineato nell’articolo 32 della nostra Costituzione, non trae le sue radici dalla concezione della vita del singolo propria dei regimi totalitari, ma, anzi, da un contesto di carattere solidaristico. Lo spiega Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale all’Università Cattolica di Milano: «Il rispetto della vita costituisce il presidio del mutuo riconoscimento tra gli individui umani come uguali – spiega –. I diritti umani fondamentali non sono una concessione dello Stato. Non sono attribuiti, ma riconosciuti, perché connaturati all’esistenza umana». Da questo presupposto discende il fatto che «la tutela della vita e della salute è un bene di interesse generale, perché soltanto nel momento in cui l’organizzazione giuridica garantisce il soggetto, la vita è tutelata».
La vita di ciascuno quindi è interesse di tutti, e la tutela del più debole e del più fragile è tutela di un valore più generale che trascende il singolo. Nessuna azione, pertanto, ha conseguenze solo per chi la compie. «Non c’è autonomia dell’individuo se non in relazione con l’altro – riflette dal canto suo Marianna Gensabella, professore straordinario di Filosofia morale all’Università di Messina e componente del Comitato nazionale per la bioetica –. L’autonomia va sempre intesa come autonomia relazionale. Tutto quello che faccio e decido ricade non solo su di me e sulle persone che sono a me legate ma anche sulla collettività. Se io considero la mia vita come non più degna di essere vissuta, formulo contestualmente anche un giudizio su quel tipo di vita, giudizio che non può non riverberarsi su tutti coloro che versano nelle mie condizioni».
Nessun uomo è un’isola. Siamo parte di una società – continua la Gensabella – : se apriamo la breccia all’eutanasia del singolo, se ammettiamo questo anche per una sola persona, poi questa breccia ricadrà anche su altri considerati non degni». Concorda Franco Balzaretti, segretario nazionale dell’Associazione medici cattolici (Amci): «Ci sono momenti in cui la fragilità della persona la porterebbe a scegliere contro se stessa e contro la collettività di cui non si sente più parte. Una società in cui viene legalizzata l’eutanasia, però, va verso l’autodistruzione non solo fisica ma anche morale perché sovverte la piramide dei valori subordinando la vita umana al benessere, all’economia, al profitto, all’utilitarismo».
Ecco perché la tutela della salute deve essere tanto più forte quanto più è debole il soggetto. «La difesa della salute è dovere dell’individuo nell’ambito della solidarietà sociale – rammenta Luciano Eusebi – perché c’è un valore nel mio pormi nelle condizioni migliori per poter dare il mio contributo agli altri.
L’altro ha un’aspettativa nei miei confronti.
Quando parliamo di diritto alla vita come dovere civile c’è una logica solidaristica: sono responsabile della mia vita perché sono significativo nei rapporti con gli altri». Quindi è necessaria una legge come quella sul fine vita? Per Balzaretti «la legge deve essere approvata al più presto per evitare che il magistrato si sostituisca al medico, interrompendo la sua relazione col paziente senza la quale non ci può essere la necessaria alleanza terapeutica». Non solo: è in gioco la nostra stessa visione dell’uomo: «Non ci possiamo arrendere – spiega la Gensabella – a un’antropologia riduttivistica, dove la vita vale solo in base alle sue funzioni».
Né maschio né femmina: bebè educati senza sesso di Stefano Zecchi articolo di giovedì 26 maggio 2011, © IL GIORNALE ON LINE S.R.L.

L’idea di due genitori canadesi di crescere un bimbo senza dire se sia maschio o femmina è una battaglia contro la natura.
Sappiamo bene quanto sia difficile crescere, passare dall’infanzia all’adolescenza e poi attraversare la giovinezza, trovare un lavoro, formarsi una buona famiglia... Se poi a complicare questo processo di formazione ci si mette anche la fantasia perversa di una famiglia, significa essere proprio scarognati fin dalla nascita. In Canada, a Toronto, vive una famiglia con due figli. I genitori si chiamano Kathy e David: nomi semplici, normali. Ma questa normalità deve essere sembrata loro troppo borghese, e così hanno deciso di chiamare i propri figli, un maschio di cinque e una femmina di due anni, Jazz (come il genere musicale) e Kio.
Di nomi strani ce ne sono tanti senza bisogno di andare in Canada, perché non hanno confini le ossessioni di originalità dei genitori. La coppia canadese, però, deve essere anche afflitta da una grave sindrome di ideologia egualitarista sessuale. Sostiene che proprio a incominciare dal nome - maschile o femminile - il bambino sviluppa attitudini comportamentali dettate dalle sue caratteristiche sessuali e non dalla sua libera volontà. Insomma, il nome è già di per se stesso una coercizione che induce ad assumere determinati modi d’essere. E infatti Jazz e Kio, nomi indistintamente maschili o femminili, giocano come vogliono e con chi vogliono e si vestono come piace a loro (il maschio spesso anche in rosa).
Tuttavia, nonostante i nomi neutri e la loro totale libertà comportamentale, i due piccoli sono inequivocabilmente maschio e femmina. Un dramma per i genitori, a cui non riuscivano trovare rimedio, finché un giorno la mamma Kathy rimane di nuovo incinta. Maschio o femmina? Che ignobile distinzione, pensano i due genitori canadesi! Come eliminarla? Ecco la folgorazione: non si dovrà assolutamente conoscere il sesso del nascituro, neppure una volta nato. Proprio così. Incominciamo dal nome: si chiamerà Storm, tanto per confondere subito il genere. Ma non basta (come hanno dimostrato Jazz e Kio) per comportarsi senza nessuna costrizione sessuale. Nessuno saprà di che sesso è, almeno fino a che sarà possibile: nemmeno ai nonni è stato svelato il segreto. E il piccolo Storm non saprà, egli stesso, di che sesso è, nessuno dovrà dirgli che se ha il pisellino è una cosa, se non l’ha è un’altra, vivrà come viene raccontato nel Simposio di Platone: una sfera perfetta e autosufficiente che ancora non si è divisa a metà generando due sessi opposti.
Ci sperano molto, i due genitori canadesi, in questa trovata educativa. Libertà, uguaglianza, abolizione delle odiate differenze sessuali: Storm non conoscerà il suo sesso, perciò non si comporterà né da maschio né da femmina, e sarà libero di essere come vuole. L’identità naturale, l’istinto pulsionale verrebbero così annullati dalla non conoscenza della differenza sessuale, e al piccolo Storm si aprirebbe un orizzonte di libertà in cui potrà essere ciò che vuole, indipendentemente dal suo sesso. Da Storm inizierà la grande rivoluzione libertaria antisessista. C’è da augurargli che i suoi genitori vengano trovati a rubare in un supermercato e arrestati.
Pensiamo a noi. È probabile che esageriamo quando, per esempio, regaliamo al bambino l’uovo di Pasqua con la carta azzurra perché se fosse rosa avrebbe la sorpresa da femmina. E forse sarà anche colpa nostra se il bambino rimane male quando trova la sorpresa da femmina nell’uovo che gli abbiamo comprato con la carta d’argento. Certo, sul piano educativo si può lavorare molto per limare eccessi maschili e femminili, caratteri prepotenti dell’uno e remissivi dell’altra. Ma perché dover rinunciare a un’educazione che insegni la fierezza, l’orgoglio dell’essere maschi e la fierezza, l’orgoglio dell’essere femmine? Davvero si deve vedere nella differenza di natura, nella distinzione dei sessi un ostacolo alla libertà di realizzare se stessi?
Questo è un modo di pensare violento, che nasconde una presunzione crudele: la volontà di dominio sulla realtà naturale, che si scarica addosso ai bambini, e trasforma la loro educazione in una battaglia contro la natura, cioè contro la vita stessa. Si può giocare con le bambole o con il trenino o le automobiline senza per questo crescere remissive o prepotenti: basta avere genitori equilibrati, che siano d’esempio con il loro comportamento.

Il diritto alla vita scambiato per arbitrio, di Claudio Sartea


Le cellule salvavita