mercoledì 31 agosto 2011


Offensiva laicista per normalizzare la pedofilia di Marco Respinti, 31-08-2011, http://www.labussolaquotidiana.it


La pedofilia? Un fatto "normale", che siccome la nostra società "retrograda" ancora non percepisce come tale va "normalizzato" a tutti i costi.  Convinti di questo e convocati dalla B4U-ACT - una organizzazione pro-pedofilia che agisce dietro la maschera della cura dell’igiene mentale -, il 17 agosto a Baltimora, nel Maryland, si sono dati convegno un nugolo di ricercatori provenienti da uno stuolo di università statunitensi per ascoltare e applaudire la star riconosciuta di tutta la materia, il sessuologo Frederick S. Berlin, fondatore del National Institute for the Study, Prevention and Treatment of Sexual Trauma e della Clinica per i disordini sessuali dell’ospedale universitario Johns Hopkins. Chi vi ha partecipato in veste critica ne dà resoconti scioccanti, per esempio Matt Barber, vicepresidente del Liberty Counsel Action e corettore della Liberty University School of Law, un ateneo evangelicale di Lynchburg in Virginia (preziosa anche la testimonianza di Bon Hamer, ex agente dell’FBI che per tre anni ha frequentato sotto copertura ambienti pedofili e che oggi illustra adeguatamente l’ideologia della B4U-ACT).

Parrebbe una forzatura, ma non lo è. Tutto sta del resto nella definizione. Se è una perversione frutto di devianza patologica, va da sé che la pedofilia sia socialmente inaccettabile e dunque pure sanzionabile; ma se è semplicemente uno dei comportamenti sessuali umani possibili, per quanto particolari o "bizzarri", non esiste motivo per stigmatizzarla. L'elemento discriminante - dicono i fautori della sua normalizzazione - non è infatti la moralità di tale comportamento sessuale in sé, ma la coercizione e la violenza eventualmente esercitate sul partner, cioè solo il contesto e i modi. Ma ciò vale evidentemente per ogni comportamento sessuale, inclusi tutti quelli particolari o "bizzarri"; anzi, vale per tutti i comportamenti umani, sanzionabili eventualmente a norma di codice penale. Per questo, affermano i suoi sostenitori, la pedofilia deve essere considerata solo accidentalmente diversa da altri comportamenti sessuali umani e quindi mai giudicata socialmente inaccettabile, tantomeno sanzionabile. Occorre, dicono, semplicemente disciplinarla in base a una precisa "deontologia".

Oltre alla pedofilia, possono peraltro essere e vanno quindi "sdoganati" anche tutti gli altri comportamenti sessuali particolari o "bizzarri", compresi quelli che in base a definizioni appunto "retrograde" verrebbero definiti aberranti, per il semplice motivo che non esiste criterio oggettivo per definirne alcuni giusti e altri sbagliati. Da qui il grande sforzo culturale di riclassificare le "perversioni" o le "devianze" secondo un linguaggio nuovo figlio di una mentalità libera da condizionamenti etico-sociali e da pregiudizi religiosi che le renda semplicemente "altra sessualità" (ciò che è considerato inaccettabile in alcune culture e in alcune epoche, si dice, non lo è in altre) senza alcun giudizio sulla loro liceità morale, e che dunque confini alle patologie dei disturbi mentali solo quei comportamenti che si manifestano in forme di violenza fisico-psicologica su soggetti non consenzienti e/o caratterizzate da dipendenza ossessivo-compulsiva.
Non è del resto esistito, nei Paesi Bassi, il Partito dell’Amore Fraterno, della Libertà e della Diversità, la prima formazione politica dichiaratamente pedofila, nata nel 2006 e scioltasi nel 2010, che aveva tra i propri obiettivi quello di liberalizzare la pornografia infantile e i rapporti sessuali fra adulti e bambini?

Il "Manuale" degli psicologi americani
Organizzazioni come il B4U-ACT criticano dunque fortemente le definizioni attualmente adottate in ambito scientifico da medici, psicologi e psichiatri che ancora giudicano la pedofilia frutto tout court di disturbi mentali, abbandonando questo possibile comportamento sessuale umano ai tabù, a tal punto da rendersi disponibili - questa la loro mission - per rivedere radicalmente i parametri su cui esse si reggono. E l’organizzazione di un simposio importante come quello di Baltimora dimostra come il giro mentale dei suoi attivisti sia più diffuso di quel che s’immagini, oltre a rivelare l’esistenza di una forte lobby culturalmente pro-pedofilia all’interno della comunità medica e scientifica, come conferma Judith Reisman, visiting professor alla citata Liberty University e grande avversaria di questo mondo, almeno dal 1977.

Ora, in tema di sessualità umana, è l’autorevolissima e stimatissima American Psychological Association (APA) a stabilire quali siano gli standard che determinano comportamenti di natura patologica derivanti da disturbi mentali e quali, per bizzarri che siano, no. L’APA lo fa - appunto autorevolmente  - con il "Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali" (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), universalmente noto e pressoché sempre citato con la sigla DSM, i cui criteri costituiscono di fatto il "magistero vincolante" della nosografia (vale a dire la scienza che si occupa della classificazione sistematica delle malattie) in materia.

Da che esiste, questo "Manuale" è il punto di riferimento certo per medici, psichiatri e psicologi sia clinici sia ricercatori di tutto il mondo.
È insomma il "Manuale" APA che risponde - per dirla con una battuta - alla domanda posta da una nota canzone di Vasco Rossi, «quante deviazioni hai?». Proprio il "Manuale" APA ha già operato una rivoluzione culturale sul tema, cancellando il concetto di "perversioni" (Sigmund S. Freud definiva così le «attività sessuali finalizzate alle regioni del corpo non genitali») e sostituendolo con il più politicamente corretto "parafilie".

Kinsey, il pioniere
Con questo termine oggi si definisce in ambito psichiatrico, psicopatologico e sessuologico l’insieme della manifestazioni della sessualità umana non direttamente connesse a fini riproduttivi. Vale peraltro la pena di notare che, se concepito diversamente, per esempio ancora in termini freudiani, questo universo del "diversamente sessuale" bollerebbe come inaccettabili la stragrande maggioranza dei comportamenti sessuali ritenuti invece non solo oramai normali (esiste persino una letteratura di genere pubblicata da editori non certo da caserma ed esistono scrittori lanciati come promesse talentuose dai milieu dei premi letterari, dalle terze pagine dei quotidiani nazionali di ogni orientamento politico, dai direttori di collane), ma talora persino virtù da "grandi amanti". E pure che esso coincide - evidentemente in modo perfettamente legale per il nostro ordinamento giuridico - con gran parte dell’editoria, della videografia e della sitografia pornografiche. Del resto, con il nome di "iconolagnia", lo stesso feticismo della pornografia è annoverato dall’APA fra le parafilie raggruppate genericamente nella sezione Disordini sessuali o parafilia non altrimenti specificata.

Molto, se non tutto, ha del resto origine con il biologo e sessuologo statunitense Alfred C. Kinsey (1894-1956) e con il suo famoso "rapporto" sulla sessualità umana, in realtà due libri scritti con la collaborazione di altri, Sexual Behaviour in the Human Male, del 1948, e Sexual Behaviour in the Human Female, del 1953. È stato Kinsey a insegnare al mondo che «al di là delle interpretazioni morali, non c’è alcuna ragione scientifica per considerare particolari tipi di attività sessuali come intrinsecamente, per origine biologica, normali o anormali» e a trattare apertamente, forse per primo, anche della sessualità nei bambini in modo tale da far subito parlare di istigazione, se non altro culturale, alla pedofilia.

La revisione tanto attesa
Clinicamente, sono oggi riconosciute dal "Manuale" APA otto maggiori forme di "parafilia", classificate in base all’atto sessuale che sostituiscono con pratiche di altro tipo o all’oggetto verso cui si indirizzano, nonché al canale sensoriale che eccitano. Per poterle considerare patologiche, il "Manuale" APA stabilisce che le "parafilie" debbano ricorrere per almeno sei mesi e manifestarsi come forma di sessualità esclusiva o prevalente di un certo soggetto, interferendo in modo rilevante con la sua normale vita relazionale e causandone un disagio clinicamente significativo.

L’APA ha redatto la prima versione del "Manuale", identificata come DSM-I, nel 1952 per controbattere all’Organizzazione Mondiale della Sanità che quattro anni prima, nel 1948, aveva reso pubblico un testo, l’International Statistical Classification of Diseases, Injuries and Causes of Death, oggetto di numerose contestazioni. Nel 1968 l’APA ha quindi riveduto il proprio "Manuale" pubblicando il DSM-II, lo stesso ha fatto nel 1980 con il DSM-III, seguito nel 1987 dal DSM-III-Revised e ancora nel 1994 dal DSM-IV, ulteriormente poi modificato all’inizio del Terzo Millennio, proprio nel 2000, dal DSM-IV-Text Revision (o DSM-IV-TR), quello che oggi fa universalmente testo in attesa della nuova edizione, il DSM-V, annunciato per il 2013. Ed è proprio su questa ulteriore revisione che punta tutto il club "amici della pedofilia" alla B4U-ACT.

Howard Kline, direttore scientifico della B4U-ACT, contesta infatti il modo attraverso cui l’APA persiste nel catalogare la pedofilia fra le parafilie derivanti da disturbi mentali poiché sostiene che le sue indagini si fondano soltanto sui dati raccolti tra soggetti criminali, «le quali ignorano completamente l’esistenza di coloro che rispettano la legge». I pedofili, cioè, che non esercitano né coercizione né violenza sui partner - «Possiamo aiutarli», garantisce Kline all’APA, «perché noi siamo le persone di cui essi scrivono» - e che quindi non hanno, secondo la B4U-ACT, alcun motivo per vedere conculcati i propri comportamenti sessuali, per "bizzarri" (ma non molesti) che qualche "retrogrado" ancora li giudichi.

Il precedente omosessuale
Del resto, i pro-pedofili che contestano le classificazioni del "Manuale" APA dandosi volontari per contribuire a una sua revisione sbandierano con orgoglio un grande precedente. Quello dell’omosessualità. Fino al DSM-II l’omosessualità era annoverata tra le parafilie frutto di disturbi mentali, ma dal 1972 è stata derubricata; e questo non attraverso la stesura di un nuovo "Manuale" completamente riveduto nei suoi criteri portanti, ma solo attraverso una disinvolta modifica introdotta nella settima ristampa dello stesso DSM-II per consenso comune di medici, psicologi e psichiatri che nell’omosessualità non hanno ravvisato (più) quegli aspetti specifici in grado di collegarla a disturbi mentali (qualora essi si manifestassero in pendenza di omosessualità verrebbero giudicati comportamenti sanzionabili a prescindere dall’orientamento omosessuale delle persone coinvolte), ma solo una forma altra di sessualità.

Oggi l’APA considera così l’omosessualità un comportamento umano particolare fra i molti possibili e socialmente accettabili, e a questo suo magistero si rifanno con enfasi un po’ tutti. Ed è alla sua capacità di annientare il diritto naturale trasformando truffaldinamente in parametro scientifico il relativismo che si va progressivamente diffondendo nella società occidentale che l’evidentemente diffusa e potente lobby pro-pedofilia guarda con trepidazione non esattamente verginale.

La storia di Giulia. È morta ma ce l'ha fatta di Fabio Finazzi31-08-2011 http://www.labussolaquotidiana.it

Questa è la storia di Giulia Gabrieli, 14 anni, malata di tumore. Sappiate fin da subito che Giulia ce l'ha fatta. È vero, non è guarita: è morta la sera del 19 agosto, a casa sua, nel quartiere di San Tomaso de' Calvi, a Bergamo, proprio mentre alla Gmg di Madrid si concludeva la Via Crucis dei giovani.

Eppure ce l'ha fatta. Ha trasformato i suoi due anni di malattia in un inno alla vita, in un crescendo spirituale che l'ha portata a dialogare con la sua morte: «Io ora so che la mia storia può finire solo in due modi: o, grazie a un miracolo, con la completa guarigione, che io chiedo al Signore perché ho tanti progetti da realizzare. E li vorrei realizzare proprio io. Oppure incontro al Signore, che è una bellissima cosa. Sono entrambi due bei finali. L'importante è che, come dice la beata Chiara Luce, sia fatta la volontà di Dio». Giulia era fatta così: diceva queste cose enormi, che a noi adulti tremolanti sembrano impronunciabili, con la lievità dei suoi 14 anni.

Eppure era una ragazza normale. Anzi, rivendicava spesso la sua normalità: era bella, solare, genuinamente teatrale, amava viaggiare, vestirsi bene e adorava lo shopping. Un'esplosione di raffinata vitalità, che la malattia, misteriosamente, non ha stroncato, ma amplificato.

Aveva il talento della scrittura (due volte premiata al concorso letterario «I racconti del parco»). Amava inventarsi storie fantastiche, avventurose. Per questo paragonava la sua malattia a un'avventura. E rifletteva: «Il fatto è che la gente ha paura della malattia, della sofferenza. Ci sono molti malati che restano soli, tutti i loro amici spariscono, spaventati. Non bisogna avere paura! Se gli altri ci stanno vicino, ci vengono accanto, ci mettono una mano sulla spalla e ci dicono "Dai che ce la fai!", è quello che ci dà la forza di andare avanti. Se questo non succede ti chiedi: perché vanno così lontano? Se hanno paura, allora devo temere anch'io… Perché dovrei lottare per la guarigione se nessuno mi sta accanto?». Non solo conosceva perfettamente la sua malattia, ma aveva imparato a distinguere ogni farmaco, ogni risvolto tecnico delle chemioterapie. Con la sua amabile ma dirompente personalità non lesinava consigli (eufemismo, sarebbe meglio dire direttive) a medici e infermieri dell'oncologia pediatrica di Bergamo. In più ci aggiungeva la sua decisiva flebo di allegria: «Se trovi la forza per pensare: eh va be', vado in ospedale, faccio una chemio e poi torno a casa, è tutta un'altra cosa. Certo anch'io quando sto male mi chiedo: perché è successo proprio a me? Poi però quando sto meglio dico: "Massì, dai, è passato". Ci rido anche sopra...».

La malattia va sdrammatizzata, diceva sempre Giulia. E ci riusciva così bene che pochi giorni prima di morire ha costretto uno dei suoi medici, in visita a casa sua, a mimare «quella volta in cui sono svenuta e tu mi ha presa al volo». Lui ha dovuto mimare e farsi pure fotografare. Quel drammatico pomeriggio è finito con una risata collettiva. Già, i suoi «supereroi». Giulia aveva un rapporto personale, speciale, perfino confidenziale con ciascuno di loro. Li adorava, ampiamente ricambiata. E si arrabbiava moltissimo quando in Tv sentiva parlare di «malasanità». «Se ci fate caso non c'è molta differenza tra un supereroe e un medico. I supereroi salvano tutti i giorni la vita a delle persone, anche sconosciute. E lo stesso si può dire dei medici: solo che anziché usare le tele di ragno come Spiderman o le ali come Batman, usano le medicine. E poi, dal punto di vista umano, sono davvero imbattibili». Potete quindi immaginare con quale peso sul cuore i suoi supereroi le dovettero comunicare un giorno della «recidiva». Il tumore, un sarcoma tra i più aggressivi, tenacemente combattuto per un anno e ridotto in un angolo, si era ripresentato. Più forte di prima. C'era da ricominciare tutto da capo.

Nello studio, i medici schierati avevano le lacrime agli occhi, che non sarà professionale ma è dannatamente umano. Non riuscivano a rompere il ghiaccio. Allora Giulia, che come al solito aveva già capito tutto, con uno di quei suoi gesti spontanei e regali, si è alzata e li ha abbracciati uno per uno (e chi l'ha conosciuta sa cosa erano i suoi abbracci...). Poi ha detto: «Ce l'ho fatta una volta ad affrontare le chemio, posso farcela anche la seconda. Forza, ripartiamo da capo». Insomma, li ha consolati, capite? Eppure, insisto, Giulia era una ragazza normale. Per esempio, come tutti i suoi coetanei, amava la musica. E in modo speciale un grande classico di Claudio Baglioni, nella versione cantata da Laura Pausini: «Strada facendo». «Strada facendo vedrai che non sei più da solo... mi trasmette proprio un grande slancio: dai che ce la fai! Strada facendo troverai anche tu un gancio in mezzo al cielo... Sì, mi dà leggerezza, una grande speranza». Strada facendo Giulia si è imbattuta nella storia di Chiara Luce Badano, morta nel 1990, a diciotto anni, per un tumore osseo e proclamata beata il 25 settembre 2010. E Dio solo sa quanto è stato provvidenziale questo incontro: «Lei è morta, però ha saputo vivere questa esperienza in modo così luminoso e solare, abbandonandosi alla volontà del Signore. Voglio imparare a seguirla, a fare quello che lei è riuscita a fare nonostante la malattia. La malattia non è stata un modo per allontanarsi dal Signore, ma per avvicinarsi a Lui...».

Ma Dio dov'è? Avvicinarsi a Dio? Ma come, la malattia t'incalza, la tua vita è sempre più stravolta, il tuo fisico sempre più debilitato e tu ti avvicini a Dio anziché urlargli tutta la tua rabbia? In realtà anche Giulia a un certo punto è stata «molto arrabbiata». Di più: è scesa nell'abisso – il cristianissimo abisso – del mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonata? Racconterà, in seguito: «Continuavo a dire ai miei genitori: ma Dio dov'è? Adesso che sto malissimo, ho addosso di tutto, Dio dov'è? Lui che dice che posso pregare, può fare grandi miracoli, può alleviare tutti i dolori perché non me li leva? Dov'è?». Giorni drammatici, di autentica disperazione. I medici pensavano a un ovvio, prevedibile crollo psicologico. Ma Giulia cercava un'altra risposta e l'ha trovata a Padova. Ci era andata per la radioterapia ed era finita nella basilica di Sant'Antonio, in cerca di un po' di pace. A un certo punto una signora raccolta in preghiera, mai vista prima, le ha messo la mano sopra la sua mano malata. «Non mi ha detto niente, ma aveva un'espressione sul volto come se mi volesse comunicare: forza, vai avanti, ce la fai, Dio è con te. Sono entrata arrabbiata, in lacrime, proprio in uno stato pietoso, sono uscita dalla basilica con il sorriso, con la gioia che Dio non mi ha mai abbandonata. Ero talmente disturbata dal dolore che non riuscivo a sentirlo vicino, ma in realtà penso che lui mi stesse stringendo fortissimo. Quasi non ce la faceva più...».

La gioia. Tenete bene a mente questa parola, perché in questa incredibile ma realissima storia sembra la più fuori posto e invece, alla fine, diventerà la parola chiave. Ma prima c'è da dire di un'altra grande passione di questa ragazza normale: la Madonna. Abbracciata in modo singolare in un primo viaggio a Medjugorje. E poi in un secondo più recente, chiesto per i suoi 14 anni, come regalo di compleanno, al seguito un pullman di 50 persone tra amici e parenti. Ha spiegato un giorno, in una testimonianza pubblica – non volava una mosca –, davanti a decine di ragazzi: «Non c'è una parola che possa descrivere Medjugorje: posso solo dirvi che l'amore della Madonna è talmente grande, è talmente forte che esplode in preghiera, conversioni, amore verso il prossimo». Va da sé che la devozione mariana si porta dietro un'altra passione: quella per il Rosario, recitato tutte le sere. Inusuale per una ragazzina? Può darsi. Ma Giulia ti sorprendeva sempre. Era sempre un passo avanti. E così, proprio nelle settimane di sofferenza più acuta, ha composto di suo pugno una «coroncina di puro ringraziamento». Diceva: «Nelle nostre preghiere, nelle nostre litanie, chiediamo sempre qualcosa per noi o per gli altri. Mai che ci si limiti a dire grazie, senza chiedere nulla in cambio». Questa formula non esisteva. Lei l'ha inventata e scritta.

Ma intanto la ragazza normale desiderava fortissimamente continuare a fare le cose normali della sua età. Per esempio l'esame di terza media. E trovando chissà dove le energie, sostenuta dalle insegnanti della scuola in ospedale (che lei amava profondamente e voleva fosse meglio conosciuta e valorizzata) e dalle prof della sua scuola media Savoia, anche questa volta ce l'ha fatta. A dispetto dei dati clinici e della sua prognosi, che la dava già per morta. Allo scritto di italiano un tema magistrale, ispirato al diario di un soldato al fronte. All'orale, con tutta la commissione d'esame riunita nel salotto di casa, la tesina sugli orrori delle guerre e della Shoah, con tanto di acutissima analisi critica del Guernica di Picasso. Il tutto unito da un filo vibrante: la trasposizione della sua sofferenza. Un'esposizione di mezz'ora filata, chiusa da un'irrituale ma quantomai appropriata standing ovation. Risultato: 10 e lode. Al suo fianco l'amica del cuore che singolarmente – ma non casualmente secondo Giulia – si chiama anche lei Chiara («È da sempre la mia migliore amica, lei è tutto per me»). Con la malattia, cresceva in lei l'urgenza di dare una testimonianza ai giovani, soprattutto a quelli che pensano di fare a meno di Dio, «impegnati in una frenetica caccia al tesoro, ma senza tesoro».

Erano giorni di preghiera intensissima, di sofferenze offerte in particolare ai non credenti. Perché «ognuno ha un Dio e Dio c'è per tutti». Ecco l'idea di una video-testimonianza. Ancora volta ce l'ha fatta: l'intervista diventerà presto un dvd. Giulia, del resto, va detto con la dovuta cautela e senza enfasi, ma va detto, cambiava spesso le (moltissime) persone che incontrava. Chi entrava in casa sua, in quel bunker di serenità, ma anche di riservatezza e accoglienza che è la sua famiglia – a partire da mamma Sara, da papà Antonio e dal piccolo, formidabile Davide (9 anni) – si portava un carico di angoscia e usciva molto più leggero. Giulia, infine, credeva nei miracoli. Ma le grazie le chiedeva per gli altri, non per se stessa: in particolare i bambini malati conosciuti all'ospedale. Soltanto alla fine, quando il suo giogo era a tratti insopportabile e tutte le armi dei supereroi erano drammaticamente spuntate, ha iniziato a chiedere per sé. Ma solo «se è la volontà del Signore».

Quale sia stata la volontà del Signore già lo sapete. La mattina del 19 agosto, a Madrid, il suo vescovo Francesco, che con lei aveva intessuto un dialogo fitto e confidenziale, ha raccontato la storia di Giulia ai mille e più ragazzi bergamaschi della Gmg. Non sapeva che si fosse aggravata così tanto. Poi la sera la Via Crucis, nella notte la notizia che era «andata incontro al Signore». Il giorno dopo, sabato, ha celebrato per lei la Messa con i giovani. E la mattina del lunedì, di ritorno da Madrid, qualche ora prima dei funerali, raccolto in preghiera con la famiglia, ha invitato a «correggere» così l'eterno riposo: «L'eterna gioia donale Signore, splenda a lei la luce perpetua. Amen». Con questa parola, gioia, di colpo così adeguata, finisce (o forse inizia), la storia di Giulia Gabrieli, la ragazza malata di tumore. Che è morta. Ma ce l'ha fatta. E giudicate voi, credenti o meno che siate, se tutto questo non è un miracolo.

P.S. Come si sarà intuito sulla storia di Giulia ce n'è quanto basta per scrivere un libro. In effetti era anche il suo sogno. Quando il progetto è stato presentato alle Paoline di Milano, l'editore ha deciso in pochi minuti, senza esitazione: si pubblichi. Il primo capitolo è già scritto. Il resto verrà da sé. Perché qualcuno, che l'ha amata come una figlia senza che il padre ne fosse geloso, è stato scelto – da Giulia – per conservare i suoi scritti, registrare le sue testimonianze pubbliche, raccogliere le sue confidenze. E ora ne completerà l'opera, prestando la sua penna e lasciando che sia lei a scrivere. Il libro s'intitolerà: «Un gancio in mezzo al cielo».

Familiari e amici stanno realizzando un blog dedicato a Giulia. Nel frattempo chi volesse inviare messaggi o riflessioni può scrivere a: congiulia03@gmail.com

Da L'Eco di Bergamo del 30 agosto 2011.

Crescono e si muovono, il «miracolo» delle gemelline siamesi - Corriere della Sera - 31 agosto di Andrea Pasqualetto

Aprono gli occhi, si muovono, crescono. Le sorelline siamesi con un solo cuore e un solo fegato hanno compiuto due mesi, sempre unite nella loro lotta per la vita. Ora pesano quasi tre chili e mezzo, uno in più rispetto alla nascita. Per i dottori si tratta di un traguardo straordinario se si considera la loro fragilissima condizione esistenziale, fuse come sono per una parte del tronco. «Bevono anche il latte della mamma, si rafforzano a vicenda e hanno iniziato a sviluppare le percezioni sensoriali tipiche del neonato», dice il primario di chirurgia pediatrica dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, Mario Lima, che coordina la nutrita equipe medica impegnata a seguire le gemelle. Lima calibra ogni parola perché il caso è delicatissimo e perché ogni giorno potrebbe essere il giorno decisivo. «Più crescono e più aumentano le possibilità di sopravvivenza», aggiunge precisando però con un filo di voce che la sopravvivenza riguarderà comunque una sola delle due, la più forte ed energica. La scienza dà infatti quasi per scontato il loro destino: ci sarà una crisi, interverrà la chirurgia e la più fragile «soccomberà». La gemella debole darà spazio, per mano medica, alla sorellina forte.
E qui sospirano in molti. «La separazione deve essere animata dalla ferma volontà di salvarle tutte e due — era insorta Famiglia Cristiana —. Non è lecito decidere a quale delle due bambine dare la possibilità di sopravvivere». È questione religiosa, etica, morale, medica. Che anche il mondo della Chiesa sia combattuto lo ha dimostrato il possibilismo dell’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova evangelizzazione: «Davanti alla reale possibilità della morte per le due neonate ogni sforzo per salvarne almeno una è da noi considerato come un atto di amore a favore della vita e, come tale, è lecito».
Dal punto di vista burocratico tutto è pronto, tutto è autorizzato. Hanno detto sì il Comitato di bioetica dell’università, il Comitato indipendente del Sant’Orsola, la Procura e il tribunale per i minorenni. Una sola è la condizione che pongono per l’intervento: che il pericolo di morte sia grave e immediato. Così, la medicina. Poi c’è la speranza dei genitori, due giovani romagnoli che hanno deciso di far nascere le loro figlie nonostante fossero a conoscenza del grande problema a cui andavano incontro. Loro si affidano alla fede cristiana e al mistero della vita. Sperano nell’imponderabile, in un piccolo grande miracolo. Nel frattempo le neonate crescono, contro ogni statistica e previsione. Il bollettino del Sant’Orsola ricorda tecnicamente la loro precarietà: «Mantengono necessariamente il drenaggio addominale, la ventilazione meccanica, il supporto farmacologico della funzione cardiocircolatoria e nutrizionale artificiale attraverso accessi venosi centrali».
In due mesi di vita hanno superato varie crisi, soprattutto respiratorie. Lima le racconta così: «Ogni volta diciamo mamma mia ma loro poi resistono, l’allarme rientra e la battaglia prosegue».



La questione dell'educazione sessuale - Non è una materia qualsiasi di LUCETTA SCARAFFIA (©L'Osservatore Romano 31 agosto 2011)

Adesso tocca a New York: il provveditore agli studi Dennis Walcott ha stabilito che con il nuovo anno scolastico gli studenti fra gli 11 e i 18 anni dovranno frequentare un corso di educazione sessuale per almeno un semestre. Il nuovo corso fa parte delle iniziative avviate dal sindaco Bloomberg per salvare dalla miseria a cui sembrano destinati i giovani neri e latinoamericani. Per evitare polemiche religiose, fra i metodi anticoncezionali sarà citata anche la castità e gli insegnanti dovranno parlare di sesso con qualche cautela. Ma questo non è bastato all'arcivescovo Timothy Dolan, che ha criticato l'iniziativa, affermando che "così le autorità permettono al sistema scolastico di sovrapporsi ai valori dei genitori, per sostituirli con quelli di chi governa".
Ancora una volta, vediamo ripetersi un modello già sperimentato in molti altri Paesi: lo Stato decide di inserire corsi di educazione sessuale obbligatori nelle scuole, e la Chiesa cattolica si oppone, guadagnandosi nei media l'immagine di forza oscurantista, crudele perché indifferente alle conseguenze che il suo rifiuto può avere fra i giovani, cioè gravidanze indesiderate e malattie. Invece le cose non stanno così. Non si capisce come mai le istituzioni pubbliche occidentali continuino a nutrire una fiducia magica nell'efficacia dell'educazione sessuale. Dopo anni di corsi, naturalmente centrati sui metodi contraccettivi, abbiamo visto come in molti Paesi - l'esempio più noto è il Regno Unito - i ragazzi continuino ad avere rapporti sessuali precoci senza alcuna protezione, e si moltiplichino le gravidanze fra le adolescenti e gli aborti. Ormai è chiaro che non basta assolutamente spiegare loro come possono usare i contraccettivi, e dove trovarli facilmente, per evitare queste tragedie, ma che il problema è più a monte, nell'educazione e quindi nella famiglia.
In fondo l'Italia - dove non esiste educazione sessuale scolastica obbligatoria - è uno dei Paesi che se la cava meglio da questo punto di vista: qui i giovani rischiano di meno malattie e gravidanze precoci. Questo avviene per merito della famiglia, del controllo affettuoso dei genitori sui figli adolescenti, del fatto che i ragazzi non sono abbandonati a se stessi con una scatoletta di anticoncezionali come unica difesa dalle loro passioni e dai loro errori.
E, in parte, è merito anche della Chiesa cattolica, che continua a insegnare che i rapporti sessuali sono molto più di una ginnastica piacevole da praticare senza freni senza correre rischi. La Chiesa considera infatti la vita sessuale degli esseri umani come una delle prove più significative della loro maturità umana e spirituale, una prova da affrontare con preparazione e serietà, cioè da collegare a scelte di vita fondamentali come il matrimonio, e quindi alla fondazione di una famiglia in cui la procreazione costituisce uno dei fini principali. La Chiesa insegna rispetto per il proprio corpo, che significa dare importanza e peso agli atti che si compiono con esso, a non considerarli solo possibilità di divertimento o di appagamento narcisistico: e questo è proprio il contrario di quanto dicono i suoi critici.
Per la tradizione cattolica il corpo è importantissimo, svolge un ruolo centrale nell'esperienza umana e spirituale di ogni persona. I cattolici quindi non possono accettare che la vita sessuale venga considerata materia di insegnamento come un'attività qualsiasi, la quale presenta dei pericoli che sarebbe meglio evitare; come ben si sa, poi, i giovani sono spesso attratti dai pericoli, e si impegnano a evitarli solo se vengono educati alle ragioni profonde di un diverso comportamento morale.
Certo, per famiglie sempre più spesso disastrate è molto difficile insegnare una morale sessuale che non è testimoniata dai genitori e dall'ambiente dove vivono i ragazzi. E allora sembra più facile rinunciare a qualsiasi forma di insegnamento morale, lasciare il problema alla scuola che sostituisce l'educazione morale con informazioni tecniche. Se poi i risultati sono rovinosi, si fa finta di niente: è più facile ignorare il problema, fingendo di risolverlo con dei corsi scolastici inutili, anzi dannosi, che affrontare la questione a esso sottesa. Cioè il clamoroso fallimento dell'utopia della rivoluzione sessuale e lo sgretolarsi conseguente della prima istituzione di educazione morale, la famiglia.

IL CASO/ Così la famiglia italiana rovina il "compleanno" alla pillola abortiva di Assuntina Morresi – il sussidiario.net - mercoledì 31 agosto 2011

Ricordiamo tutti una pubblicità particolarmente azzeccata nella quale si diceva che “una telefonata allunga la vita”. Sarà stato per un riflesso involontario, uno di quegli effetti subliminali degli slogan pubblicitari: qualche giorno fa, in occasione dei cinquant’anni di vendita della prima confezione in Italia, un’agenzia di stampa informava che “la pillola contraccettiva allunga la vita” delle donne che la usano. O forse è l’ennesimo tentativo di aumentarne la diffusione nel nostro paese: dopo mezzo secolo di massiccia promozione culturale e commerciale, da noi la usa il 16,2 percento della popolazione femminile, una percentuale fra le più basse in Europa (siamo al 40 percento per le francesi e al 50 percento per le svedesi).
“Un’amica della donna, alleata del suo benessere, il metodo anticoncezionale per antonomasia”: sono solo alcune delle considerazioni trionfali di questi giorni, nel celebrare le cinquanta candeline italiane della pillola, che però non meriterebbe tutti questi elogi visto che, numeri alla mano, ha sostanzialmente fallito il suo principale obiettivo, e cioè il controllo delle nascite. Se la pillola anticoncezionale fosse stata veramente efficace, infatti, almeno nei paesi in cui è fortemente diffusa, non dovremmo avere aborti. Se la pillola consentisse veramente di controllare la fertilità femminile, gli aborti sarebbero dovuti scomparire al suo diffondersi.
Sappiamo che non è andata così e che, invece, soprattutto nei paesi in cui ci sono state corpose campagne contraccettive, come Francia, Svezia e Gran Bretagna, gli aborti sono sempre aumentati, specie fra le minori. Ed è proprio la particolare situazione italiana su natalità, aborto e contraccezione che aiuta a riflettere sull’intera faccenda.
Sia detto senza retorica: ogni aborto è sempre uno di troppo, e i 115.372 aborti italiani dello scorso anno rimangono una quantità intollerabile di vite umane soppresse. Allo stesso tempo, secondo tutti gli indicatori - inclusa la stima degli aborti clandestini - gli aborti in Italia sono in numero inferiore rispetto a quelli degli altri paesi, e dal 1982 sempre in diminuzione.
Per esempio sono fra i più bassi i tassi degli aborti fra le più giovani: 6,9 per mille fra le donne italiane con  meno di venti anni, rispetto al 23 per mille di Inghilterra e Galles, al 22,5 per mille della Svezia e al 15,2 per mille della Francia. Basse le percentuali degli aborti a gravidanza avanzata, oltre i novanta giorni, e un’italiana che abortisce avrà poche probabilità di rifarlo, rispetto alle straniere.
Ma non è la contraccezione a far diminuire gli aborti. Come ricordato sopra, la pillola contraccettiva è poco usata, al contrario di quanto succede nei paesi occidentali che solitamente confrontiamo con il nostro, dove è elevato pure il tasso degli aborti, che non calano neanche con la cosiddetta contraccezione di emergenza, quella “pillola del giorno dopo” che può avere effetti contraccettivi ma pure abortivi - potrebbe impedire all’embrione di annidarsi in utero - ma mai verificabili, e quindi non quantificabili. In paesi come Francia, Gran Bretagna e Svezia questo prodotto si può acquistare in farmacia senza ricetta medica (in Italia obbligatoria): finora però la sua diffusione massiccia, soprattutto fra le minorenni, di molto superiore a quella italiana, è andata di pari passo con la crescita degli aborti ufficiali, in particolare tra le più giovani.
Riassumendo: in Italia “pochi” aborti, scarsa contraccezione chimica e, come noto, bassa natalità. Com’è possibile? Bisogna ripensare i criteri - vecchi - con cui solitamente tutto questo si giudica. A cominciare con il riconoscere che nel nostro paese c’è una  “anomalia” - non nuova, in verità - che nonostante tutto, ancora regge: la famiglia, quella naturale basata sul matrimonio fra un uomo e una donna, tutelata dalla nostra Costituzione. Una trama di affetti in cui riponiamo fiducia, e che riesce a proteggere i suoi membri più fragili: in una famiglia che c’è, nell’esperienza quotidiana di un rapporto forte con il proprio coniuge, è più facile accogliere un figlio (o un nipote) “inaspettato”, piuttosto che considerarlo un ostacolo insuperabile.
Non sappiamo dire se veramente la pillola anticoncezionale allunga la vita. Ma sarebbe interessante se studiosi ed esperti cominciassero a riflettere seriamente su questa peculiarità italiana.

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martedì 30 agosto 2011


Avvenire.it, 30 agosto 2011, Meno contraccezione ma meno aborti Famiglia, la buona eccezione italiana

I luoghi comuni, si sa, sono duri a morire, e anche a fronte di fatti incontestabili mostrano una resistenza straordinaria. Fra i più diffusi, quello secondo cui gli aborti diminuiscono con il diffondersi della contraccezione, possibilmente accompagnata da un’educazione sessuale fin dalla più tenera età, affidata ai programmi scolastici e agli 'esperti', anziché lasciata all’iniziativa e alla responsabilità delle famiglie di appartenenza. Il ragionamento è semplice: poiché gli aborti sono l’esito di gravidanze indesiderate, bisogna evitarle. Quindi con mezzi che consentono di programmare le nascite, il problema dovrebbe risolversi: quanto più la contraccezione è efficace e diffusa, tanto meno si abortirà. In teoria, dovrebbe funzionare.

Ma i dati dicono altro: nei paesi ad elevata diffusione di contraccettivi e di programmi di educazione sessuale, specie scolastica – come Francia, Svezia e Gran Bretagna – i tassi abortivi sono sempre rimasti elevati, aumentando soprattutto fra le più giovani. In Italia, invece, la percentuale delle donne che usano la pillola anticoncezionale è fra le più basse di Europa, come pure i tassi abortivi, comunque li si conti, e sempre in diminuzione fin dall’82. Qualche dato: il 16,2 per cento delle italiane usa questa pillola, contro il 40 delle svedesi e il 50 delle francesi. E i tassi di abortività fra le donne con meno di venti anni sono, rispettivamente, il 6,9 per mille in Italia, il 15,2 in Francia, il 22,5 in Svezia e il 23 in Inghilterra e Galles.

Le cose non cambiano con la 'pillola del giorno dopo', che può impedire all’embrione di annidarsi in utero, prefigurando così un probabile, precocissimo aborto, impossibile da verificare e quindi da conteggiare. In Italia questo prodotto si può comprare in farmacia dal 2000 – quando gli aborti già calavano – e solo con ricetta medica, che invece non serve in Francia, Gran Bretagna e Svezia. In Francia, per esempio, questa pillola è negli armadietti scolastici per studentesse fin dagli undici anni, e il consenso dei genitori non è richiesto. E ricordiamo in Inghilterra un progetto pilota di due anni fa che permetteva alle ragazzine fra gli 11 e i 13 anni di chiedere la pillola del giorno dopo via sms, per «evitare imbarazzi».

Il risultato è che le vendite in Francia e Gran Bretagna sono 3-4 volte quelle italiane, e pure gli aborti ufficiali, come già detto, sono molto più numerosi, specie fra le minorenni. Chiarendo che da noi un anno di aborti equivale a più di 110mila esseri umani soppressi prima di nascere, e che il calo non consola – l’unico numero che vorremmo leggere è lo zero, tutti gli altri sono intollerabili – è bene prendere atto che la strategia messa in atto per diminuirli, negli altri paesi, li ha invece moltiplicati. Perché? Se fosse la depenalizzazione a diminuire gli aborti, lo sarebbe in tutti i paesi dove sono legalizzati. In Italia la 194 aiuta perché impedisce di lucrarci sopra: qui gli aborti sono obbligatoriamente in strutture pubbliche o convenzionate, ed è vietato alle cliniche private di farne a prezzi liberi (come invece avviene in Spagna per il 98 per cento degli aborti): non essendoci guadagno, non c’è interesse economico ad incoraggiarli. Ma non basta a spiegare l’anomalia tutta italiana di aborti in calo, bassa natalità e scarso uso di contraccezione chimica.

L’eccezione italiana è una cultura cristiana profonda, condivisa nei fatti anche da molti non praticanti, che ha consentito alla famiglia naturale, quella basata sul matrimonio fra un uomo e una donna e riconosciuta dalla nostra – laica – Costituzione, di reggere l’urto della secolarizzazione, che proprio la famiglia mira innanzitutto a scardinare. In un vissuto coniugale stabile, si ha meno paura ad affrontare la vita accanto a un parente disabile, a un anziano, o a un bambino 'inaspettato'. Chi si è sentito accolto all’interno di saldi rapporti familiari, più facilmente sarà pronto ad accogliere, e a vivere un 'imprevisto'. Un’eccezione italiana su cui sarebbe bene riflettere.
Assuntina Morresi
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NEUROSCIENZE/ D’Agostino: non basta una pulsione per condizionare la nostra volontà - INT. Francesco D'Agostino, il sussidiario.net, martedì 30 agosto 2011

Stefania Albertani, nel maggio del 2009 uccise la sorella 40enne. La costrinse ad assumere un quantitativo mortale di psicofarmaci. Poi, ne bruciò il corpo. Mentre era indagata a piede libero, provò a strangolare e a dare fuoco alla madre. Il gup di Como, Luisa Lo Gatto, l’ha condannata a soli 20 anni di carcere. Alla Albertani è stato riconosciuto un vizio parziale di mente sulla base – per la prima volta in Italia – di analisi neuro-scientifiche. «Si tratta di un campo affascinante e pioneristico, dove non esiste ancora alcunché di obiettivo. Prima di trarre da questo settore delle conseguenze sul piano giuridico-sociale sarebbero state necessarie delle conferme e delle verifiche a prova di bomba che non abbiamo»; la pensa così, raggiunto da ilSussidiario.net, Francesco D’Agostino, professore di Filosofia del diritto all’Università di Roma Tor Vergata. Una sentenza un po’ troppo frettolosa? In effetti, non si tratta soltanto del primo caso in Italia, ma di uno dei primi al mondo; lo ha sottolineto Guglielmo Gulotta, legale della donna. Il cervello della quale presenterebbe «alterazioni» in «un’area che ha la funzione» di disciplinare «le azioni aggressive». Sotto il profilo genetico, poi, manifesterebbe fattori «significativamente associati a un maggior rischio di comportamento» aggressivo, violento e impulsivo. «Il codice Penale italiano che, ricordiamoci, è del 1930, da questo punto di vista è particolarmente arretrato, perché prevede esclusivamente le psicopatologie come causa di esclusione o di riduzione della responsabilità», afferma D’Agostino. «Non fa cenno alla psicoanalisi, o ad altre forme di condizionamento sociale. Sarebbe opportuno che il legislatore italiano riprendesse in mano la questione». Fatta questa premessa, rimane il fatto che nel procedimento in questione non si sono adottate le opportune misure precauzionali. «E’ evidente la grossolanità della sentenza. Se scientificamente alcune persone potessero essere ritenute violente al punto tale da non poter controllare le loro pulsioni, e quindi socialmente pericolose, sarebbe coerente con questa impostazione un loro ricovero a vita o fino a quando un’altra perizia non dimostrasse la scomparsa di queste pulsioni; o finché non venissero, infine, efficacemente rimosse con tecniche biomediche». Il dibattito scientifico e antropologico è serratissimo.
 «Se una parte dei neuroscienziati è convinta di poter trovare delle determinanti neurologiche del comportamento, un’altra parte altrettanto meritevole di attenzione sostiene il contrario». Per intenderci: «Da che mondo e mondo – continua - si sa che un uomo ubriaco può perdere i propri freni inibitori e commettere atti di varia gravità. E, da che mondo e mondo, si sa anche che ogni individuo è responsabile dell’assunzione di queste sostanze». In sostanza, nel processo ci si è avvalsi di dati ammantati di scientificità quando ne erano privi. «Quello che gli scienziati non sono ancora riusciti a dimostrare in modo convincente è se la nostra struttura neurologica possa essere o meno sottoposta ad un controllo di tipo etico-giuridico. E’ un problema non diverso da quello delle nostre pulsioni sessuali. Hanno tutte una determinante biologica; non per questo si è mai dedotto che il soggetto non abbia la responsabilità di dominarle. Infatti, lo stupratore non è ritenuto meno responsabile del suo crimine perché le sue pulsioni sono particolarmente forti». La discussione è aperta; tuttavia, un certo atteggiamento potrebbe invalidarla: «il dibattito è impregnato di una sorta di mitologia scientifica. Dobbiamo tenere a mente che se davvero potessimo trovare le determinanti neurologiche dell’aggressività potremmo rilevare anche quelle dell’avidità di denaro o del razzismo». L’esempio non è azzardato, e implica delle conseguenze.«Alcuni studiosi ritengono che nel cervello, in particolare all’interno della migdala, si trovino le pulsioni del razzismo. Dato e non concesso che sia vero, allora dovremmo toglierla laddove la riscontrassimo abnorme?».
 Il problema è che a qualche “neuroscienziato pazzo” potrebbero venire in mente, in un ipotetico futuro, (non così ipotetico) di adottare la tecnica per i più disparati fini: «Per potenziare atteggiamenti – dice il professore - ritenuti evolutivamente positivi. Ad esempio, placando l’istinto del sonno per far lavorare di più gli operai». Non solo: «Già adesso assistiamo a delle potenziali esasperazioni, con la localizzazione celebrale della gelosia, del senso artistico, dello spirito d’avventura ecc… Elementi che fanno parte della complicata articolazione dell’essere umano – le inclinazioni -, che si sono sempre conosciuti.  Ma se usiamo questi parametri in sede socio-legale, entriamo in un campo minato. Potremmo cominciare a sostenere che la classe politica debba essere formata da persone neurologicamente caratterizzate in tal senso, escludendo, magari, gli artisti». Resta da capire perché la mentalità comune e la scienza forense accettino senza che questo ponga alcun problema il fatto che una malattia psichiatrica – come la depressione, la schizofrenia, o il disturbo paranoico -  venga, di norma, considerata, perlomeno, un'attenuante. «C’è una differenza enorme – chiarisce D’Agostino -: Le malattie psichiatriche alterano l’identità della persona malata, che agisce senza identificare se stesso come il responsabile dell’azione. Le neuroscienze, invece, non parlano di alterazione dell’identità personale, ma di condizionamenti neurologici. Affermano, ad esempio, che l’aggressività è un elemento costitutivo dell’identità di un determinato individuo. Ma di un individuo a tutti gli effetti normalissimo, in cui l’aggressività fa parte sostanzialmente della sua personalità».

(Paolo Nessi) 

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Madri a 50 anni, paga la mutua



La guerra preventiva (e costosa) alla buona medicina


Arriva dottor Skype cure, diagnosi e consulti navigano sullo smartphone



L'ospedale diffuso


Se la rabbia è figlia di un disagio antropologico


lunedì 29 agosto 2011

L'innovazione non ha prezzo



«Mio figlio, autistico, mi ha guarita» di Raffaella Frullone, 29-08-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

«Vostro figlio è autistico. Ha già dato tutto quello che poteva dare».  Il pugno allo stomaco arriva di Gina Codovilli nel pieno fiorire della sua vita.  40 anni, sposata felicemente con Walter e orgogliosamente mamma di Simone e Gicomo, rimane impietrita di fronte al neuropsichiatra infantile che freddamente esamina il suo terzogenito, Andrea, di appena pochi mesi, e pronuncia una sentenza di morte, “ha già dato tutto”. Per questa madre è l’inizio del baratro. La disperazione e l’angoscia le tolgono il respiro e le offuscano i pensieri e prima ancora di capire cosa sta realmente accadendo al suo bambino, sente su di lei impietoso arrivare un  grosso castigo, una punizione terribile e si chiede «Perché? Cosa ho fatto per meritare tutto questo?».

La maggioranza delle persone non ha un’idea precisa di cosa sia l’autismo. E’ così per tutte le patologie gravi, tendiamo ad allontanarle dalla mente, o semplicemente non ce ne occupiamo sperando che non ci riguardino mai. Così a malapena sappiamo che un bimbo autistico fatica a comunicare, non risponde agli stimoli, può arrivare ad essere violento. E se oggi questo concetto astratto e nebuloso è il più diffuso, possiamo immaginare quanto estranea dovesse risultare quella parola a Gina Codovilli nel 1987, per di più in un’epoca in cui le cause dell’autismo venivano rintracciate in un  rapporto inadeguato del bambino con la madre,  che era detta madre frigorifero.

La sensazione di smarrimento e la totale ignoranza rispetto alla malattia portano Gina a comprare una miriade di libri e a divorare bulimicamente tutto ciò che riguarda l’autismo. Negli anni Ottanta a farla da padrone erano le teorie di Bruno Bettelheim (Vienna, 28 agosto 1903 – Silver Spring, 13 marzo 1990), psicoanalista austriaco di origine ebraica il quale, oltre a colpevolizzare totalmente la madre, basava la terapia su una serie di sedute di psicoanalisi attraverso le quali il bambino si sarebbe dovuto “staccare” dai genitori, l’obiettivo era quello di annullare l’autorità eliminando regole e norme. Gina si rende presto conto che la psicoanalisi, fatta su un bimbo così piccolo, che per giunta non parlava, non avrebbe dato alcun risultato. Se ne rende conto molto prima della morte suicida di Bettelheim, prima che la sua pedofilia venisse alla luuce, prima che le sue teorie venissero finalmente abbandonate. Gina, nonostante le difficoltà e i sensi di colpa, ha subito chiara una cosa: avrebbe fatto di tutto per trovare la terapia giusta per Andrea.

La straordinaria vicenda di questa mamma che non si arrende e di un figlio che da malato da curare diventa “guarigione” per le persone che incontra è raccontata nel libro Il mio principe – soffrire crescere e sorridere con un figlio autistico che Gina Codovilli ha firmato per Itaca lo scorso anno e presentato al Meeting di Rimini 2011. «Dovevo questo libro ad Andrea, lui probabilmente non potrà mai parlare, perciò voglio raccontare la sua storia, raccontare quanto ha dato a tutti noi. E rompere questo muro di silenzio attorno all’autismo, voglio dire ai genitori nella mia stessa situazione che possono farcela».

Il volume è la testimonianza diretta e concreta di una madre che di punto in bianco si trova a lottare con quello che chiama “il terribile mostro” che tiene imprigionato il figlio. Gina racconta la totale incapacità di reagire dei primi tempi, il dolore lancinante, «come quello di un gancio ben piazzato» - scrive, che la lascia più volte accasciata sul pavimento. Un male che la trascina nella disperazione un giorno dopo l’altro fino a quando, inaspettatamente  nella sua mente si affaccia una supplica «Signore aiutami», sussurra.  Lei, che non aveva mai pregato perché non ne aveva bisogno, stava invocando Dio.

«Ammetto che se non mi fosse successo direttamente, non ci crederei – racconta oggi – Ma fin dalla prima volta, l’aver pronunciato quelle due parole, mi ha dato forza. L’energia sufficiente per affrontare la giornata con la mia famiglia. Non dico che all’improvviso il dolore sia sparito, ma ho scoperto che grazie alla preghiera riuscivo a reagire. Questo mi ha poi portato ad entrare in crisi perché mi sentivo vile, e codarda poiché pregavo solo perché ne avevo bisogno, eppure ho capito che quella era la strada».

Preso atto dei  progressi quasi nulli della psicoanalisi, e recuperate un minimo le forze, per Gina inizia la sua grande avventura a fianco di Andrea: la ricerca della guarigione. Un viaggio insieme doloroso e affascinante, ricco di gioie inaspettate ma anche di abissi profondissimi, un viaggio che inizia con una decisione amarissima per Gina, quella di lasciare il suo lavoro da insegnante «Mai una scelta mi è pesata tanto, ma nemmeno per un momento mi sono pentita». Si apre una lunga serie di tentativi: idroterapia, omeopatia, delfinoterapia, musicoterapia, ippoterapia, incontri con persone dotate di poteri, fino a Monsignor Milingo (allora ancora celibe, allora ancora nella Chiesa, ma già border line) e poi ancora terapie comunicative, del linguaggio...

Il libro racconta Andrea attraverso l’approccio del bimbo con ognuna di queste terapie, racconta i suoi progressi e i suoi momenti di difficoltà, ma soprattutto è la storia di una guarigione: quella di sua madre.

Impietrita e ghiacciata nello studio del neuropsichiatra, piegata dal dolore negli angoli più bui della sua casa, Gina ha lottato con tutte le sue forze perché Andrea guarisse. Nel libro ricorda la tensione nell'attraversare piazze affollate, l'imbarazzo di quando Andrea come se nulla fosse vedendo una lattina di Coca cola in mano a sconosciuti se ne appropriasse per berla, il senso di inadeguatezza quando aveva reazioni bizzarre, ma racconta anche di come ha sopportato con coraggio gli sguardi, a tratti severi a tratti compassionevoli delle altri mamme al parco giochi, a scuola, in piscina, ha spronato i suoi figli maggiori a stare con Andrea pur leggendo nei loro occhi impotenza. Ripercorre i momenti che l'hanno portata a modellare la sua vita sulle esigenze di Andrea, dimenticando sé stessa e mettendosi a servizio del suo “principe”, parla di come ha messo in discussione  la propria fede per poi finalmente capire che mentre lei si affannava senza sosta per cercare una guarigione miracolosa, la guarigione miracolosa era già in atto.

Andrea ha incontrato quelli che la sua mamma chiama “angeli” fin dai primi passi che ha mosso fuori casa, Lorenzo, il direttore della scuola per l’infanzia, i compagni di scuola che fanno a gara per stare accanto a lui, Anna, la maestra di sostegno, Fabio, il musicoterapeuta, la comunità del Monte Tauro, Barbara della delfinoterapia e tanti tanti altri. Dove Gina cercava una medicina per Andrea, Andrea trovava amore ed accoglienza e questa è stata la vera terapia miracolosa.

Oggi Andrea è una ragazzo di 23 anni, ha completato tutto il ciclo scolastico frequentando l’istituto alberghiero di Rimini, è zio di una nipotina bellissima, e il prossimo autunno probabilmente metterà a a frutto le sue capacità professionali aiutando la mensa della Comunità del Monte Tauro.

Gina sa che ci sarà ancora da combattere ma il futuro non la attanaglia più come in passato, perchè ha conosciuto la speranza. "Sono consapevole che tante saranno ancora le sfide da affrontare. Di sicuro mai e poi mai mi esimerò dal tentare tutto ciò che potrebbe risvegliare dal fatale incantesimo Andrea... il mio principe. Ma vorrei dire ai genitori dei bambini affetti da autismo che, passato il dolore inziale, si può tornare ad avere una vita serena, godere delle relazioni. Inoltre adesso fortunatamente, archiviato Bettelheim, i bibmi autistici possono contare su terapie ottime che li possono portare ad avere un buon grado di autonomia. Per conto mio Andrea è già guarito, anzi ha guarito tutti noi. Questi bambini non hanno qualcosa in meno degli altri, anzi hanno e danno qualcosa di più».

Impedire l'annidamento è contro la legge di Bruno Mozzanega, 29-08-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

A proposito dell'articolo Dai radicali la ricetta per evitare la ricetta" di Tommaso Scandroglio, desidero intervenire sul terzultimo capoverso, che riconduce il diritto del medico a non prescrivere la pillola del giorno dopo alla obiezione di coscienza prevista dalla 194. Lo riporto integralmente: «Torniamo a ciò che hanno detto i radicali: perché sostenere poi che la ricetta viene negata illegittimamente? La 194 permette al medico che solleva obiezione di coscienza di astenersi non solo dagli atti che provocano direttamente l’aborto, ma altresì da tutte quelle condotte che sono d’ausilio a tal fine. Appare evidente che scrivere la ricetta per la pillola del giorno dopo configura una collaborazione ad un potenziale atto abortivo e quindi rientra perfettamente e dunque legittimamente nell’ombrello di protezione giuridica previsto dall’istituto dell’obiezione di coscienza».

In relazione a queste considerazioni, vorrei precisare che non è alla legge 194 che si deve fare riferimento quando si tratta di contraccezione, bensì alla legge 405/75 che istituisce i consultori familiari: essa promuove la procreazione cosciente e responsabile, finalizzata alla tutela della salute della donna e del "prodotto del concepimento": quest’ultimo, per quanto sgradevole ne sia la definizione, altri non è che la nostra prima cellula che abbiamo visto emergere dall’incontro di uovo e spermatozoo.

La Legge 405/75 nel suo primo articolo definisce cosa si intenda per procreazione responsabile. Esso recita testualmente: «Il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità ha come scopi:

- l’assistenza  psicologica  e sociale per la preparazione alla maternità  ed  alla  paternità responsabile;

- la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile nel rispetto delle condizioni etiche e dell’integrità fisica degli utenti;

- la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento;

- la divulgazione delle informazioni idonee a promuovere ovvero a prevenire la gravidanza consigliando i metodi ed i farmaci adatti a ciascun caso».

Si parla di scelte libere supportate dall’informazione e concordanti con i propri principi, ma tali scelte non possono confliggere mai con la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento, tant’è che la stessa Legge 194/78, intitolata alla tutela della maternità, pone la tutela della vita umana dal suo inizio come principio fondamentale (del resto tale principio trova fondamento nella Costituzione fra i diritti inviolabili dell’uomo, e prima ancora nei principi del diritto naturale) e prevede l’interruzione volontaria della gravidanza solamente come eccezione a questo principio fondamentale e a condizioni precise:

- a gravidanza diagnosticata ed in evoluzione (e la diagnosi è necessariamente successiva all’impianto);

- attraverso una procedura finalizzata ad evitare l’aborto, che aiuti la donna a superarne le cause.

Sappiamo tutti come questi principi siano disattesi, ma nella Legge questa è l’unica ipotesi ammessa, e la Legge prevede tutta una serie di compiti affidati ad enti, istituzioni e alla società stessa affinché l’aborto possa limitarsi a dolorose eccezioni e si sviluppi una cultura di rispetto della vita sin dal suo inizio.

E dunque neppure la L.194/78 consente di eliminare il concepito prima che si annidi. Anzi, la L.194/78 affida ai consultori, ad enti e regioni il compito di informare, promuovere e sostenere la procreazione responsabile.

Di conseguenza il medico che non prescrive la contraccezione d’emergenza in quanto non tutela la salute del "prodotto del concepimento", certamente agisce in base a ciò che la propria coscienza gli detta, ma altrettanto certamente non esercita una obiezione, bensì agisce nel pieno rispetto della Legge.

Dobbiamo toglierci dalle trincee in cui ci vogliono relegare. Non siamo noi a doverci giustificare o difendere. E’ chi prescrive farmaci che possono impedire l’annidamento ad agire contro la Legge in nome di un presunto diritto della donna che in questi termini non può esistere.

* Ricercatore universitario nella Clinica Ginecologica di Padova

Avvenire.it, 29 agosto 2011 - LO STUDIO - Dalla biologia sintetica i veri amici dell'uomo? Di Luigi Dell'Aglio
Batteri riprogrammati che aiutano l’uomo a sconfiggere le malattie, la fame, l’inquinamento e la cronica crisi energetica. Microrganismi dotati di funzioni nuove, come purificare l’aria e l’acqua, produrre con le alghe carburanti "puliti", fornire farmaci "cellulari" che vanno a snidare i tumori cellula per cellula. Con l’aiuto della biologia sintetica, presto dovrebbe essere possibile captare anidride carbonica, trasformare l’industria in fabbriche "verdi" che non solo non avvelenano l’ambiente, ma consumano basse quantità di energia, offrire un’alternativa agli Ogm attuali, che possono provocare contaminazioni genetiche; trattare batteri di cui il mare è ricco e che sintetizzati possano nutrire le aree del globo sottoalimentate. Il progetto è imponente e si è impegnata a realizzarlo una disciplina che fa lavorare insieme biologi, ingegneri e informatici e chiama a raccolta decine di metodologie diverse.

La "biologia sintetica" è un’impresa scientifica le cui radici risalgono a cento anni fa. All’origine c’è l’esperimento compiuto da un biologo francese, tanto apprezzato da meritarsi fama e onori compresa la Legion d’onore e anche il soprannome di "ficcanaso" perché instancabile ricercatore. Semplificando molto, si può dire che Stephane Leduc, questo il suo nome, si stava esercitando con il fenomeno dell’osmosi quando, per un’elementare ragione di fisica, un’ampolla di vetro gli scoppiò tra le mani. Lui non ebbe paura, e per quella «crescita spontanea della materia» pensò addirittura di aver svelato il segreto della materia vivente, e perciò di aver fatto la scoperta più importante della storia. La sua era una pista falsa, ma la filosofia di fondo, l’idea di isolare i meccanismi essenziali alla vita, per realizzare in laboratorio sistemi biologici capaci di svolgere nuove funzioni, più utili all’uomo, è la stella polare dei fautori dell’attuale "biologia sintetica". Altro particolare: fu proprio Leduc a dare il nome alla nuova scienza. E quello che ora stanno facendo i biologi di frontiera è lavorare alla vita artificiale. Hanno già realizzato la "cellula minima" che sta alla base della biologia sintetica. Come tutte le conquiste della ricerca scientifica, anche questa biologia che avanza, più semplice, rapida, accessibile e meno onerosa, presenta indubbi vantaggi e anche vari rischi. Per quanto riguarda i vantaggi, gli scienziati sono prodighi di promesse e mostrano di avere i mezzi per realizzarle.

L’obiettivo è sintetizzare in laboratorio forme di vita alternative a quelle esistenti in natura, e molto più proficue per l’uomo, anzi proprio a servizio dell’uomo: for the good of humanity, per il bene dell’umanità. E che cosa è stato fatto finora sul piano strettamente biologico per raggiungere questo traguardo? È stato sintetizzato, in laboratorio, il genoma di un batterio, poi inserito nelle cellule di un’altra classe di batteri. Non è stata sintetizzata un’intera cellula (fatta di decine di migliaia di componenti). Ma questo basta, secondo Craig Venter, il biologo-imprenditore americano che ha già un grosso titolo di merito per aver sequenziato il genoma umano e ora guida il decollo della biologia sintetica. Lui e il suo team di 500 scienziati e ricercatori hanno compiuto il secondo passo di un percorso di tre, per realizzare un organismo totalmente sintetico. È nato così il Mycoplasma laboratorium, un batterio parzialmente sintetico derivato dal genoma del Mycoplasma genitalium. «Dobbiamo finirla di estrarre anidride carbonica dal sottosuolo, bruciarla nei combustibili e spedirla nell’atmosfera», dice Craig Venter. E aggiunge: «Perché ignorare lieviti che possono produrre biocarburanti con pochi centesimi di spesa e in quantità praticamente illimitate? Fra venti anni la biologia sintetica sarà necessaria per fare qualunque cosa». Certo il compito è molto impegnativo. Occorrono ricerche avanzate in centri di eccellenza universitari e privati. In Italia, per ora, spiccano Pavia e Bologna. Da Pavia, sotto la guida del professor Paolo Magni, è venuto il progetto di un biocarburante ricavato dal siero del latte. All’università di Trento opera il Centre for Computational and Systems Biology. Ma la biologia sintetica, che entusiasma gli adepti, solleva questioni filosofico-etiche. L’opposizione più dura viene da quanti sostengono che la nuova scienza mira ad avere libertà assoluta nella manipolazione della materia vivente. Accresce le preoccupazioni la rivoluzionaria enunciazione degli obiettivi della biologia sintetica: controllare, e addirittura dirigere, i meccanismi dell’evoluzione umana. Un invito alla cautela parte dal mondo della bioetica, che reclama rigorose e trasparenti procedure di valutazione dei rischi.

Bisogna assicurarsi che la biologia sintetica non comprometta la sicurezza alimentare, sanitaria e ambientale (la "fuga" di organismi parzialmente o interamente artificiali dai laboratori e la loro diffusione nell’ambiente, provocherebbe un inquinamento genetico). La più capillare vigilanza va praticata contro il rischio di bioterrorismo, raccomanda Kenneth Oye del Mit di Boston: micidiali armi "sintetiche" potrebbero, per esempio, essere usate per sterminare intere etnie. In un rapporto del Centro di studi bio-giuridici Ecsel, si fa notare che la biologia sintetica potrebbe cambiare anche il modo di concepire la vita, e si ribadisce il primato dei diritti dell’uomo rispetto agli interessi della scienza.
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Vita e famiglia beni irrinunciabili


La rivoluzione dei 30 anni



"La critica forse esagera ma i rischi ci sono davvero", intervista a Bruno Dallapiccola, Avvenire, 29 agosto 2011


venerdì 26 agosto 2011


MEDICINA/ Croce (Ohio University): liberi da pregiudizi, scopriamo il valore dei geni "inutili" - INT. Carlo Croce – il sussidiario.net - venerdì 26 agosto 2011

Parlare di libertà dei geni, come hanno fatto ieri al Meeting Carlo Croce, Pier Giuseppe Pelicci e Marco Pierotti poteva sembrare un po’ stravagante. Ma si è capito subito che dietro quel titolo c’era uno spessore di esperienza e di profondità che andava ben oltre il dibattito sulle specifiche ricerche e sulle stesse prospettive della biomedicina. Impressione che si è accentuata ascoltando l’intervento video trasmesso di Mauro Ferrari da Houston che ha raccontato come la partecipazione al Meeting nel 2010 abbia costituito una vera svolta nella sua vita.
Più e prima ancora della libertà dei geni, quella che è venuta a galla è la libertà dai pregiudizi di scienziati che decidono di aderire alla realtà e non agli schemi o ai canoni (qualcuno li chiama dogmi) che dominano il mondo della ricerca e spesso fanno da freno alla effettiva possibilità di scoprire qualcosa di nuovo.
Lo ha raccontato a Ilsussidiario.net con semplicità e sincerità lo stesso Croce, Direttore del Dipartimento di Virologia Molecolare, Immunologia e Genetica Umana presso l’Ohio State University e del Comprehensive Cancer Center, Ohio State University. Croce oggi è una delle riconosciute personalità nel mondo della genetica, dopo aver collezionato una serie di risultati di primo piano sulle frontiere più avanzate delle bioscienze: a cominciare dalla scoperta del ruolo dei geni microRNA.

Ci può riassumere la storia di questa scoperta?

È una storia emblematica di come spesso noi scienziati ci lasciamo bloccare da visioni preconcette che rallentano la ricerca. Nel mio caso devo dire che i geni microRNA erano stati scoperti in organismi come i vermi nel 1993; però nessuno li aveva presi in considerazione. Finché diversi anni dopo si è visto che geni omologhi a questi esistono anche nel genoma umano e il nostro gruppo ha potuto evidenziare che alterazioni dei microRNA erano presenti in tutti i cromosomi. Il pregiudizio era quello di non ritenere possibile la loro presenza rilevante nei cromosomi umani: ma se non l’avessimo avuto, avremmo fatto quella scoperta molto prima.

La scoperta riguarda la possibilità che i microRNA abbiano una responsabilità precisa nell’insorgere delle neoplasie …

Sì, e anche in questo si vede molto bene il ruolo negativo del pregiudizio. Stavamo cercando di vedere se c’era un gene coinvolto nella leucemia linfoide cronica: siamo riusciti a restringere l’area di interesse e l’abbiamo esplorata per sei - sette anni per vedere se c’erano geni alterati. Non abbiamo però trovato nessun gene interessante. Allora abbiamo mappato più precisamente le zone dove avrebbe dovuto esserci un gene responsabile: ma ancora senza successo. Il fatto è che cercavamo solo geni codificanti per una proteina, che peraltro sono una piccola frazione del genoma, non immaginando che potessero essere implicati anche i geni non codificanti, considerati allora a livello di “spazzatura”. Poi c’è stata la scoperta dei microRNA e tra questi abbiamo trovato ciò che cercavamo: La malattia era causata non dai soliti geni che ci aspettavamo ma da una nuova famiglia di geni: solo che noi non cercavamo lì la causa.

Quali sono state le conseguenze della scoperta?


Una volta eliminato il pregiudizio e aperto un varco nella direzione giusta, abbiamo ampliato il campo delle scoperte e abbiamo potuto dimostrare che la componente microRNA è alterata in tutti i tumori umani. Quindi possiamo iniziare a fare della diagnostica e prognostica tumorale semplicemente guardando i microRNA. Con un ulteriore vantaggio …

Quale?

Poiché i microRNA si possono inserire nel corpo, li possiamo usare come marcatori. Se vengono persi li possiamo reinserire, se vengono sovraesposti possiamo fare degli anti-microRNA che evitano la degradazione dei microRNA. Perciò, a mio avviso, in futuro potranno essere loro i bio marker dei tumori e consentiranno di rintracciare il tumore molto presto, quando non è ancora ben visibile e non è troppo maligno e un intervento può ancora essere risolutivo.

Ma c’è ancora qualcosa da scoprire nel DNA spazzatura?

I geni codificanti nel genoma umano sono appena il 2% e il resto era ritenuto spazzatura: ora però sappiamo che più del 50% del genoma umano è trascritto e lo è in modo diverso in cellule diverse; quindi più del 50% del genoma è importante, solo che non sappiamo ancora come agiscono questi che chiamiamo long non coding RNA. Per ora abbiamo scoperto la funzione dei microRNA ma ci sono ancora setto o otto famiglie di geni di questo tipo che attendono di essere conosciuti nella loro funzionalità. Stiamo solo intravvedendo delle possibilità.

Queste esperienze come hanno influito sul suo modo di fare scienza?


Io sono sempre stato molto aperto alle novità ma devo ammettere che quando ho scoperto il gene BCL3 prima della scoperta del micro RNA avrei potuto accorgermi della novità; invece, avendo visto che non codificava proteine, ho lasciato perdere e non mi sono reso conto della scoperta che avevo tra le mani. L’insegnamento importante che ne traggo è che bisogna seguire quello che i dati ci dicono, la realtà che appare nei nostri laboratori, non le nostre idee, i nostri dogmi.

Nel suo campo si raggiunge un alto livello di specializzazione, ma non si rischia di perdere di vista la malattia e l’ammalato?

Sono convinto che la nostra tensione debba essere rivolta alla cura del malato e che i nostri sforzi debbano concentrarsi sulla malattia non sulle nostre tecniche pur sofisticate. Se l’obiettivo è conoscere sempre più in profondità il nostro organismo e curarlo il più possibile, allora dobbiamo usare tutti gli strumenti a nostra disposizione: se non abbiamo una data competenza ce la possiamo procurare oppure possiamo rivolgerci a chi ce la può fornire. Ci vuole un approccio alla medicina che vada oltre la disciplina ristretta e sappia integrare tutte le competenze possibili per raggiungere il risultato.


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