martedì 31 gennaio 2012


Avvenire.it, Un Paese senza figli Sani ma sempre meno, 31 gennaio 2012

Non è un paese per bimbi. Pochi, troppo pochi, i bambini italiani. Decenni di politiche familiari distratte e inefficaci hanno portato il Belpaese in fondo alla classifiche internazionali della denatalità. Quando, invece, provvedimenti mirati possono invertire la tendenza: vedi i buoni risultati delle province autonome di Trento e Bolzano. Pochi, ma almeno sani, grazie a una rete pediatrica efficiente: più al Centro Nord che al Sud dove si ricorre troppo spesso al ricovero in ospedale. Sani sì, tanto da scoppiare: cattive abitudini alimentari e sedentarietà li stanno candidando in massa a un futuro di adulti cardiopatici e diabetici.

È questo, in sintesi, il quadro che emerge dal primo Libro bianco 2011 - La salute dei bambini, un dossier documentato – 174 pagine di dati e analisi – prodotto dall’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane e la Società italiana di pediatria (Sip). A presentarlo, alla Facoltà di medicina dell’Università Cattolica, il professor Walter Ricciardi, direttore dell’Osservatorio oltre che dell’Istituto di igiene della Cattolica, assieme al professor Alberto Ugazio, presidente della Sip e coordinatore del dipartimento di Medicina pediatrica dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma.

«La salute complessiva dei nostri bambini resta buona, a preoccupare è la profonda disomogeneità dei servizi assistenziali nelle diverse regioni», ragiona Walter Ricciardi. Essere bambini, insomma, è più facile nel Nord-Est che al Sud.

Capillare la rete pediatrica territoriale: il numero di pediatri di libera scelta tra 2001 e 2008 è aumentato del 6,3%, passando da 7.199 a 7.649. Il rischio, già a partire dal 2015, è che i pediatri per l’assistenza primaria diminuiscano in modo drastico: molti andranno in pensione e non saranno rimpiazzati dai giovani, perché l’accesso alle scuole di specializzazione è a numero chiuso. Secondo un’indagine della Sip, la progressiva riduzione di pediatri, in atto dal 2010, porterà dagli attuali 15 mila professionisti a 12 mila nel 2020 e 8 mila nel 2025.

Cattive notizie, poi, arrivano dalla bilancia. Un bambino su quattro è grassottello, uno su dieci è proprio ciccione. I pediatri parlano di un 22,9% dei bambini di 8-9 anni in sovrappeso e dell’11,1% in condizioni di obesità. I problemi di peso affliggono di più le classi sociali più basse, con dati più preoccupanti al Sud. I bambini nel 2010 più in sovrappeso sono in Abruzzo (28,3%), Campania (27,9%), Molise e Basilicata (26,5%). Per l’obesità in testa Campania (20,5%), Calabria (15,4%) e Molise (14,8%). Nelle Province Autonome, invece, i valori più bassi (minori sovrappeso a Bolzano 11,4%, obesi a Trento 3,5%).
«Oggi, purtroppo a tavola comanda il bambino – spiega Alberto Ugazio – perché i genitori non sono più in grado di indicare ai figli le cose giuste e sbagliate a tavola, o non hanno tempo o non sono preparati per farlo».

Tanti piccoli tiranni che mangiano "alla carta": «I genitori chiedono al bambino anche molto piccolo cosa vuol mangiare, ma il bambino non ha gli strumenti per decidere per il proprio bene». Ritmi sempre più frenetici impediscono poi alla famiglia di vivere insieme il momento dei pasti. All’alimentazione ipercalorica, povera - per non dire priva - di frutta e verdura, si associa pochissimo moto. «Noi andavamo a scuola a piedi o in bici – ricorda Ugazio – oggi è impossibile o pericoloso nelle grosse città. Ma anche nei piccoli centri i genitori iperprotettivi accompagnano ovunque i figli in macchina».

Quelle bimbe negate sono un orrore moderno di Redazione - 31 gennaio 2012, di Massimo Introvigne, http://www.ilgiornale.it/

Il caso della donna uccisa in Afghanistan dal marito e dalla suocera per avere partorito per la terza volta una bambina invece dell'agognato figlio maschio è agghiacciante, ma non è isolato. I sociologi hanno coniato la parola «ginocidio» per indicare lo sterminio delle bambine da parte di famiglie che preferiscono i figli maschi. Si tratta di un dramma che è insieme antico e moderno. Certamente, in alcune società - dall'Oriente alle tribù amazzoniche - l'idea secondo cui una bambina «valga meno» di un maschio e che, specie in periodi di carestia o di crisi economica, possa essere eliminata ha radici molto antiche. A fronte di costi maggiori di quelli del maschio - specie dove, come avviene in India, ci si aspetta che al momento del matrimonio la moglie sia corredata da un'onerosa dote - si pensa che la bambina porti con s´ minori benefici. La stessa piaga indiana - vietata ma non scomparsa - dell'immolazione delle vedove sulla pira funebre del marito nasconde, dietro motivazioni culturali e religiose, l'idea che una vedova costi molto e produca poco. E tuttavia il «ginocidio» è anche un fenomeno molto moderno. Da quando l'aborto è diventato relativamente sicuro e legale, e la diagnosi prenatale permette di conoscere con anticipo il sesso del nascituro, il metodo più diffuso per eliminare le bambine è abortirle. In Cina le bambine sono le grandi vittime delle leggi sul figlio unico. Per ogni centoventi o centotrenta maschi che nascono in Cina solo cento sono bambine, il che significa che milioni di ragazzi cinesi non troveranno mai una moglie cinese. La Cina risponde importando mogli dalla Siberia e perfino dalla poverissima Corea del Nord, ma le conseguenze sociali sono drammatiche. Lo stesso avviene in India: anche qui milioni di potenziali mogli mancano all'appello. Fin dal 1994 il governo ha adottato una legge intesa a scoraggiare l'uso della diagnosi prenatale per identificare le bambine che poi - a differenza dei maschietti - sono abortite, ma soltanto un centinaio di medici sono stati inquisiti. Nel 2009 è stata istituita una «Giornata della Bambina» per fare fronte a un fenomeno sempre più allarmante.
Sarebbe un errore ritenere che l'aborto sia un'alternativa all'infanticidio delle bambine. È il contrario. Le statistiche mostrano che l'uccisione delle bambine è a sua volta in aumento. In India una bambina su tredici non arriva a compiere sei anni, e non si tratta principalmente di malattie. Migliaia di bambine sono soffocate o annegate, e la loro morte è poi denunciata come un «incidente» sia in India sia in Cina. Alcune sono semplicemente abbandonate per strada. Altre non sono mai denunciate all'anagrafe, ma questo crea per loro una tragica situazione di «persone che non esistono», in balia di ogni possibile sfruttamento. Anche nelle modernissime grandi città cinesi le organizzazioni per i diritti umani fotografano spesso corpicini di bambine buttati nei rifiuti. E in India si va sempre più diffondendo la paradossale pratica di operare bambine piccole con la genitoplastica, la modificazione chirurgica degli apparati genitali da femminili a maschili: una modifica, evidentemente, solo esteriore e che creerà ogni sorta di problema alle bambine coinvolte. Nella sola città di Indore un'indagine governativa ha portato alla luce trecento operazioni di questo genere in un anno, e la protesta dei vescovi cattolici è arrivata fino alle pagine dell'Osservatore Romano.

Uccidere anche la madre «colpevole» di partorire solo figlie femmine è per fortuna - anche se non inedito - decisamente più raro. Ma quando condanniamo - giustamente - queste «pratiche da Medioevo», non dovremmo dimenticare che nel Medioevo cristiano l'aborto e l'infanticidio erano rari. E che spesso è proprio l'idea moderna che si può «scegliere» il sesso del nascituro a incentivare il «ginocidio».

Un test apre nuovi scenari sull'empatia degli uomini - Bioetica - Il filosofo Singer pone il dibattito in USA. Ma è il sintomo di una genetomania - Siamo pronti alla pillola della moralità? Se si cancella il libero arbitrio, Massimo Pattelli Palmarini, 31 gennaio 2012, http://www.corriere.it

Un blog del New York Times , con un articolo del noto filosofo dell'etica e ambientalista Peter Singer, professore a Princeton, ritorna in questi giorni su un esperimento effettuato sui ratti all'Università di Chicago lo scorso Dicembre dal neuroscienziato Jean Decety e dai suoi collaboratori.
L'esperimento fece molto rumore perché, come ho avuto occasione di descrivere io stesso sul Corriere della Sera , in essenza, aveva dimostrato che alcuni ratti (si noti: alcuni, non proprio tutti), posti di fronte a una situazione nella quale potevano tranquillamente mangiare della cioccolata, oppure liberare un altro ratto visibilmente imprigionato in un tubo trasparente, preferivano agire da liberatori e poi condividere con il compagno quella cioccolata. Nessuna differenza è stata osservata tra ratti maschi e ratti femmine nel liberare un compagno dello stesso sesso. Sono ancora in corso i più complessi esperimenti su maschi che liberano femmine o l'inverso.

L'empatia, cioè la condivisione soggettiva della sofferenza altrui, si rivela essere, quindi, evolutivamente molto antica. Risale a circa 60 milioni di anni addietro, quando roditori e primati avevano un antenato comune. Infatti, Decety mi conferma che i circuiti cerebrali sono gli stessi in noi e nei roditori: i nuclei del tronco cerebrale, l'amigdala, l'ipotalamo, l'insula e la corteccia orbito-frontale. Anche gli ormoni responsabili dell'attivazione di questi centri cerebrali sono gli stessi: l'ossitocina, la prolattina e la vasopressina.

Peter Singer riporta anche casi reali del tutto opposti, cioè suprema indifferenza degli esseri umani di fronte a una manifesta, tragica sofferenza di altri esseri umani. Si chiede se sarebbe possibile creare una pillola dell'empatia, un farmaco che, una volta somministrato, generasse compassione in chi ne è spontaneamente carente. Se questo fosse farmacologicamente possibile, avremmo, per i potenziali criminali, una terapia preventiva assai più semplice e indolore di quella rappresentata da Stanley Kubrick nel noto film Arancia meccanica .
Immaginiamo che una simile pillola, chiamiamola empaten , sia possibile. Decideremmo di usarla? Su chi e perché? Immaginiamo anche che un semplice test effettuato mediante prelievo di sangue riveli quali individui sono spontaneamente inclini all'empatia e quali non lo sono. Vorremmo somministrare ai secondi, preventivamente, l' empaten ? Solo se accettano, o anche se non accettano? E con quale autorità? Dove finirebbe il libero arbitrio? I commentatori del blog di Singer offrono un vasto spettro di opinioni, per lo più contrarie all'idea della pillola e tutte problematiche. In effetti i problemi sono molti e tutti spinosi. Per esempio, l'autore dello studio sui ratti, Jean Decety, ha anche verificato che nei medici e nei chirurghi l'empatia è assai attenuata, per necessità professionali. Rise quando gli tradussi il vecchio proverbio «Il medico pietoso fa la piaga puzzolente» e ammise che è un proverbio saggio.

Vorremmo somministrare l' empaten anche ai clinici?
Personalmente ritengo che si sia tutti un po' succubi di una certa crescente neuromania e di una genetomania. Va benissimo sondare le radici neurobiologiche e genetiche di un numero sempre crescente di comportamenti, predisposizioni e stati d'animo. Meno bene, però, adottare di conseguenza un atteggiamento scientista e potenzialmente manipolatore. Il libero arbitrio è un peso, ma dobbiamo sopportarlo. Le spontanee differenze comportamentali, caratteriali e morali tra gli individui arrecano incertezze e complicano la vita. Provocano anche tragedie e orrori, ma la soluzione non sarà una pillola o una stimolazione di aree cerebrali specifiche. I progressi della neurobiologia, la neurofarmacologia e la genetica ci consentiranno di capire meglio come siamo fatti, ci daranno un quadro più approfondito della natura umana, ma le conseguenze dovremmo trarle noi tutti, individualmente e collettivamente, con la mente, il sentimento, la persuasione e l'educazione. Cureremo meglio le malattie, anche quelle psichiatriche, ma con il pieno consenso dei pazienti. Nel blog, una signora di Arlington, Massachusetts, chiede, come paradosso, se vorremmo accordarci in anticipo sul punteggio finale del campionato di football. Il paragone mi sembra calzante. La vita quotidiana è piena di incerti e non vorremmo pillole che progressivamente li eliminassero tutti.


31/01/2012 - Engelhardt: senza Dio bioetica in scacco - Il filosofo americano: prive di un fondamento divino tutte le morali sono socialmente e storicamente condizionate, http://www3.lastampa.it

«Secolarizzazione e bioetica» è il tema della relazione che il filosofo americano Tristram H. Engelhardt, uno dei più importanti bioeticisti del mondo, direttore del Journal of Medicine and Philosophy, tiene oggi a Torino, alle ore 18 presso il Salone della Casa Valdese (corso Vittorio Emanuele II, 23) in occasione della presentazione del suo libro Viaggi in Italia. Saggi di bioetica (ed. Le Lettere, pp. 428, e38). Intervengono Gianni Vattimo e Maurizio Mori, modera l’incontro Luca Savarino. Anticipiamo uno stralcio dell’intervento di Engelhardt.

Che senso possiamo dare all’affermazione secondo cui «tutti gli uomini sono stati creati uguali» in una cultura «dopoDio» e post-metafisica? Se Dio non viene riconosciuto come colui che crea gli uomini in un qualche senso uguali, in che senso gli esseri umani sarebbero uguali? Quale sarebbe la forza morale canonica della pretesa dell’uguaglianza, a fronte delle enormi disparità e disuguaglianze tra esseri umani, e dell’irriducibile pluralismo morale?

Verso la fine del XX e all’inizio del XXI secolo, Richard Rorty (1931-2007) e altri si sono confrontati con il radicale venir meno della morale. Essi hanno riconosciuto l’inevitabile riformulazione delle forze della morale secolare. In particolare, Rorty ha riconosciuto il motivo per cui è impossibile fornire una fondazione alla morale, o, per quel che ci riguarda, della bioetica.

Rorty sostiene che è necessario riconoscere «che non esiste la possibilità di fuoriuscire dai diversi vocabolari che sono stati utilizzati e di trovare un metavocabolario che in qualche modo renda conto di tutti i possibili vocabolari, di tutti i modi possibili di sentire e giudicare. Una cultura storicista e nominalista come quella che ci sta di fronte si accontenterebbe piuttosto di narrative che connettano il presente al passato, da una parte, e alle utopie future, dall’altra».

Rorty conclude che «possiamo conservare la nozione di “morale” solo nella misura in cui possiamo smettere di pensare la morale come la voce del divino dentro di noi e possiamo pensare a essa come la voce di noi stessi in quanto membri di una comunità, portavoci di un comune linguaggio. Possiamo conservare la distinzione tra morale e prudenza se non la pensiamo come la differenza tra il richiamo all’incondizionato e il richiamo al condizionato, ma come la differenza tra il richiamo agli interessi della nostra comunità e il richiamo ai nostri privati, confliggenti, interessi».

La difficoltà della morale e della bioetica secolari, riconosce Rorty, è che non possiamo stabilire quali siano la morale e la bioetica canoniche, se anche esistessero. Ma si potrebbe andare al di là delle posizioni di Rorty. Senza petizioni di principio, che finiscono in un circolo vizioso, o senza impegnarsi in un regresso all’infinito, non si può neppure affermare la priorità morale di una comunità di individui anonimi (il cosiddetto punto di vista morale) nei confronti delle pretese della comunità particolare di coloro a cui siamo intimamente legati da un punto di vista socio-culturale, la comunità della nostra famiglia, dei nostri amici, dei nostri vicini prossimi.

Senza fondamenti, e senza una prospettiva divina, non si può dimostrare che abbiano una priorità razionale cogente né la comunità anonima di tutti gli individui, né la comunità di coloro che amiamo e a cui restiamo fedeli. Il tentativo di Rorty di preservare qualcosa della priorità tradizionale della morale sulla prudenza è destinato al fallimento. Si resta con una pluralità di morali come strutture normative (alcune delle quali rifiutano persino un punto di vista morale), sostenute da discorsi morali differenti supportati da differenti condizioni narrative socio-culturali. Come ha fatto notare Immanuel Kant (1724-1801) due secoli prima di Rorty, la morale non può mantenere la propria pretesa tradizionale di un contenuto singolare canonico e la priorità della morale sulla prudenza se non agendo, quantomeno, come se esistessero Dio e l’immortalità.

Una volta separate dal proprio ancoraggio in Dio e/o nell’essere (il che significa in una metafisica), tutte le morali e le bioetiche secolari diventano più o meno chiaramente narrative morali particolari, socio-storicamente condizionate, che affermano configurazioni particolari di intuizioni morali che si muovono nella dimensione del finito e dell’immanente. A differenza delle affermazioni di obblighi morali fondati su una comune origine divina, che potrebbero essere riconosciute persino da un ateo come putativamente fondate nell’essere - nonostante l’ateo consideri falsa tale pretesa - la morale secolare contemporanea è necessariamente contingente e storicamente condizionata. Tale sradicamento e tale contingenza hanno implicazioni drammatiche riguardo alla forza delle pretese normative avanzate dalla teoria morale contemporanea dominante di stampo secolare su questioni come il significato morale di autonomia, uguaglianza, uguaglianza di opportunità, diritti umani, giustizia sociale e dignità umana.

lunedì 30 gennaio 2012

Un falso privilegio



Non facciamo come le formiche


Non riduciamoci tutti come Narciso -. Un figlio ci regala la vera maturità



Avvenire.it, Bauman: io disabile in un mondo che esclude, 30 gennaio 2012

Normalità è il nome elaborato ideologicamente per significare maggioranza. Cos’altro può significare, «normale», se non il fatto di ricadere in una maggioranza statistica? E cos’altro significa «anormalità» se non l’appartenenza a una minoranza statistica? Parlo di maggioranze e minoranze perché l’idea di normalità presuppone che alcune unità di un totale complessivo non siano conformi alla «norma»; se il 100 per cento delle unità recassero gli stessi tratti distintivi, sarebbe difficile che emergesse l’idea di una «norma». Quindi l’idea di «norma» e «normalità» implica una dissimiglianza, una difformità: la suddivisione di un totale complessivo in una maggioranza e in una minoranza, in un «la maggior parte» e «alcuni». La «elaborazione ideologica» che ho menzionato si riferisce alla sovrapposizione del «si deve» sull’«è»: non soltanto le unità di un certo tipo sono in maggioranza, ma esse sono come «dovrebbero essere»; sono «giuste e appropriate»; al contrario, quelle che difettano dell’attributo in questione sono come «non dovrebbero essere» – «sbagliate e inappropriate». Il passaggio dalla «maggioranza statistica» (un’enunciazione di fatto) alla «normalità» (un giudizio di valutazione), e dalla «minoranza statistica» alla «anormalità», attribuisce una differenza di qualità alla differenza nei numeri: essere in minoranza significa anche essere inferiori. Si sovrappone una differenza di qualità sulla differenza numerica – e, se viene applicata alle interazioni umane, si riciclano le differenze della forza numerica nel fenomeno (sia in teoria, sia in pratica) della ineguaglianza sociale. La questione della «normalità versus anormalità» è la forma in cui la questione della «maggioranza versus minoranza» viene assorbita/addomesticata, e conseguentemente fissata, nella costruzione e nella preservazione dell’ordine sociale. Sospetto perciò che «disabilità» e «invalidità», i nomi affiliati (e in misura parzialmente maggiore, benché non interamente, «politicamente corretta») per «anormalità», quando si riferiscono al trattamento delle minoranze umane come inferiori, siano parte integrante della più vasta questione «maggioranza versus minoranza» – e quindi in definitiva un problema politico. Questo problema si focalizza sulla difesa dei diritti delle minoranze che i meccanismi democratici esistenti, basati come sono sull’incorporazione del fatto di essere una maggioranza nel diritto di assumere decisioni vincolanti per tutti, sembrano essere incapaci (e con ogni verosimiglianza non particolarmente desiderosi) di affrontare, gestire e risolvere definitivamente la questione.

Nella famosa storia di H.G. Wells «Nel Paese dei Ciechi» la questione viene posta ed esplorata acutamente: in una società di ciechi, un orbo sarebbe stato re, come credeva la persona che si avventurò nella vallata per fuggire dalla società di chi vedeva con entrambi gli occhi, in cui essere orbi veniva considerato un difetto avvilente? Se fosse stato davvero re in una società di ciechi, la tacita assunzione sottesa alla nostra società (che la superiorità dei vedenti sui ciechi è un verdetto della natura, piuttosto che una creazione socioculturale) sarebbe stata confermata, rinforzata, forse addirittura «provata». Ma ciò non avvenne. Lo straniero con un occhio solo non venne acclamato come un re da adorare e a cui obbedire, venne visto invece come un mostro da aborrire e scacciare! Nella «normalità» fatta nella valle su misura per i suoi abitanti che avevano avuto il destino di essere ciechi lui, l’orbo, era portatore di una minacciosa anormalità. Il che spiega che la normalità non viene vissuta come repellente e minacciosa a causa della sua intrinseca inferiorità, bensì per il fatto che contrasta l’ordine stabilito per aderire ai bisogni/costumi/aspettative dei «normali» – vale a dire, della maggioranza. Alla fin fine, discriminare ciò che è «anormale» (ovvero la condizione della minoranza) è un’attività posta in essere per difendere e preservare l’ordine, una creazione socioculturale.

Nella sua storia in due romanzi distinti, «Cecità» e «Saggio sulla lucidità», José Saramago ha sviluppato ulteriormente questo argomento. Nel primo romanzo, un’inesplicabile cecità affligge l’intera popolazione della città con l’unica eccezione di una donna, sulla quale gli orrori della nuova «norma» che sospende e invalida tutte le regole del vecchio ordine si focalizzano sulla minoranza di una persona eletta nelle menti terrificate della maggioranza cieca come una causa, forse la causa principale, del loro miserabile destino.  Nel secondo romanzo la città è totalmente guarita dalla peste della cecità, ma è afflitta da un disastro parimenti inesplicabile che si è abbattuto sull’ordine sociale: il rifiuto dell’elettorato di esprimere la propria preferenza, e quindi di mantenere vivo il presupposto stesso della democrazia, in modello attualmente vincolante di ordine. Tutte le forze della polizia segreta vengono così mobilitate per dare la caccia a, e neutralizzare, quell’unica donna che durante il flagello della cecità non aveva perduto la vista…
Anormali una volta, anormali per sempre; anormali rispetto a un singolo aspetto, anormali in tutto; e non una minaccia a un ordine specifico, bensì all’ordine in quanto tale. Alla fine, tutto ruota intorno all’ordine. I vari tipi di ordine sono tagliati su misura delle maggioranze, e così i pochi che nicchiano o si rifiutano apertamente di obbedire si ritrovano a essere una minoranza, agevole da sminuire come una «deviazione marginale» – e perciò facili da individuare, localizzare, disarmare e sopraffare. Selezionare, designare e isolare come una «frangia di anormalità» è il necessario fattore concomitante della costruzione dell’ordine e il costo inevitabile della sua perpetuazione. Questa è una verità molesta, dolorosa e sgradevole, e tuttavia è la verità. Il mondo abitato viene strutturato in modo da essere ospitale – conveniente e confortevole – per i suoi abitanti «normali»: le persone che costituiscono la maggioranza. Le automobili devono essere equipaggiate con luci e trombe che avvisino del loro arrivo – strumenti di nessuna utilità per i ciechi e i sordi. Le scale, che hanno il compito di facilitare l’ascesa verso i luoghi elevati, non sono di alcun aiuto per le persone relegate su sedie a rotelle. Io stesso, nella mia età avanzata, avendo ormai perso la maggior parte del mio udito, non posso più essere allertato dai telefoni o dal campanello di chi suoni alla mia porta.

Questi esempi si sono riferiti finora alle disabilità fisiche – che in una società solidale potrebbero essere sanati da trattamenti medici e, nel caso dell’assenza di una funzione fisiologica, mitigati da strumenti tecnologici capaci di «estendere» il corpo umano e/o fare le veci delle risorse fisiche mancanti. Non esistono però le sole disabilità fisiche, vi sono altre disabilità molto più diffuse, anche se in questi casi i loro poteri disabilitanti vengono spazzati sotto il tappeto, ipocritamente negati o altrimenti ignorati e dissimulati. Non sono problemi medici o tecnologici ma politici. Per esempio, gli handicap causati alle persone che non possiedono un’automobile cancellando, come «improduttivi» (e per ciò stesso di peso ai cittadini «normali» che pagano le tasse), molti percorsi degli autobus o chiudendo uffici postali o filiali bancarie «non remunerative». Vi sono, specialmente nella nostra società dei consumi, consumatori «squalificati», a corto di denaro, a cui non si fa credito, e a cui perciò si nega la possibilità di raggiungere gli standard di «normalità» stabiliti dal mercato e misurati dal numero di cose possedute e dagli atti d’acquisto. E, circostanza ancora più importante per il tema di cui ci stiamo occupando, vi sono grandi quantità di giovani fisicamente prestanti in età scolare, disabilitati nei loro tentativi di raggiungere gli standard posti dal mercato del lavoro dal fatto di essere nati e cresciuti in famiglie i cui guadagni sono sotto la media o in quartieri deprivati e trascurati… Famiglie che vivono in povertà (anche in questo caso una condizione misurata da standard di «normalità» che, posti in termini socioculturali, sono i fornitori più prolifici di studenti deboli o «ritardati»). In questi casi sarebbero necessari equivalenti politici degli strumenti medici o tecnologici usati per compensare le disabilità fisiche. Questi mezzi esistono senz’altro, ma la loro disponibilità o la loro assenza dipende sono in piccola parte dalle scuole e dagli insegnanti. L’ineguaglianza delle opportunità educative è qualcosa che soltanto le politiche statali possono affrontare e risolvere in modo netto e preciso. Finora, comunque, come abbiamo visto prima, le politiche statali sembrano più propense alla latitanza che a mettersi in gioco con serietà per risolvere questo enorme problema.

IL TESTO
Venti conversazioni in un’estate, tra internet e Leeds (città di residenta di Bauman). È nato così «Conversazioni sull’educazione» (pp. 146, euro 12), il volume Erickson in cui l’intellettuale di origine polacca dialoga con l’italiano Riccardo Mazzeo e del quale offriamo in questa pagina un saggio. A 86 anni il sociologo che ha coniato la definizione di «società liquida», si occupa delle giovani generazioni e del tema dell’educazione: qual è oggi il suo ruolo, se manca un’idea precisa di futuro, se i progetti a lungo termine sembrano ormai impossibili, se non esiste più un modello unico e condiviso di umanità? Bauman offre una prospettiva critica, ma anche di estrema apertura, per esempio ritenendo che l’inevitabile processo di meticciato culturale dovuto all’emigrazione di extracomunitari in Occidente sia «fonte di arricchimento e motore di creatività, per la civiltà europea così come per qualunque altra»; purché la coabitazione sia basata da ambedue le parti sul rispetto dei principi del "contratto sociale" europeo.

Elie Wiesel: "Volevo l'eutanasia, ma mia moglie m'ha salvato"



Il Quarto Reich è tra noi / come si azzera la talassemia, 29 giugno 2009,  http://www.postaborto.it

Passeggiando nel forum del Dono mi sono imbattuto in un tema scritto da un ragazzo talassemico ed inviato dalla sua insegnante a Famiglia Cristiana. Forse non si può pretendere da tutti la stessa vitalità e la stessa forza nonostante la sofferenza, ma resta una bella testimonianza.
Poco oltre si parlava di un sito che affronta il tema della “prevenzioneug” della talassemia, e fra breve capirete il perché delle virgolette. Eccovi alcuni brani:
Più recentemente gli studi genetico-molecolari e più precisamente quelli sul DNA dei geni globinici, associati con la messa a punto di nuove tecniche per il prelievo del materiale genetico del feto (i villi coriali), hanno aperto una seconda via di prevenzione dell’anemia mediterranea: quella della diagnosi genetica precoce della malattia nel feto (diagnosi prenatale) e dell’interruzione della gravidanza se il bambino risulta ammalato.
Oggi esistono dunque due diversi metodi per evitare la nascita di malati di anemia mediterranea:
1. la prevenzione pre-matrimoniale che si realizza identificando precocemente e cioè fin dall’adolescenza i portatori sani di beta microcitemia (e cioè la varietà di microcitemia che causa la malattia) ed informandoli esattamente dei rischi del matrimonio fra due beta microcitemici e dei mezzi per evitare questi rischi;
2. la prevenzione post-matrimoniale che si attua prima o subito dopo il concepimento di un figlio da parte di una coppia microcitemica e che consiste nell’applicazione della diagnosi prenatale nelle prime settimane di gravidanza e nell’eventuale aborto se il feto risulta ammalato.
Attenzione: all'estensore della pagina è scappato un “bambino” ma poi si è corretto con un asettico “feto”. Dunque, se il bambino è ammalato lo si fa fuori. Ma allora perché non estendere questo tipo di prevenzione a tutte le malattie e a tutte le età? Se ne avrebbero importanti benefici, come scopriremo tra poco.
Complessivamente attraverso queste vastissime indagini popolazionistiche sono state identificate fino ad oggi nel Lazio 916 coppie a rischio ed interrotte 143 gravidanze con feti omozigoti.
Ovvero 143 bambini ammalati sono stati fatti fuori grazie alle tecniche mediche: se non è progresso questo... e ancora:
Dal 1992 al 1998 non è più nato nel Lazio nessun malato di anemia mediterranea. Nel 1999 ne sono nati due, ma per cause indipendenti dal piano di prevenzione. Nel corso degli ultimi 25 anni ne sarebbero nati, in assenza degli interventi di prevenzione, più di 200.
Il dato evidenzia chiaramente gli enormi benefici che il piano di prevenzione ha arrecato non solo a livello medico, morale e sociale alla popolazione del Lazio, ma anche a livello economico-finanziario.
Il grassetto è nell’originale. Sono fieri questi signori del loro operato. Purtroppo due bambini sono nati, in barba alle loro strategie “preventive” ma l’azzeramento della malattia è riuscito quasi completamente. L’eventuale aborto allora – visto che dove questo metodo “preventivo” è stato proposto è sempre stato effettuato – non è poi tanto eventuale, ma indispensabile, certo, irrinunciabile. E oltretutto questo aborto “terapeutico” non è la extrema ratio ma la possibilità più frequente: nel 70% (143 su 200) dei casi la “prevenzione” avviene con l’eliminazione del malato. Prodigi della medicina odierna!
Naturalmente per questi medici, oltre alla disumanità di questa tecnica “preventiva”, non esistono le pesanti ricadute psicologiche sulla madre , sulla famiglia, sui figli superstiti che si accorgono che se fossero stati malati sarebbero stati fatti fuori. E l’aborto viene spesso effettuato in seguito a fortissime pressioni da parte dei medici ed i genitori che decidono di non sopprimere il figlio vengono etichettati come pazzi ed egoisti.
E per concludere, in questa pagina web che avrebbe fatto inorridire Ippocrate, viene allegata una tabella che rende bene il raggiungimento dell’“azzeramento” delle nascite di bambini malati:

Domande: da quando comincia questa (va riconosciuto) efficace opera di "prevenzione"? E da quando è entrata in vigore la legge 194? C'è un nesso tra le due cose? Ma la legge 194 non ci avevano detto che era per combattere l'aborto clandestino e salvaguardare la salute della donna? Come mai i partiti che l'hanno votata non si sono mai lamentati di queste conseguenze eugenetiche?
E concludo citandovi uno scritto di qualche decennio fa.
Un bambino idiota costa quanto quattro o cinque bambini sani. Il costo per otto anni di istruzione normale è di circa 1000 marchi. L’istruzione di un sordomuto costa circa 20.000 marchi. In tutto il Reich tedesco spende circa 1,2 miliardi di marchi ogni anno per la cura ed il mantenimento di cittadini con malattie genetiche.
Era il 1937 e, a differenza di oggi, lo sterminio dei malati era adombrato ma non era mai esplicitato pubblicamente. Alle famiglie dei bambini uccisi veniva detto che erano morti di polmonite e le uccisioni avvenivano all'interno di “cliniche” inaccessibili. Oggi lo sterminio avviene alla luce del sole e viene fatto passare per “prevenzione”, “terapia”. Goebbels al confronto era un dilettante.
Il Quarto Reich è tra noi. Anzi, peggio, è entrato dentro di noi.



Ecco perché l’amoralità dell’ateismo è un pericolo per la società, 30 gennaio, 2012, http://www.uccronline.it

Il rabbino Moshe Averick, impegnato nel dialogo con le altre religioni,  ha scritto un articolo davvero molto interessante, intendendo dimostrare un’altra area di contraddizione sulla concezione della vita priva di Dio.  In particolare, si è concentrato sul rilevare che l’amoralità degli atei (ovvero l’impossibilità ad affermare qualcosa come perennemente giusto o perennemente sbagliato, ma sempre relativo) si trasforma in una forma di debolezza sociale nel contrastare terribili mali che attanagliano la nostra società. Il  ”relativismo morale” infatti può gettare le basi filosofiche, ad esempio, per aprire la strada all’accettazione e all’approvazione della pedofilia (e altro).
E’ assiomatico, dice, che in una società priva di Dio non vi è qualcosa di morale o di immorale, ma solo l’amoralità. Questo è spesso frainteso col fatto che gli atei non hanno valori, ma tale conclusione è chiaramente errata. L’amoralità è un giudizio, non sulla esistenza di valori, ma sul significato di quei valori. Nella visione atea del mondo, infatti, l’essere umano non è “nient’altro che” un primate dalla posizione eretta, e i nostri sistemi di valori hanno un significato identico a quello degli abitanti della giungla. Immaginare che l’uomo sia qualcosa di “più” è quasi una bestemmia per l’apparato culturale riduzionista-neodarwinista. La morale dunque, è vista semplicemente come un termine che viene utilizzato per descrivere il tipo di sistema che un individuo (o una società di individui) preferisce soggettivamente. Ogni società -dicono- stabilisce, mantiene e modifica i suoi valori in base alle proprie esigenze. Lo scrittore Samuel Butler disse: «La moralità è il costume del proprio paese e l’attuale sensazione dei propri coetanei. Il cannibalismo è morale in un “paese cannibilista”». I valori dunque non sono altro che riflessi delle preferenze soggettive prevalenti, i quali ovviamente si adatteranno alle mutevoli esigenze, così ci spiegano i guru del laicismo. Non c’è nulla di perennemente giusto o perennemente sbagliato, di prescritto nell’uomo, tutto dipende dal bias degli appartenenti ad una data società. Averick ha voluto sottolineare la gravità di questa concezione attraverso l’argomento sull’accettazione della pedofilia nella società, che per ora è ancora uno dei pochi temi su cui esiste una (quasi) unanimità di giudizio (negativo, ovviamente). «Le conseguenze logiche e filosofiche dei sistemi di credenza degli atei sono inevitabili», ha affermato.  «Se non esiste nulla di giusto o sbagliato in modo oggettivo, allora l’abuso di bambini non può essere sbagliato in modo definitivo, ma dipenderà dall’opinione della società».  La conferma arriva dal pensiero dei noti esponenti di questa visione.

Ad esempio, il docente di bioetica Peter Singer presso l’Università di Princeton, alla domanda su cosa pensasse della pedofilia, ha risposto : «Se a te piacciono le conseguenze allora è etico, se a te non piacciono le conseguenze allora è immorale. Così, se ti piace la pornografia infantile e fare sesso con i bambini, allora è etico, se non ti piace la pornografia infantile e fare sesso con i bambini, allora è immorale». Joel Marks, professore emerito di filosofia presso l’University of New Haven, in un articolo del 2010 dal titolo “An Amoral Manifesto” ha detto: «ho rinunciato del tutto la moralità [...] da tempo lavoro su un presupposto non verificato, e cioè che esiste una cosa come giusto e sbagliato. Io ora credo che non ci sia [...].  Mi sono convinto che l’ateismo implica l’amoralità, e poiché io sono un ateo, devo quindi abbracciare amoralità [...]. Ho fatto la sconvolgente scoperta che i fondamentalisti religiosi hanno ragione: senza Dio, non c’è moralità. Ma essi non sono corretti, credo ancora infatti che non vi sia un Dio. Quindi, credo, non c’è moralità». Ecco, tra l’altro, un esempio di dogma “laico”. Marks ha quindi continuato: «Anche se parole come “peccato” e “male” vengono usate abitualmente nel descrivere per esempio le molestie su bambini, esse però non dicono nulla in realtà. Non ci sono “peccati” letterali nel mondo perché non c’è Dio letteralmente e, quindi, tutta la sovrastruttura religiosa che dovrebbe includere categorie come peccato e il male. Niente è letteralmente giusto o sbagliato perché non c’è nessuna moralità». Il ragionamento pare coerente: senza Dio, nulla è letteralmente giusto e sbagliato, neppure la pedofilia è per forza sbagliata. Dipende dall’opinione sociale, dai media, da cosa ne dice “Repubblica”, “Il Fatto Quotidiano” o “Il Giornale”. L’opposizione alla pedofilia, ha continuato il filosofo non credente, si basa solo su una sorta di preferenza: «come per la non esistenza di Dio, noi esseri umani possiamo ancora utilizzare un sacco di risorse interne completamente spiegabili per motivare determinate preferenze. Così, abbastanza di noi sono abbastanza contrari al maltrattamento di bambini, e probabilmente continueranno ad esserlo». Interessante che Marks riconosca che i principi morali non possono avere un significato oggettivo se non provengono da Dio, i valori etici (inclusi quelli sulla pedofilia), senza Dio sono destinati ad essere in mano al capriccio di coloro che li sposano: non hanno alcuna realtà oggettiva, ma tutto è basato su preferenze personali o condizionamento sociale. Prendendo l’esempio dell’omosessualità, il tentativo fino ad oggi nei Paesi secolarizzati è stato quello di condizionare la società verso la sua approvazione, è sufficiente infatti -in assenza di una cultura cristiana fortemente radicata- che il “potere” modifichi artificialmente l’opinione generale per rendere qualcosa morale o immorale, accettabile o non accettabile (così come avvenne con l’approvazione sociale del nazismo, del comunismo, del razzismo, dello schiavismo, dell’eugenetica ecc.). «Per dirla in un modo diverso», continua correttamente Averik, «in un mondo ateo, i termini “moralità” e “preferenze personale” sono identici e intercambiabili». La valutazione esclusivamente soggettiva è comunque in balia del “più forte” (condizionamento sociale) ed è notoriamente capricciosa: c’è chi preferisce il gelato al cioccolato e chi alla vaniglia, chi preferisce il jazz e chi invece l’hip-hop, c’è chi preferisce che i bambini possano avere rapporti sessuali con gli adulti e chi invece preferisce averli con gli animali domestici ecc., la maggioranza decide arbitrariamente cosa è moralmente accettabile o non accettabile. Ieri era accettabile l’insegnamento dell’eugenetica nelle università, oggi si tenta di far diventare la pedofilia un “normale orientamento sessuale“, con tanto di pressione sul DSM, il manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association. In Olanda i pedofili hanno dal 2006 anche un partito politico.

Michael Ruse, professore di filosofia presso la Florida State University, ha discusso con Jerry Coyne e Jason Rosenhouse (tutti e tre non credenti) sulla moralità. Ruse ha dichiarato  sorprendentemente che la pedofilia è immorale e questa è una verità oggettiva e non soggettiva (o preferenza personale): «(l’abuso di) ragazzi nelle docce è moralmente sbagliato, e questo non è solo un parere o qualcosa “sulla base di giudizi di valore soggettivo”».  E ancora :  «La mia posizione è che la biologia evolutiva pone su di noi alcuni assoluti. Si tratta di adattamenti proposti dalla selezione naturale. E’ in questo senso io sostengo che la moralità non è soggettiva».  In un altro articolo si contraddice (o meglio, torna nella normalità della visione laicista):  «La morale allora non è una cosa tramandata a Mosè sul monte Sinai. E’ qualcosa forgiata nella lotta per l’esistenza e la riproduzione, qualcosa modellato dalla selezione naturale. La morale è solo una questione di emozioni, come il piacere per il gelato o il sesso e l’odio verso il mal di denti e i compiti degli studenti [...] ora sapete che la morale è un’illusione che è stata messa in te per farti diventare un cooperatore sociale, cosa ti impedisce di comportarti come un antico romano? Beh, niente in senso oggettivo». Non essendoci nulla di pre-scritto,   di tramandato da Dio agli uomini attraverso una rivelazione, arrivando integralmente dalla selezione naturale, il fatto che una cosa sia giusta o sbagliata, dunque, è puramente una scelta emozionale del momento. L’unica cosa che rende sbagliata una crudeltà sterminata è il fatto che ora sia personalmente spiacevole (e domani?).

Il neodarwinista ateo Jerry Coyne ha voluto rispondere: «Ruse sembra affermare che le azioni di un pedofilo sono realmente e veramente sbagliate perché la selezione naturale ci ha programmati a credere che siano sbagliate. Qualcuno può spiegare che cosa mi manca? I concetti di giusto e sbagliato variano tra le culture contemporanee e si evolvono nel tempo. Fare appello alla psicologia e alla selezione naturale ci aiuta a risolvere le questioni di aborto o omosessualità?».  Coyne, per una volta, ha perfettamente ragione:   Ruse non può appellarsi alla selezione naturale. Egli è terribilmente confuso perché da una parte capisce che non può accettare che l’unica cosa sbagliata nelle molestie sui bambini sia il fatto che a lui non piacciono (e non piacciono alla società di oggi), e dall’altra parte deve negare Dio, in quanto non credente. Quindi si appella a qualcosa che renda oggettiva la negatività verso la pedofilia, ma commette un errore ingenuo. Coyne ha visto giusto: in una visione atea della vita, non può esservi nulla di intrinsecamente sbagliato, non è oggettivamente sbagliata la pedofilia come non lo è qualsiasi altra cosa. La “morale laica” non può che basarsi unicamente su preferenze personali del momento e condizionamento della società: oggi la pedofilia è sbagliata, ma non è detto lo debba essere sempre. Dipenderà dai gusti che avremo domani e dalla capacità della “società” di condizionarci.

Una volta che l’ateo realizza che tutti i suoi nobili principi morali non sono altro che sensazioni soggettive – “non diversamente dal gradimento o non gradimento degli spinaci” -, si accorge anche che i valori morali cambieranno secondo il capriccio della società. E se c’è una cosa che abbiamo imparato dalla storia terribilmente sanguinosa del 20° secolo, è che non c’è nulla che gli uomini e la società non siano in grado di fare. Senza una legge morale trascendente e oggettiva, l’essere non può che perdersi nella spirale dell’artificiale inferno della giungla umana.  Michael Ruse pare averlo capito e infatti ha cercato una via d’uscita: «La morale è, e deve essere, una sorta di divertente emozione. Ma deve far finta di non esserlo affatto! Se pensassimo che la moralità non è altro che piacere o non piacere degli spinaci, poi non reggerebbe [...] La morale deve apparire come obiettiva, anche se in realtà è soggettiva». E in un altro articolo : «Se metto il “soggettivo” in opposizione all’”oggettivo”, poi chiaramente il tipo di etica che propongo è soggettivo… ma non può essere soggettivo il male se penso alle molestie sui bambini!». E infine :  «le regole della morale devono essere vincolanti su di noi come se fossimo figli di Dio e Lui abbia deciso le regole». Ruse pare avere inconsapevolmente accolto l’invito che il teologo Joseph Ratzinger fece nel 2005  ai non credenti: «anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita come se Dio ci fosse».

EUTANASIA/ D'Agostino: non basta una legge (dell'Europa) a cambiare la "cultura" della morte - INT. Francesco D'Agostino, lunedì 30 gennaio 2012, http://www.ilsussidiario.net/

Una nuova delibera dell’Unione europea per dire no all’eutanasia. È stata approvata dall’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, e afferma che qualsiasi pratica “intesa come uccisione volontaria per atto o omissione di un essere umano in condizioni di dipendenza a suo presunto beneficio, deve essere sempre proibita”. Una scelta che ha ottenuto il plauso dell’Osservatore Romano, secondo cui dal 2010 a oggi “è la terza volta che da Strasburgo arrivano decisioni orientate alla difesa della vita”. Per Francesco D’Agostino, membro del Comitato nazionale di bioetica e professore di Filosofia del diritto nell’Università Tor Vergata di Roma, “per quanto quella del Consiglio d’Europa sia un’affermazione forte in linea di principio, non dobbiamo illuderci che ci fornisca una copertura decisiva nei confronti dell’eutanasia”.

Professor D’Agostino, perché la presa di posizione del Consiglio d’Europa non la soddisfa?

Mi fa molto piacere che ci sia questa affermazione così forte in linea di principio. Quello che per me va sempre ribadito, anche in questo caso, è che nelle questioni essenziali di bioetica non è sufficiente seguire indicazioni sia pure autorevoli di carattere politico, parlamentare o internazionale. La volontà politica dei governi, dei parlamenti o delle assemblee è palesemente mutevole, e quello che oggi può essere rigettato può essere invece accettato a brevissima distanza di tempo. Noi dovremmo con molta fermezza e serenità rivendicare un carattere naturale di certi principi non negoziabili in campo bioetico e non illuderci che la copertura di una delibera in campo parlamentare, sia pure autorevolissima, possa fornire l’argomento decisivo per dire di no all’eutanasia. Nel momento stesso in cui ci compiacciamo che questi organismi prendano certe posizioni, dobbiamo riconoscere che le stesse istituzioni possono dire di sì all’aborto, come pure ad altre pratiche inaccettabili.

Non le sembra di stare mescolando piani differenti?

Niente affatto. Il rischio è che l’obiettivo di queste delibere sia farci abbassare la guardia e demandare a organi politici assembleari, nazionali o internazionali, la soluzione pratica di questioni vitali. Facendoci così perdere la specificità di questi problemi che non è legale né politica, ma che riguarda innanzitutto una maturazione etica e bioetica delle coscienze.

Dal momento che l’eutanasia è un reato equiparabile all’omicidio, in che senso non si tratta di un problema politico e legale?
Il problema è la qualificazione giuridica dell’atto che chiamiamo eutanasia. Infatti si può tranquillamente sostenere che l’eutanasia è un omicidio, e poi difendere il suicidio assistito o la rinuncia consapevole alle terapie. Insomma, il rischio di chi dà troppo credito alle norme giuridiche e alle decisioni politiche è di demandare la soluzione dei problemi bioetici non alla coscienza, non al diritto naturale, non alla verità delle cose, ma alla volontà di organi deliberativi che a volte non sono stati nemmeno eletti democraticamente.

A che cosa si riferisce?

Di recente per esempio con una serie di sentenze la magistratura tedesca ha di fatto favorito il suicidio assistito. Indebolendo così enormemente la difesa della vita in alcuni contesti specifici, per quello che riguarda appunto la sospensione delle terapie salvavita. Basta non chiamare queste pratiche come eutanasia, ma usare termini differenti, e si ottengono risultati imprevedibili. La notizia della decisione dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa va quindi recepita con soddisfazione, ma non in chiave trionfalistica. Non c’è nulla da festeggiare, perché a fronte di una delibera di questo tipo se ne potrebbero citare molte altre, di tipo diverso, e che ci mettono terribilmente in imbarazzo, sia in campo bioetico sia in campo para-bioetico. Non dimentichiamoci per esempio che il Parlamento europeo ha condannato diverse volte la Santa Sede per discriminazioni sessuali, in quanto non riconosce il sacerdozio femminile.

Lei crede che il Vaticano si sia sentito messo in difficoltà?

Si tratta di delibere che lasciano il tempo che trovano, ma che ci fanno capire quanto è ambiguo l’intervento di questi organismi in ambiti non di loro competenza. Anche questa delibera dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa potrebbe quindi riservare brutte sorprese. Potrebbe emergere che in questa delibera ci sono dei vuoti che potrebbero essere riempiti in chiave pro-eutanasica.

Lei si ricorderà il caso di Welby, che chiese che gli fosse staccata la respirazione artificiale. Anche la legge italiana ha dei “vuoti”?

Il caso Welby non è stato ritenuto eutanasia dal magistrato italiano, e rappresenta proprio una vicenda esemplificativa di quanto ho affermato finora. Il dottor Mario Riccio, accusato di omicidio, è stato prosciolto e il caso è stato addirittura archiviato prima ancora che si aprisse il processo. E il motivo è che ciò che è successo a Welby non è stato ritenuto né omicidio né suicidio assistito né eutanasia, ma rispetto della volontà di un paziente consapevole.

È difficile però sostenere che in quel caso la legge italiana sia stata applicata in modo corretto dal magistrato...
Noi possiamo anche dire che la legge non è stata applicata in modo corretto. Ma io preferisco affermare che non è la norma che ci difende, siamo noi che dobbiamo farlo con la nostra coscienza morale. Perché quando facciamo appello alla legge, di fatto la sua applicazione non spetta né a me né a lei ma spetta al magistrato. Proprio perché quest’ultimo può applicarla in modo scorretto, dobbiamo muoverci su un livello che viene prima di qualsiasi legge, auspicando che le norme ci seguano ed entrino in sintonia con questi valori etici che noi vogliamo difendere. La norma non detta i valori etici, ma semplicemente vi si deve conformare. La delibera quindi di cui stiamo parlando non va presa come l’intervento che mette in chiaro quali sono i valori bioetici in gioco, ma tutt’al più ci dobbiamo compiacere che li abbia recepiti facendoli suoi.

(Pietro Vernizzi)

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Il modello svedese? Da suicidio di Francesco Saverio Alonzo, 30-01-2012, http://www.labussolaquotidiana.it

In Svezia aumenta di continuo il numero delle persone che vivono sole e non sempre per libera scelta, ma come una conseguenza di situazioni che vanno dalla ricerca esasperata della carriera all’abbandono del tetto coniugale a seguito di separazioni e divorzi. Si è toccato adesso il vertice storico del 50% della popolazione, con una punta massima del 60% nella capitale Stoccolma, distanziando Finlandia (39%), Danimarca (37%) Germania (34%), mentre i Paesi del bacino mediterraneo fanno registrare cifre fra il 10 ed il 15%.

Questa desolante solitudine può degenerare in crisi psicologiche che portano ad esempio i giovani ad eccessi estremi quali i teatrali suicidi in diretta sul forum Flashback che si sono registrati recentemente.
Si sa che in Svezia sposarsi è superfluo dato che basta comunicare all’anagrafe che si divide il focolare con un’altra persona per essere considerati una coppia a tutti gli effetti giuridici. Molti, tuttavia, non vogliono rinunciare alla cerimonia del matrimonio, ma se sono in molti a sposarsi (30.000 matrimoni l’anno per una popolazione di poco inferiore ai 10 milioni) altrettante sono le coppie che divorziano e la stessa cifra – sempre 30.000 – riguarda gli aborti legali che ogni anno si registrano nelle cliniche svedesi. Il 55% dei bambini nasce al di fuori del matrimonio, ma la ripresa delle nascite (120 mila dovute in gran misura alle donne immigrate) ha riportato la Svezia al vertice europeo (2,10 figli per donna) e ciò è dovuto alla generosità per quanto riguarda i congedi parentali, i sussidi di maternità, gli assegni familiari e gli accessi agli asili. Ovviamente queste forme di welfare si pagano con le tasse piú alte del mondo, con un carico fiscale del 55% del Pil.
La frequenza dei divorzi porta con sè il problema della cura e dell’affidamento dei figli, ma, nella moderna società svedese, perfino i pargoli si sono adattati al trasferimento periodico da un genitore all’altro, accettando la figura della “mamma finta” o del “papà finto”  (in svedese plastmamma e plastpappa) che si sostituiscono ai genitori veri con alternanze spesso illogiche.
E poi la facilità con cui si svolgono questi scambi di appartenenza affettiva finisce per disgregare la famiglia, non di rado perché uno dei “coniugi” vuole improvvisamente un partner piú giovane e, non esistendo remore, pianta tutto e se ne va, lasciando l’altro solo. E a mano a mano che gli svedesi vedono “progredire” la loro nazione, aumenta il numero di coloro (50% della popolazione, 59% nella capitale Stoccolma) che vivono da soli, senza una persona con cui condividere gioie e dolori, chiusi in miniappartamenti dotati delle piú vanzate risorse elettroniche ed informatiche, ma privi di calore umano.
Sebbene sussista ancora in Europa il mito del “modello svedese”, l’albero della solitudine a cui si deve aggrappare  la metà degli abitanti di questo paese “felice” affonda le proprie radici nella politica perseguita dai governi socialdemocratici durante gli anni Settanta, ben poco attenta alla famiglia  ed indirizzata ad eliminare le “spose di lusso” (come venivano definite la casalinghe) spingendole a lavorare con drastiche riforme fiscali. Attualmente tutte le donne lavorano e sono economicamente autosufficienti, ma molte di esse che hanno superato la cinquantina si trovano ad essere prive di una famiglia e degli affetti che dovrebbero circondarle secondo una tradizione umanistica. 

Le femministe piú convinte trovano positivo questo “strappo” alla prigione familiare, ma ciò non toglie che continuamente si debbano ascoltare le espressioni di disagio, sui giornali, alla radio o in televisione, di moltissime persone che vivono sole e si sentono emarginate, ad onta delle conquiste in carriera. Il disgregamento della famiglia porta a un distacco tragico anche per quanto riguarda i rapporti fra le varie generazioni. Si tratta di un rigetto societario che esclude, per ragioni di puro egoismo o per incapacità di adeguamento ai modelli  piú frenetici di vita, intere fasce di cittadini che un tempo, nell’ambito familiare della società contadina, trovavano persone con cui dividere la vita quotidiana. Oggi molti anziani vengono abbandonati, dimenticati da figli e nipoti che vivono con ritmi di vita e con esigenze che richiedono il massimo della loro concentrazione egoistica. Non di rado si scoprono i corpi di persone decedute  da mesi senza che nessuno si sia preso la cura di constatare come stessero. Molti svedesi pensano: “Noi paghiamo tasse salate, ci pensi lo Stato ai vecchi!”
Lo stesso discorso vale per i figli che, non appena possono, talvolta ancora adolescenti, lasciano la famiglia per sentirsi liberi, andando a condividere il costo di appartamenti in subaffitto con altri coetanei, altrettando desiderosi di sfuggire al dominio dei genitori.
Che la solitudine stia diventando un problema sociale non indifferente a Stoccolma, una delle città piú moderne del mondo, viene confermato dalla psicologa Anna Svensson. “In ultima analisi, - dice la dottoressa Svensson, - è molto meglio per una persona anziana scegliere di vivere nelle strutture assistenziali create dallo Stato dove, oltre ad usufruire di ogni comodità e di cure sanitarie, può incontrare altra gente sola, stabilendo nuove conoscenze ed amicizie che aiutano a vivere.”
Molti genitori trascurano la formazione morale dei propri figli, protesi come sono nella ricerca di beni materiali, lasciando i giovani in balia di se stessi ed anche qui si gioca a scaricabarile. La scuola dice infatti che devono essere i genitori a educare i figli, mentre i genitori ritengono che, pagando tasse altissime, abbiano tutto il diritto di addossare al sistema scolastico la responsabilità dell’educazione morale dei giovani.
In questo caos, spicca il fenomeno della salda unione familiare riscontrabile presso la maggioranza dei nuclei di immigrati. Che gli svedesi debbano imparare qualcosa da loro?

Contro l'Eutanasia, vittoria di Pirro, di Tommaso Scandroglio, 30-01-2012, http://www.labussolaquotidiana.it

Il 25 gennaio scorso l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha pubblicato la Risoluzione n. 1859 in cui sprona i 47 Stati membri, tra cui l’Italia, ad introdurre nelle loro legislazioni una disciplina normativa che riguardi lo strumento del cosiddetto testamento biologico, o direttive anticipate di trattamento (DAT) o living will.
I pericoli, gli errori e gli inciampi giuridici contenuti in questo testo sono molteplici. Vediamone qualcuno in sintesi.
In prima battuta dobbiamo osservare che l’Assemblea fa discendere “il principio di autonomia personale e il principio del consenso” informato dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo. Derivazione indebita dato che questo articolo riguarda il rispetto della vita privata e familiare, cioè la privacy personale. Detto in parole povere questo articolo impone che lo Stato o chicchessia non entri nell’intimità della vita personale. Non riguarda assolutamente la possibilità di rifiutare cure mediche.
Un secondo errore sta nel fatto che la Risoluzione applica la disciplina del consenso informato allo strumento del testamento biologico. Ma questa operazione di fatto è impossibile da realizzarsi. Infatti il consenso perché sia valido deve essere formale e attuale. Formale: io firmo o mi rifiuto di firmare un modulo in cui mi si chiede di essere sottoposto ad alcune cure particolari. Attuale nel senso che il mio consenso è efficace solo se espresso dopo che ho ricevuto le dovute informazioni dal medico. Come potrei acconsentire a sottopormi ad un trattamento che non mi è stato ancora spiegato nel dettaglio?
Ora il testamento biologico è sicuramente un documento formale, cioè scritto nero su bianco e – si spera – rispettando alcune caratteristiche di redazione. Ma non è strumento che soddisfa il criterio di attualità. Infatti nel testamento biologico io posso rifiutare cure di cui non ho avuto illustrazione alcuna da parte dei medici, perché forse vi sarò sottoposto solo tra molti anni. Il consenso/rifiuto inserito nel testamento biologico è quindi un consenso/rifiuto non informato, ma disinformato.
Altro inciampo: l’Assemblea afferma che le volontà espresse nel testamento biologico sono vincolanti per il medico perché così è stato stabilito dall’art. 9 della Convenzione di Oviedo. Purtroppo l’art. 9 dice l’esatto opposto. Infatti se si va a leggere il Rapporto Esplicativo di questo stesso articolo si scopre che gli estensori hanno inteso dire che le dichiarazioni anticipate hanno valore non vincolante bensì orientativo, valore consultivo non obbligatorio.
La Risoluzione poi ad un certo punto richiama una Raccomandazione del 2009 (CM/Rec [2009]11), la quale afferma che l’estensore del testamento biologico può nominare un suo fiduciario per l’applicazione corretta delle sue volontà. Purtroppo, come abbiamo già scritto sulla Bussola in passato, il fiduciario, al pari di noi tutti poveri esseri umani, non è immune da errori e quindi non si esclude che possa in buona fede sbagliarsi nell’interpretare il testo del testamento biologico, così come alcuni studi hanno messo in evidenza. Ma potrebbe cadere in errore anche dolosamente se l’estensore delle DAT per ipotesi lo aveva nominato in aggiunta – cosa non rara – successore del suo patrimonio o parte di esso. La tentazione di dare una spintarella al caro nonno moribondo verso la dolce morte in alcune circostanze potrebbe essere molto seducente.
La Risoluzione, come se non bastasse, complica la situazione ancora di più laddove permette all’estensore di nominare più fiduciari: difficile ipotizzare che vadano tutti d’accordo. In merito a questa eventualità il testo prevede l’elezione sempre da parte dell’estensore delle DAT di uno specie di arbitro. Ma anche costui non è esente da errore. E poi viene da chiedersi dove è finito il principio di autodeterminazione con tutta questa gente che decide al posto del paziente.
Inoltre il fiduciario deve seguire non solo le volontà espresse nelle DAT, scritte nero su bianco, ma anche i desideri, gli stati d’animo e gli orientamenti generali di vita devono essere rispettati. Il problema è che desideri, orientamenti di vita etc. sono criteri troppo generali e quindi troppo ambigui per fornire indicazioni precise su quali scelte compiere. Ricordiamo che Eluana morì di fame e di sete perché un giudice sentenziò che gli stili di vita di questa donna prima dell’incidente strizzavano l’occhio all’eutanasia.
Di fronte a tutte queste incertezze i deputati Luca Volontè (Udc) e Renato Farina (Pdl) hanno presentato un emendamento in cui si indica che in caso di dubbio sul da farsi occorre sempre applicare il principio del favor vitae. Però non è escluso che il fiduciario sia sicurissimo di applicare le volontà dell’estensore delle DAT nonostante questi abbia in realtà disposto altro e allora il dubbio nemmeno si pone. Oppure chi ci assicura che fiduciario, familiari e medico non decidano di far dire alla DAT quello che non vogliono dire? Chi controlla? Chi adirà un giudice? E anche nel caso in cui qualcuno percorrerà le vie legali riuscirà a farlo in tempo utile prima che si stacchi la spina?
Altro emendamento proposto da Volontè e Farina: "L'eutanasia, intesa come l'uccisione volontaria o per omissione di un essere umano dipendente per il suo supposto beneficio dovrebbe essere sempre proibita". E' sicuramente apprezzabile lo sforzo di questi due parlamentari nell’evitare derive eutanasiche, ma cantare vittoria contro l'eutanasia per il passaggio di questi emendamenti, è quanto meno temerario. Rimangono infatti alcuni problemi sul tavolo. Se per esempio io nel testamento biologico chiedo, allorchè sarò incapace di intendere e volere, di non essere sottoposto o di interrompere  cure salvavite, i medici dovranno obbedire a questa mia richiesta, causando così la mia morte. Questa situazione configura né più né meno un caso di eutanasia omissiva: io medico non ti do quelle cure che ti permetteranno di vivere, perché tu le hai rifiutate nel tuo testamento biologico. L’effetto di questa decisione è la morte del paziente con la collaborazione omissiva dei medici. Insomma la legge può anche vietare l’eutanasia sulla carta, ma poi non può legittimare pratiche – l’obbligo di rendere effettiva qualsiasi disposizione delle DAT – che rendono nella prassi vano quel divieto.
Altra pezza cucita dall’Assemblea parlamentare: non devono essere accolte quelle indicazioni contrarie alla legge, alla buona pratica medica, o difformi alla situazione prospettata in precedenza nel testamento biologico.
In merito alla legge: io chiedo di morire ma c’è una legge che vieta l’eutanasia. Purtroppo si potrà dare il caso che comunque prevarrà la volontà del paziente seppur il suo rifiuto di cure salvavita lo porterà alla morte. Questo perché su una disposizione generale – divieto d’eutanasia – prevale la normativa specifica (quella sul testamento biologico). Anche nel nostro ordinamento è previsto che il medico debba curare sempre e comunque, eccetto però il caso di rifiuto attuale. Anche un rifiuto che consapevolmente porterà alla morte il paziente.

Per quanto riguarda la pratica medica: in Italia i medici non recitano più nemmeno il giuramento di Ippocrate che vietava l’eutanasia quindi i confini della buona pratica medica ormai sono sempre più indefiniti. Nel nostro Paese è già accaduto che assecondare gli istinti di morte del paziente sia stato qualificato come dovere deontologico del medico.
Infine in merito al verificarsi di nuove situazioni non previste dal testamento biologico, occorre tenere presenti due elementi. Il primo: il testamento biologico non può che avere carattere generico nelle sue disposizioni. Tenta infatti di scrutare il futuro che di per se stesso è ignoto. In genere cosa c’è scritto in questi documenti? Nel caso in cui non fossi più capace di intendere e volere in modo permanente…., nel caso in cui versassi in uno stato vegetativo…. rifiuto qualsiasi presidio vitale. Chiaro è che la situazione di incapacità descritta nel testamento biologico una volta che venisse dichiarata irreversibile (a torto dato che in medicina l’unico stato irreversibile è la morte) come potrebbe mai cambiare? Insomma dopo un mese o poco più di coma si staccherebbe la spina, eliminando così l’ipotesi descritta dalla Risoluzione di un cambiamento del quadro generale.
Seconda obiezione: se invece si decidesse di scrivere le DAT mentre si è già affetti da una patologia grave e degenerativa – in genere è in queste situazioni che si prendono carta e penna –, se non addirittura quando si versa in uno stato terminale della malattia, ci viene da chiedere come questa patologia potrebbe volgere al meglio mutando così la situazione prospettata nelle DAT?
Concludendo potremmo dire che il problema di fondo di questa Risoluzione sta nell'assegnare valore giuridico e quindi vincolante allo strumento del testamento biologico che è uno strumento fragile. Ed è uno strumento fragile perché ha la pretesa di attualizzare una volontà che non può essere attualizzata. Pretende di decidere ora per allora, quando quell’ “allora” non si è ancora compiuto. Non si può attualizzare la volontà nel futuro perché è impossibile prevedere di che male soffrirò e di quali cure avrò bisogno.
E poi una cosa è decidere della mia salute quando sono sano, un altro quando sono ammalato. Se prima da sano alcune terapie mi potevano sembrare un trattamento disumano e inutile, dopo da paziente quelle stesse cure mi potrebbero apparire come una scialuppa di salvataggio. Il testamento biologico elimina questa possibilità di aggrapparsi con speranza alla vita, perché blocca la mia libertà nel passato, la congela in un “ieri” in cui tutta la mia psicologia è completamente diversa da quella dell’oggi in cui mi trovo in un letto di ospedale. Il testamento biologico e le DAT sono la contraddizione dell’autodeterminazione la quale esige che la mia libertà si attualizzi istante per istante.
Infatti quello che ieri era detastabile – respiratori, cannule, sacche per l’alimentazione, esami clinici, interventi operatori – oggi potrebbe apparirmi come strumento prezioso per rimanere in vita. Lasciamo decidere dunque al paziente cosa fare, non alle DAT o al testamento biologico.

sabato 28 gennaio 2012


Avvenire.it, 28 gennaio 2012, Politiche per la famiglia e situazioni di fatto - Scivolone ideologico nella Milano di Pisapia, di Francesco Riccardi

Nessuna sorpresa, ma non per questo meno sconcerto. La decisione della giunta di Milano di modificare il regolamento del "Fondo anticrisi" del Comune – destinando il sostegno per l’affitto o l’acquisto della casa anche alle coppie di fatto, etero e omosessuali – è una scelta che non stupisce. Perché già annunciata, nelle sue linee di principio, fin dalla campagna elettorale del sindaco Giuliano Pisapia, che ha ribadito più volte anche di voler istituire il cosiddetto "registro delle unioni civili".

In attesa di quell’atto, peraltro privo di qualsiasi valore giuridico, la giunta comunale ha pensato bene (anzi male) di agire facendo leva sulla definizione di "famiglia anagrafica", così come ridisegnata dalla legge del 1989. Questa prevede – al solo fine, amministrativo, di "fotografare" le situazioni di fatto – che siano registrate sullo stesso stato di famiglia «l’insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozioni, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti...». Un vincolo affettivo semplicemente dichiarato dai soggetti conviventi all’atto della registrazione in Comune. Senza che vi sia né alcun controllo da parte dell’ufficiale dell’anagrafe (e, d’altronde, come sarebbe possibile?) né per ciò stesso alcuna certificazione ufficiale da parte dell’ente pubblico, che non sia la mera presa d’atto di un’auto-dichiarazione.

Ciò che sconcerta, allora, è che il sindaco di Milano, che è avvocato e uomo di legge, scelga con questo atto di ribaltare le fonti del diritto, anteponendo una legge di regolazione amministrativa addirittura alla Costituzione. Che all’articolo 29 è inequivocabile nel riconoscere «i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». E all’articolo 31 impegna la Repubblica ad agevolare «con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose». Porre sullo stesso piano coppie che – sposandosi civilmente o religiosamente – assumono un preciso impegno pubblico e persone che – per scelta, o per impossibilità – non rendono vincolanti i propri legami "affettivi", significa violare la lettera e lo spirito della nostra Carta fondamentale. Perché delle due l’una: se il riferimento degli (ovviamente positivi) aiuti economici è la singola persona, conta solo il suo stato patrimoniale. Se invece si intende assumere la famiglia come soggetto, allora occorre necessariamente riferirsi alla definizione scolpita nella Costituzione e sempre ribadita dalla Consulta. Per rispetto della verità, anzitutto. E per perseguire davvero il bene comune. È importante tutelare comunque i figli, al di là delle "scelte" dei genitori. Ma è necessario al tempo stesso evitare riconoscimenti impropri e dare chiara e incontestabile priorità alla famiglia fondata sul matrimonio. Che non è favorita dalla Costituzione per "ideologia", ma perché orientata a garantire quei rilevanti beni sociali che sono la stabilità delle relazioni fondamentali e la creazione di un ambiente più accogliente per i figli.

Il provvedimento presentato dalla giunta milanese si annuncia, in modo radicale e stridente, di segno opposto. Se dovesse essere davvero così, una simile scelta si rivelerebbe – essa sì – una pura affermazione ideologica. Nel ricordare – e ribadire – le giuste priorità nell’utilizzo delle risorse pubbliche non c’è alcun intento discriminatorio. Perché qui non ci sono discriminazioni da sanare, ma condizioni e scelte oggettivamente diverse. La peggiore ingiustizia, lo insegnava anche don Lorenzo Milani, è trattare in maniera uguale situazioni differenti.


Sanità e politica vanno separate, di ALBERTO MINGARDI*, 28/1/2012, http://www.lastampa.it/

Caro direttore,
è giusto che un malato, all’uscita dall’ospedale, si veda consegnare un documento che riassume le spese affrontate per lui dal servizio sanitario? Per il senatore Ignazio Marino (La Stampa, 24 gennaio 2012) si tratterebbe di un contributo a una «democrazia partecipata». I malati informati del costo che rappresentano per la collettività potrebbero organizzarsi in «appositi comitati» e dare così un contributo per individuare miglioramenti nell’uso delle risorse.
È davvero così? Questa «bolletta sanitaria» male non fa ma attenzione a caricarla di troppe aspettative.
L’idea si fonda su una non automatica identificazione di ruoli. Il paziente è anche un contribuente, ma non tutti siamo pagatori e beneficiari del Ssn alla stessa maniera.
Le difficoltà nel controllare la spesa sanitaria sono legate in parte allo «spreco» che contraddistingue in questo ambito come in molti altri i sistemi pubblici, ma anche alle dinamiche demografiche. Gli over 75 consumano, dal punto di vista della spesa, 11 volte le risorse che «costano» i 25-34enni. Il 70% della spesa è assorbito dalla popolazione di pazienti cronici.
Informare i pazienti circa il costo delle prestazioni può servire a ricordare loro che nessun pasto è gratis: la sanità «gratuita» non lo è affatto. Tuttavia, questo è il classico caso in cui non ci si può appellare a una maggiore «morigeratezza» dei consumi individuali, per controllare la spesa.
La discussione dovrebbe avere luogo su ben altro: il problema non è avvicinare sanità e democrazia, ma allontanare sanità e politica.
Buona parte delle inefficienze del Servizio sanitario nazionale affonda le proprie radici nell’uso strumentale al consenso che ne è stato fatto. Di questo si discute quando si sottolinea la cronica incapacità di razionalizzare la rete ospedaliera italiana, ad esempio.
Uno studio dell’Istituto Bruno Leoni curato da Lucia Quaglino, di prossima pubblicazione, confronta la domanda (posti letto effettivamente occupati) con l’offerta da parte degli ospedali pubblici, dal 1995 al 2007, in una Regione pure «virtuosa» come la Lombardia. Grazie all’innovazione tecnologica, nell’ultimo quindicennio la durata media dei ricoveri si è molto ridotta: passiamo meno tempo in ospedale. Tuttavia, l’effetto sui posti letto offerti dal pubblico non si vede.
La domanda in capo al settore pubblico scende del 33% ma l’offerta si riduce solo del 7,6%. Si è determinato insomma un eccesso di capacità produttiva: che, se la sanità fosse un settore economico esposto alla concorrenza, sarebbe il segnale di una crisi imminente.
Questo accade persino nell’unica regione italiana che non è cronicamente in disavanzo - e che usa consapevolmente privati che hanno un ruolo non ancillare.
L’eccesso di capacità produttiva è frutto di una spesa per investimenti che risponde a una domanda di consenso. Non c’è esponente politico cui non piaccia tagliare il nastro di un nuovo ospedale.
Esattamente come da esigenze di consenso dipende la riottosità a tagliare la spesa corrente, che significa: personale, appartenente a categorie efficacissime (medici e infermieri in primis) nel «volantinaggio verbale» caro alla politica a tutti i livelli.
Gli ospedali privati lombardi sono riusciti ad adattare con più elasticità l’offerta alla domanda di posti-letto, minimizzando gli sprechi, proprio perché seguono il «motivo del profitto» e non quello del consenso.
Informare il paziente dei costi che si sono sostenuti per lui è un appello alla sua buona coscienza, ma non gli mostrerà il conto delle promesse elettorali e delle appassionate orazioni circa una sanità «pubblica e gratuita». La sanità italiana a livello «micro» è fatta di professionalità eccellenti e dedizione alla cura. Sono le decisioni macro che vanno «de-politicizzate».
*Direttore generale Istituto Bruno Leoni

Preti pedofili? No, omosex, di Roberto Marchesini, 28-01-2012, http://www.labussolaquotidiana.it

«I casi di abuso dei minori da parte di preti hanno poco a che vedere con la pedofilia, molto di più con l’omosessualità». E’ quanto afferma lo psicoterapeuta olandese Gerard van den Aardweg, rileggendo criticamente i dati delle ricerche compiute per conto della Conferenza Episcopale statunitense dal John Jay College of Criminal Justice. Van den Aardweg è autore di numerosi studi sull’omosessualità, in italiano è stato pubblicato dalla editrice Ares un suo volume, “Omosessualità e speranza”.

Professor van den Aardweg, lo studio del John Jay College offre spunti interessanti per comprendere il problema degli abusi sui minori da parte dei preti. In particolare mostra come la maggior parte degli abusi non hanno niente a che vedere con la pedofilia.
Ci sono due rapporti distinti del John Jay College (JJR), Il primo rapporto (JJR 1), del 2004, presenta statistiche sulle accuse di molestie a minori attribuite a sacerdoti e diaconi tra il 1950 e il 2002. Il secondo rapporto (JJR 2), del 2011 era mirato ad analizzare la personalità dei presunti molestatori e le circostanze esterne che potrebbero averne favorito la condotta, prendendo in esame il periodo dagli anni ’60 fino al 1985, quando le accuse di abusi sono già in diminuzione.
Spesso però si dimentica che tutti i dati contenuti nei JJR sono relativi perché non è mai stato verificato quante di queste accuse si sono poi rivelate vere o false. Se anche un 10% delle accuse fossero state smentite, i risultati della ricerca sarebbero tutti da rivedere.
Le statistiche sulla pedofilia erano già presenti nel primo rapporto, ma gli estensori non spesero troppe parole per dire che il principale problema non era la pedofilia. Nel secondo rapporto questa conclusione viene detta in modo molto più chiaro. Allo stesso tempo però sarebbe esagerato anche dire, al contrario, che la pedofilia non c’entra nulla con le accuse di molestie. Pedofilia significa contatti sessuali di adulti con bambini prima della pubertà, che in generale si assume arrivi attorno agli 11 anni.

Quali sono i dati principali contenuti nel JJR 1 riguardo al comportamento pedofilo dei preti?
Il 12% di tutti i casi tra il 1950 e il 2002 coinvolgeva bambini minori di 11 anni, cosa che viene quindi classificata come pedofilia omosessuale; il 6,6% dei casi riguardava invece le bambine sotto gli 11 anni, quindi pedofilia eterosessuale. Vale a dire che in meno del 20% dei casi totali si trattava di pedofilia. Certo, se consideriamo che ci sono una percentuale di ragazzi fra gli 11 e i 14 anni che non hanno ancora raggiunto la pubertà, possiamo ipotizzare che anche una parte di questi casi sia da classificare come pedofilia, in ogni caso non si supererebbe il 30% dei casi totali. Ma questo è un calcolo teorico, e comunque anche in questo caso il principale problema non è la pedofilia.
Inoltre parliamo di “casi” di pedofilia, non di percentuali di preti pedofili. Infatti nel JJR 1 troviamo che il 3% dei preti accusati erano responsabili del 26% di tutti i casi denunciati tra il 1950 e il 2002. Curiosamente il rapporto non dice l’età e il sesso dei minori molestati da questo 3%. Ma anche se una parte di questi preti fosse pedofila, la percentuale dei preti pedofili tra quelli accusati di molestie è certamente molto al di sotto del 26%.
Per questo il JJR 2 ha dovuto ribadire che è sbagliato definire pedofili tutti i preti accusati di abuso dei minori. Se poi siano il 5 o il 10% o cos’altro, nessuno può dirlo, i due rapporti non lo hanno chiarito.

Ma se il problema principale non è la pedofilia, qual è allora il problema nella sessualità della maggioranza dei preti coinvolti?
L’82% di tutte le presunte molestie consumate tra il 1950 e il 2002 aveva come vittime dei maschi: il 12% sotto gli 11 anni, come abbiamo visto, il restante 70% tra gli 11 e i 17 anni. Il che vuol dire che la grande maggioranza dei casi ha a che fare con l’«ordinaria» omosessualità. In generale i pedofili non si rivolgono a bambini dello stesso sesso, e certamente neanche gli eterosessuali. Inoltre, è innegabile che una rilevante parte di uomini con orientamento omosessuale sia attratta dagli adolescenti e preadolescenti. Secondo una ricerca, circa il 20% dei maschi omosessuali attivi preferisce adolescenti e preadolescenti, un altro 20% preferisce ragazzi nella tarda adolescenza e giovani adulti. Quindi circa il 40% di maschi omosessuali ha un’attrazione per gli adolescenti, che viene chiamata efebofilia.

Una buona notizia è che dagli anni ’80 il numero di casi denunciati di molestie ha iniziato a diminuire, il che sembra coincidere con le misure preventive prese nel 1981 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, allora guidata dal cardinale Ratzinger.
Sì, questo documento vaticano può avere aiutato, soprattutto se lo vediamo come parte di sforzi congiunti durante il pontificato di Giovanni Paolo II per mettere mano alla confusione morale e dottrinale causata dal dissenso nella Chiesa del post-Concilio, che senza dubbio è stato uno dei fattori più importanti nell’abbassare la resistenza di molti preti ai propri impulsi sessuali, omo o eterosessuali che fossero. Ma sicuramente ci sono stati altri fattori a giocare un ruolo in questa diminuzione di casi. Ad esempio, in alcuni paesi a causa dell’abbandono di tanti preti e religiosi, molte scuole e istituzioni educative hanno dovuto chiudere. La frequenza in chiesa dei ragazzi è diminuita drasticamente: in altre parole sono venuti meno quei luoghi dove alcuni preti con problemi potevano avvicinare i ragazzi.
Non dobbiamo però credere che sia calato allo stesso modo il comportamento omosessuale dei preti. Una visione più liberal riguardo al comportamento omosessuale era già penetrata in profondità nella Chiesa. E contemporaneamente molti giovani con orientamento omosessuale erano entrati nei seminari e diventati sacerdoti. Inoltre l'età dei partner sessuali di seminaristi e preti omosessuali si sposta in avanti man mano che il comportamento omosessuale viene sempre più apertamente tollerato e normalizzato.

Eppure il JJR 2 non tira le conclusioni. Anzi, sposta l’attenzione su una rigida educazione moralistica ricevuta in famiglia come causa di comportamenti scorretti, e comunque non rileva alcuna differenza sostanziale tra i preti accusati di abusi e gli altri sacerdoti. Come mai queste conclusioni, peraltro non suffragate da nessun dato oggettivo?
Sicuramente questa è una parte molto debole del rapporto, io credo per due motivi essenzialmente: il primo è che i ricercatori del John Jay College sono incompetenti quanto a investigazioni “psicologiche”. Secondo motivo, sicuramente più importante, è il tentativo di coprire l’evidente “impronta” omosessuale in tutta la faccenda: questo è un tabù che deve essere protetto. Per questo si è evitato di cercare e presentare i dati come una seria ricerca, non viziata da pregiudizi, dovrebbe fare: dividendo tutti i casi in categorie molto ben individuate: quelli che hanno abusato di maschi minori di 11 anni, quelli che hanno abusato di femmine sotto gli 11 anni, quelli che hanno abusato di maschi tra gli 11 e i 13 anni, le femmine della stessa età, e così via. In questo modo la verità emergerebbe con chiarezza.

Quindi le conclusioni del JJR 2 sono fuorvianti…
Lo sono perché cercano di nascondere la realtà, accreditando una delle parole d’ordine del movimento gay: gli omosessuali non hanno una maggiore inclinazione alle molestie rispetto agli eterosessuali. Così si arriva a fare contorsioni linguistiche per non dire ciò che appare evidente. Ad esempio il JJR 2 rifiuta con sdegno “la diffusa speculazione… che l’identità omosessuale è legata agli abusi… soprattutto a causa dell’alto numero di vittime di sesso maschile”. Speculazione? Quasi l’85% delle vittime sono adolescenti maschi e loro pensano di poter liquidare tranquillamente il fattore omosessuale? Questa è cecità voluta. Nessuno che abbia familiarità con il problema delle molestie subite da parte di insegnanti,  in istituti, nelle famiglie adottive e così via, può dubitare delle motivazioni omosessuali che sono all’origine della maggioranza dei casi. Piuttosto è la conclusione del JJR 2 secondo cui i preti che abusano di minori non sono distinguibili dagli altri preti a essere pura fantasia. Questo vorrebbe dire che ci sarebbe stato qualche migliaio di normali preti eterosessuali che hanno cercato gratificazione sessuale con ragazzi invece che con ragazze. E’ una cosa priva di senso, chi può darvi credito?