venerdì 27 aprile 2012


Drunkoressia: il male del nuovo millennio, 23 aprile 2012, http://saluteedintorni.wordpress.com

Tra i disturbi del comportamento alimentare, ecco spuntare una nuova malattia, fresca fresca di neologismo, ovvero la drunkoressia o drunkorexia, come la chiamano a New York. L’etimologia della parola trova origine nel verbo “drink” che significa “bere”. Secondo le notizie fornite dal Ministero della Sanità, la drunkoressia rappresenta il nuovo male che colpisce i giovani e che si sta pericolosamente diffondendo a macchia d’olio.
Si tratta di un disturbo alimentare che porta a sostituire le calorie del cibo con quelle dell’alcool e rappresenta un fenomeno estremamente pericoloso, considerando che in Italia ci sono tre milioni di persone che soffrono di disturbi del comportamento alimentare che vanno dall’anoressia alla bulimia. Quindi, rappresenta un grave problema che tra queste due conclamate malattie si inserisca questa nuova condizione, che avrebbe già raggiunto circa mezzo milione di persone, soprattutto di giovane età.

Drunkoressia: una sindrome estremamente pericolosa

La drunkoressia rappresenta una condizione davvero pericolosa per la salute, poiché, come afferma Emanuele Scafato, ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità e direttore dell’Osservatorio Nazionale sull’alcol, “in soggetti già sottopeso la drunkoressia provoca un dimagrimento patologico e crea dipendenza da alcol, che, a sua volta, può portare nel lungo periodo a cirrosi epatica, tumori del fegato e lesioni cancerose al seno, oltre ad una grave sindrome psicologica in questi ragazzi”.

La drunkoressia va ad inserirsi in un quadro già di per sé grave, in quanto nella nostra penisola sono circa tre milioni le persone affette da disturbi del comportamento alimentare che soffrono di anoressia, bulimia e disturbo da alimentazione incontrollata, con un drastico abbassamento dell’età di esordio di queste malattie, che iniziano infatti a colpire bambini tra gli 8 e i 10 anni.

Nonostante questa impellente emergenza sanitaria, i centri per la cura dei disturbi del comportamento alimentari sono ancora troppo pochi in Italia. Quello più grande è Villa Miralago a Varese, dove sono ricoverati 46 tra ragazzi e ragazze, anche minorenni, che vi soggiornano anche più di un anno, assistiti da un’equipe di 53 specialisti tra psicologi, nutrizionisti ed educatori. Le liste d’attesa sono lunghe mesi e nel frattempo la malattia può portare alla morte, in quanto di anoressia si muore, sia a causa di suicidio sia per effetti collaterali importanti.

Cellule staminali mesenchimali per le nuove terapie contro i tumori ossei infantili - Presentato il progetto finanziato da Fondazione Just Italia per l’Associazione Noi per Voi per il Meyer, 18/04/2012 - http://www.gonews.it

Utilizzare le cellule staminali mesenchimali per nuove terapie contro i tumori ossei infantili. È questo l’obiettivo del nuovo progetto di ricerca medica che coinvolgerà contemporaneamente tre strutture di eccellenza del territorio fiorentino e italiano e che è stato presentato questa mattina a Palazzo Vecchio alla presenza dell’assessore al welfare Stefania Saccardi.

Il progetto, coordinato dall’Associazione “Noi per Voi per il Meyer” e sostenuto da Fondazione Just Italia con un finanziamento di 200.000 euro, è infatti innovativo sia in termini scientifici sia perché coinvolge contemporaneamente tre strutture di eccellenza nel settore medico e della ricerca. Per la precisione lo spin off DIVAL TOSCANA dell’Università degli Studi di Firenze, la Cell Factory dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Meyer di Firenze, il Centro di Ortopedia Oncologica e Ricostruttiva-Traumatologico Ortopedico dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Careggi.

“Si tratta di un progetto di grande rilevanza medica, scientifica e sociale – ha dichiarato l’assessore Saccardi – e quindi come Amministrazione non possiamo che apprezzare la scelta, attuata da Fondazione Just Italia, di affidare a tre strutture italiane di eccellenza, tutte situate a Firenze, una ricerca di questa portata che può ridare speranza a tanti bambini e alle loro famiglie. Firenze da sempre è attenta ai bisogni dei bambini che sono gli abitanti del futuro. Non possiamo che ringraziare la Fondazione Just Italia per aver scelto la nostra città per sviluppare questo importante progetto e l’Associazione Noi per voi per il Meyer per aver coordinato l'iniziativa”.

Marco Salvatori, presidente di Fondazione Just Italia (onlus costituita nel 2008 dall’omonima azienda veronese che opera nel settore dei cosmetici naturali) ha ricordato come “ogni anno la Fondazione si impegna istituzionalmente a finanziare un importante progetto di ricerca medica destinato ai bambini e come questo rientri nella cultura di responsabilità di Just Italia che - anche attraverso queste iniziative - conferma la propria attenzione al sociale. E quest’anno questo si concretizza con l’iniziativa Raggi di Colore”.

Pasquale Tulimiero, presidente dell’Associazione “Noi per Voi per il Meyer” che riunisce famiglie di bambini colpiti da leucemie e tumori ed è attiva sin dalla sua nascita presso l’Ospedale Meyer di Firenze (Dipartimento di Emato-Oncologia Pediatrica) ha ribadito come l’associazione operi prevalentemente in tre settori e cioè la ricerca, l’acquisto di strumentazione, l’assistenza e accoglienza delle famiglie dei piccoli ricoverati al Meyer. “La priorità dell’associazione - che svolge il suo straordinario lavoro anche grazie all’aiuto di 120 volontari - è quella di tenere viva l’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica su queste problematiche che coinvolgono tante famiglie e quella di reperire e gestire efficacemente le risorse umane, organizzative e finanziarie, come quelle messe a disposizione da Fondazione Just Italia”.

Ai clinici e ricercatori il compito di illustrare i contenuti del progetto, il cui valore scientifico sta soprattutto nell’utilizzo innovativo di cellule staminali mesenchimali per la ricostruzione del tessuto osseo.

Annarosa Arcangeli, del Dipartimento di Patologia e Oncologia Sperimentali dell’Università di Firenze e Direttore Scientifico di DIVAL TOSCANA, spin off della medesima Università, ha commentato in modo estremamente positivo le sinergie che questo progetto favorisce, attraverso il coordinamento e l’integrazione di elevate competenze professionali e attività specialistiche delle diverse strutture. Ha ricordato infatti che il Centro Clinico di Oncologia Ricostruttiva dell’ospedale Careggi adotta per i piccoli pazienti terapie rigenerative, utilizzando le cellule staminali; la “Cell Factory” dell’ospedale Meyer è preposta ad espanderle in vitro, rendendole idonee alla ricostruzione dell’osso malato, mentre il laboratorio di ricerca di sua competenza sarà incaricato di validare la preparazione delle staminali, confermandone funzionalità e assenza di effetti negativi sui malati.

Franco Bambi, responsabile della Cell Factory del Meyer ha sottolineato come il laboratorio, vera e propria "officina" di prodotti cellulari a scopo terapeutico, sia tra i più avanzati in ambito pediatrico nazionale. La Cell Factory ha scelto di puntare in primo luogo sulle cellule staminali mesenchimali (MSC) per le loro caratteristiche: sono infatti capaci di autorinnovarsi e differenziarsi, diventando i "mattoni" di terapie innovative in molteplici campi. Le MSC, capaci di favorire la formazione di tessuto osseo direttamente a livello del difetto tissutale, possono essere utilizzate per ripopolare strutture naturali o sintetiche, impiantate a scopo sostitutivo in resezioni ossee dovute a tumore. Inoltre le MSC, opportunamente “ingegnerizzate”, potranno diventare mezzi di trasporto di composti bioattivi sulle cellule tumorali, contribuendo alla regressione di gravi forme tumorali.

Domenico Andrea Campanacci (aiuto di ortopedia oncologica e ricostruttiva presso il Cto in rappresentanza del direttore Rodolfo Capanni direttore del Centro direttore del Centro di ortopedia oncologica e ricostruttiva di Careggi) ha ricordato che un bambino colpito dalla malattia può perdere intere parti delle ossa, riportando deficit molto estesi. Il “vuoto“ che si viene a creare nel corpo deve essere colmato chirurgicamente, ma la soluzione non è così semplice. Quando si tratti di un adulto, dallo stesso paziente si possono prelevare segmenti ossei sufficienti a colmare discrete perdite; nel bambino invece la quantità di ossa prelevabile è insufficiente per risolvere i deficit causati dal tumore. Ad oggi, la soluzione più tradizionale prevede il cosiddetto ricorso all’“Osso di Banca”, fornito cioè da un donatore (da segnalare che il Meyer di Firenze, il Rizzoli di Bologna e la Banca di Treviso sono gli unici Centri italiani depositari di una “Banca delle Ossa”a valenza nazionale). Le nuove tecniche di ingegneria tissutale prevedono l’impiego delle cellule staminali autologhe per la rigenerazione del tessuto osseo del paziente. Questa terapia, effettuata aspirando dal midollo le cellule necessarie e sottoponendole a un processo di concentrazione, dimostra tuttavia notevoli limiti. Le cellule, anche se concentrate 5 o 6 volte, risultano comunque insufficienti ed esposte a danneggiamento (per esempio delle terapie chemioterapiche).

Per questo, sembrano promettenti le nuove tecnologie a disposizione della ricerca: le cellule possono essere infatti raccolte e inviate a un laboratorio ad alta specializzazione che le espande in vitro. In pochi giorni, da qualche centinaio se ne ottengono milioni che possono essere adeguatamente “manipolate” per creare l’osso di cui c’è bisogno. Va sottolineato che solo pochi centri ospedalieri in Italia (e il Meyer è uno di questi) abbinano allo studio in laboratorio anche la sua applicazione clinica, con una tecnica che accelera enormemente i processi di guarigione e porta a risultati un tempo irraggiungibili.

Per capire quanto già ottenuto nella cura dei tumori ossei pediatrici, basti pensare che 20 anni fa il 90% dei bambini affetti da tumore osseo subiva amputazioni, ma solo il 10% guariva. Oggi, il 60% dei piccoli malati guarisce e nella quasi totalità dei casi è possibile salvare l’arto. La possibilità di una guarigione totale è più vicina e favorita dal “passaggio” diretto dal laboratorio all’ammalato.

La crisi "post parto" è bisex Ora ne soffrono anche i papà - Uno studio: lui più colpito di lei dalla "depressione genitoriale". Ma forse i padri soffrono solo la pressione delle madri..., di Giordano Bruno Guerri - 27 aprile 2012, http://www.ilgiornale.it

La depressione è ormai un concetto logoro e abusato come gli auguri a Natale. Tutto ciò che era, un tempo, «stanchezza», sia pur mentale, è diventato prima «esaurimento», poi «stress», e ora depressione.

Una bella depressione, insomma, non la si nega a nessuno, al calciatore che non fa gol come allo scolaro che non ha voglia di studiare.

Figurarsi se i ricercatori di sempre nuove malattie (e di scoop per far circolare i propri studi) potevano negare una depressione ai neopadri. Oltretutto, la rivoluzione a rovescio del politicamente corretto pretende che tutto ciò che riguarda le femmine riguardi anche i maschi, e viceversa. Scoperta e definita da non molti anni la depressione post parto materna, che è sempre esistita, come negarla ai padri?

Apprendiamo dunque, dalla lontana Australia, che della depressione post parto soffre lo 0,3 per cento in più dei padri rispetto alle madri. (Notare l’accuratezza scientifica di quello 0,3.) Lo studio della professoressa Jan Nicholson conduce a scoperte fulminanti: «La nascita di un bebè porta profondi cambiamenti di stile di vita e ricreazione, orari di sonno, rapporti di coppia e identità, ed è naturale che possano sorgere difficoltà di aggiustamento per i padri», scrive Nicholson, che tuttavia si dice sorpresa della portata del problema, anche se «Vi è un crescente riconoscimento che i padri sono un sostegno chiave per le novelle madri». Fino alla sorpresa finale: «Lo studio mostra che anche gli uomini sono vulnerabili, perché anche loro perdono sonno e si destreggiano fra ruoli e responsabilità».

La mia esperienza, per la verità è diversa. Potevo essere ansioso, teso, stufo, preoccupato - insomma, «depresso» - durante l’attesa: nonostante tutte le ecografie e gli esami non sai mai davvero se il figlio sarà sano, sarà tutto, sarà bello, e questa mi sembra la peggiore tensione che si possa sopportare. Poi, quando lo vedi sano, intero, bello, tutto il resto diventa marginale, quasi insignificante.

Supponiamo pure che io sia un caso strano. Però mi sembra che tutto ciò che segue il parto, per un padre, riguardi le categorie «preoccupazioni» e «rotture» più che quella «depressione». Preoccupazioni economiche, per esempio, perché scopri ogni giorno che un figlio - per quanto piccolo - costa molto più del previsto, che anche la più accorta delle madri d'improvviso non bada più a spese, e che il tuo orario e le tue capacità di lavoro vengono per forza ridotti dagli avvenimenti quotidiani. Le «rotture» non riguardano tanto - altro esempio - i pianti notturni e la conseguente perdita di sonno, che rientrano nella categoria «preoccupazioni», bensì la scoperta che nella tua vita entrano nuovi, e apparentemente assurdi, assilli: come «la corrente!». L’avevi dimenticata dall’infanzia, quando tua madre correva disperata da una porta a una finestra gridando «la corrente!» Pensavi che non l’avresti mai più sentita nominare per tutta la vita, sfidando spifferi e bufere. Invece eccola, «la corrente!», annunciata con la stessa disperazione di una piaga egiziana, temuta come una pugnalata alle spalle, odiata come un tradimento: anche se tu non senti un alito di vento, fra due finestre lontanissime in una giornata di aria immota.
Ecco cosa vorrei chiedere alla professoressa australiana: un bello studio, con tanto di zero virgola, sulle diversità - e la loro origine - dell’atteggiamento materno e paterno rispetto al problema «la corrente!».
www.giordanobrunoguerri.it

LA RICERCA - L'ADOLESCENTE HA IL «DIRITTO ALL'IMMATURITÀ», Se la scienza scopre che si diventa adulti soltanto a 24 anni, Lo studio su «The Lancet». I tempi di maturazione del cervello più lunghi di quelli ipotizzati, Fulvio Scaparro, 27 aprile 2012, http://www.corriere.it

Recenti ricerche sugli adolescenti pubblicate inThe Lancet tentano di dare una risposta alla domanda «A che età si diventa adulti?». I ricercatori non si riferiscono alle apparenti certezze della maturità giuridica: un'età per il sesso, una per guidare l'auto, una per bere alcolici, un'altra ancora per votare e così via. Ma la domanda alla quale tentano di rispondere si riferisce alla maturità naturale e la loro risposta non è quella che convenzionalmente indicava nella pubertà l'inizio dell'adolescenza e attorno ai vent'anni l'ingresso nell'età adulta. Secondo i ricercatori il nostro cervello non si sviluppa del tutto fino all'età di ventiquattro anni e solo dopo questa età possiamo ragionevolmente ritenere che si possa entrare nell'età adulta. Prima il cervello degli adolescenti non sarebbe sufficientemente attrezzato per valutare appieno le conseguenze dei comportamenti. Questo spiegherebbe la sottovalutazione dei rischi, degli effetti dell'abuso di alcolici, di droghe ecc... che in molti ritengono «tipicamente adolescenziale».
Non conterei troppo sulla convinzione che l'ingresso nell'età adulta comporti quel tanto di saggezza ed equilibrio che serve a vivere nel mondo senza far troppi danni a noi stessi e al prossimo. Se però le ricerche saranno confermate è senz'altro utile sapere che il cervello degli adolescenti ha tempi di maturazione più lunghi di quelli finora ipotizzati. Si pensi, ad esempio, all'apporto che queste ricerche possono fornire quando si valuta la eventuale discordanza tra l'incapacità legale di agire e la capacità naturale del soggetto minorenne.

Il fatto è che è del tutto discutibile che «adulto» sia sinonimo di «maturo» e «adolescente» sia sinonimo di «immaturo», almeno finché non ci chiediamo «maturo o immaturo per cosa?». Io definisco la maturazione come il processo di acquisizione della capacità di separarsi da esperienze precedenti senza che questo impedisca al soggetto di stabilire nuove relazioni, alla ricerca di nuovi e più soddisfacenti equilibri. La precarietà di ogni equilibrio raggiunto rende continua la ricerca, relative e provvisorie le diverse tappe raggiunte, le diverse maturità, fisiche, affettive, cognitive, morali e sociali. Siamo sempre più o meno maturi per affrontare certe prove e contemporaneamente più o meno immaturi per altre.
Secondo questa definizione, da uno stato fusionale in cui il neonato è ancora soggetto pienamente e sanamente immaturo, nel corso dello sviluppo si afferma con sempre maggiore evidenza la capacità di separarsi e stabilire nuove relazioni. La nostra maturità è messa alla prova ogni giorno.

Il bambino e l'adolescente soffrono se essi stessi o altri confondono il processo, la maturazione, con una o più delle sue tappe, le diverse maturità che vengono via via raggiunte a livelli e in tempi differenti da individuo a individuo. Soffrono se percepiscono, o altri percepiscono, il loro processo di maturazione come privo o carente di caratteristiche essenziali quali il movimento, l'orientamento e la regressione, se in altre parole scambiano, o altri scambiano, un fotogramma con l'intero film della loro vita.

In altri termini, al bambino e all'adolescente va riconosciuto il diritto all'immaturità, totale all'inizio dell'esistenza, ma anche quello al riconoscimento di tempi personali di maturazione che non procede mai senza arresti e regressioni.
Arthur Koestler in Buio a mezzogiorno faceva dire a un suo personaggio, in risposta a chi gli chiedeva a quale età era diventato adulto, che sono le esperienze che ci fanno maturare: «Se vuoi veramente sapere, sono diventato uomo a diciassette anni, quando fui mandato in esilio per la prima volta».

Il sogno lo decido io





Sogni e Realtà - Così potremo fotografare quel che passa per la mente





Bugie - Piccole menzogne fin dall'asilo come farli smettere senza punizioni



Teilhard de Chardin aveva ragione? La vita si muove da sola?, di Umberto Fasol, preside e docente di scienze naturali in un liceo scientifico, 26 aprile, 2012, http://www.uccronline.it/

«L’evoluzione è caratterizzata dal muovere verso: della materia verso la complessità e della vita verso la complessità e la coscienza.» (Ludovico Galleni, editoriale della Nuova Secondaria n°8, 15 aprile 2012). Il professor Galleni, noto docente di zoologia all’Università di Pisa, propone la lezione di Teilhard de Chardin quale soluzione della grande antitesi presente nel dibattito contemporaneo tra il materialismo riduzionista del neodarwinismo da una parte e il creazionismo esplicito del Disegno Intelligente dall’altra.

In altre parole, secondo il professore, il Progetto in natura esiste, ma non va cercato al di fuori, bensì dentro la materia stessa. Sembra una soluzione elegante del problema: Dio esiste e l’evoluzione spontanea pure. Le cose però non sembrano essere così semplici. La domanda che sorge immediata di fronte a simili affermazioni è infatti questa: “Come fa la materia a muoversi verso una direzione se non è consapevole di quello che fa?”. E ancora: “Può esistere un movimento direzionale senza un obiettivo consapevole da raggiungere?”. E questo obiettivo è dentro la materia che si muove o è là, in fondo al percorso, ad attenderla?

In queste affermazioni, cioè, si attribuiscono alla materia proprietà che essa non ha.  Né il carbonio, né l’idrogeno o l’ossigeno possono conoscere il loro destino all’interno di una cellula: sono atomi e basta, privi di qualunque informazione morfogenetica.  Stanno bene da soli e non si uniscono in modo organizzato e teleonomico se non subentra una causa esterna a scuoterli dalla loro inerzia (proprio come quello che si dice nel primo principio della dinamica). No. Non credo che possa essere così. Se la materia si muove nella direzione della vita è solo perché “è mossa” dall’esterno.  Nessuno può darsi quello che non ha!

Oppure, in alternativa, dobbiamo ammettere che, se questa materia grezza  è capace di autoorganizzarsi per formare una struttura infinitamente complessa, dinamica e omeostatica come la cellula, allora significa che è “di natura divina”: sa quello che deve fare e lo fa. Tra le due ipotesi certamente è da preferirsi la prima. Le proprietà della materia sono infatti: la massa, la carica elettrica, l’elettronegatività, ecc… ma in nessun caso l’informazione cosciente: è la fisica sperimentale a rivelarcelo. Siamo al punto di partenza. Quello di Aristotele: “ogni corpo che si muove, è mosso”.

L’embriologia, l’evoluzione e l’evidenza del “ di Umberto Fasol, preside e docente di scienze naturali in un liceo scientifico progetto”, 26 aprile, 2012, http://www.uccronline.it

L’embriologia è sempre stata un grandissimo spettacolo per i biologi, ma anche per tutti coloro che hanno avuto la possibilità di vedere qualche filmato o qualche ecografia in gravidanza. Forse è veramente il “più grande spettacolo dopo il big bang”, come giustamente canta Jovanotti.  L’embrione è il motore di tutti i processi che portano alla sua formazione: non si può spiegare né la spermatogenesi né la ovogenesi con il suo meraviglioso ciclo mensile se non a partire dal nuovo essere che prende il via dall’incontro tra due cellule uniche che dimorano in due corpi diversi e che non conoscono nemmeno l’esistenza l’una dell’altra. Questo è veramente misterioso!

Ciascuno di noi ha iniziato l’avventura della vita a partire da un incontro tra due cellule che non si conoscono e che dovrebbero anche, in teoria, respingersi a vicenda, come accade nei contatti tra xeno tessuti.  Lo spermatozoo penetra la cellula uovo come un ago che entra nel dito: perché lo può fare?  E’ un caso unico tra le cellule del nostro corpo e tra le cellule in generale del mondo animale. Eppure il richiamo della vita nuova è insopprimibile: bisogna creare un figlio.  Non si può invecchiare ed estinguersi. Poi accade il più grande spettacolo dell’Universo: in poche settimane, quaranta nel nostro caso, da una cellula sferica si formano miliardi di cellule, tutte al loro posto, costruendo un essere capace di piangere, di ridere, di mangiare, di scaricare, di pensare e di … farsi amare! Da uno a 254 tipi di cellule diverse. Com’è possibile tutto questo?

La moderna evo-devo, ovvero evolutionary developmental biology, ce lo spiega. «Gli interruttori genetici funzionano come sistemi GPS.  Proprio come questi calcolano la posizione della vettura integrando diversi stimoli, gli interruttori integrano informazioni spaziali nell’embrione rispetto a longitudine, latitudine, altitudine e profondità e definiscono le aree in cui i geni sono attivati e disattivati.» (pag. 109, Sean Carroll, “Infinite forme bellissime”, Codice 2006).  Questa è l’immagine centrale del moderno pensiero della “nuova scienza dell’Evo-Devo”, come recita il sottotitolo del bello libro del genetista Carroll: gli interruttori genetici sono i registi occulti della vita che, a seconda della sinfonia che dirigono, determinano una forma bellissima piuttosto che un’altra e, al contempo, la possono trasformare l’una nell’altra, senza mai interrompere la musica. Sono addirittura potenti e intelligenti come il Global Positioning System! I due massimi problemi della biologia teorica, l’ontogenesi e l’evoluzione, sono risolti con un solo termine, “il gene interruttore”: la forma della vita è la manifestazione visibile della sua regia e l’evoluzione della vita è il suo flusso ininterrotto nel tempo, per mutazione.

Sean Carroll è professore di Genetica all’University of Wisconsin e la sua attività scientifica è considerata fondamentale per la comprensione della nuova versione dell’evoluzione, la “Evo-Devo”.  Questo libro ne è una importantissima sintesi per il grande pubblico e porta infatti la prefazione di Telmo Pievani.  Vediamo il problema dell’ontogenesi. Ogni organismo deriva da una cellula sola, sferica e omogenea.  Dove si trovano le istruzioni per il montaggio di tutti gli organi di cui è fatto l’animale? Come fa la testa a prendere la forma che ha e come fa ad assumerla in quella posizione? E la stessa domanda vale per i denti, per gli occhi, per il cuore, per i piedi, per le unghie, ecc… E ancora: ciascuna cellula di ogni tessuto (oltre 200 tipi nel corpo umano) possiede gli stessi geni di tutte le altre, eppure la cellula dell’occhio ha un metabolismo molto diverso da quello della cellula del femore o ancora della cellula di un nefrone; questo accade grazie all’attività di alcuni geni e al silenziamento di altri.  Ma chi o che cosa decide questa scelta? Ecco la scoperta di Carroll: gli interruttori sono i responsabili ultimi di ciascuna fase dello sviluppo dell’embrione e sono attivati tra loro a cascata: quelli ora attivi sono stati indotti da altri precedenti e a loro volta ne stimoleranno nuovi. Ma cosa c’è all’inizio di tutto? Qual è la prima mossa nell’uovo fecondato? E’ la definizione di due poli nella sfera dell’uovo. E’ la creazione dell’asse principale, quello cefalo-caudale.

Segue immediatamente la determinazione degli altri due assi, quello ventre-dorsale e quello latero-laterale.  Sembra che gli assi si creino attraverso la distribuzione a gradiente di una o più proteine (tra cui la cordina nei vertebrati). Una volta determinate le coordinate fondamentali (le tre dimensioni dello spazio) dell’embrione entrano in azione i geni Hox, che costituiscono il kit degli attrezzi per il suo montaggio. I geni Hox sono una pietra miliare nell’Embriologia contemporanea.  Nella Drosophila sono otto, tutti co-lineari con le strutture anatomiche che si sviluppano lungo l’asse cefalo-caudale, ovvero il primo, lab, crea le labbra e l’ultimo, Abd, crea il segmento anale. La parte homeobox  (sequenza di Dna) dei geni della Drosophila si ritrova pressochè identica anche nel topo o nella rana, manifestando per di più la stessa colinearità e la stessa organizzazione in cluster. Questo significa che le diverse forme animali sono solo varianti dello stesso tema: non sono disegni nuovi e diversi tra loro. Quello che importa è che questi geni costituiscono il Kit degli attrezzi per il montaggio degli animali e sembrano essere abbastanza universali.

La prima mossa, si diceva, è la determinazione dei poli, la successiva, quella degli assi. Segue un altro passaggio incredibile per la complessità: la suddivisione del corpo embrionale in spicchi di longitudine e latitudine (come accade per la Terra), di dimensioni via via più piccole. Ad ogni spicchio viene quindi assegnata un’identità precisa (un somite, un cuore, uno stomaco,…).  La formazione dell’organo specifico procede ora attraverso una ridefinizione di un nuovo “micro-mondo” con poli, meridiani e paralleli… e avanti di nuovo! Ogni cellula sa quello che deve fare in funzione della sua posizione nell’embrione. E’ l’unico modo per spiegare la morfogenesi, il più grande spettacolo sulla Terra: contemporaneamente si sviluppano ex novo tutti gli organi di cui è fatto l’organismo, a partire da un uovo indifferenziato, tutto uguale e privo di qualunque minima bozza di ciò che sarà dopo qualche settimana! Tutto procede “come se” il prodotto finito (l’embrione sviluppato) agisse attirando a sé ogni cellula, assegnandole il compito che deve svolgere nel tempo: è “come se” la vita non si costruisse per tentativi, ma sapesse chiaramente quello che deve fare con assoluta certezza, istante per istante e posizione per posizione. Tutto questo fa pensare.

Vediamo ora il problema dell’evoluzione. La chiave dell’evoluzione consiste  nelle mutazioni a carico dei geni interruttori, che creano nuove geografie di accensione dei geni; a queste nuove geografie corrispondono più somiti o più appendici o diverse appendici come le ali rispetto agli arti. Non ho lo spazio per dilungarmi su questo tema, ma è già stato detto molto per tirare qualche conclusione: bellissimo il libro, complimenti a Carroll e a tutta la squadra di ricercatori più o meno noti che hanno lavorato per mesi o talora per anni per scoprire la funzione anche di un solo gene. I dati sono tutti merito loro; le loro interpretazioni, ora, si devono discutere insieme: è così che la scienza progredisce. Vorrei riprendere l’immagine iniziale del GPS: paragonare il nostro DNA ad un sistema integrato high tech significa attribuirgli una complessità ed una intelligenza che non sono attributi riferibili ad una molecola.  E’ fin troppo evidente la sproporzione tra un interruttore e l’animale che bisogna costruire. L’acido desossiribonucleico non è capace di “integrare informazioni spaziali e trasformarle in ordini esecutivi differenziati e direzionati”, perché è solo un acido.  E’ il suo “codice” che lo rende intelligente e quindi capace di ricevere e di trasmettere informazioni.  Ma che cos’è questo codice e da dove viene?

Si potrebbe fare un piccolo passo di logica e riconoscere che nei geni interruttori giace un surplus di “istruzioni” che è distinguibile dalla materia, così come accade in ogni comunicazione, dove il suo “senso” è separabile dalla materia che la veicola. Quindi, la causa ultima deve precedere i geni interruttori, per poterli informare. Spiace inoltre, lo devo confessare, che in tutte le 300 pagine del libro, a fronte di descrizioni di fenomeni veramente meravigliosi e stupefacenti come la formazione di animali, di organi e di arti (vi è forse qualcosa di più grande che i nostri occhi possono contemplare?), non si ricorra mai ai concetti che affiorano ovunque:  il ”progetto” e la “finalità”. Personalmente, dopo anni di riflessioni sulla biologia, ritengo che la causa ultima dei processi che si snodano mirabilmente, dalla fecondazione in poi, senza soluzioni di continuità, senza sforzi, senza ripensamenti, per forze solo interne, senza errori, sia proprio l’obiettivo da raggiungere: il corpo dell’animale. I geni interruttori agiscono in modo corretto solo se sono “consapevoli” del progetto completo, di cui costituiscono solo che una parte: ogni cellula conosce le proprie coordinate geografiche e in base a queste sa quello che deve fare. La cellula non procede per tentativi (“vediamo quello che succede”) ma per scelte decise tra infinite possibilità!

Sono “le chiavi in mano” del prodotto finito a determinare tutto il flusso di informazioni che gorgoglia dall’uovo fecondato, in una modalità che, secondo me, percepiamo solo a tratti. A tratti, perché la “consapevolezza del progetto” non può essere racchiusa in un pezzo di DNA, così come in altre molecole. Più si studia la “vita” e più ci si accorge che è qualcosa di grande, che deborda sempre dai confini che le abbiamo disegnato intorno: è fatta di cellule ma si serve di queste, le muove e le organizza come un vero e proprio manager che sa quello che vuole. I Fatti mostrati dell’embriologia sono che la consapevolezza del progetto comprime lo spazio della casualità e dilata lo spazio dell’informazione.  Il campo morfogenetico, ovvero il paesaggio che canalizza tutte le mosse dello sviluppo precede ogni evento. Come le leggi della fisica precedono il comportamento della materia, così le leggi dello sviluppo precedono i processi dell’embrione, che sono destinati alla perpetuazione del modello di specie cui appartiene. Le forze interne che costringono le infinite mosse del processo morfogenetico sono fortemente stabilizzate e non consentono variazioni di alcun tipo, pena la malformazione o l’aborto.

Non si vede dove possa collocarsi lo spazio per la trasformazione di un piano di sviluppo in un altro, in modo repentino, come afferma il saltazionismo degli equilibri punteggiati di Gould e di Eldredge. Il gradualismo nell’evoluzione appartiene ormai al passato (eccetto che nei libri di testo scolastici); ma il saltazionismo non trova alcuna complicità nello sviluppo dell’embrione, come invece vorrebbe la moderna teoria dell’Evo-Devo. Tutte le mutazioni dei geni Hox che conosciamo in Drosophila portano a “mostri” o comunque a varianti non significative dal punto di vista dell’evoluzione. L’origine dei paesaggi morfogenetici tipici di ciascuna specie rimane ancora un grande mistero e la ricerca rimane aperta, più di prima. In conclusione: tutto accade nella “vita” come se ci fosse un “protagonista” invisibile… tant’è vero che  pensa addirittura a riprodursi (!)… ma certamente non per la decisione di un gene-interruttore.

Da: “Evoluzione: i fatti e le teorie”, Convegno di studi, Verona, Palazzo della Gran Guardia 29/03/12

L'Accademia dei Lincei è miope sul biotestamento di Giovanna Arcuri, 27-04-2012, http://www.labussolaquotidiana.it

L’Accademia dei Lincei si chiama così perché gli scienziati che ne fanno parte dovrebbero scrutare i misteri dell’uomo e della natura con la vista acuta di una lince. Ma pare che sul tema dell’eutanasia tale vista si sia un poco appannata.

Di recente presso la prestigiosa Accademia si è svolto un convegno dal titolo “Testamento biologico e libertà di coscienza”. Se andiamo ad analizzare alcuni passaggi delle relazioni dei docenti intervenuti sorgono alcune perplessità e obiezioni.


Il giurista Pietro Rescigno, organizzatore del convegno, così appunta: “il mio orientamento è in senso liberale, dunque di consentire al paziente di esprimere, in termini di dignità, quello che è il suo autonomo sentire”. Di per sé l’affermazione non fa una piega. Salvo che non si voglia assolutizzare questo assunto. Non tutti i “nostri autonomi sentire” sono in accordo con la nostra dignità. Rispettare il valore intrinseco di una persona non significa rispettare sempre tutto ciò che chiede. Se uno pretendesse di ammazzare e rubare questo suo desiderio prima di ledere terzi, lederebbe la sua stessa dignità di uomo, perché appunto non è degno dell’uomo voler uccidere e rubare. E così anche la scelta di togliersi la vita contrasta con la dignità della persona, perché entra in conflitto con l’inclinazione alla vita che sgorga dalla natura umana. E’ un po’ come se si volesse distruggere un bellissimo quadro di Renoir che si possedesse: sarebbe un atto indegno del valore del quadro stesso, contrasterebbe con la preziosità del dipinto che invece esige rispetto e tutela. La volontà di morte non è quindi da assecondare, perché in contrasto con il valore altissimo della persona umana.


Ma mettiamo sotto la lente di ingrandimento anche alcuni passaggi dell’intervento di Paolo Zatti, ordinario di Diritto privato presso Università di Padova: “Chi decide oggi non è la persona, ma la medicina e le sue ambizioni. Per avvicinarsi a una pratica e a un diritto della dignità del morire ci deve essere come condizione il rispetto della morte, come momento, come conclusione della vita. La morte non è ancora sconfitta e il compito che si assegna all'umanità, alla medicina, è di contrastarla con ogni mezzo e senza demordere, conquistando anche piccoli lembi di vita, riducendo ostinatamente di anni, mesi, giorni o ore la zona dell’impotenza della medicina. La persona “spesso diventa il terreno di una contesa senza quartiere tra tecnologia e natura”. Infine sottolinea alcuni errori tipici di chi impedisce alla natura il suo naturale corso: “Quello di oscurare la differenza tra lasciar accadere e provocare; il non avvedersi che la morte è ormai sempre più non un fatto della natura, ma una decisione medica e il non vedere che senza un diritto di lasciar morire si monta un'infernale trappola in cui vengono reclusi insieme medico e paziente”.

Alcune osservazioni molto sintetiche. Compito della medicina è quello, se possibile, di guarire e sempre di curare, cioè di prendersi cura del paziente al di là dell’esito fausto o infausto delle terapie. Il rispetto dovuto dalla medicina è dunque a favore della vita non della morte, come invece pare ci voglia suggerire Zatti. Appare quindi evidente che scopo del medico non è quello di lasciare che la natura faccia il suo corso: se una persona ha un tumore, per le leggi di natura dovrebbe morire, ma questo non comporta che dobbiamo abbandonare il malato al suo destino perché così vuole madre natura. In questo senso – per riprendere la distinzione fatta da Zatti – il lasciar accadere (che per il docente è condotta moralmente lecita) si identifica nel provocare: se Tizio si tuffa in mare e non sa nuotare ed io con il suo consenso non gli presto soccorso, il mio atto omissivo concorrerà alla sua morte. Il lasciar morire è causa del morire: leggi eutanasia omissiva.


Inoltre la differenza tra “naturale uguale sempre buono” e “artificiale uguale sempre cattivo” è erronea. E’ evidente che l’intervento del medico per curare i pazienti costituisce sempre un atto artificiale, come buona parte degli atti che compie l’uomo, ma non per questo motivo è un atto malvagio.


In terzo luogo nelle parole di Zatti si gioca ambiguamente sul concetto di accanimento terapeutico. Sui temi cosiddetti di fine vita abbiamo accanimento terapeutico allorchè, in presenza di uno stato terminale della malattia, c’è una sproporzione tra mezzi utilizzati e risultato sperato. I criteri e gli indici per verificare tale sproporzione sono dei più vari: il tipo di cure, il quadro clinico del paziente, la sua risposta al dolore, il costo delle cure, etc. Il tutto deve essere messo in relazione con lo sperabile incremento di tempo vitale. Il rifiuto dell’accanimento terapeutico è legittimo rifiuto di cure inutili a vivere. Tenuto fermo però, come già detto, il requisito di essere in presenza di un paziente terminale: la parabola di vita si sta naturalmente completando. Al di fuori di tale circostanza occorre sempre far di tutto per strappare l’uomo alla morte, che non appare quindi come evento immediatamente inevitabile, ma solo possibile.


In merito poi al “diritto al morire” nel nostro ordinamento giuridico questo diritto non esiste. Se esistesse un “diritto alla morte”, il poliziotto che strappa a forza dal cornicione l’aspirante suicida incorrerebbe nel reato di violenza privata, che appunto sanziona chi impedisce ad un terzo di assumere una condotta legittima. Se esistesse il “diritto a morire” dovremmo abrogare l’art. 579 del Codice Penale che punisce l’omicidio del consenziente e l’art. 580 cp che considera reato l’aiuto al suicidio: se fosse un diritto cercare la morte perché punire chi collabora in quest’azione?


Qualcuno a questo punto potrebbe tirare in ballo l’art. 32 della Costituzione che permetterebbe di rifiutare qualsiasi trattamento medico, anche quelli salvavita. Ma l’art. 32 della Costituzione non legittima il rifiuto delle cure da parte del paziente anche nel caso in cui questo rifiuto portasse alla morte, ma – cosa ben diversa -  impone un alt al potere coattivo dello Stato nell’obbligare una persona a curarsi. Non esiste un diritto al rifiuto di cure salvavita, ma solo una facoltà di fatto non certo benedetta dalla legge. La legge tollera il suicidio perpetrato anche attraverso il rifiuto delle cure (fattispecie tra l’altro rarissima e presente perlopiù solo nella mente di stravaganti giuristi) e di certo non assegna a questa scelta lo status di diritto costituzionalmente garantito. Nella costituzione ci sono solo principi valoriali positivi: esiste il diritto alle cure, non il diritto alle non cure, cioè alla malattia e addirittura all’esito più infausto di queste, cioè la morte.

giovedì 26 aprile 2012

Una vita al massimo




Gli occhiali per ricordare


Scienza e diritto "scoprono" l'embrione da difendere



Aborto in diretta Choc a Londra


"Stacchiamo la spina", si sveglia



Cure palliative, cresce il «modello italiano»



Rifiuto delle terapie? Un «diritto» non c'è


Tumori in gravidanza: salvare madre e figlio si può



L'eccesso di medicine sta uccidendo gli anziani



Fecondazione artificiale: bambini su ordinazione nelle cliniche specializzate, 24 aprile 2012, http://www.corrispondenzaromana.it/

(di Alfredo De Matteo) La clinica Washington Center, specializzata in fecondazione in vitro per il cosiddetto bilanciamento familiare, ovvero la tecnica che permette di determinare in anticipo il sesso del nascituro, ha lanciato nei giorni scorsi una campagna pubblicitaria su di un quotidiano canadese con il seguente slogan: «crea la tua famiglia come vuoi: maschio o femmina». La pratica della fecondazione in vitro finalizzata alla pianificazione familiare é molto diffusa oltreoceano e pesca i suoi clienti soprattutto in quei paesi dove la scelta del sesso riveste un importante ruolo culturale; in India, ad esempio, la nascita di una bambina é vissuta spesso come una disgrazia, per cui chi é in grado di spendere elevate somme di denaro si può rivolgere a cliniche specializzate come quella canadese.

Non a caso l’immagine inserita nella pubblicità della Washington Center ritrae due sorridenti bambini vestiti con abiti indiani (Il Giornale, 21 aprile 2012). Normalmente, notizie come questa suscitano la reazione sdegnata dei più ma per motivi che non riguardano la intrinseca illecita morale di tali aberranti tecniche ma le loro finalità discriminatorie, soprattutto quando a farne le spese é il genere femminile. Va da se, invece, che la fecondazione in vitro sia di per se una pratica disumana oggettivamente ingiusta e discriminatoria.

Già, perché le prime vittime innocenti sono gli embrioni umani che inevitabilmente vengono sacrificati per consentire la nascita del bambino in laboratorio (un numero impressionante, soprattutto se posto in relazione col numero di bambini che vedono la luce, come e’ evidenziato dai risultati prodotti dalla legge 40 in Italia). Altre vittime innocenti sono gli stessi bimbi nati con la fecondazione, i quali hanno un’aspettativa di vita decisamente inferiore agli altri e sono privati del diritto ad avere un padre e una madre certi e ad essere il frutto naturale dell’amore coniugale.

La scelta del sesso determinata in laboratorio sembra essere l’evoluzione ovvia di un sistema culturale e legislativo che pone al primo posto il (dis) valore della autodeterminazione e riconosce come legittime tutte le aspirazioni umane, anche quelle più disordinate. Nulla di strano, dunque, che in un siffatto sistema di valori al centro non vi sia più la dignità dell’essere umano ma il suo cinico sfruttamento. Dal momento che non sembra esserci  più alcun limite all’arbitrio dell’uomo, nel futuro, se le cose non cambieranno radicalmente, dovremmo aspettarci l’abbattimento di ogni barriera naturale comprese quelle che oggi ci appaiono invalicabili. (Alfredo De Matteo)

Aborto: perché non si parla mai dell’aspetto clinico, 24 aprile 2012, http://www.corrispondenzaromana.it


(di Davide Greco) Sul web è presente una sorta di tema-tabù sull’aborto. Si parla un po’ di tutto, esistono punti di vista differenti, analisi logiche dettagliatissime. Ma c’è un aspetto di cui si parla poco: in cosa clinicamente consista. Con sorpresa, la maggior parte dei testi, anche quelli più specialistici, evitano l’argomento. Perché? È interessante notare, ad esempio, come nel Glossario fornito dall’Istat del 2011 per gli anni 2008-2009, non esista una voce che descriva la procedura clinica adottata.

Invece sono tenute ben distinte le voci “Aborto” e “IVG”. Non è un dettaglio da poco. Sono la stessa cosa, ovviamente, ma nel primo caso (quello semanticamente più forte), l’aborto viene definito «interruzione della gravidanza prima che il feto sia vitale, cioè capace di vita extra uterina indipendente ». Cerchiamo di capire. Se uno si fermasse alla prima parte della frase, penserebbe che il feto «non è vitale», dunque privo di vita, o almeno mancante di esistenza propria. Ma non è così. Il feto è vivo, e tuttavia è incapace di esistere al di fuori del grembo materno.

Estrarlo coincide esattamente con l’ucciderlo. Una società con un’etica ben salda darebbe rilievo a quest’ultimo aspetto, mentre una società dai parametri scombinati insisterebbe su quel “prima che… vitale” per giustificare la propria innocenza. Per specificare, sempre la stessa voce dice: «Si distingue l’aborto spontaneo dall’aborto indotto o interruzione volontaria della gravidanza».

Da un lato si ha «l’aborto spontaneo», naturale, dall’altro si ha un qualcosa di diverso che, con eufemismo ben studiato, viene prima siglato e poi neutralizzato con «interruzione volontaria della gravidanza». La voce IVG, infatti, descrive l’aborto solo in termini legali, tecnici, freddi. Ed è chiaro il motivo: mentre aborto si capisce subito, IVG è poco comprensibile e rende il tutto più stemperato.

È un po’ come la propaganda in Inghilterra, sottolineata da Gianfranco Amato (I nuovi Unni, p. 132-134): lì si preferisce chiamare l’aborto medical care (cura medica) e i movimenti che lo sostengono pro choice (a favore della scelta) che tutelano l’abortion right (il diritto all’aborto). Che poi si tratti di decisione che uccida o meno una creatura viva fa parte delle specifiche, come fosse un dettaglio marginale. Il dato importante sembra essere la cura, la libertà di scelta, l’autodeterminazione della donna, ed è su questo che la propaganda abortista fa leva.

Ma la percentuale della cosiddetta “cura”, gli aborti procurati per la salute fisica e mentale della donna, in Italia come in Inghilterra non sono che uno zero virgola un numero. Numeri bassi, peraltro già compresi nella legislatura precedente al 1978 (vedi art. 54 del Codice Penale sullo “Stato di necessità”). Si faccia attenzione poi alla parola auto-determinazione perché, messa così, sembra che la donna possa scegliere per qualcosa che riguarda solo lei.

Quasi che un bambino fosse una massa di cellule amorfe, un pezzo smontabile, che si può togliere come la carta da parati in casa. Invece si tratta anche di etero-determinazione, una decisione che si prende al posto di un altro. È bene sempre sottolinearlo, perché a forza di eufemismi e di acronimi si rischia di perdere il senso della gravità di ciò che si sta facendo. Il senso vero dovrebbe essere questo: si faccia attenzione a parlare semplicisticamente di aborto, perché il bambino abortito avresti potuto essere tu. Ora tu puoi amare, decidere, sorridere, lavorare o disperarti perché una mamma, la tua, ha deciso che valevi di più di una “causa economica”.

O peggio ancora, che valevi meno della sua libertà. Intendiamoci, non si sta dicendo che la donna non deve scegliere. Si sta dicendo che le parole usate per descrivere questa scelta sono ambigue, sbagliate o controverse. Possono ingannare. Personalmente apprezzo la consapevolezza e sto sulle difensive quando qualcuno o qualcosa cerca di nascondermi la verità o me la racconta con parole poco chiare. Poi, giustamente, ognuno è in democrazia libero di fare quello che coscienza gli detta, ma che almeno lo faccia consapevolmente e non superficialmente. Va da sé, poi, che la consapevolezza e l’informazione creerebbero non pochi dubbi nell’opinione pubblica, ma è proprio questo che i gruppi pro-choice vorrebbero evitare.

La consapevolezza. I percorsi per addormentare le coscienze della gente sono proprio questi: spostare il baricentro del discorso, presentare come positiva una realtà negativa. Nessuna dittatura, per quanto spietata, si è mai presentata come distruttiva verso il popolo, ma ha sempre motivato le proprie scelte come belle, sane, produttive per chi le segue. Per avere un’informazione corretta e autorevole sull’isterosuzione, la pratica abortiva più utilizzata, bisogna prendere invece testi come quelli di Rodríguez-Luño, Scelti in Cristo per essere santi, III, manuale a cura della Facoltà di Teologia “Santa Croce”. A pagina 194 troviamo questa descrizione: «Viene allargato l’orifizio esterno del collo uterino, e viene introdotta una cannula allo scopo di estrarre il nascituro mediante l’aspirazione, prodotta da un apparecchio simile all’aspirapolvere domestico, ma molto più potente. La morte del nascituro viene provocata smembrandogli le braccia e le gambe. I resti fetali diventano una marmellata sanguinolenta».

Non è necessario commentare ulteriormente, ma qualsiasi medico con parole più o meno diverse (magari tecniche) vi confermerà che è vero. Cercate su internet, fra le immagini, basta digitare “isterosuzione” o “metodo Karman”. Ma la domanda è soprattutto questa: è giusto che si possa leggere una descrizione dell’aborto come questa solo (o quasi) in un libro di Teologia Cattolica? Perché non la si può trovare anche nel Glossario dell’Istat, nelle specifiche della legge 194 o in qualche altro testo di portata pubblica? È forse troppo brutale, di cattivo gusto?

Se non si ponesse l’accento sulla brutalità del gesto, non si capirebbe perché a distanza di 34 anni molti sentono ancora come un dovere aprire una discussione sulla legge sull’aborto. Se non fosse brutale, chi contesta la legge 194 apparirebbe come un matto che si scalda per niente. Se tutti stessero zitti, vorrebbe dire che la società ha davvero fatto un passo avanti. Verso brutalità ancora peggiori. (Davide Greco)

Eutanasia infantile, si può parlare di dignità? di Giovanna Arcuri, 26-04-2012, http://www.labussolaquotidiana.it/

E’ di qualche tempo fa l’accesissimo dibattito intorno ad un articolo dei ricercatori Alberto Giubilini e Francesca Minerva, pubblicato sul Journal of Medical Ethics dal titolo Aborto post-natale: perché il neonato dovrebbe vivere?. Nell’articolo si sostiene che l’uccisione del neonato è lecita quando questi versa in uno stato di salute assai compromesso. In buona sostanza si tratta di infanticidio.

Ciò che gli autori di questo saggio ipotizzano è in verità già prassi consolidata in Olanda. Solo che lì la chiamano eutanasia infantile. E’ questione di prospettive: l’uccisione del bebè può essere interpretata come aborto tardivo o eutanasia precoce. Cambia il nome dell’omicidio ma sempre omicidio è.

Dicevamo che in Olanda questo tipo di pratica è ormai ben avviata (strano destino per un paese che unico non aderì al programma di eutanasia forzata imposta dal nazismo). L’infanticidio è infatti praticabile nel rispetto di alcune condizioni previste dal Protocollo Groningen del 2003: “Povera qualità della vita [tra cui la presenza di dolore fisico o psichico] – Mancanza di autosufficienza – Mancanza di capacità di comunicazione – Dipendenza ospedaliera – Aspettativa di vita”. Condizioni abbastanza diffuse se Eduard Verhagen, l’autore del suddetto protocollo, ammette dalle colonne del New England Journal of Medicine del 10 Marzo 2005 che su 1.000 bambini che muoiono nel loro primo anno di vita, 600 smettono di vivere per una pratica eutanasica. Insomma il 60%. Percentuale che potrebbe far stupire solo gli stolti: infatti quale è quel neonato, seppur sanissimo, che è autosufficiente, che non necessità di assistenza medica, che comunica come un adulto? Nessuno.

Il protocollo sin da subito fu oggetto di severe critiche non solo da occhiuti moralisti cattolici ma soprattutto da colleghi del dott. Verhagen. Ad esempio Hilde Lindemann e Marian Verkerk, benché approvassero nella sostanza le tesi del protocollo, nell’articolo scientifico Ending the Life of a Newborn: The Groningen Protocol (in The Hastings Center Report, 2008) appuntarono il fatto che stando ai criteri del protocollo era ben difficile discernere tra bambini con scarse possibilità di sopravvivenza da quelli con buone probabilità di farcela. Anzi affermavano che, a leggere con attenzione il protocollo, nell’insieme di coloro che sono destinati già alla tomba il dott. Verhagen include, nel rispetto dei parametri appena visti, i piccoli affetti da patologie di paralisi progressiva, quelli che per tutta la vita dovranno dipendere da altre persone o da macchinari, coloro che sono afflitti da un’incapacità permanente di comunicazione e quelli che ora stanno bene ma un giorno – chissà – magari soffriranno. Insomma non certo bambini moribondi. Tant’è che i due ricercatori, seppur filo-Verhagen, così chiosano: “Ricomprendendo [il dott. Verhagen] nel suo alveo i bambini che non sono in pericolo di morte e che con le cure adeguate potrebbero diventare adulti, il Protocollo si rivela ancora più radicale di quanto i suoi oppositori non avessero immaginato". Ovviamente va da sé che a rigor di logica nelle condizioni disegnate dal protocollo entrano a pieno diritto anche molti adulti: che siano dunque anche loro sottoposti ad eutanasia affinchè non soffrano più.

Riserve ancor più cocenti vengono poi dal neurochirurgo pediatrico Rod de Jong dell'ospedale Erasmo di Rotterdam il quale ha seguito per 5 anni 28 bambini affetti da spina bifida, soggetti che difficilmente potrebbero sopravvivere al filtro delle dolce morte del dott. Verhagen (ed infatti 22 neonati affetti da questa patologia sono stati uccisi tra il 1997 e il 2004 in Olanda). In uno studio pubblicato  sulla rivista scientifica Pedriatics il dottor de Jong ci informa che innanzitutto non è vero che chi è afflitto da questa patologia soffra in modo indicibile: solo il 3,3% dei casi infatti accusava simili dolori. E anche in questi casi - secondo aspetto importante - attraverso cure appropriate il dolore scompariva del tutto o era sopportabile. Ovviamente de Jong si è premurato di aggiungere che questo tipo di dolore è presente anche in altre patologie pediatriche e analogamente può essere efficacemente combattuto. Conclusione da parte del dott. de Jong: se il dolore insopportabile è uno di quei indici che fanno finire i neonati nella lista nera redatta dal protocollo Groningen, la possibilità di eliminarlo con paracetamolo o morfina dovrebbe escludere questi piccoli dall’essere candidati inconsapevoli di pratiche eutanasiche. La replica del dott. Verhagen non si è fatta attendere: “La sofferenza insopportabile va molto al di là del dolore. Stiamo parlando delle aspettative sul futuro di questi piccoli bimbi”. Per dirla in breve: è sempre il dott. Veraghen l’unico depositario dei criteri per comprendere quando una vita è degna di essere vissuta. Che la comunità scientifica si adegui.

Negli anni il numero di neonati che non sono riusciti a sfuggire alla falce del protocollo superano di certo la decina di migliaia. Un nuovo olocausto. Il termine non è fuori luogo perché gli storici ci ricordano che la soluzione finale nazista non è iniziata con gli ebrei, bensì con gli handicappati e i malati di mente. Un olocausto silenzioso dato che secondo uno studio del Journal of Medical Ethics, il 59% dei casi di eutanasia in Olanda non è segnalato dagli ospedali. Un olocausto che trova compiacenti i medici: Il 31% dei pediatri olandesi avrebbe praticato almeno una volta l’eutanasia e nel 20% dei casi senza nemmeno il consenso dei genitori. Il 60% dei medici si è detto “onorato” di poter “porre fine alla vita di un bambino sofferente”.

Il dott. Verhagen da par suo ammanta il tutto poi di un pietismo e un umanitarismo da brivido: “E’ dopo che sono morti che li vedi rilassarsi per la prima volta”. Gli fa eco il professor John Griffiths, docente di sociologia proprio a Groningen: “Vengono salvati troppi bambini. Gli olandesi sono molto sensibili all’idea di una morte dignitosa. C’è un elemento estetico in tutto questo”. Il famigerato bioeticista Peter Singer dalle colonne del Los Angels Times di qualche anno fa propose poi “un periodo di ventotto giorni dopo la nascita prima che un infante possa essere accettato con gli stessi diritti degli altri”.Viene da chiedersi il perché questi signori non diano mai loro per primi un esempio della bontà e della bellezza di queste loro tesi.

mercoledì 25 aprile 2012


Tre ricercatori spiegano perché l’embrione è persona umana di Linda Gridelli, 24 aprile, 2012, http://www.uccronline.it

Il guasto dell’impianto di congelamento all’ospedale San Filippo Neri di Roma, che ha causato la morte di 94 embrioni, riporta all’ordine del giorno il dibattito sul principio della vita umana, che taluni vogliono spostare dal suo momento naturale, cioè il concepimento.

Quando lo spermatozoo, una semplice cellula dell’uomo, entra nell’ovulo, un’altra semplice cellula della donna e si fonde con esso, abbiamo una nuova vita, una nuova persona diversa da chiunque altro. Certo, al momento questa persona è costituita da una sola cellula, lo zigote, ma ha già i suoi 46 cromosomi con tutti i geni, cioè tutta l’informazione necessaria per diventare la persona che sarà, se gli permetteranno di crescere e non verrà incidentalmente scongelato, non avrà altri problemi o non sarà intenzionalmente strappato dal ventre di sua madre e gettato fra i rifiuti ospedalieri.

Nello stabilire l’inizio della vita umana, ogni momento diverso dal concepimento è artificiale, strumentale e, in una parola, falso. Dico “strumentale” perché declassare un embrione da persona umana a semplice materiale biologico, come se fosse una provetta di sangue, ha lo scopo di togliergli quella dignità che lo rende inviolabile. Evidentemente si vuole fornire all’aborto una copertura morale, asserendo che ciò che viene ucciso non è una persona, ma come un pezzo di carne crescente. Pare brutto dire: “vogliamo il diritto di sopprimere i bambini nel ventre materno, se non ci fa comodo che nascano”, meglio confondere le acque dicendo che bambini non sono. Alcuni vogliono far iniziare la vita con la comparsa del sistema nervoso, forse perché prima, non potendo soffrire, gli embrioni possono essere uccisi con meno rimorsi; ma siamo poi sicuri, tra l’altro, che sia necessario un sistema nervoso per soffrire? Non potremo mai sapere cosa provano ad esempio le piante. Anche chi fa partire la vita dal momento non del concepimento, ma dell’impianto nella parete uterina, mira a creare una specie di zona franca, molto utile per la vendita di pillole del giorno dopo e spirali intrauterine.  Per l’occasione, “Avvenire” ha intervistato alcuni esperti.

Giandomenico Palka, ordinario di Genetica Medica all’Università di Chieti, ha risposto: «Nello zigote è già insito il programma della vita della persona. Scegliere una tappa successiva per decretarne l’inizio è puramente arbitrario… Zigote, blastocisti, embrione, stiamo sempre parlando dello stesso bambino in ogni sua fase, senza soluzione di continuità. Sono tutte tappe di un unico processo vitale che inizia con il concepimento».

Roberto Angioli, primario di Ostetricia al Policlinico Universitario Campus Biomedico di Roma, e membro del consiglio direttivo della Società Italiana di Ginecologica e Ostetricia (SIGO), ha affermato: «La vita inizia nel momento dell’unione dei due gameti…Lo zigote concepito è la prima cellula che racchiude il DNA dell’individuo… Chi fa iniziare la vita al momento della comparsa della stria neuronale riduce l’essenza dell’umano solo in collegamento al suo sistema nervoso centrale e periferico, ma sappiamo che l’uomo è molto più di questo».

Salvatore Mancuso, presidente del comitato etico del Policlinico Gemelli, ha spiegato: «Al di là di ciò che suggerisce la bioetica, l’embrione è essere umano fin dal concepimento, per ragioni biologiche…C’è una specie di intelligenza embrionaria, per cui anche prima dell’annidamento l’embrione comunica con la madre. In fase di reimpianto avviene già uno scambio di comunicazioni chimiche tali per cui l’embrione, attraverso la produzione di citochine (molecole messaggere), condiziona la sede del suo insediamento, chiede alla madre di modificare il sistema immunitario per essere accolto e non espulso come corpo estraneo. Tutto questo straordinario dialogo avviene fin dalle primissime fasi del concepimento: i due esseri si riconoscono».

Quindi, sia la biologia che la morale che la logica indicano nel concepimento l’inizio della vita della persona; ogni altra data serve a formare una fase-finestra, una terra di nessuno nella quale è lecito perpetrare abusi su questa persona indifesa. Sul nostro sito si può trovare un dossier di approfondimento su tutto questo.


Differenza tra verità scientifica e verità sapienziale, di Mariano Bizzarri, docente universitario di biochimica, 24 aprile, 2012, http://www.uccronline.it

Recentemente, l’Arcivescovo di Milano, il Cardinale Angelo Scola, ha avuto modo di esprimere un’acuta riflessione sul rapporto tra “Verità scientifica” e “verità metafisica”: «Chiediamoci: si può ancora sostenere che una simile forma di esperienza, l’esperienza cristiana, sia ragionevole? La sua rivendicazione della verità poggia su solide basi? Pensiamo, ad esempio, alla obiezione di quanti, a partire dalle strabilianti scoperte della scienza, sostengono che tutto è solo Natura (“naturalismo biologico”). Ebbene noi possiamo, come credenti, accettare tutti i risultati comprovati delle scienze naturali – sottolineo tutti i risultati, non tutte le loro interpretazioni e non ogni loro uso – integrandoli con l’esistenza di un Dio Creatore e Redentore dell’universo. Non sono pochi gli scienziati credenti a testimoniarlo».

Il passaggio chiave dell’omelia è il seguente: «noi possiamo, come credenti, accettare tutti i risultati comprovati delle scienze naturali – sottolineo tutti i risultati, non tutte le loro interpretazioni e non ogni loro uso». Questa osservazione ci permette di mettere a fuoco due aspetti, spesso trascurati da una certa pubblicistica volutamente interessata a mettere in ridicolo il messaggio della Bibbia. Innanzitutto ci viene implicitamente ricordato che il senso profondo delle Sacre Scritture vada inteso in senso metafisico e simbolico, non già interpretato alla lettera, dacché “la lettera uccide lo spirito”. Quanti, alla stregua di Odifreddi, si sforzano di rendere evidenti le incongruenze (palesi) del dettato biblico con i dati scientifici, rimarranno delusi: solo uno sciocco può, infatti, pensare di attenersi alla lettera di una sentenza sapienziale il cui significato, non a caso, come ammonisce il Cristo, sfugge ai “sapienti di questa terra”.

In secondo luogo le parole dell’Arcivescovo di Milano riaffermano la fondamentale distinzione che intercorre tra il dato scientifico e la sua interpretazione. Dati eguali possono dare luogo a teorie interpretative affatto simili. Basti pensare alla Rivoluzione Copernicana: le osservazioni astronomiche avevano per lungo tempo sostenuto una teoria capace di reggere alla prova dell’esperienza e in grado di produrre predizioni esatte e verificabili, ma rivelatasi successivamente “falsa”. E questo a dispetto del fatto che, sin dai tempi più remoti, fosse già stata formulata una più corretta interpretazione che poneva il Sole al centro del sistema planetario (Aristarco di Samo ed Eraclide Pontico) e che postulava la rotazione della Terra intorno al suo asse (Platone). La storia della Scienza è piena di casi del genere ed è anche assai istruttiva a tal proposito.  Ed è una storia che regolarmente porta alla “falsificazione” di vecchie teorie, sostituite da nuove, dimostrando come il rifiuto delle costruzioni interpretative da parte della realtà è la sola informazione che possiamo ottenere dal mondo delle cose. Come ricorda Popper, «anche le migliori teorie  sono sempre invenzioni. Esse sono piene di errori. L’ardita struttura delle teorie scientifiche si eleva , per così dire, sopra una palude. E’ come un edificio costruito su palafitte […] il fatto che desistiamo dal conficcare più a fondo le palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Semplicemente ci fermiamo quando siamo soddisfatti e riteniamo che almeno per il momento i sostegni siano abbastanza solidi da sorreggere la struttura» (Logica della scoperta scientifica). Non diversamente Platone  sottolineava nel Timeo come la conoscenza che possiamo avere del mondo del divenire – ontologicamente imperfetto – fosse necessariamente anch’essa “imperfetta”. Lo scientismo contemporaneo pretende invece di poter decodificare “leggi” assolute ed assolutamente vere, quasi che le teorie scientifiche fossero naturale conseguenza dei dati sperimentali realmente osservati. Disgraziatamente dimenticano ciò che, con grande acume già Kant aveva affermato: «Il nostro intelletto non trae le sue leggi dalla Natura, ma impone le sue leggi alla Natura».

Detto con le parole di un fisico contemporaneo (F. Selleri, “Fisica senza dogma”): «ogni creazione scientifica è profondamente condizionata dai pregiudizi dei suoi creatori, consci o inconsci che siano». Una constatazione dal sapore agrodolce, se si ricorda la definizione che lo stesso Einstein dette della Scienza: «una creazione  dell’Uomo fatta nel tentativo di comprendere le proprietà del mondo reale». L’incompletezza delle teorie scientifiche assume poi un carattere tutto particolare quando si ponga mente alla loro traduzione tecnologica. Una teoria imperfetta, comporta spesso lacune gravissime sugli effetti inattesi che una determinata tecnologia può comportare a medio o a lungo periodo. Effetti “inattesi” che non di rado confliggono non solo con l’etica cristiana, ma con l’idea stessa di decenza, tout court. Pensiamo all’uso militare del nucleare, agli orrori delle sperimentazioni farmacologiche inadeguate, ai rischi delle modificazioni genetiche. E chi più ne ha, più ne metta.

Alla scienza non compete esprimersi quindi in termini di verità assoluta nell’ambito del cosmo manifestato, soggetto a continuo divenire e caratterizzato da leggi che, di tutta evidenza, esprimono la loro validità solo entro una determinata scala  (si pensi alla relazione tra fisica quantistica e fisica newtoniana). Le affermazioni che riguardano invece la metafisica – il mondo della perfezione in accordo con la lezione platonica – sono atemporali e riguardano quella verità certa che invano l’Uomo si affanna a cercare altrove. Senza trovarla.

martedì 24 aprile 2012

Senza famiglia




Coppie di fatto, Imu meno cara Il Prof punisce le famiglie - L'agevolazione prima casa è riconosciuta per una sola abitazione. E spunta una tassa sulle grandi opere, di Davide Giacalone, 24/04/2012, http://www.liberoquotidiano.it/

Le vie del fisco sono infinite, ma infide. Si discute da anni, in un Paese che ama i problemi per poterne discettare, escludendo di risolverli prima che cessino d’essere di moda, se riconoscere o meno le coppie di fatto, siano esse mono o multisessuali. Dibattito acceso e ozioso. Alla fine, però, si tassano le famiglie e si agevolano le coppie di non sposati. Accade con l’Imu, ove l’agevolazione prima casa, in una famiglia di moglie, marito e figli, è riconosciuta per una sola abitazione, quindi non solo sale la tassazione, ma si restringe l’esenzione. Se quei due non avessero avuto l’infelice idea di sposarsi potrebbero contare su due detrazioni. Una situazione illogica, che ribalta non solo il dettato costituzionale, ma anche il buon senso.

E nel decreto che oggi verrà votato in Aula spunta pure la tassa che i Comuni possono far pagare ai cittadini per realizzare le grandi opere

Da laico, non ho una visione sacrale del matrimonio. Da persona ragionevole so che è socialmente utile agevolare la vita di quanti mettono su famiglia e figli al mondo. Capisco il fascino di far lavorare solo gli extracomunitari e la libidine di prendere all’estero anche i governanti, ma avverto che questa specie di decadenza nobiliare equivale alla cancellazione dell’Italia. Da essere umano inadatto all’odio verso gli altri rispetto le scelte di ciascuno, né trovo alcunché da ridire per quanti, quali che siano il loro gusti sessuali, intendano convivere. Da cittadino che vive in uno stato di diritto, però, pretendo per i loro eventuali figli le stesse tutele che hanno quelli nati da un matrimonio, ma mi rifiuto di assegnare ai conviventi gli stessi privilegi che sono specifici dei coniugi, ove, si badi bene, questi comportino costi per terzi. Quindi: i conviventi si rechino pure in visita in ospedali e carceri (che idea disgraziata della vita!); si dia libertà al morituro di stabilire a chi vuole lasciare i propri beni; ma niente pensioni di reversibilità, tanto per fare un esempio. In sintesi: ciascuno faccia quel che vuole, ma a spese proprie, con tutela per i bambini e con agevolazioni per chi li fa nascere. Ecco, con l’Imu s’è fatto l’esatto contrario, sicché, dopo chiacchiere interminabili, s’è buscato ponente per i levante. Non per scoprire nuove terre, ma per mettere nuove tasse sulla famiglia, da cui le non famiglie sono esentate.

Vorrei sapere cosa ne pensano quegli ipocriti perdigiorno che da decenni ci fanno una capa tanta per spiegare che la famiglia viene prima di tutto e che la famiglia legittima è solo quella del matrimonio, meglio se santificato e, quindi unico, poi, però, collezionano famiglie (ho visto che anche quelli di Comunione e Liberazione si separano, e se non fossi estraneo al ramo direi: non c’è più religione) e, all’occorrenza, votano a favore di chi discrimina negativamente le famiglie. Vorrei proprio sentirli.

Due osservazioni ulteriori. La prima: quei coniugi disgraziati potrebbero avere comprato la seconda casa, in attesa di lasciarla ai figli, proprio mettendo in conto l’agevolazione che la legge consentiva, ove si cambi regime, forse, sarebbe bene far salvo il passato. Lo abbiamo già visto a proposito dello scandaloso tema dell’“abuso di diritto”: pensare di punire chi s’è attenuto alla legge, ma lo ha fatto traendone un vantaggio, è abominevole. La seconda: a me sta bene spostare la pressione fiscale dai redditi ai patrimoni e ai consumi, ma “spostare” non è sinonimo di “sommare”, e se le tasse sulla casa crescono quelle sul reddito devono scendere. E senza fare i furbi, perché questa roba è stata promessa da anni (soprattutto dal centro destra, che ne porta la responsabilità), nel mentre crescevano tutti gli altri tributi.

Infine, è noto che i valori catastali sono spesso irreali, nel senso di troppo bassi, ma è anche vero che noi assistiamo al loro crescere, all’appesantirsi dell’aliquota e del conteggio, al diminuire delle agevolazioni, nel mentre scendono i valori commerciali degli immobili. Il tutto senza che calino neanche le tasse sulla compravendita, per cui è costoso tenere gli immobili, ma anche venderli (male). C’è un’espressione che sintetizza il concentrarsi sulle cifre smarrendo la razionalità: dare i numeri.


www.davidegiacalone.it.

Ecco il nuovo test che “fotografa” la perdita di neuroni, 24.4.2012, scritto da: Redazione OK in Ricerca, http://blog.ok-salute.it

Arriva il primo test per diagnosticare direttamente l’Alzheimer. Per misurare le placche di proteina beta-amiloide che sono considerate la causa della forma di demenza più diffusa nel mondo. La Food and Drug Administration ha approvato il 10 aprile il farmaco della Eli Lilly a base di florbetapir. Iniettata per endovena, la sostanza raggiunge il cervello e si lega alle placche di amiloide. La Pet “fotografa” la mappa del florbetapir nel cervello, quantificando il danno.
Anche se l’agenzia del farmaco Usa ha approvato il test, non è entusiasmo quello che traspare dalle sue parole. L’anno scorso Fda, poco convinta dalle sperimentazioni, aveva rimesso la pratica nel cassetto. Trai problemi c’era l’eccessiva variabilità con cui i medici interpretavano i risultati. Così la Eli Lilly nel frattempo ha messo a punto un corso online per i professionisti che leggeranno l’esame. Nonostante questo, l’agenzia del farmaco Usa avverte che in caso di risultato positivo serviranno altri accertamenti per arrivare a una diagnosi. Né il costo (1.600 dollari) aiuterà la diffusione del test.
Pur con questi limiti, l’arrivo del florbetapir (o Amyvid) resta una buona notizia. «I farmaci in sperimentazione avanzano tra grandi difficoltà, anche per la mancanza di una diagnosi certa» spiega Alberto Pupi, ordinario di medicina nucleare all’ospedale Gareggi di Firenze. «Questo test non risolve tutti i problemi, ma è un passo avanti di cui il nostro campo ha un bisogno enorme». Un bisogno quantificato dall’Oms. Oggi 35,6 milioni di persone nel mondo soffrono di demenza (l’Alzheimer è il 60% dei casi), destinati a raddoppiare (65,7 milioni) nel 2030. Le cure costano 604 miliardi di dollari l’anno, cifra che si sta paurosamente avvicinando ai 900 miliardi del cancro.
Gianbattista Frisoni, vice-direttore scientifico dell’Irccs Fatebenefratelli di Brescia, spiega che gli attuali criteri di diagnosi risalgono al 1984. «E si basano soprattutto sull’esclusione di altre malattie. I metodi recenti ci permettono di cambiare paradigma, osservando l’accumulo di amiloide e la neurodegenerazione in aree ben precise del cervello». «Attualmente – aggiunge Pupi – usiamo la Pet che misurali consumo di glucosio, la risonanza magnetica volumetrica che esclude altre cause di demenza, e l’analisi del liquido cerebro-spinale». Il nuovo test non garantirà la diagnosi precoce. «Ma usato nei trial scientifici – prosegue Pupi – affinerà i criteri di reclutamento dei pazienti: un passo imprescindibile per cercare un farmaco».
Fonte Repubblica