martedì 31 luglio 2012


LA NUOVA NORMATIVA SULLE MEDICINE - Così la ricetta vincola il farmacista - Il medico può scrivere una clausola che obbliga a vendere un particolare preparato. Indietro mercato italiano dei generici - Margherita De Bac - mdebac@corriere.it, 31 luglio 2012, http://www.corriere.it

ROMA - È stata ancora lei, la norma sui farmaci non «griffati» a rallentare la corsa di leggi su tagli alla spesa pubblica. In realtà nella versione esaminata dal Senato non si parla di generici né di equivalenti come vengono chiamati i medicinali non più coperti da brevetto e dunque riproducibili da parte di aziende diverse da quella titolare che aveva sostenuto i costi della ricerca. Nell'ultimo testo del maxiemendamento si fa riferimento ai principi attivi, cioè alle sostanze che costituiscono l'essenza di un prodotto terapeutico e che dunque non possiedono un nome commerciale. Il faticoso lavorio delle lobby, medici e industrie contrarie, farmacisti favorevoli, ha portato a una riformulazione che, secondo il Ministero dell'Economia, non costituisce «alcuna marcia indietro».
MOLECOLA - Il medico sarà obbligato a indicare il nome chimico della molecola attivo sulla ricetta rossa del sistema sanitario nazionale. Manterrà però la facoltà di indicare «uno specifico medicinale a base dello stesso principio attivo». La prescrizione sarà vincolante per il farmacista solo in presenza di una «sintetica motivazione obbligatoria». In questo caso scatta la clausola di non sostituibilità. Questo vale quando il paziente, con patologie croniche o di altro tipo, sia alla prima ricetta. Restano fuori dai vincoli i malati cronici già in terapia. Per loro è assicurato il mantenimento della prescrizione già effettuata prima di questa mini rivoluzione. Fino in ultimo la norma è stata oggetto di pressioni, si cercava un compromesso che garantisse la priorità del principio attivo ma con qualche deroga. I farmacisti spingevano per avere maggiore spazio nel variare la scelta del medico.

«DANNO IRREPARABILE» - «L'equivalente è decollato grazie a noi», fa notare l'associazione Federfarma. Dura la posizione di Farmindustria: «Dal punto di vista produttivo la combinazione delle misure ipotizzate inserite nel decreto della spending review determina un danno irreparabile in termini di investimenti e occupazione con gravi effetti sull'economia del Paese». Assogenerici, invece, tifava ovviamente per i principi attivi: «Bisogna avvicinarsi al resto d'Europa e a agli Stati Uniti. È falso asserire che gli equivalenti sono diversi dagli originali», dice Michele Uda. Il mercato italiano è indietro rispetto all'Europa. Solo il 15% delle medicine consumate sono generiche. Lunedì l'Aifa, agenzia nazionale del farmaco, ha riaffermato il loro valore: «Sicuri, efficaci e di qualità come i griffati».


È già bufera sul test fai-da-te che svela se il bimbo è Down - Da metà agosto l'esame prenatale sarà disponibile in Svizzera, Austria e Germania. Ma esplode la polemica: "Favorisce l'eugenetica" - Enza Cusmai - Mar, 31/07/2012 - http://www.ilgiornale.it

In Svizzera la corsa alle prenotazioni è già iniziata. Tutti lo vogliono, medici e pazienti. Per forza. Con mille e duecento euro (o mille e cinquecento franchi) si può capire se il figlio che hai in pancia è affetto dalla sindrome di Down dalla nona settimana di gravidanza con un semplice prelievo del sangue. Niente snervanti attese, dunque, per le donne con il pancione sopra i trentacinque.


Sono quelle più «mature», infatti, che corrono più rischi (è la statistica a dircelo) ma l'esame diagnostico che ti passa anche la mutua si chiama amniocentesi e si può fare solo alla sedicesima settimana. Cioè quando nella pancia non hai un feto di qualche millimetro ma bambino con braccia e gambe. E poi non è un esamino leggero. Ti infilano un ago nella pancia e se il medico non è tanto bravo si corrono dei rischi. Dunque, chi non baratterebbe l'amniocentesi con un prelievo del sangue appena ti dicono che sei incinta per ottenere gli stessi risultati? Certo, c'è l'ostacolo del prezzo. Quei mille e duecento euro non tutti se li possono permettere. E ne passerà di tempo prima che l'esame possa essere gratuito.

Ma il suo costo, attualmente, corrisponde a quello di un'amniocentesi effettuata in uno studio privato. E dunque tanto vale farsi mandare dalla Svizzera questo test attraverso il proprio ginecologo (o anche direttamente) e il gioco è fatto: niente più trepidanti attese e scelta consapevole se tenere o meno un figlio affetto da una grave patologia. Chi è interessato non deve più aspettare. Il test pre natale da metà agosto sarà commercializzato in Svizzera, ma anche in Austria e Germania. Per l'esattezza si chiama PrenaTest ed è stato lanciato dall'azienda tedesca LifeCodexx, che è stata ostacolata prima di questo debutto in società. A giugno, infatti, un giudice tedesco ne aveva bloccato la distribuzione, affermando che si trattava di una «retata contro i bambini down». Dopo una nuova procedura di approvazione, il test è ora pronto a entrare in commercio al costo di 1500 franchi svizzeri (1200 euro circa) e le richieste sembrano così tante che l'azienda pensa di aprire un call center. Esagerazioni? Forse. Ma non si fatica a credere a un eccesso di domanda visto che con poche gocce di sangue si può ottenere il sequenziamento del genoma del nascituro presente nel sangue della mamma senza procedure invasive e pericolose. Ma molti non sanno che anche in Italia il test si effettua senza troppa pubblicità. Privatamente, ovvio, in alcuni (ancora pochi) centri specializzati. Uno lo abbiamo scoperto, si chiama «Genoma» ed è diretto dal biologo Francesco Fiorentino. Che commenta positivamente la diffusione a livello clinico del test. «Negli Stati Uniti si usa da circa otto mesi e offre ottimi risultati. È affidabile al 99,9%. Inoltre permette di individuare ben 5 gravi patologie alla nona settimana di gestazione. È sicuramente il futuro, ormai presente, della diagnostica prenatale». Ma in Italia si può fare? «Certo, ma sono pochi i centri che se lo possono permettere perché serve una strumentazione particolare, la next generation sequencing, capace di estrarre il dna fetale da un campione di sangue dalla madre».

E mentre sulle analisi selettive la scienza galoppa, la gente litiga. La Federazione Internazionale delle organizzazioni della Sindome di Down, per esempio, si è rivolta alla Corte europea dei diritti dell'uomo per «riconoscere e proteggere il diritto alla vita delle persone con la sindrome di Down». Altre associazioni di pazienti, invece, sostengono che test di questo genere «favoriscono l'eugenetica». Ma c'è anche chi avrebbe voluto sottoporsi a questo esame a tutti i costi. Come quella donna lituana che ha denunciato agli stessi giudici europei il proprio medico dopo la nascita di un figlio con la Sindrome per non averle offerto lo screening prenatale.

La facoltà di obiettare - Civilissimo diritto di Assuntina Morresi, 31 luglio 2012, http://www.avvenire.it/

«L'obiezione di coscienza in bioetica è costituzionalmente fondata (con riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo) e va esercitata in modo sostenibile; essa costituisce un diritto della persona e un’istituzione democratica necessaria a tenere vivo il senso della problematicità riguardo ai limiti della tutela dei diritti inviolabili»: iniziano così le conclusioni del parere "Obiezione di coscienza e bioetica", approvato dal Comitato nazionale di bioetica (Cnb) con un solo voto contrario. Una larghissima condivisione per un documento che affronta questa tematica in generale, senza soffermarsi sulla sua applicazione nelle leggi italiane che la prevedono ma con uno sguardo al futuro, quando gli sviluppi problematici della tecnoscienza presumibilmente metteranno in gioco sempre più spesso la possibilità di obiettare.

La fondatezza costituzionale dell’obiezione di coscienza, cioè il suo derivare dai princìpi della nostra Carta primaria, ne fa un diritto fondamentale e inviolabile del nostro ordinamento giuridico: non si tratta di una graziosa concessione strappata alla maggioranza parlamentare di turno, di un "privilegio" che una compagine governativa di diverso orientamento può cancellare, ma di uno strumento della democrazia, che impedisce che si possa essere costretti dalla legge a fare qualcosa che ripugna al proprio animo.

Al tempo stesso, il parere chiarisce che esercitare il diritto all’obiezione di coscienza non significa sabotare una legge. Il testo la distingue sia dal diritto di resistenza che dalla disobbedienza civile: due strumenti di lotta politica utili a esprimere un dissenso nei confronti del legislatore. Chi invoca l’obiezione di coscienza lo fa a titolo personale e non mette in discussione l’autorità statale, ma chiede «di poter non obbedire alla legge per poter agire in modo coerente rispetto ai propri valori morali»: è quindi un atto anche di testimonianza, che vuole essere riconosciuto come legittimo nell’ordinamento giuridico. Chi obietta esercita quindi un proprio civilissimo diritto fondamentale e non deve essere discriminato, e, parimenti, non deve esserlo chi non obietta.

Il Cnb dà infine suggerimenti su come rendere «sostenibile» l’obiezione di coscienza, renderla cioè praticabile senza pregiudicare l’accesso a «servizi» previsti dalla legge. Il parere non fa riferimento alla 194, ma è facile verificare che le indicazioni sono coerenti con quanto accade già per l’aborto: la mobilità del personale e reclutamenti differenziati, suggeriti dal Cnb, sono già consentiti dalla normativa attuale. La possibilità di stipulare contratti a tempo determinato – detti anche "a gettone" – per non obiettori, in particolare, è già praticata e consente alle strutture sanitarie di applicare la 194 anche quando la percentuale di obiettori è elevata (contratti a tempo indeterminato, invece, non sono praticabili, e non solo per problemi di discriminazione fra lavoratori: una persona assunta come non obiettore ha sempre il diritto di cambiare idea e diventare obiettore, come già accade ora, e quindi una sua assunzione definitiva non sarebbe risolutiva).

La violenta campagna mediatica di questi mesi contro l’obiezione di coscienza per la 194 ha volutamente ignorato i dati sull’applicazione della legge contenuti nelle relazioni annuali al Parlamento, dai quali è evidente che non esiste alcuna correlazione fra i tempi di attesa delle donne che richiedono di abortire e la percentuale di obiettori.

Esistono regioni in cui all’aumento negli anni di obiettori corrisponde una diminuzione dei tempi di attesa delle donne, mentre in altre al diminuire del numero degli obiettori i tempi di attesa aumentano, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare.

I tempi di attesa – e quindi l’accesso alle interruzioni di gravidanza – dipendono essenzialmente dall’organizzazione sanitaria locale, che può ricorrere con minore o maggiore efficienza sia alla mobilità che al reclutamento differenziato a termine. E d’altra parte anche le stesse organizzazioni che hanno condotto la battaglia contro l’obiezione di coscienza forniscono dati che vanno in questa direzione, quando, per esempio, per il Lazio denunciano la presenza di medici non obiettori che comunque non fanno interventi abortivi: un fatto non certo ascrivibile alle elevate percentuali di obiettori, e del quale sarebbe interessante capire le cause.

Il parere del Cnb contribuisce, quindi, a fare chiarezza sulla natura e la fondatezza dell’obiezione di coscienza nel nostro ordinamento giuridico, e può essere un’occasione per spegnere quelle polemiche strumentali con cui, in questi mesi, ignorando la realtà fattuale dei dati e svelando così la natura tutta ideologica della battaglia, è stato aggredito un diritto dei cittadini.

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LA TUTELA DELLA VITA - «Obiezione diritto inviolabile», 31 luglio 2012, http://www.avvenire.it


La sfida posta dalle nuove frontiere della scienza e della biomedicina allo Stato costituzionale e pluralista è raccolto da un documento del Comitato nazionale per la bioetica sull’obiezione di coscienza diffuso ieri. Il documento, come è stato già precisato dal vicepresidente del Cnb Lorenzo D’Avack, «è stato esaminato da un punto di vista generale» senza limitarsi a campi in cui sono già in vigore leggi, come quelle sull’aborto o sulla procreazione medicalmente assistita. Il testo è stato approvato praticamente all’unanimità, con un solo voto contrario, quello di Carlo Flamigni, che però si è astenuto sulle conclusioni.

«Si tratta di evitare – afferma tra l’altro il documento redatto da un gruppo di lavoro coordinato da Andrea Nicolussi, ordinario di Diritto civile all’Università Cattolica – di imporre obblighi contrari alla coscienza strumentalizzando chi esercita una professione». Nelle conclusioni si afferma che l’obiezione di coscienza in bioetica «è costituzionalmente fondata, con riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo». Nel sottolineare che essa «va esercitata in modo sostenibile», si ribadisce che è «un diritto della persona e un’istituzione democratica necessaria a tenere vivo il senso della problematicità riguardo ai limiti della tutela dei diritti inviolabili». Il parere evidenzia peraltro che quando si riferisce a un’attività professionale, essa «concorre a impedire una definizione autoritaria» data per legge delle «finalità proprie» di quella attività. «La tutela dell’obiezione per la sua stessa sostenibilità nell’ordinamento giuridico – si aggiunge – non deve limitare né rendere più gravoso l’esercizio dei diritti riconosciuti per legge né indebolire i vincoli di solidarietà derivanti dalla comune appartenenza sociale».

Il Cnb raccomanda che la legge preveda «misure adeguate a garantire l’erogazione dei servizi, eventualmente individuando un responsabile degli stessi». L’esercizio di questo diritto fondamentale deve essere disciplinato in modo tale «da non discriminare né gli obiettori né i non obiettori e quindi non far gravare sugli uni o sugli altri, in via esclusiva, servizi particolarmente gravosi o poco gratificanti». Allo scopo si chiede «la predisposizione di un’organizzazione delle mansioni e del reclutamento», che «può prevedere forme di mobilità del personale e di reclutamento differenziato, in modo da equilibrare sulla base dei dati disponibili il numero degli obiettori e dei non obiettori». Si indica anche la strada anche di controlli «a posteriori» per accertare che l’obiettore non svolga attività incompatibili con la sua scelta dichiarata. Sono da evitare però processi alle intenzioni a priori che mortificano la sua libertà. Il parere insomma evidenzia in ogni modo l’«esigenza di rispetto dei principi di legalità e di certezza del diritto», e dei diritti spettanti ai cittadini. Nella parte riservata all’analisi morale si chiarisce che l’obiezione non si basa su una mera opinione soggettiva, ma su di un valore «rincoscibile e comunicabile».

Da un punto di vista giuridico essa viene distinta nettamente da qualsiasi forma di "sabotaggio" di leggi in vigore, ma anche dalla disobbedienza civile e dalla resistenza al potere. Su un piano più generale si osserva che che tale istituto segna «una profonda revisione» della cultura giuridica avvenuta dopo Auschwitz. Nel caso della difesa della vita o della salute il valore richiamato dal medico obiettore rappresenta in effetti una diversa interpretazione del valore protetto dalla Costituzione rispetto a quanto avviene nella legge approvata a maggioranza. La legittimità della obiezione testimonia quindi che il diritto costituzionale più aggiornato «accetta uno spazio critico nei confronti delle decisioni della maggioranza», proprio perché i principi richiamati sono presenti nella stessa Carta fondamentale dello Stato. L’obiezione di coscienza assume, inoltre, un peculiare rilievo «quando è invocata da un soggetto nell’esercizio di un’attività professionale», come risulta dai codici deontologici. In quello dei medici si afferma che l’esercizio della professione è fondato «sulla libertà e sull’indipendenza», «diritto inalienabile del medico», che qualora gli «vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, può rifiutare la propria opera, a meno che questo comportamento non sia di grave e immediato nocumento  per la salute della persona assistita».

Principi richiamati nel giuramento professionale. Il parere esamina anche il fenomeno del continuo spostamento dei terreni di applicazione dell’etica, osservando che l’agire del medico regredisce dal trattamento chirurgico alla prescrizione del farmaco, o nel caso del farmacista alla somministrazione di esso. Questione che non riguarda solo i farmaci abortivi, tema già trattato dal Cnb, ma anche quelli letali illeciti in Italia, ma ammessi in altri Paesi. La complessità della questione secondo il Comitato suggerisce l’intervento degli ordini professionali per definire coloro che sono legittimati a esercitare l’obiezione. Ma considerando anche i casi in cui tale diritto non è riconosciuto, il parere osserva che «finché l’ordinamento ha la forza di ammettere l’obiezione mantiene un certo equilibrio; quando invece non è riconosciuta o gli obiettori vengono discriminati la legalità si riveste nuovamente del carattere autoritario», come Creonte nell’Antigone di Sofocle.

Pier Luigi Fornari
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lunedì 30 luglio 2012


«L’Osservatore Romano» all’attacco dei coniugi Gates - Il giornale del Papa critica l'iniziativa filantropica sulla contraccezione della moglie del fondatore di Microsoft. E ricorda la «furbesca» operazione della Nestlé in Africa, 28/07/2012, http://vaticaninsider.lastampa.it/

A. TOR.
CITTÀ DEL VATICANO

«L’Osservatore Romano» contro i coniugi Gates e la Nestlè. È un attacco forte e chiaro quello che il quotidiano del Papa mette in prima pagina nell’edizione uscita questo pomeriggio: un’editoriale della collaboratrice Giulia Galeotti, su «controllo delle nascite e disinformazione», intitolato «I rischi della filantropia», definisce «un po’ fuori tiro e obnubilata» dalla «cattiva informazione» la moglie del fondatore di Microsoft, che alla CNN ha appena annunciato di voler spendere nei prossimi otto mesi 450 milioni di euro «per ricercare nuove tecniche di controllo delle nascite, migliorare l’informazione sulla contraccezione e rendere disponibili servizi e strumenti nei Paesi più poveri del pianeta, Africa in testa». Melinda Gates ha infatti «confidato» all’emittente americana «il suo travaglio come credente», consapevole che la sua iniziativa una sfida alla gerarchia ecclesiastica.


Il quotidiano vaticano, per contrastare l’idea di una Chiesa cattolica che «contraria al preservativo, lascia morire donne e bambini per misogina intransigenza» - una lettura definita «infondata e dozzinale» - ricorda invece che la Chiesa «è favorevole alla regolamentazione naturale della fertilità, a quei metodi cioè fondati sull’ascolto delle indicazioni e dei messaggi forniti dal corpo». Un riferimento al metodo Billings, «considerato sicuro al 98 per cento». «L’Osservatore Romano» fa notare come il metodo Billings «agli occhi di una certa parte del mondo» abbia «un duplice inconveniente», perché «trattandosi di un metodo semplice da capire e facile da adottare, è gestibile in autonomia e consapevolezza dalle donne stesse, anche da quelle analfabete senza necessità di alcuna forma di mediazione». E poi perché, «il suo peccato originale e imperdonabile sta nell’essere un rimedio completamente gratuito. Aspetto che, evidentemente, lo rende fortemente inviso alle industrie farmaceutiche, che con la contraccezione chimica ottengono invece guadagni enormi. Come del resto avverrà grazie alla filantropia della signora Gates».


Ma il giornale della Santa Sede riserva una stoccata di notevole impatto anche alla multinazionale Nestlè. «Come è tristemente noto – si legge sulla prima pagina dell’Osservatore – la multinazionale ha fornito in modo furbesco e scorretto alle donne africane latte in polvere per i loro neonati, mediante confezioni omaggio che durano il tempo necessario per far andare via alla neo mamma il latte naturale. A quel punto, la madre è obbligata all’acquisto: attraverso campagne pubblicitarie che presentano l’allattamento al seno come barbaro e quello artificiale come moderno e civile; grazie anche a pressioni psicologiche di vario tipo a opera di fantomatici medici e infermieri. Creando così un bisogno, in nome della beneficenza e in vista del guadagno».

SANITA' USA - Contraccettivi, prima sconfitta per Obama di Elena Molinari, 30 luglio 2012, http://www.avvenire.it/


La determinazione di una famiglia cattolica del Colorado ha portato a una prima vittoria nella battaglia della Chiesa Usa contro la nuova legge sulla sanità dell’Amministrazione Obama. I proprietari di Hercules Industries, una grande impresa di impianti di riscaldamento e di condizionatori con sedi in cinque Stati Usa, non è stata con le mani in mano di fronte all’ordine governativo di fornire servizi abortivi e contraccettivi ai propri dipendenti.
Come la stragrande maggioranza delle diocesi e associazioni cattoliche statunitensi, ha fatto causa al governo. Al contrario delle istituzioni religiose, però, la Hercules non poteva contare sullo slittamento di un anno dall’entrata in vigore del “mandate”, che per i datori di lavoro laici scatta mercoledì prossimo. Il suo caso è stato quindi esaminato con urgenza da un giudice distrettuale federale del Colorado, che ha dato ragione alla famiglia Newland. Imporre il pagamento diretto di servizi per la prevenzione e l’interruzione delle gravidanze porterebbe a «danneggiare gravemente il diritto dei Newland a esercitare liberamente le loro convinzioni religiose», ha sentenziato il magistrato, John L. Kane, che era stato nominato a suo tempo dal democratico Jimmy Carter.
Per la Hercules Industries, dunque, l’ordine del dipartimento alla Salute rimane sospeso almeno per tre mesi, mentre i tribunali esaminano il caso in profondità. Secondo il giudice, l’obbligo imposto dalla legge potrebbe essere dichiarato incostituzionale e non deve quindi essere applicato finché tutti le cause mosse nei suoi confronti non saranno state esaminate. La sentenza crea un precedente importante proprio per le 23 denunce che 56 diocesi e istituzioni cattoliche hanno presentato contro l’Amministrazione Obama.
Il segretario alla Salute, Kathleen Sebelius, si è detta «delusa» dal verdetto. Il rivale di Barack Obama alle presidenziali di novembre, Mitt Romney, ha lodato la decisione come «una vittoria della libertà di religione». Il repubblicano ha già fatto sapere che, se eletto, abrogherà la nuova legge sulla salute. La conferenza episcopale Usa non si oppone alla riforma in toto, avendo al contrario sostenuto il principio di estendere la copertura sanitaria a tutti gli americani che contiene. Il vescovi vorrebbe però vedervi inserita una forte clausola a protezione dell’obiezione di coscienza.


29/07/2012 - IL CASO- Anche le mamme in crisi gli Usa non fanno più figli - L'indice di natalità è precipitato ai livelli minimi sotto il peso della recessione - PAOLO MASTROLILLI, http://www3.lastampa.it

INVIATO A NEW YORK
Meno soldi, meno bambini. Un’equazione tanto ovvia, quanto pericolosa, che adesso minaccia anche il futuro degli Stati Uniti, a causa della crisi economica che non accenna a passare.

Il tasso di fertilità delle madri americane, infatti, è sceso nel 2012 a 1,87 figli a testa, cioé il livello più basso degli ultimi venticinque anni. Nel 2013 si prevede che calerà ancora, andando quindi decisamente sotto la soglia di 2,1 bambini per donna, che è necessaria ad ogni generazione per riprodursi. Inutile ricordare gli effetti negativi che questo fenomeno ha sulla previdenza, le pensioni, e in generale il finanziamento dei servizi sociali che lo stato fornisce ai suoi cittadini. I dati di cui stiamo parlando, ripresi da vari media americani come Usa Today e Huffington Post, vengono da Demographic Intelligence, un centro studi di Charlottesville che analizza le tendenze demografiche per conto delle compagnie farmaceutiche e produttrici di accessori per l’infanzia. Sono informazioni precise, in altre parole, perché su di esse queste aziende basano le loro strategie industriali.

Il picco più alto di riproduzione negli Stati Uniti era stato raggiunto nel 2007, quando erano nati 2,12 figli per mamma. Una media quasi doppia rispetto a quella di molti paesi europei, Italia inclusa, che ormai ospitano popoli in via di estinzione, se le tendenze non cambieranno nel prossimo futuro. L’America sembrava al riparo da questa emergenza, e anche perciò guardava al domani con più ottimismo, sul piano economico e sociale. Nel 2008, però, è arrivato il colpo alle spalle. Prima il fallimento della banca di investimenti Lehman Brothers, e poi una crisi che ha provocato la peggior recessione dagli anni della Grande Depressione, seguita dalla ripresa più timida, lenta e incerta di sempre. L’ultima notizia negativa è di venerdì, quando il Dipartimento al Commercio ha rivelato che nel secondo trimestre del 2012 il prodotto interno lordo americano è aumentato solo dell’1,5%, in frenata rispetto al 2% del quarto precedente.

In queste condizioni, le giovani coppie stanno decidendo in larga maggioranza di rimandare i figli. Motivo: l’incertezza finanziaria. Di recente il Dipartimento all’Agricoltura ha calcolato che crescere un bambino fino all’età di 17 anni costa in media ad una famiglia americana 235.000 dollari, che salgono a 295.560 se corretti in base all’inflazione. In sostanza tra 12.290 e 14.320 dollari all’anno, quando va bene, senza considerare le spese per l’università. Una prospettiva troppo opprimente, per coppie che spesso non lavorano o guadagnano poco. Basti pensare che, secondo i dati del Dipartimento al Lavoro, negli Stati Uniti il 38% dei disoccupati ha tra 20 e 34 anni, ossia proprio l’età in cui si costruisce la famiglia e si pongono le basi per il successo professionale e retributivo.

Il risultato è che le giovani coppie rinunciano ai figli, almeno nella fase iniziale della loro relazione, ma così spesso si precludono la possibilità di averne più di uno. Il fenomeno è particolarmente forte tra gli ispanici e le persone più povere, che non hanno studiato all’università. Questo significa anche frenare la mobilità sociale, oltre a limitare le prospettive economiche di un paese che così non riesce più a conservare i livelli della propria forza lavoro. Dunque meno bambini, meno lavoratori, meno produttività, meno contributi e anche meno consumi. Un cane che si morde la coda, minacciando il futuro degli Stati Uniti, così come minaccia già quello del Giappone e di varie nazioni europee. Un dato significativo è che se si guarda i grafici della fertilità, salta all’occhio come la situazione di oggi somigli molto a quella dei primi anni ‘80, quando l’America usciva dalla crisi petrolifera. Allora gli Usa trovarono la forza, il coraggio e le idee, per dimenticare i guai e tornare a crescere.

Genomics and the city di Francesca Cerati, 29 luglio 2012, http://www.ilsole24ore.com


C'è grande fermento in tema di genetica e investimenti in ricerca anche Oltreoceano. La sfida lanciata nel 2006 da Craig Venter, il celebre scienziato americano artefice del sequenziamento del Dna umano e del primo microrganismo artificiale entra finalmente nel vivo: c'è infatti stata la prima iscrizione al "Genomics X prize" – che mette in palio 10 milioni di dollari – da parte della squadra di Jonathan Rothberg che, con la sua Life Technologies, sostiene di riuscire a sequenziare completamente il Dna di 100 ultracentenari a meno di 1000 dollari a genoma e nell'arco di un mese.

Ai tempi dell'annuncio ci sarebbero voluti 33 anni e 100 milioni di dollari. I risultati di questa caccia ai geni della longevità, che partirà a settembre 2013, saranno pubblici e serviranno da base per scoprire quali mutazioni genetiche aumentano la probabilità di superare il secolo di vita.
Ed è sempre rivolto allo studio dei geni l'investimento di 115 milioni di dollari, rastrellati con le donazioni, per il progetto New York Genomic Center. Sorgerà infatti nella "Grande Mela" il più grande centro degli Usa per lo studio della genomica. I lavori per la costruzione, si legge nel blog di «Scientific American», sono già iniziati nel quartiere SoHo di Manhattan, e l'edifico conterrà i laboratori di 11 università, aziende farmaceutiche e industrie tecnologiche che hanno già base nei dintorni di New York. su chipL'inaugurazione é prevista per la primavera 2013, e secondo il sindaco di New York Michael Bloomberg verranno generati entro un anno almeno 100 posti di lavoro, che presto potrebbero diventare 500. Laboratori e uffici si occuperanno di sequenziamento del genoma, bioinformatica, raccolta dati e medicina traslazionale, grazie all'impegno di istituzioni come la Columbia university e il Mount Sinai Hospital.

Uno dei primi progetti sarà la ricerca delle basi genetiche dell'Alzheimer attraverso lo studio di campioni provenienti dai pazienti.
Infine, ammonta a 70 milioni di dollari il programma di ricerca frutto della collaborazione tra i Nih (l'Istituto di Sanità Usa) l'Fda e il Dipartimento della difesa per costruire 10 organi umani in provetta per sperimentare in modo più rapido ed efficace farmaci e terapie. Della durata di cinque anni, il progetto si chiama "Tissue chip for drug testing" e testimonia come la ricerca stia lavorando per fare a meno della sperimentazione sugli animali. Ogni singolo organo su chip sarà piccolo quanto la memoria di un pc e imiterà la fisiologia del corpo umano, permettendo di analizzare in tempo reale funzioni biochimiche complesse.

Interferenze in laboratorio



Il lato oscuro della materia



Così la conoscenza approfitta dell'ignoto



A Londra il «Day for life» promosso dai vescovi e le Olimpiadi - Elogio del corpo di Giacomo Samek Lodovici, 30 luglio 2012, http://www.avvenire.it/

La Conferenza episcopale dell’Inghilterra, analogamente a quella italiana, istituisce ogni anno una Giornata per la vita che cade nell’ultima domenica di luglio. La concomitanza di questo Day for Life con le Olimpiadi e le Paralimpiadi – riservate agli atleti con disabilità – che si svolgono a Londra, ha suggerito ai vescovi inglesi un interessante messaggio che fa leva su un tema comune a questi avvenimenti: quello del corpo e della sua cura. Infatti, attraverso il corpo esprimiamo noi stessi, facciamo esperienza del mondo e degli altri, possiamo esprimere il nostro amore (anche solo dicendolo con le parole) e riceverlo dagli altri.

E possiamo raggiungere, come dice il messaggio dei presuli, «meravigliosi risultati» sportivi, che suscitano stupore «specialmente quando [l’atleta] affronta la sfida della disabilità, di un limite fisico o di una sofferenza». Già solo per questi motivi, il Day for Life 2012 «celebra un dono straordinario: il corpo umano».
Per partecipare alle Olimpiadi e alle Paralimpiadi bisogna coltivare la cura del proprio corpo, il quale non solo non deve essere maltrattato dagli altri, ma non deve essere nemmeno oggetto di incuria o di automutilazione, perché non è un mero strumento dell’io utilizzabile a piacimento, bensì una dimensione della persona.

Noi siamo anche il nostro corpo, anche se non siamo solo corpo perché in noi c’è anche una dimensione spirituale (dunque la cura del corpo non deve andare a discapito dello spirito), e corpo e spirito sono profondamente compenetrati e uniti. Gli antichi dicevano mens sana in corpore sano, ed è vero; ma il corpo non è soltanto funzionale allo spirito, ha una sua intrinseca dignità, che rende doverosa la sua cura in ogni momento della vita.

Così, mentre per l’edonismo il corpo altrui è oggetto di consumo, è invece necessario un atteggiamento di rispetto radicale e il Day for Life insiste sulla necessità «del rispetto della dignità del nostro corpo in ogni momento della sua esistenza, dal concepimento alla morte naturale». Dal concepimento, quando in ogni corpo «è già presente nella sua unicità il piano genetico», alla morte naturale che nella concezione fede cristiana è una separazione solo temporanea dallo spirito, in attesa della resurrezione della carne. Così, ha un futuro eterno non solo il nostro spirito, ma anche il corpo, che risorgerà glorioso, senza le imperfezioni e le malattie che lo hanno segnato durante la vita biologica.

Arrivando allora a quei territori dove filosofia e teologia dialogano fittamente, va ricordato che sono stati i pensatori cristiani a sottolineare (e quasi introdurre, salvo poche e comunque limitate anticipazioni) nella storia della filosofia il senso del valore del corpo, considerato dualisticamente da quasi tutti i filosofi Greci come mero carcere dell’anima, e questo per almeno tre motivi.

Primo, perché il corpo è creato da Dio: i filosofi greci biasimavano giustamente il culto del corpo, ma consideravano negativamente la materia e il corpo (solo Aristotele rivalutò quest’ultimo, ma non la materia); invece il cristianesimo afferma la positività del mondo, del corpo e persino della materia, che sono buoni perché creati e voluti da Dio. Per questo, ad ogni "fase" della creazione, la Genesi rimarca sempre: «E Dio vide che era cosa buona».
Secondo, in quanto Dio stesso si è incarnato.
Terzo, in quanto col battesimo il corpo diventa «tempio dello Spirito» (1 Cor, 6,19).

Uomini con la gonna - la guerra di Oxford contro i pregiudizi


Garantire l'obiezione di coscienza - il documento che divide la bioetica



Milano, un testo-spot, i rischi - Il piano inclinato di Francesco Belletti, 28 luglio 2012, http://www.avvenire.it

Tanto tuonò che piovve. Dopo averlo inserito nel programma elettorale, la giunta arancione del Comune di Milano ha attuato il suo impegno di istituire un registro per le unioni civili. Grande battage pubblicitario, grande dibattito interno ai partiti, al consiglio comunale, nella città, anche al di fuori dei confini comunali, come è giusto che sia per una metropoli così importante. Ma soprattutto tre sedute della commissione consigliare, un pressing sui Consigli di Zona per avere tempestivamente i loro pareri, tre sedute del Consiglio comunale, con maratona finale di undici ore del Consiglio stesso, in queste torride serate di luglio, come se ne erano viste solo per evitare l’esercizio provvisorio di bilancio. Verrebbe quasi da dire: ma ne valeva la pena? Forse c’è stata analoga passione e investimento politico per decidere quali sostegni alle famiglie numerose e alle famiglie con figli a Milano? La risposta è scontata, purtroppo: c’è un registro utile solo a fini propagandistici e di pressione politica e lobbistica sul Parlamento, ma nessuna maratona istituzionale è stata organizzata per dare sostegno alle famiglie con figli.

Nel dibattito milanese si sono viste composizioni e scomposizioni nella maggioranza di centrosinistra e nell’opposizione di centrodestra, e anche frenetiche corse all’emendamento, per correggere evidenti carenze del testo proposto: in primis la possibilità che veniva consentita di riconoscere qualunque tipo di unione, per qualunque numero di persone, aprendo così a un possibile riconoscimento a livello comunale di situazioni di poligamia: rischio evitato, ma episodio che tradisce una fretta degna di miglior causa, e un’approssimazione amministrativa che potrebbe emergere anche successivamente. (Un’azione alla carlona, sia detto per inciso ma non troppo, che alcuni grandi giornali hanno sorprendentemente coperto con un insolito e generoso soccorso, presentando come già emendato, ben prima che lo fosse, il testo del regolamento fortissimamente voluto dal sindaco Pisapia).  

Chi scrive è anche cittadino di Milano, e può testimoniare che questo episodio sproporzionato e senza precendenti costituisce tutto meno che un passaggio virtuoso dell’amministrazione comunale: la fretta, le incertezze del testo, la quasi "feroce" determinazione per chiudere la partita prima della pausa estiva, confermano i giudizi iniziali: si tratta di una iniziativa di natura fortemente ideologica, estranea al vero mandato amministrativo del Comune, lontana dai bisogni reali delle famiglie milanesi, ma volta piuttosto a offrire "diritti"  o forse sarebbe meglio dire "privilegiata attenzione"  a situazioni che potevano tranquillamente essere governate con altri strumenti, già disponibili. Inoltre il dibattito e l’obiettivo generale sono rimasti fortemente adultocentrici, tutti concentrati su una "uguaglianza di opportunità" di coppie adulte, eterosessuali e soprattutto omosessuali, che non mette a confronto diritti e doveri, ma abbozza solo diritti esigibili sempre e comunque.

Le conseguenze concrete di questa decisione amministrativa sono irrilevanti, come conferma l’esperienza di tutti gli altri Comuni che hanno già introdotto registri analoghi, disertati o rivelatisi inefficaci. Ma stavolta la mobilitazione per far "funzionare" un provvedimento-spot appare più forte. Si vedrà. Il rischio reale è che anche in forza di simili iniziative venga rafforzato un atteggiamento di totale privatizzazione degli impegni familiari e affettivi, che tende a rendere insignificante e non necessario il matrimonio, passaggio invece fondamentale per costruire un patto, un impegno, un riconoscimento reciproco tra progetto della coppia e patto sociale.

Inappropriato appare anche il modo con cui la grande questione delle relazioni affettive tra persone dello stesso sesso viene qui introdotta: di fatto con un atto amministrativo si cerca di ampliare il riconoscimento pubblico della legittima libertà di scelte di vita privata, assimilandola surrettiziamente a forme familiari.

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L'obiezione di coscienza è sempre fondata


"October Baby", sopravvivere all'aborto e perdonare - Presentato a Fiuggi, potrebbe diventare il nuovo "Bella" - Avvenire, 28 luglio 2012



E-CONSULTING L' ESPERIENZA DI SALVO CATANIA, ONCOLOGO MILANESE, CHE DA OTTO ANNI HA UN SITO COME STUDIO VIRTUALE PER CONSULTAZIONI E CONSIGLI - I medici che visitano in rete: «Via mail c' è più confidenza» - I navigatori Gli italiani che cercano su Internet risposte sulla propria salute sono circa venti milioni - Pappagallo Mario, 28 luglio 2012 - Corriere della Sera, http://archiviostorico.corriere.it/


Esce dalla sala operatoria ed ancora con indosso il camice da chirurgo apre il computer. Empatia medico-paziente in Rete. Salvo Catania, 66 anni. Un pianeta di e-patient in crescita esponenziale. Senosalvo.com è il suo sito. Dal 2004, due-tre ore al giorno a rispondere, leggere referti, consigliare. «Sin da piccolo dormo poco, ma non perché insonne, e sfrutto il maggior numero di ore a mia disposizione per integrare la mia attività professionale reale con quella virtuale», dice. Tramite email private ha raccolto migliaia di contatti dal 2004 dopo avere allestito un sito artigianale che tutt' ora registra circa un milione di pagine lette all' anno. «Dal 2005 - racconta - ho iniziato a rispondere anche alle richieste di consulto su www.medicitalia.it e sino ad oggi ho dato circa 15.500 risposte a utenti anonimi». Ma c' è chi non condivide la scelta del chirurgo oncologo milanese. Lo critica per vari motivi: si fa pubblicità, non sono vere visite, i consulti virtuali sono un rischio, la privacy potrebbe venire meno... Salvo Catania non è l' unico e nemmeno il primo (in Italia forse sì). Ed è il momento non di criticare, ma di favorire, con regole, le consultazioni in Rete. È una crescita esponenziale. C' è chi stima che oltre la metà della popolazione mondiale cerchi informazioni sul web riguardo alla salute. Uno dei primi argomenti di ricerca per i navigatori. E aumentano i medici web 2.0. Nel 2008 durante l' appuntamento mondiale degli oncologi, quello della società scientifica americana (Asco), si aggregò una sessione spontanea di medici twitteristi per affrontare i temi dei loro rapporti con i pazienti sul social network: parteciparono in 630, molti rimasero fuori per la limitata capienza dell' aula. Emersero problemi di privacy, di diagnosi senza visita, di aggiustamenti di cura effettuati dall' oncologo tra un aeroporto e l' altro, tra un congresso e l' altro. Ma in tempo reale, quando invece un appuntamento per una visita vis-à-vis avrebbe permesso una risposta dopo un tempo variabile, dal momento della richiesta, di 30-60 giorni. E ciò in una sanità a pagamento. I rischi dell' informazione medico-scientifica online sono, però, molto elevati: per l' incompetenza di chi tratta questi temi, per la superficialità adottata dalla maggioranza dei siti (costa più avere un medico o un giornalista specializzato, meglio i copia incolla effettuati da una segretaria precaria che si avvale anche, se serve, del traduttore automatico), per una «leggera» tutela della privacy, per i contenuti inframmezzati in misura molto marcata da pubblicità commerciale. In questo quadro navigano 20 milioni di italiani (dati del 2010) che effettuano tramite i motori di ricerca la diagnosi, auto stabiliscono la cura e, in un sesto dei casi, comprano farmaci online: 7 miliardi di euro il mercato mondiale stimato solo per i medicinali anti-impotenza e per gli psicofarmaci (dagli antidepressivi agli anti-fame). Il sito per l' e-consulting di Salvo Catania gode del gradimento delle sue pazienti e di quelle di altre Regioni. O di chi cerca consigli e lumi preventivi. «Indubbiamente - dice - il rischio principale, ma solo teorico, è costituito dal fatto che il parere del medico virtuale è fornito sulle sole indicazioni date dall' utente, il quale può segnalare sintomi di poco conto e tralasciare particolari importanti sul suo stato di salute». Un' operata al seno che vive in una zona terremotata dell' Emilia Romagna lo ha scelto da giorni come consulente. Scambi di email notturni. Una carezza virtuale apprezzata dalla paziente, meno angosciata nonostante le scosse.

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Chi è Salvo Catania, chirurgo oncologo di Milano, ha un suo sito (Senosalvo.com) e risponde alle domande di consulto all' indirizzo Internet www.medicitalia.it


SABATO 28 LUGLIO 2012 - PAROLE: EUTANASIA /1- di Giacomo Rocchi - http://veritaevita.blogspot.it


“L’eutanasia non c’entra un fico secco. Ed è un reato. Ma volete che i magistrati della Cassazione ci abbiano autorizzato ad uccidere? Questo continuo ribaltare le cose non giova a nessuno e dovrebbe fare ribrezzo a chi lo pratica”.


Così Beppino Englaro liquida (Il Venerdì di Repubblica, 27/7/2012) la domanda che l’intervistatore, nel fare riferimento alla morte della figlia Eluana, gli pone, riferendo che “alcuni polemisti parlano di eutanasia”.
Il cattivo maestro, che consapevolmente ha deciso di trasferire la decisione sulla vita di sua figlia “nella società”, merita di essere letto, per capire cosa davvero è avvenuto e cosa potrebbe avvenire.
Englaro richiama, senza spiegarlo, un concetto di “eutanasia”, che giudica una pratica cattiva (“è un reato”; detto da colui che si è rivolto ai giudici è sicuramente un giudizio negativo); non lo chiarisce, ma sostiene che ciò che ha fatto è una cosa tutta diversa.
Che si tratti di mistificazione, si comprende dalla pretesa di falsificare la realtà, accompagnata – ovviamente – dall’accusa agli altri di “ribaltare le cose”: infatti, secondo Beppino Englaro, i giudici della Cassazione “non l’hanno autorizzato ad uccidere” la figlia.

Diamo per scontato che il riferimento sia al complesso delle decisioni della Cassazione e della Corte d’appello di Milano (furono i giudici di Milano ad autorizzare l’Englaro a procedere, in attuazione della precedente sentenza della Cassazione), e domandiamoci: cosa hanno autorizzato i giudici? La risposta – è banale, ma le cose vere devono essere ricordate e ribadite – passa attraverso alcuni gradini.

Eluana Englaro era viva? Si.
Stava per morire per una malattia progressiva e incurabile e giunta alla fase terminale? No.
Era in grado di nutrirsi, dissetarsi e curarsi da sola? No.
C’era chi la nutriva, la dissetava, la curava? Si.
Beppino Englaro è stato autorizzato a sospendere nutrizione, idratazione e cure? Si.
I giudici avevano permesso ad altri di nutrirla, dissetarla e curarla? No.
Un uomo o una donna, in qualunque condizione si trovi, può sopravvivere senza nutrizione e idratazione? No.

E allora: come vogliamo chiamare l’autorizzazione data dalla Corte di Milano a Beppino Englaro? Vogliamo dire che i giudici hanno autorizzato il tutore a sospendere nutrizione e idratazione ad una disabile che non era in grado di nutrirsi e idratarsi da sola, permettendogli, altresì, di impedire ad altri di farlo, e ciò fino a quando fosse sopraggiunta la morte della figlia?
Diciamo pure così: ma se una persona ha in custodia un neonato o un disabile grave, lo chiude in una stanza che chiude a chiave e il neonato o il disabile muore, cosa ha fatto la persona che lo aveva in custodia? Lo ha ucciso.

I Giudici hanno autorizzato Beppino Englaro ad uccidere sua figlia e Beppino Englaro l’ha uccisa.
Partiamo dalla realtà dei fatti.

Ma l’uomo che è stato autorizzato, su sua richiesta, ad uccidere sua figlia, e che ha utilizzato questa autorizzazione, non è soddisfatto; come tutti sapevano avrebbe fatto, la butta in politica (anche spicciola: non è puntuale l’attacco al governatore della Lombardia?) per fare “una sorta di rivoluzione”: contrappone “inviolabilità della persona” alla “indisponibilità della vita”, spingendosi ad affermare che sulla persona della figlia “si sono accaniti oltre ogni decenza”, ma rifiutando di rispondere all’affermazione che la morte di Eluana Englaro sia avvenuta “di fame e di sete” (“Ma quale fame, e quale sete … Non sanno di cosa stanno parlando”: di che è morta, sig. Englaro, sua figlia?).

Si arriva, quindi, all’eutanasia. Comprendiamo che la legalizzazione di ciò che ha fatto Beppino Englaro e che vorrebbero fare i suoi epigoni passerà attraverso la criminalizzazione di una pratica, sostenendo che l’uccisione delle persone è cosa diversa.
Vedremo, allora, se davvero quella dell’Englaro è stata eutanasia e se è possibile distinguere tra le varie uccisioni delle persone.


venerdì 27 luglio 2012


Terapia del dolore, via libera dalla Conferenza Stato-Regioni - La stagione in cui il prendersi cura diventa più importante del curare di Gian Luigi Gigli, 27 luglio 2012, http://www.avvenire.it/

La Conferenza Stato-Regioni ha finalmente approvato i «Requisiti minimi e le modalità organizzative necessari per l’accreditamento delle strutture di assistenza ai malati in fase terminale e delle unità di cure palliative e della terapia del dolore». Con questo importante documento si dà corpo alla legge n. 38 del 2010, a suo tempo unanimemente salutata come una scelta di civiltà.

La professione medica porta inscritta nel suo Dna la lotta alla sofferenza e al dolore. Un obiettivo che accompagna già le fasi della diagnosi e della terapia, per le quali è richiesto di evitare o ridurre, per quanto possibile, la sofferenza che può accompagnare le procedure cliniche. Un obiettivo che diventa fondamentale quando la scienza medica non ha più armi per contrastare la malattia e prolungare l’aspettativa di vita. È infatti nelle fasi di inguaribilità e di terminalità che le cure palliative, per il controllo del dolore e degli altri sintomi che provocano sofferenza, diventano l’obiettivo prioritario dell’équipe sanitaria. Esse caratterizzano un modo di stare vicino al paziente che rifugge allo stesso modo sia dall’accanimento che dall’abbandono terapeutico, e si prefigge piuttosto di stare accanto al malato con la modalità dell’accompagnamento, fino alla fine. In tal senso, le cure palliative prevedono il rispetto della dimensione sociale e spirituale della persona che soffre, evitando deliberatamente di medicalizzare tutto l’orizzonte dell’esperienza dell’uomo che soffre, nella convinzione che esistano stagioni nelle quali il prendersi cura (possibile sempre e potenzialmente illimitato) diventa più importante del curare (e capace di superarne ogni limitatezza).

In questo processo il medico, l’infermiere, lo psicologo, il volontario partecipano all’opera misericordiosa di Gesù stesso. Seguendo il modello del Buon Samaritano, avvolgono il malato con il mantello protettivo (pallium) delle loro cure, come fece san Martino di Tours.

È significativo che ciò venga riconosciuto dalle autorità sanitarie del Paese proprio nel momento in cui le difficoltà di sostenibilità finanziaria del sistema salute sono sotto gli occhi di tutti. Si tratta di una scelta di solidarietà a favore di segmenti particolarmente fragili che riafferma la scelta solidaristica della nostra società. È lecito tuttavia dubitare della capacità di aprire nuovi fronti di spesa sanitaria da parte di molte regioni. Ciò sarà possibile solo se la spesa regionale verrà riqualificata, evitando di disperdere il denaro pubblico in finanziamenti di dubbia utilità e urgenza.

Un’ultima annotazione. Le cure palliative non hanno nulla a che fare con l’eutanasia, esclusa dai programmi e dagli statuti delle società scientifiche di riferimento, costituendo piuttosto un’efficace prevenzione delle tentazioni eutanasiche. L’eutanasia, tuttavia, può diventare un obiettivo se la sofferenza umana perde di significato e se una posizione ideologica pensa di eliminare la sofferenza dalla esperienza dell’uomo.
La sofferenza ci accompagnerà sempre. Essa può aiutare ogni uomo a porsi interrogativi fondamentali sulla sua propria esistenza e può educare chi ha la fortuna di star bene, offrendo provocazioni che solo scioccamente si può pensare di anestetizzare.

Per noi credenti essa può addirittura assumere un valore salvifico, permettendoci di partecipare all’opera della redenzione, di noi stessi e di tutto il mondo.

Se la sofferenza cessa di essere un’occasione di crescita personale, di accompagnamento e di solidarietà e viene identificata con la perdita della dignità umana, allora le cure palliative possono anche diventare il mantello per mascherare scelte di morte dalle quali istintivamente aborriamo. È quando sta accadendo in alcuni Paesi con il diffondersi della sedazione terminale come metodo non già per controllare il dolore, ma come modalità indolore per metter fine a esistenze con cui ormai non riusciamo a confrontarci.

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DIGNITÀ IN CORSIA - Cure palliative, una rete che aiuta di Francesca Lozito, 27 luglio 2012, http://www.avvenire.it

Cure palliative e terapia del dolore, via libera della Conferenza Stato Regioni al documento che ne disegna il profilo nel nostro Paese. È stato infatti approvato un importante testo, che si prefigge di rispondere alla domanda fondamentale su questo tema: come devono essere praticate le due discipline? Nel documento sono contenuti i requisiti per l’organizzazione delle strutture residenziali e a domicilio sia di cure palliative che di terapia del dolore. In tempi di tagli alla sanità, ancora più utile, dunque, a mettere gli argini ad un possibile ribasso dell’offerta, imponendo alle regioni degli standard minimi, ma di certo di qualità, che devono essere rispettati da tutti.

Il testo è, inoltre, una difesa dell’essenzialità di queste due terapie nel percorso di cura di tanti cittadini, proprio nel nome di quel diritto sancito dalla legge 38 che le ha originate. E le regioni hanno l’obbligo di mettere in pratica quanto delineato nel documento, pena la perdita ai finanziamenti integrativi del Fondo sanitario nazionale. Frutto del percorso della Commissione nazionale sulle cure palliative (in cui esperti, tecnici del ministero e soggetti in campo nella cura dei malati si sono seduti attorno a un tavolo per mettere insieme conoscenze e bisogni) il documento ha una sua importanza fondamentale nel rendere pienamente operativa la legge 38 del 2010, che ha istituito in maniera definita e distinta le due reti delle cure palliative e della terapia del dolore.

Quest’ultima infatti, è parte fondamentale delle cure palliative, ma non le esaurisce: la terapia del dolore può essere infatti praticata anche per tutte quelle patologie croniche che non abbiano per forza un decorso ben definito verso la fine della vita, con lo scopo di migliorarne in generale la qualità. Integrazione e collaborazione tra struttura sanitaria, organizzazioni no profit, mondo sociale. Creazione di équipe multiprofessionali con personale dedicato: medici, infermieri, assistenti sociali. Collaborazione con i medici di medicina generale. Senza dimenticare anche le risposte spirituali e sociali, che possono, se non trovano ascolto, originare una seria sofferenza. È questa l’ossatura portante della rete delle cure palliative, quella trama che va poi ad inserirsi nella relazione con la famiglia del malato, essenziale nel periodo di presa in carico. Continuità nei diversi ambiti di assistenza è la premessa essenziale perché tutto questi soggetti possano offrire il miglior servizio al malato. Per far questo, sono necessarie periodiche riunioni di équipe.

La macchina della continuità assistenziale ha però bisogno, per funzionare bene, di lavorare sulle ventiquattro ore non solo in hospice, ma anche nell’ambito dell’assistenza domiciliare: è questo un passaggio importante, senza il quale non è possibile dare il dovuto supporto nelle mura di casa al malato e al familiare che svolge le funzioni di care giver, grazie alla disponibilità di un medico che possa recarsi sul posto o rispondere a situazione meno complesse anche a distanza. Fin qui le cure palliative, dunque. Ma paletti importanti sono fissati dal documento della Conferenza Stato Regioni anche per quanto riguarda la rete della terapia del dolore. Tre le componenti in cui si articola: i già presenti ambulatori della medicina generale (con cui è prevista la stipulazione di specifici accordi con questo ambito), i centri “spoke” (ambulatori di terapia del dolore, ospedalieri o territoriali) e i centri “hub” (specificamente ospedalieri). In entrambi i casi viene garantito l’obiettivo di migliorare la qualità della vita con farmaci, strumenti specifici o chirurgia dedicata, qualsiasi sia la patologia del malato. Infine nel documento viene delineato come si devono strutturare anche le cure palliative pediatriche.

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Olanda, boom di eutanasie: + 73%


Fra neuroscienze e coscienza il trait-d'union è lo spirito



La scatola nera dei ricordi che archivia i nostri sguardi - I super occhiali di Google scattano foto ogni dieci secondi, Mauro Covacich, 27 luglio 2012, http://www.corriere.it/

Il cofondatore di Google, Sergey Brin, ha annunciato che Google Glass, gli occhiali computerizzati i cui prototipi sono inforcati attualmente solo da duemila cavie umane felici, hanno in dotazione anche una microcamera settata in modalità autoscatto. In altre parole, questa diavoleria da Superpippo, oltre a far girare tutto il sistema informativo integrato di un qualsiasi palmare, fotografa automaticamente, con un intervallo di dieci secondi, ciò che viene «intenzionato » dallo sguardo (e quindi dalla coscienza) di chi la usa.
Il soggetto— in arte lo sviluppatore — cammina, twitta, risponde alle mail, consulta Wikipedia, compra il biglietto del treno, partecipa a una riunione su Skype, e intanto guarda il mondo. E guardando lo fotografa. La documentazione iconografica della sua giornata diventa sua personale scatola nera e, al tempo stesso, involontaria indagine di mercato. Ad esempio: il modo in cui dà un’occhiata ai manifesti degli hamburger scontati in vetrina sarà un’informazione utile per il fast food e contribuirà a modificare la composizione dei nuovi menu.Non è difficile prevedere la diffusione massiccia di questo aggeggio nel futuro più prossimo.

C’era la realtà virtuale, la realtà esplosa, quella immersa, quella diffusa, la surrealtà e l’irrealtà. C’era anche la realtà fabbricata ad arte per diventare spettacolo televisivo. Ma per quella inventata dai mefistofelici ingegneri di Google bisogna ancora trovare un nome. Sarà una realtà personale, ma non se ne andrà con noi. Sarà intima ma pubblica, mentale ma per nulla evanescente. Sarà un vero e proprio documento che conserverà il pezzetto di mondo sensibile e tangibile su cui si sarà posato il nostro sguardo. Questo piccolo dispositivo moltiplicherà la triangolazione dentro-fuori-dentro in un gioco di specchi in cui sarà sempre più difficile capire se è nato prima l’uovo o la gallina, il reale o colui che ne ha esperienza (vedi il recente dibattito filosofico sul new realism animato da Maurizio Ferraris). Quella che prima era la realtà soggettiva, ovvero la conoscenza acquisita da me che passeggio per il mall del centro commerciale e trattengo immagini—una conoscenza interiore, fino a oggi impossibile da oggettivare e condividere — diventerà un archivio oggettivabile su uno schermo.

Tutti potranno vedere il mio «atto mentale» di percepire quella vetrina di McDonald o, dieci secondi dopo, quella giovane mamma con la carrozzina. Disporrò, tutti noi disporremo, di una scatola nera su cui saranno registrate le «occhiate» della giornata per data e ora. Non solo potrò ripescarle in oggettiva — il che probabilmente farà diminuire le mie capacità evocative nonché l’effetto spesso suggestivo che un ripescaggio in soggettiva comporta — ma le mie «occhiate» diventeranno tesoro comune, alimenteranno sempre nuove ricerche di mercato, riveleranno i miei gusti, contribuiranno a sconvolgere con un semplice battito di palpebre (come la farfalla eccetera) l’universo commerciale, ovvero tutta la filiera che va dal sondaggista, all’ufficio marketing, alla progettazione, all’operaio in linea, giù giù fino all’agente di vendita.

I neuroscienziati (Edelman) e i filosofi della mente (Searle) ci insegnano che quando pensiamo a un caro amico e richiamiamo alla memoria il suo volto, le nostre facoltà intellettive ricompongono all’istante le mappe neurali in grado di farcelo vedere e riconoscere, ma non c’è un angolo del nostro cervello dove il suo ritratto sia conservato. La sua immagine non esiste, non permane dentro di noi, ma si ricrea ogni volta che la coscienza intende accenderla. Ora che avremo una scatola nera per i nostri ricordi, e basterà fare doppio clic su qualsiasi traccia visiva archiviata, cosa accadrà? I curiosi vedranno le nostre esperienze visive esattamente come le abbiamo viste e vissute noi? La fotocamera di Google incaricata a trasmettere la mia «occhiata » all’azienda produttrice di accessori per la prima infanzia, è sicura di aver capito cosa stavo guardando mentre vedevo la carrozzina?


Scoperta la «droga» genetica che scatena il tumore al cervello Due ricercatori italiani in Usa - Redazione - Ven, 27/07/2012 - http://www.ilgiornale.it

È una proteina nata dalla fusione di due geni vicini la causa del più aggressivo tumore al cervello, il glioblastoma. La scoperta, pubblicata sulla rivista Science, porta la firma di due cervelli italiani da tempo trapiantati negli Stati Uniti, Antonio Iavarone e la moglie Anna Lasorella, da sempre impegnati nella ricerca sui tumori cerebrali. I risultati a cui sono arrivati i ricercatori hanno implicazioni non solo sulla conoscenza dei meccanismi di formazione e crescita di questa forma di cancro, in molti casi ancora letale, ma anche di diversi altri tipi di neoplasie solide. Non solo. La scoperta potrebbe anche «rivoluzionare» la terapia.Dopo aver individuato l'anomalia che in alcuni casi scatena, come fosse una droga per le cellule malate, questo tumore, l'equipe ha testato, al momento su topi fatti ammalare in laboratorio, un farmaco già utilizzato per altre forme di cancro. Bersagliando la proteina che si forma dalla fusione dei due geni, la crescita del glioblastoma rallenta in maniera significativa. «Questi risultati sono doppiamente importanti, sia da un punto di vista clinico che di ricerca di base», sottolinea Iavarone, professore di Patologia e neurologia alla Columbia University di New York. L'anomala fusione dei due geni è stata individuata solo nel 3 per cento dei tumori analizzati, ma per questi pazienti la speranza è quella di una cura mirata.

Gemelli perché sembrano uguali ma sono diversi - I monozigoti hanno lo stesso Dna. Ma i geni si esprimono in modo differente a seconda degli stimoli che ricevono dall’ambiente. Ora una scienza, l’epigenetica, studia questa interazione. E ci aiuterà anche a battere il cancro di ALEX SARAGOSA, 27 luglio 2012, http://www.repubblica.it

Ladan e Laleh erano due sorelle iraniane. Una amava gli animali, l’altra i videogame. Laleh era introversa, Ladan espansiva. Una appassionata di diritto, l’altra di scrittura. Nulla di strano, se non fosse che Ladan e Laleh erano due gemelle siamesi, congiunte alla testa per 29 anni, ma così diverse e decise a diventare individui autonomi da affrontare un rischiosissimo intervento di separazione, che, purtroppo, le ha uccise entrambe nel 2003. «Sono casi come questi che mi hanno fatto riflettere » dice Tim Spector, genetista inglese e uno dei massimi esperti mondiali di gemelli. «Ladan e Laleh erano cloni, con lo stesso Dna in tutte le cellule del loro corpo. Hanno vissuto obbligatoriamente insieme, condividendo le stesse malattie, eventi della vita, scuole, amicizie. Eppure erano diverse. Qualcosa nella costruzione della nostra individualità va evidentemente al di là sia del genoma che dell’ambiente, visti separatamente». Il riconoscimento dell’esistenza di questo «terzo fattore», che fa da ponte tra gli altri due, si sta rivelando importante quanto l’aver decifrato la struttura del Dna umano. «Quando nel 2000 fu annunziato il sequenziamento del genoma umano» spiega Maurizio D’Esposito, ricercatore dell’Istituto di genetica e biofisica del Cnr di Napoli, «pensavamo di avere le chiavi per spiegare quasi tutto di noi, dalle malattie alla personalità. In realtà avevamo solo aperto un primo, piccolo spiraglio». In questi anni, infatti, si è scoperto che ben pochi tratti fisici o patologie derivano da varianti di singoli geni, la quasi totalità è invece collegata all’attività di molti geni combinata con i fattori ambientali. A spiegare come l’espressione dei singoli geni venga modulata dalla relazione con l’ambiente e con gli altri geni è la cosiddetta epigenetica. «Sappiamo da molti decenni che esiste un meccanismo che attiva o disattiva gruppi di geni in ogni cellula» continua D’Esposito «altrimenti non si spiegherebbe perché, pur avendo lo stesso Dna, una cellula del fegato funzioni in modo così diverso da una del cervello o delle ossa. Ma ciò che stiamo scoprendo in questi anni è che questi meccanismi intervengono continuamente durante la vita, in risposta a fattori esterni, sia fisici – come il cibo, l’attività fisica, gli inquinanti – che psicologici – come lo stress e i traumi – cambiando non solo il nostro metabolismo, ma anche la nostra personalità. Fra gli organi più sensibili a questi cambiamenti epigenetici c’è infatti proprio il cervello». Nel libro Identically different (Wedenfeld & Nicolson, pp. 352, sterline 25), Spector riassume quello che l’epigenetica ha scoperto finora, grazie anche allo studio dei gemelli. Che, se monozigoti, ai nostri occhi appaiono assolutamente identici perché i tratti fisici come l’altezza, la conformazione ossea e il tipo di pelle sono quelli più legati all’espressione di base dei geni. «Noi, come altri gruppi nel mondo » dice Spector, «studiamo salute, fisiologia e psicologia dei gemelli identici, che hanno lo stesso Dna, comparando i risultati con quelli ottenuti con gemelli non identici, che hanno in comune la metà del Dna. Sia i gemelli identici che i diversi, condividono età e ambiente di vita: misurando quindi le differenze fra i due membri delle singole coppie – si tratti di malattie contratte o di tratti di personalità sviluppati – si può cercare di risalire a quanto ogni caratteristica dipenda dai geni ereditati». Con questo metodo i genetisti hanno assegnato una percentuale di ereditarietà ad alcune caratteristiche: il peso alla nascita è ereditario al 60 per cento, il QI al 70, l’ottimismo al 40 per cento nelle donne (ma solo al 10 per cento negli uomini). «Ma la cosa più interessante» continua Spector «è che ci siamo accorti che anche fra gemelli identici, disfunzioni, suscettibilità a malattie e personalità, divergono sempre di più con il passare del tempo, come se lo stesso genoma fosse stato modificato in maniera diversa dagli stimoli ambientali». A fare da tramite fra un ambiente sempre variabile e il quasi immutabile Dna sono appunto i meccanismi epigenetici. «Il più comune dei quali» spiega Esposito «è la metilazione, ossia l’addizione al gene bersaglio, tramite speciali enzimi, di una molecola chiamata metile, che ne blocca il funzionamento. Il meccanismo è reversibile, ma l’alterazione a volte dura tutta la vita, e può addirittura essere trasmessa da una generazione all’altra. L’epigenetica, quindi, può essere vista come una sorta di meccanismo evolutivo parallelo, che consente un rapido adattamento del singolo, e della sua prole, all’ambiente, senza attendere la lenta mutazione e selezione naturale del Dna». A far teorizzare quest’ultima, straordinaria caratteristica dell’epigenetica, è stato uno studio sulle donne olandesi incinte durante la carestia del 1944. I loro figli, nati sottopeso, oggi soffrono più della media di diabete e obesità, e hanno generato a loro volta neonati sottopeso. È come se il corpo materno avesse preparato il feto alla situazione di carestia, modificando il funzionamento di alcuni suoi geni per aumentare l’accumulo di grassi e zuccheri, e sopravvivere alla fame. Se però il figlio cresce poi in un ambiente ricco di cibo, il vantaggio epigenetico diventa svantaggio, aumentando il rischio di obesità e diabete. Si stanno ora scoprendo altri effetti dell’ambiente sulle caratteristiche genetiche: nei ratti allevati da madri poco affettuose risulta bloccato epigeneticamente il gene per il recettore glucocortisoide, il che provoca un accumulo di cortisolo, l’ormone dello stress, nel cervello, portando ad ansia e iper reattività. Uno studio compiuto negli Usa su 720 coppie di gemelli e fratelli, seguiti dall’infanzia all’adolescenza, ha rilevato una correlazione fra freddezza delle madri nella prima infanzia e comportamenti antisociali nei teenager. Ciò può poi portare a essere genitori poco attenti, che produrranno figli iper reattivi e così via. Ma la catena può essere spezzata da un ambiente di vita favorevole. «Individuare le alterazioni epigenetiche dei geni legati allo stress» dice Spector «potrebbe in futuro consentirci di individuare in tempo i giovani a rischio e prepararli ad affrontare i problemi». In effetti lo studio dell’«epigenoma» offre notevoli opportunità mediche. «La Cina sta investendo miliardi» dice D’Esposito «e anche l’Italia partecipa a un grande progetto internazionale. Studiamo malattie rare, causate da errori nella metilazione dei geni, per capirne i meccanismi di base, in parte oscuri. Quando li avremo compresi, potremo analizzare gli schemi di metilazione per diagnosticare malattie e realizzare farmaci per curarle ». A cominciare dagli stessi tumori, che sono anche malattie epigenetiche. L’esame del Dna di cellule tumorali mostra infatti la mancanza di blocco da metilazione in geni che promuovono la crescita, mentre, al contrario, quelli che dovrebbero limitarla sono bloccati dai gruppi metile. La metilazione e demetilazione dei geni aiuta anche i tumori a evolvere per resistere ai farmaci. Ma questo può anche essere un loro punto debole: un farmaco che elimina la metilazione è già in uso per alcune leucemie, e altri trenta sono in sperimentazione. «Quel farmaco, però, colpisce alla cieca tutte le cellule» conclude D’Esposito «provocando effetti collaterali. La vera rivoluzione arriverà, credo tra dieci anni, quando saremo in grado di bloccare o favorire per via epigenetica l’espressione di ogni singolo gene, imitando quanto il nostro organismo fa già ogni giorno».
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Orrore a Mosca, 248 embrioni buttati via



L'ANTROPOLOGO TATTERSALL - E l’evoluzione si piegò al nostro volere di Luigi Dell’Aglio, 27 luglio 2012, http://www.avvenire.it/

«Noi che facciamo il suo stesso lavoro ci chiediamo se il paleoantropologo sia uno scienziato felice o almeno appagato. Forse il massimo che si possa dire per rassicurarlo è che, diversamente dall’ingegnere o dal geologo, non è tenuto ad avere sempre ragione. Qualche volta può anche sbagliare, ma l’errore non provoca tragedie.

La nostra scienza, a differenza di altre strade della conoscenza, è un sistema di cognizioni provvisorie limitato all’universo osservabile. La scienza in generale progredisce proponendo idee circa il comportamento dell’universo, verificandole e scartando quelle che non vanno. In questo modo opera come un sistema che si corregge da solo e si alimenta degli input forniti da un’immensa comunità di ricercatori. Ognuno di questi può sentirsi parte del colossale fiume della conoscenza, anche se le sue idee non verranno avvalorate dalle ricerche future». Un’ardita avventura di tenaci talenti: questa è la scienza per Ian Tattersall, paleoantropologo la cui rinomanza internazionale è legata a uno dei più grandi musei del mondo: l’American Museum of Natural History di New York. Tattersall ne è ora curator emeritus. Mercoledì 22 agosto interverrà al Meeting di Rimini sul tema "Natura umana ed evoluzione biologica".

Professor Tattersall, l’emergere dell’uomo con la sua natura dal corso dell’evoluzione è considerato un evento unico, ma ora alcuni fisici negano che l’arrivo della specie umana sia una svolta impetuosa che cambia radicalmente l’avventura della vita sul pianeta. Perché questo principio viene contestato?
«Non conosco molti fisici che realmente capiscano la biologia. Infatti i fenomeni che studiamo noi biologi sono molto caotici rispetto a quelli dei fisici. Ogni organismo ha una sua storia evolutiva, e questo vale particolarmente per gli esseri umani. Ma è anche vero che la specie umana si è fatta un nido molto confortevole tra i rami dell’imponente Albero della Vita sul nostro pianeta».

Nella disputa sull’origine della specie umana sembra ora accentuarsi e ora attenuarsi la spinta a invalidare la teoria dell’evoluzione. Tra gli antropologi credenti si fa notare che l’uomo non è la negazione dell’evoluzione. Al contrario, l’uomo "è la freccia dell’evoluzione, come diceva Teilhard de Chardin…».
«Teilhard era certamente nel giusto quando vedeva gli umani come un prodotto del processo evolutivo. Ma erano un unico prodotto di quel processo. Con alcune specialissime caratteristiche, soprattutto di tipo cognitivo».

Non pochi scienziati affermano che la natura umana esalta la cooperazione e l’aiuto reciproco. Altri descrivono la vita come un’inevitabile, accanita lotta per la sopravvivenza, che sarebbe tipica dell’evoluzione. Qual è il suo punto di vista?
«Assistiamo chiaramente a una competizione per le risorse di questo mondo. Ma penso che, su larga scala, la competizione tra le specie abbia avuto maggiore importanza della competizione fra individui, nel determinare le conseguenze di tre miliardi e mezzo di anni di evoluzione».

"L’universo aspettava l’uomo", dicono molti astrofisici sottolineando la quantità di condizioni favorevoli e di complesse attitudini grazie alle quali la specie umana ha potuto insediarsi sulla Terra. Alla luce di tutto questo, si potrebbe usare il concetto di "principio antropico" anche in paleoantropologia?
«In un mondo inadatto a ospitarlo, il genere umano non avrebbe potuto neanche conoscere l’evoluzione. Ma è arduo affermare che il principio antropico sia un fattore che determina le storie evolutive».

Che cosa rivelano i più recenti studi sul simbolismo, in merito al sentimento religioso, all’etica e all’arte, che sono le più profonde attività psichiche dell’uomo?
«Non tutto ciò che consideriamo speciale, insolito, in noi stessi, è stato acquisito tutto insieme, nello stesso periodo di tempo, dai nostri lontani predecessori. Il fuoco, per esempio, sembra sia stato "scoperto" circa un milione di anni fa. È diventato una presenza regolare e sistematica circa 400 mila anni fa. Ma il pensiero simbolico, che sembra ragionevole collocare insieme con la sensibilità religiosa, è stato introdotto soltanto 100 mila anni fa».

Grazie a quali fattori la specie umana è sopravvissuta alle vicissitudini della Terra e ha assunto una posizione preminente nel processo evolutivo?
«Per essere più precisi, non possiamo dire che gli umani abbiano assunto una posizione preminente nell’evoluzione. Possiamo dire piuttosto che attraverso il processo evolutivo il genere umano ha acquisito le caratteristiche per diventare ecologicamente dominante».

C’è un momento nel quale l’uomo prende in mano le redini della propria evoluzione…
«Sono d’accordo. Nella storia del genere umano c’è un punto ben definito : è quando, grazie a un "salto" cognitivo, l’uomo viene messo definitivamente in grado di uscire dal sistema ecologico prestabilito e di modificare i processi naturali. Il momento cruciale arriva quando la specie umana sviluppa una moderna capacità cognitiva, unendo i complessi comportamenti del campo della cultura. Basandosi sulle scoperte archeologiche, si può concludere che quel momento sboccia di recente, 100 mila anni fa, cioè molto tempo dopo l’avvento dell’Homo Sapiens come entità anatomica».


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Matrimonio, omosessualità e verità umana- Se l'Occidente perde il senso del futuro di  Francesco D'Agostino, 27 luglio 2012, http://www.avvenire.it/

Luigi Urru, antropologo culturale dell’Università di Milano Bicocca, mi scrive per criticare la perentorietà con la quale ho affermato, su queste colonne lo scorso 18 luglio, che «il matrimonio è uno e uno soltanto in tutte le culture e in tutti i tempi». Le cose non starebbero affatto così: basterebbe la succinta rassegna etnografica delle diverse tipologie familiari fatta da Francesco Remotti nel volume “Contro natura” per convincere tutti (me compreso) dell’esatto contrario.

Accetto di buon grado l’augurio di buona lettura che mi rivolge Urru, con un pizzico di garbata ironia, ma non per quel che riguarda il libro di Remotti, al quale a suo tempo (per l’esattezza il 7 marzo 2008) ho dedicato la dovuta attenzione, con un articolo, pubblicato da “Avvenire” dal titolo (ovviamente redazionale) «L’antropologo scava la fossa alla famiglia». Mi sono appassionato alle diverse (e per noi terribilmente esotiche) pratiche familiari dei Na, dei Nayar, dei Nyimba, dei Lele, dei Senufo, dei Wahehe, ecc., che Remotti cita per dare consistenza a questa sua tesi: la famiglia, non solo come istituto di diritto naturale, ma addirittura come concetto unitario, non esisterebe; al più si potrebbero individuare nelle varie culture «gruppi domestici», cioè diverse tipologie di aggregazioni sociali, che avrebbero una qualche somiglianza tra di loro.

Rimando Urru, augurandogli a mia volta “buona lettura”, a quel mio articolo, che peraltro ho successivamente ripreso in un libro che ho dedicato alla filosofia della famiglia e che Urru, se vorrà, non avrà difficoltà a procurarsi. Vorrei semplicemente sfruttare questa occasione per riconoscere che sul piano etnografico Urru, Remotti e tanti altri etnologi che hanno scritto prima di loro hanno ragione da vendere. Tutte le pratiche (se vogliamo chiamarle così) elaborate nella storia dalle diverse culture, dal linguaggio alla religione, dall’arte alla politica, dal diritto al lavoro, fino all’articolazione stessa dei valori e dei sentimenti, sono caratterizzate da infinite gradazioni e variabilità. Gli etnografi fanno bene a ricordarcelo, per impedirci di cedere alle suggestioni di un giusnaturalismo “ingenuo”, pronto a qualificare le “nostre” pratiche come “naturali” e quelle altrui come “contro natura”.

Ciò detto, resta come un punto fermo di carattere antropologico (e qui l’antropologia filosofica aggiunge la sua voce a quella dell’antropologia culturale) che tutte le pratiche culturali sono espressione di poche, essenziali, “vere”  esigenze umane fondamentali: la comunicazione per il linguaggio, la coesistenza per il diritto, la salvezza per la religione, la bellezza per l’arte, l’identità trans–generazionale per la famiglia. Se si arriva a riconoscere tutto questo, è necessario fare poi un ulteriore passo avanti, molto impegnativo, ma ineludibile: non tutte le pratiche culturali riescono nella storia a tutelare e a promuovere con la stessa efficacia le comuni esigenze umane fondamentali cui si è accennato. L’ antropologia ha pienamente ragione quando sottolinea la pari dignità di tutte le culture, ma ha torto – trasformandosi in un indebito relativismo antropologico – quando cerca di dimostrare che tutte le culture hanno la stessa capacità espressiva: è la stessa “storia” a fare giustizia delle forme di cultura più deboli, facendo emergere, consolidare e diffondere le forme di cultura che più si avvicinano alla “verità” dell’uomo (senza mai peraltro poterla esaurire).

E’ in tal senso che va letta l’espressione, indubbiamente imprecisa, che ho utilizzato e che Urru mi rimprovera. Se in prospettiva etnografica è scorretto affermare, come ho fatto io,  che il matrimonio «è uno e uno soltanto» in tutte le culture, non lo è in una prospettiva di antropologia filosofica, perché la verità dell’uomo non consiste solo nelle relazioni affettive e amicali (che possono essere anche omofile), ma nella sua vocazione generazionale (che invece è preclusa alle coppie omosessuali, se non al prezzo di palesi manipolazioni del vivente). Tutte le culture dimostrano, per il solo fatto di sopravvivere, di avere a cuore la loro sopravvivenza e tutte le culture creano istituzioni sociali finalizzate a questo scopo, all’interno delle quali l’omosessualità non ha riconoscimento pubblico.

Che oggi sia dilagante la propensione a chiamare “matrimonio” un rapporto omosessuale (per quanto profondo esso possa essere) dimostra soltanto come, in questa fase della sua storia,  l’Occidente, minimizzando la vocazione generativa del matrimonio, stia perdendo il senso del futuro. E’ su questo, più che sulle pur affascinanti pratiche culturali dei Na, dei Nayar, dei Nyimba, dei Lele, dei Senufo, dei Wahehe, ecc. ecc., che dovremmo tutti seriamente misurarci.

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