venerdì 31 agosto 2012


Nuovo studio: correlazione tra aborto indotto e cancro al seno - Lo studio è stato pubblicato su “Asian Pacific Journal of Cancer Prevention” di Anna Paola Borrelli, teologa moralista perfezionata in bioetica,  31 agosto 2012, http://www.uccronline.it

Il tumore al seno è quello che più frequentemente colpisce le donne e rappresenta la seconda causa di morte al mondo, dopo il tumore ai polmoni.  Oltre ai fattori di rischio già noti, quali l’età e la familiarità, i fattori riproduttivi e ormonali, l’obesità o il sovrappeso in menopausa, il diabete, uno stile di vita povero di fibre, frutta e verdura, la scarsa attività fisica, ecc. da diversi anni le ricerche si stanno focalizzando anche sul binomio aborto procurato-tumore al seno.

Un nuovo studio cinese pubblicato nel Febbraio di quest’anno su “Asian Pacific Journal of Cancer Prevention” è stato successivamente diffuso nel mese di Maggio dalla Coalizione Internazionale sull’Aborto/Cancro al seno. La ricerca capeggiata da Ai-Ren Jiang ha messo in luce come il rischio di contrarre il tumore al seno aumenti in seguito ad ogni aborto procurato.

I ricercatori hanno dimostrato che la maggior parte delle donne in pre-menopausa che avevano avuto un aborto procurato hanno un rischio maggiore del 16% di contrarre il cancro. Quelle che, invece, hanno compiuto 3 o più aborti hanno un rischio più elevato dell’1,55%. Nondimeno, si è visto che le donne in post-menopausa che avevano precedentemente abortito hanno maggiori possibilità di sviluppare il cancro mammario e più aborti ci sono, più il rischio aumenta. Così, se dopo un aborto indotto i valori di rischio aumentano del 1,79% volte; con due aborti s’innalzano per 1,85% volte, per poi giungere con tre o più aborti a 2,14% volte. Questa indagine sul legame aborto-cancro al seno va ad aggiungersi agli altri circa 50 studi scientifici e ad una metanalisi tutti orientati in questa direzione.

Quest’ennesima ricerca offre un’arma di protezione in più per la salute della donna e dà un ulteriore spunto di riflessione per l’inviolabilità di ogni vita umana, bene indisponibile e non negoziabile. Non è un luogo comune affermare che l’aborto uccide due volte: una prima uccide contemporaneamente il bambino e la madre (è nota a tutti quella che gli psichiatri definiscono la sindrome post-aborto) e una seconda volta la uccide fisicamente, potenziando il rischio di sviluppare un tumore al seno.

Al di là della propria posizione riguardo all’aborto il valore della salute delle donne va salvaguardato sempre!  Ma occorre anche spingersi oltre, ricordando quello che asseriva Giovanni Paolo II: “Rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana! Solo su questa strada troverai giustizia, libertà vera, pace e felicità!” (“Evangelium vitae”, 6). La legge italiana sull’Interruzione volontaria di gravidanza, facendo riferimento al ruolo dei consultori familiari, ricorda che essi «assistono la donna in stato di gravidanza […] contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza» (L. 194/78, n.2). Assistere la gestante in difficoltà ad accogliere la vita non equivale a sopprimere la vita di suo figlio, bensì aiutarla a realizzare il suo essere donna. Essere dalla parte della donna significa tutelare la sua salute, liberarla da tutto ciò che le impedisce di vivere appieno la sua splendida vocazione alla maternità!

Le contraddizioni della Corte Europea sulla legge 40, di Alfredo De Matteo, 30 agosto 2012, http://www.corrispondenzaromana.it

Oltre alle bugie anche i compromessi sui temi etici hanno le gambe corte: la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha accolto il ricorso di una coppia fertile portatrice sana della fibrosi cistica cui era stato negata la possibilità di accedere alla diagnosi preimpianto degli embrioni (un test genetico che si effettua su una cellula dell’embrione dopo tre giorni dalla fecondazione per verificare eventuali malattie genetiche), secondo quanto prescrive la legge 40/2004.

L’argomentazione addotta dai due coniugi romani riguarda la violazione dell’articolo della Convenzione dei diritti umani che garantisce il rispetto della vita privata e familiare della coppia, in quanto obbligati dalla legge a seguire la via del concepimento naturale e dell’eventuale aborto.  Un gioco da ragazzi per i giudici di Strasburgo rilevare la clamorosa incoerenza del sistema legislativo italiano, secondo cui non è possibile accedere alla tecnica della fecondazione assistita se la coppia che ne fa richiesta ha un’alta probabilità di trasmettere una malattia genetica alla prole, mentre le è consentito accedere alla cosiddetta interruzione volontaria della gravidanza qualora, a seguito di un’amniocentesi, venisse riscontrata una malattia genetica nell’embrione. In altre parole, per la legge italiana è ammessa l’uccisione di un essere umano innocente con l’aborto volontario, disciplinato dalla legge 194/1978, anche ad uno stadio molto avanzato del suo sviluppo intrauterino, mentre ciò non è consentito se questi ha poche ore di vita!

Tuttavia, occorre sottolineare come la Corte Europea tenda ad equiparare due tecniche, la diagnosi prenatale e la diagnosi preimpianto, in realtà diverse nelle finalità: mentre la prima non ha come sbocco inevitabile la distruzione del figlio malato (in realtà è utilissima per predisporre cure efficace sull’embrione anche dopo la gravidanza), la seconda sì. Dunque, il fatto che una coppia portatrice sana di una malattia genetica non possa accedere alla tecnica della fecondazione artificiale costituisce una, seppur minima, tutela dell’embrione malato altrimenti destinato a morte certa.

Inoltre, con tale sentenza, che di fatto mette al primo posto il diritto dei coniugi ad avere un figlio sano a scapito del diritto alla vita, la Corte smentisce un suo precedente pronunciamento datato 18 ottobre 2011 quando, chiamata a pronunciarsi sulla brevettabilità circa l’utilizzo degli embrioni umani a fini di industriali e di ricerca, sentenziò che «fin dalla fase della sua fecondazione qualsiasi ovulo umano deve essere considerato come un embrione umano, e quindi va ritenuto un essere umano, pur se è a uno stadio iniziale di sviluppo». Pertanto, le contraddizioni sono molte e non solo quelle insite nel disastroso panorama legislativo italiano in tema di aborto volontario e fecondazione assistita.

D’altra parte, nel tempo la legge 40 è stata più volte messa in discussione, malgrado nel 2005 venne confermata dalla volontà popolare con la schiacciante vittoria dell’astensionismo ad un referendum abrogativo, fino a quando, nel 2008, il ministro della Salute Livia Turco dell’allora governo Prodi modificò i connotati della legge riscrivendone le linee guide e allargandone ancora di più le già lacerate maglie normative. Sebbene la legge 40 sia ingiusta, incoerente e facilmente aggirabile, il nemico, che non accetta compromessi né gioca al ribasso al contrario dei suoi avversari, ha lavorato alacremente per abbatterla.

C’è da rilevare che mentre i giudici di Strasburgo e gli esponenti politici idolatri del laicismo spinto non fanno altro che compiere il loro (sporco) lavoro, ciò non si può dire per la parte del mondo cattolico e pro-life che ha voluto, sostenuto e difeso la legge 40 come se fosse una buona legge o, addirittura, una legge cattolica. 

In Germania l’eugenetica è già realtà: ecco le terrificanti cifre, Mauro Faverzani, 30 agosto 2012, http://www.corrispondenzaromana.it

La notizia è stata data anche in Italia, ma sottotono e senza troppa enfasi: il consiglio regionale di Friburgo lo scorso 31 luglio ha liberalizzato il test sulla trisomia “Lifecodexx”, prodotto dalla ditta “GATC Biotech” di Costanza, rendendolo disponibile già dalla scorsa metà di agosto. Questo esame permetterebbe non solo di riconoscere i casi di mongolismo prima della nascita, bensì ancor più precocemente di quanto già avvenisse in passato ovvero tra la decima e la dodicesima settimana.

Pare che il margine di errore sia molto basso. E non presenterebbe rischi per la salute della donna. Ma sono i numeri ad inquadrare la tragedia, celata dietro questa notizia: secondo i dati diffusi dall’agenzia federale per l’Educazione Civica di Bonn, ogni anno in Germania l’85% delle donne gravide – circa 670 mila in valore assoluto – vorrebbe sapere se il proprio figlio sia sano o malato e, per farlo, ricorre agli esami prenatali. Inoltre, il 90% dei feti con trisomia viene eliminato con l’aborto. Non potrà mai vedere la luce.

Il costo del test “Lifecodexx”, peraltro, s’aggirerebbe attorno ai 1.200 euro, assicurando un fatturato annuo di oltre 800 milioni di euro. Da più parti si cerca di renderlo gratuito o quasi, caricandolo sui costi della Sanità pubblica, per assicurarvi il massimo accesso possibile. A guadagnarci non è soltanto l’azienda produttrice, ma anche l’indotto di cliniche e centri, ove vengono praticate tali analisi e quanto ad esse conseguente. Scienza e mercato insomma sembrano esser gli elementi determinanti le decisioni, al di là di qualsiasi valutazione di carattere etico: non importa se una scelta sia o meno morale, par darsi peso piuttosto al fatto che sia comoda, sicura ed indolore.

Per questo, ormai tra le aziende sembra essersi scatenata la corsa a chi riesca ad assicurare alle coppie questo tipo di previsioni il più celermente possibile e nel modo meno invasivo. Anziché investire capitali nella ricerca per guarire da determinate patologie, li si spende per strappare il “problema” alla radice, eliminando chi ne sia affetto: ciò corrisponde allo stravolgimento totale del concetto di salute.

Commenta l’agenzia tedesca “Kreuz.net” nel dare la notizia: «Anche la Sanità ed, in ultima analisi, lo Stato potranno risparmiare molti soldi, in quanto la selezione preventiva dei soggetti disabili eviterà loro tutte le spese successive». Un modo terrificante ed abominevole per “ridurre” i costi sociali, dunque. Questa è senza ombra di dubbio eugenetica pura: diritto di cittadinanza avrebbero solo quanti godano di ottima salute. Oggi questo discorso vale per la trisomia, domani potrebbe valere per qualsiasi altro tipo di malattia od anche – perché no? – per altezza, peso e tratti somatici. Da qui la sin troppo evidente conclusione di “Kreuz”: «Non ha senso denunciare i crimini commessi dai Nazionalsocialisti, se poi alla fine non si impara nulla dalla Storia». Un discorso, che non fa una piega. 

Così con i Pacs in Brasile hanno introdotto la poligamia


Siamo malati immaginari


Staminali per legge




Il paternalismo dello Stato etico che pretende di insegnarci a vivere - Piero Ostellino, 31 agosto 2012, http://www.corriere.it

postellino@corriere.it
Parte dell'opinione pubblica ha reagito positivamente all'ipotesi di una tassazione sulle bevande zuccherate come correttivo per una giusta alimentazione. Molti dichiarano che concorderebbero con l'idea che la salute riguardi il senso di responsabilità personale di ciascuno «se - aggiungono, però, subito dopo - le conseguenze subite da chi la trascura non gravassero sul Servizio sanitario nazionale, cioè su tutti». «Un bambino obeso oggi - si dice a proposito della prevenzione nei confronti dei più giovani - è un potenziale diabetico domani, un iperteso, con un alto rischio di malattie cardiovascolari e non solo, insomma un uomo da curare. E a spese di chi? Della sanità pubblica, dello Stato e generando un costo che genererà tasse e ancora tasse».

Sono reazioni comprensibili - dato anche il livello già molto elevato della pressione fiscale - ma non condivisibili dalla prospettiva di una democrazia liberale. Si attribuiscono, infatti, allo Stato prerogative e compiti di natura paternalistica - che, oltre tutto, non hanno riscontro nella realtà - e si assegna alla società civile, per non dire ai singoli individui, una sudditanza nei confronti dello Stato che ne mortifica l'autonomia e le libertà. Cerco di spiegare le ragioni del mio dissenso nei confronti delle convinzioni espresse in questi giorni dall'opinione pubblica maggioritaria.


Lo Stato già provvede a disciplinare, spesso persino troppo, i comportamenti individuali e a far fronte alle conseguenze delle possibili deviazioni (ancorché non giuridicamente perseguibili). Non è un Ente benefico, bensì un organismo che fornisce servizi in cambio delle tasse che fa pagare; se non ci fossero le tasse, non ci sarebbero i servizi e neppure lo Stato (che, anche soprattutto, dal punto di vista liberale, è necessario alla convivenza civile). Ciò che si crede di ottenere (pressoché) gratuitamente lo si è pagato, prima ancora di goderne, con le tasse personali e la fiscalità generale. È in cambio delle tasse, non di comportamenti moralmente o socialmente esemplari, che lo Stato fornisce i suoi servizi. Lo Stato è (dovrebbe essere) neutrale, se no diventa Stato etico e confonde il peccato col reato. Ingrassare, a causa di una alimentazione non regolata, e, di conseguenza, (eventualmente) ammalarsi, così come dilapidare i propri guadagni, e trovarsi nell'indigenza in vecchiaia, sono fatti personali, alle cui conseguenze, peraltro, lo Stato già pone rimedio col welfare (Sistema sanitario e pensionistico generalizzati). Sostenere che l'alimentazione è un fatto pubblico significherebbe riconoscere allo Stato il diritto di imporre comportamenti, anche in altri campi, che violerebbero gli stili di vita personali: non può essere obbligatorio mettere la maglietta della salute per non prendere la bronchite e evitare di gravare sul prossimo. Non spetta allo Stato, ma ai genitori e/o, se vogliamo, alla scuola, a libere campagne promosse alla bisogna, educare giovani e meno giovani ad una corretta alimentazione.
I media - ha scritto Tocqueville nella Democrazia in America (1835-1840) - erano, con il libero associazionismo, i due pilastri sui quali si reggeva la democrazia liberale statunitense. Essi assolvono due funzioni, diciamo così, civili anche nelle democrazie liberali contemporanee. Conferiscono un fondamento etico-politico all'Ordinamento esistente, contribuendo alla sua legittimazione; forniscono al cittadino le informazioni e gli strumenti culturali e politici per (eventualmente) cambiarlo (ovviamente con mezzi democratici). Se assolvono solo la prima funzione, sono di sostegno allo status quo e alimentano le tendenze della società civile al conformismo. Se assolvono solo la seconda, producono estremismi protestatari, che rasentano l'anarchia, e destabilizzano l'Ordinamento esistente.

L'Italia - divisa come è ancora, malgrado i grandi cambiamenti avvenuti nel mondo, in due diverse, e opposte, idee di società nella quale vivere; una, grandemente maggioritaria, collettivista e statalista; l'altra, assolutamente minoritaria, individualista e liberale - continua a oscillare fra le due idee di società e di Stato. Si è perso, nel frattempo, il senso della misura, diciamo del «giusto mezzo» nella visione cavourriana della politica. Il risultato è una cultura politica molto approssimativa e spesso contraddittoria e, soprattutto, distorsiva dell'idea stessa di democrazia nella quale si vorrebbe vivere. Occorrerà, forse, più di una generazione per porvi rimedio.


A proposito di embrioni - Parole nostre, figli nostri, Davide Rondoni, http://www.avvenire.it/

Ci passiamo sopra come fili d’erba. Le pieghiamo. Come fosse niente. Ma ci sono parole che non si possono calpestare. Quando lo si fa, se pure con buone intenzioni, si sta calpestando l’aiuola del vivente. È un paradosso: siamo ligi con le aiuole nelle nostre piazze, ma calpestiamo parole-aiuole senza pensare alle conseguenze. Ci stiamo calpestando il corpo e l’anima. Ci tocca vivere un’epoca in cui parole elementari (padre, figlio, vita…) sono sottoposte al diverbio, allo scontro. Epoca dura ben più di altre. Occorre avere un cuore grande verso tutti – anche chi si pone distante su questioni così radicali – un cuore pieno di pazienza verso se stessi e verso tutti. E però essere guerrieri contro gli errori sulle parole-aiuola, contro i calpestamenti, i lievi feroci fraintendimenti.
Si accampa come scusa che tale "confusione" nasca dai progressi della scienza, dalle possibilità della tecnica. Ma sono scuse. La scienza autentica non confonde le parole, il loro senso. Semmai ci invita a inventarne di nuove. Ma embrione e figlio sono le parole valide per quel che è in gioco. Le confusioni nascono prima o dopo, nella cultura, ovvero nel senso critico che le persone maturano circa la vita e il suo significato.

Una ragazza che decide di abortire non lo fa perché convinta dalla scienza, ma dalla solitudine, dalla disperazione con cui ha imparato a guardare la vita. E chi non sente un brivido nel pensare che per assecondare un pur legittimo desiderio di avere figli (e possibilmente sani) si passa sopra al diritto di nascere di creature infinitamente piccole e perciò indifese come siamo stati noi e i nostri figli, non ne è immune a causa della scienza e della tecnica, ma perché ha smesso di tremare per gli esordi, per le cose fragili della vita. E ragiona ormai in termini di difesa dei diritti più facili ed evidenti, che sono sempre i diritti del più forte.
È alla ribalta la parola embrione. E allora ci tocca riguardarla, questa parola un po’ fredda che si usa per indicare qualcosa da "buttare" se occorre. Come una materia, entro cui scartare la difettosa e tenere la migliore. Come si fa con la stoffa, le zucchine, o le foglie di tabacco. E sì: con la parola embrione facciamo i furbi. La usiamo perché sembra fredda, scientifica, distante. Ma essa indica quella stessa realtà che nella pancia della nostra donna lei e noi chiamiamo "figlio". La medesima. Identica. Nessuno ha mai detto: sai, aspetto un embrione. Ma un figlio. Perché la realtà è la medesima. Però se non parliamo della nostra pancia, usiamo (usano) la parola "embrione". La stessa cosa, ma così la distanziamo. E può esser congelata, buttata, scartata.

In questo cambio di parola ci sta un precipizio di pensiero, una astuzia, a volte un egoismo. Proviamo a pronunciare: si congelino pure migliaia di "figli". O: "scartate tre figli e tenetene uno". La parola "embrione" che da radice greca indica una cosa che "nasce" dentro un’altra cosa è una parola dolcissima, tenuissima. Indica il primario muoversi e germinare di un essere. È già l’uomo che sarà, dice solo che nasce dentro un altro. Che sia un essere in sviluppo e non già pienamente attuato non significa una differenza di qualità. Non sarà mai nient’altro che un uomo. Non gatto, né delfino, né airone. È un nascente uomo da dentro sua madre – o forse il fatto che sia in un "bidone" lo rende eliminabile?

La legge in discussione, la legge 40, è utile e per tanti aspetti saggia, ma come tutte si può perfezionare. Ora la discussione riavvampa. Se servirà a far aumentare il tremore in tutti dinanzi a certe parole, allora lo scontro culturale, il diverbio, la fatica del ragionamento saranno serviti a qualcosa. Un particolare contributo diano le donne, che sanno cosa è avere un embrione, un figlio dentro il proprio corpo. E sanno cosa è tremare infinitamente.



PAKISTAN/ Rafique (Apma): gli islamisti vogliono uccidere Rimsha, 14 anni, solo perché cristiana - INT. Pervaiz Rafique - venerdì 31 agosto 2012 - http://www.ilsussidiario.net

Nel corso dell’udienza di fronte al tribunale di Islamabad per il caso della minorenne cristiana Rimsha Masih accusata di blasfemia, ieri gli avvocati dei religiosi musulmani si sono opposti alla scarcerazione e hanno presentato ricorso contro i risultati della Commissione medica. Il fronte islamista ha sostenuto che la ragazzina avrebbe non meno di 14 anni e non sarebbe affetta da disturbi mentali. I termini per la carcerazione preventiva di Rimsha scadono il primo settembre, ma non è chiaro quale posizione prenderà il tribunale. IlSussidiario.net ha intervistati Pervaiz Rafique, presidente e fondatore dell’All Pakistan Minorities Alliance (Apma) e parlamentare cristiano dell’assemblea provinciale.

Perché i giudici pachistani continuano a tenere agli arresti Rimsha Masih, anche se è una ragazzina di 14 anni analfabeta e con problemi mentali?

E' per la sua salvezza, la stanno proteggendo dagli estremisti religiosi che hanno tentato di bruciarla viva. I rapporti medici hanno confermato che non è sana di mente, ma non è stato ancora stabilito se sia effettivamente incapace di leggere e scrivere. Secondo alcune informazioni che ho ricevuto, sarebbe in grado di leggere.

Come viene discusso in Pakistan questo caso? Vi sono politici od opinionisti musulmani che difendono Rimsha, o tutti i musulmani sono contro di lei?

Il partito religioso musulmano Namos-e-Raisalat l'ha difesa, sostenendo che è minorenne e che non dovrebbe essere accusata in base alla legge sulla blasfemia. Il Pakistan Christian Post ha scritto che Muqadas Kainat, una ragazza cristiana di 12 anni, è stata stuprata e uccisa vicino a Sahiwal.

Cosa sa attorno a questo tragico fatto e la notizia, secondo lei, è attendibile?

Ho letto la notizia e sto conducendo indagini su di essa, quindi per il momento non sono in grado di confermarla. Molti giornali e giornalisti cristiani sono incorsi in qualche esagerazione nel riportarla. Per quanto mi riguarda, non voglio pronunciarmi prima di aver accertato i fatti.

Secondo lei, comunque, si sarebbe trattato di una discriminazione religiosa contro i cristiani o di un crimine comune?
Si tratta di discriminazione religiosa, i cristiani e le altre minoranze religiose sono discriminate ogni giorno in ogni aspetto della vita. Il continuo riproporsi di questi gravi fatti sta ponendo molte riserve sul futuro delle minoranze religiose in Pakistan.

Quindi stupri e assassini di ragazze cristiane sono frequenti in Pakistan?

Sì, questi crimini stanno diventando purtroppo frequenti in Pakistan. Il governo non è capace di proteggere le vite e le proprietà dei cristiani e una delle principali ragioni è che i leader, autoproclamatisi tali e imposti alla nostra comunità, non osano dire la verità sulla situazione. Durante le loro visite all'estero, continuano a dire che in Pakistan le minoranze religiose hanno uguali diritti, ma la realtà è ben altra.

Come vivono i cristiani pachistani in questa situazione di continua discriminazione?

Vivono in una continua paura, essendo discriminati ogni giorno nella vita quotidiana. Hanno cercato di far sentire la loro voce in pubblico e in Parlamento, ma i nostri rapresentanti ci sono stati imposti, proclamano di rappresentare le minoranze, ma in realtà non osano opporsi a queste discriminazioni.

Cosa dà ai cristiani la forza di continuare a restare in Pakistan e perché non cercano invece di espatriare?

Questa è la nostra terra, siamo nati qui. Malgrado l'accusa frequente di essere agenti dell'Occidente, siamo sempre stati leali verso la nostra patria. Molti però cercano di andarsene e se questa tragica situazione continua, temo che saremo costretti, come gli indù, ad emigrare.

(Pietro Vernizzi)


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giovedì 30 agosto 2012


La strage di Oslo e il suo autore - Quel male che nasce dal dimenticare chi siamo di Costantino Esposito, 30 agosto 2012, http://www.avvenire.it

Com’è facile, di fronte a eventi terrificanti, come la strage compiuta un anno fa sull’isola norvegese di Utoya da un fanatico ultranazionalista, Anders Behring Breivik, in cui persero la vita 68 giovani partecipanti ad un campo estivo dei 'laburisti' (e altre nove erano state le vittime di un’esplosione sempre progettata dallo stesso Breivik nel centro di Oslo), archiviare il caso come un atto di assurda violenza, nutrito nel torbido terreno dell’odio xenofobo e razzista.

Tutto questo è vero, senz’altro. E la condanna inferta all’assassino – 21 anni, il massimo previsto dalla legislazione norvegese – sembra quasi un argine inadeguato contro il terribile sguardo del reo confesso, tutto fiero beffardamente della sua azione, pentito solo di non averne potuto uccidere di più, dei suoi giovani "nemici", come egli stesso ha dichiarato dopo la lettura della sentenza. Ma anche una risposta del tutto insufficiente (e questo a prescindere dal numero di anni di prigionia) all’attesa di giustizia che un tale evento provoca inevitabilmente in noi.

Si tratta di un’azione in qualche modo non risarcibile, e la giusta pena non colma la misura abissale della distruzione di quelle vite. In altri Stati la condanna sarebbe stata certamente molto più pesante, e coloro che considerano la leggerezza del castigo una misura del tutto inadeguata rispetto all’enormità del delitto (come una crepa evidente nelle legislazioni occidentali più liberal rispetto alle sfide delle società multiculturali e multietniche) si opporranno senz’altro a coloro che invece plaudono alla saldezza di una giurisprudenza che riesce a contenere, senza demonizzare indebitamente, anche i delitti più eclatanti, mettendo al centro la possibilità e anzi il diritto dei colpevoli ad una rieducazione sociale.

Ma in entrambi i casi questa condanna non può esimerci dal guardare in faccia il male che un uomo – riconosciuto peraltro dal Tribunale "sano di mente" – è capace di fare. Questa parola, "il male", ci inquieta profondamente: e difatti tutti noi cerchiamo di sbarazzarcene subito o addossandolo interamente sul funzionamento psicologico dell’assassino, e vederlo così, a distanza, come una possibilità orrenda – un difetto neurologico, insomma – che non potrà mai essere nostra; oppure pensando che essa è solo il frutto di un contesto sociale inadeguato, esso sì veramente colpevole di aver permesso e sviluppato un’ideologia cha avrebbe armato la mano del colpevole.

Eppure il male è un punto non risolto nella nostra esperienza: una possibilità drammatica che affonda nelle pieghe della nostra individualità personale (personale: cioè dotata di ragione e libertà), e che con altrettanta evidenza tutti noi condividiamo. Noi non siamo come l’assassino Breivik, grazie a Dio; e tuttavia bisogna pur dire che alla radice del gesto inconcepibile di quest’uomo si rende manifesta una tendenza o almeno una possibilità che in qualche maniera – ecco l’inquietante, ecco l’inaudito – ci appartiene.

Guardare in faccia questo male, accettare di non censurarlo o nasconderlo, può significare però due cose diverse per noi. O arrendersi al fatto che in definitiva la libertà umana non possa sottrarsi a un destino irrazionale, rimanendo prigioniera della sua stessa volontà di potenza e di distruzione; oppure percepire tutto lo stridore e la contraddizione che il male provoca in noi, rispetto a ciò che desideriamo per noi stessi.

Percepire questa contraddizione tra la nostra capacità di fare il male, cioè di distruggere noi stessi e il mondo attorno a noi, e il nostro desiderio di "essere" positivamente noi stessi è forse una delle esperienze più interessanti e decisive del nostro "io", e noi ce ne accorgiamo soprattutto quando proviamo rimorso o pentimento. Ma questo può succedere proprio perché è presente in noi, come una traccia indelebile, l’evidenza di un bene che viene prima del male, e che ci fa giudicare – dentro il male che possiamo fare – che siamo fatti invece per il bene e che siamo noi stessi un "bene", come si può vedere in maniera affascinante in alcuni personaggi dei romanzi di Dostoevskij.

È come una "fattezza" originaria che si rende trasparente nell’esperienza del male: siamo fatti bisognosi di tutto: ma non è un bisogno sinonimo di impotenza, bensì indice del nostro rapporto con un’alterità senza di cui non saremmo davvero liberi. E difatti anche il 'peccato originale' è tale perché all’origine dell’uomo c’è il rapporto buono con il suo creatore e la sua libertà è chiamata sempre a scegliere se seguirlo o disfarlo. È forse qui il più acuto dramma di Anders Breivik, quello di non sentirsi bisognoso di nient’altro da se stesso e pensare di poter e dover essere il padrone di sé e del mondo. Ma è proprio quello che il suo gesto assurdo e malvagio ci chiede di riconoscere ancora una volta.


La grave sentenza di Strasburgo - Mors tua salus mea? - Roberto Colombo, 30 agosto 2012, http://www.avvenire.it

Una sentenza provvisoria, quella della Corte di Strasburgo sull’ammissibilità della selezione eugenetica degli embrioni umani mediante diagnosi preimpianto, ma comunque destinata a lasciare un segno scuro nella giurisprudenza europea. Conferma, infatti, che non pochi giuristi si sono orientati a imboccare la china dei "passi indietro" nella storia del riconoscimento, della tutela e della promozione dei diritti di ciascun uomo e di tutti gli abitanti del Vecchio Continente. Non solo per gli aspetti su cui hanno già disquisito diversi commentatori: la denuncia della (presunta) incongruenza tra due leggi dell’Italia, uno dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa (e dunque firmatari della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), che riguardano la vita umana prenatale; le ripercussioni che il pronunciamento potrebbe avere, se confermato, sulla normativa italiana e di altri Paesi dell’Unione; e la contraddizione di principio giuridico tra questo giudizio e quello espresso lo scorso anno dalla Corte di Giustizia europea sulla non brevettabilità dell’embrione umano. Aspetti rilevanti, sui quali è giusto riflettere giuridicamente e politicamente. Ma ce n’è ancora un altro, dagli effetti dirompenti eppure quasi inosservato.

La sentenza ha sancito - di fatto, anche se non di principio esplicito - che il perseguimento della salute di un uomo o di una donna non ancora nati può giustificare la distruzione della vita di altri uomini e donne, anch’essi nella vita prenatale, ma malati o che potrebbero diventare tali. Le sentenze sull’aborto non si erano mai spinte fino a questo punto: alcune erano giunte ad ammettere la insindacabile prevalenza, a loro dire, della salute della donna sulla vita del concepito, malato o anche sano; altre, quella dei cosiddetti "interessi" della famiglia e della società rispetto alla nascita di bambini affetti da patologie congenite, tali da autorizzare la loro soppressione in utero.

Infine, con l’aborto selettivo (la "riduzione" del numero dei feti nelle gravidanze plurigemine attraverso l’eliminazione di uno o più di essi), si è voluta privilegiare la salute di uno o più feti sani e della donna a scapito della vita di altri feti, anch’essi sani, il cui sviluppo contemporaneo avrebbe potuto compromettere la salute dei primi. In un certo numero di Paesi extraeuropei si è arrivati a tollerare anche la soppressione di un concepito femmina (per quanto sano) a favore della nascita di figli maschi.

I giudici di primo livello a Strasburgo non si sono fermati qui (e siamo già ben oltre ogni limite di civiltà). Hanno abbracciato la tesi inaudita che la salute di un fratello o di una sorella vale la morte di un altro fratello o sorella, coetanei (stessi primi giorni di vita), con la sola "colpa" di essere affetti da anomalie genetiche legate allo sviluppo di alcune malattie.

E così dalla locuzione «mors tua vita mea» – vertice dell’egoismo umano – si arriva all’ancor più abominevole sentenza «mors tua salus mea», senza neppure passare per una, sia pur indebita, applicazione del cosiddetto "principio terapeutico". La morte degli embrioni malati non è neppure lo strumento operativo per recuperare la salute di un altro embrione o bambino malato attraverso un processo terapeutico, ma solo una condizione "a priori" (e, come tale, dovrebbe essere sostenuta da robuste ragioni teoretiche e pratiche, e non semplicemente affermata) per non accogliere e promuovere la vita di un figlio che potrebbe risultare segnata dalla malattia, decidendo i genitori – sempre aprioristicamente – di consentire lo sviluppo esclusivamente a un figlio dichiarato sano, addirittura non ancora impiantato in utero (e, in alcuni casi, neppure concepito) in quel momento.

Nella "civiltà della salute" europea sembra aprirsi l’inquietante scenario di una discriminazione – non strumentale alla guarigione ma precondizionale all’assenza di malattia – tra soggetti di pari razza, età, sesso, grado e luogo di sviluppo, figli dello stesso uomo e della stessa donna, che non possiamo non definire una nuova versione di autentica eugenetica negativa (con buona pace di coloro che insorgono di fronte a questo appellativo), che si consuma nei laboratori di una clinica per la procreazione medicalmente assistita.

Nel nostro continente, come in altri, si è molto - troppo - discusso sull’ambizione di una eugenetica positiva, a partire dalle possibilità della clonazione e dell’ingegneria genetica, e troppo poco sulla tentazione di un ritorno all’eugenetica negativa, questa volta non con il volto truce dello sterminio di massa, ma con le parvenze ammalianti della biotecnologia riproduttiva individuale. Faremmo bene a riflettere su quale strada si sono incamminati i diritti umani di tutti e di ciascuno, a partire da quello fondamentale e inalienabile alla vita che, a rigore di ragione e di esperienza elementare dell’uomo, precede e rende possibile ogni altro diritto, anche quello alla salute.

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FECONDAZIONE ASSISTITA - Le derive della provetta - IL BUSINESS DEGLI OVULI E I SEMI DEI DEFUNTI, 30 agosto 2012, http://www.avvenire.it


È stato e resta il divieto più discusso e criticato della nostra legge, eppure la fecondazione eterologa ha portato a pratiche selvagge su cui diversi Paesi sono dovuti intervenire in senso più restrittivo. Trattasi della possibilità che il seme (oppure l’ovulo) provengano da un soggetto esterno alla coppia. La pratica – invocata in particolare dalle coppie omosessuali e da quelle in cui uno dei due sia portatore di una malattia genetica – è alla base del “business” degli ovociti, che ha stravolto la vita di migliaia di donne nei paesi del Terzo mondo, pronte (complici massacranti cicli di iperstimolazione) a farne merce di scambio per poche manciate di dollari. Ma il mercato degli ovuli è prolifico anche in Paesi ricchi come Inghilterra e Stati Uniti, dove studentesse e adolescenti si improvvisano donatrici per pagarsi studi o vacanze. La fecondazione eterologa è anche all’origine di casi limite che hanno scatenato controversie giudiziarie: dalle donne che hanno impiegato il seme di defunti (è accaduto, per esempio, in Inghilterra) al fenomeno dei genitori-nonni (caso clamoroso quello italiano di Torino, con mamma di 58 anni e papà di 70) per arrivare a quella dei padri che disconoscono i figli in quanto non informati del ricorso all’eterologa da parte della madre (la Cassazione ha dato l’ok se la scoperta viene fatta entro un anno).

BIMBI “SALVATORI” PER CURARE I FRATELLI MALATI
Nello spirito originario della legge 40, il divieto di diagnosi pre-impianto è conseguente a quello di «ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti». La norma si riferisce «agli interventi che, attraverso tecniche di selezione, di manipolazione o comunque tramite procedimenti artificiali, siano diretti ad alterare il patrimonio genetico dell’embrione e a predeterminarne caratteristiche genetiche» (art.13). La pratica di selezionare embrioni, invece, ha portato a effetti choc soprattutto in Gran Bretagna, dove l’Autorità sulla fecondazione assistita ha individuato una lunga lista di malattie (e rischi di malattie) per cui si può facilmente scartare un embrione. Fece discutere, per esempio, nel 2008 il caso di una coppia di sordi che volevano ricorrere a tecniche di fecondazione assistita e che si scontrarono con quanto previsto dalla legge sulla selezione degli embrioni, che scarta automaticamente quelli con problemi di sordità. Una pratica che ha inorridito i coniugi, assolutamente contrari a rifiutare un bimbo sordo. Ma l’Inghilterra ha fatto di più, avallando la selezione di “bambini medicina” (o “salvatori”), ovvero selezionati sani in provetta e fatti nascere al solo scopo di garantire materiale biologico di ricambio al fratellino affetto da una malattia genetica. Eil primo “bimbo medicina” è nato in Francia, nel 2011, con un corredo genetico selezionato ad hoc, ovvero completamente compatibile con i due fratellini malati di beta talassemia.

EMBRIONI CHIMERA E FIGLI CON TRE GENITORI
La legge 40 infine vieta «qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano», «la produzione di embrioni umani a fini di ricerca o di sperimentazione», «interventi di clonazione» e «la fecondazione di un gamete umano con un gamete di specie diversa e la produzione di ibridi o di chimere». Limiti che fino all’apparenza invarcabili e che invece la genetica spregiudicata degli ultimi anni ha percorso in lungo e in largo, per fortuna al di fuori dei nostri confini. È sempre il caso della vicina Inghilterra, che s’è spinta fino a concedere l’ibridazione di embrioni umani con quelli animali al fine di creare cellule staminali utili nella ricerca. Dopo una lunga battaglia parlamentare, la creazione di “chimere” mescolando materiale genetico umano a quello bovino è stata avallata, ma senza alcun esito: gli embrioni sono morti dopo 72 ore di vita in laboratorio, risultando inutili. Da allora di ibridazione e chimere non s’è più parlato. E in un binario morto è finita anche l’autorizzazione a clonare, sia in Inghilterra che nei Paesi asiatici: la cosiddetta “clonazione terapeutica” (che avrebbe dovuto fornire una miniera illimitata di organi e cellule da usare anche per l’uomo) si è dimostrata fallimentare. E nel 2010 un gruppo di ricercatori britannici dell’Università di Newcastle ha annunciato di aver messo a punto una nuova tecnica di manipolazione genetica: una tecnica riproduttiva che prevede tre genitori, cioè due corredi genetici impiantati nell’ovulo della madre. Obiettivo? “Terapeutico”, pare:il bimbo dovrebbe essere più sano.

Vita  - L'INTERVISTA - Eusebi: «Programmare vite di riserva, la disumanità che abbiamo fermato» di Viviana Daloiso, 30 agosto 2012, http://www.avvenire.it

C’è un problema di fondo, nella sentenza di Strasburgo. Un’incoerenza – questa sì – con i principi cardine dell’ordinamento costituzionale che non sfugge a Luciano Eusebi, ordinario di diritto penale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore e membro della Commissione chiamata a preparare le Linee guida della legge 40 emanate nel 2004 dall’allora ministro Sirchia.

Professore, a cosa si riferisce?
Si sente spesso dire che il ricorso alla diagnosi pre-impianto sia finalizzato a non trasmettere ai figli malattie, e in sé questo fine è più che comprensibile. Il problema, però, è che con questa tecnica il fattore genetico da cui la malattia dipende viene pur sempre trasmesso e gli embrioni a cui viene trasmesso vengono selezionati.

Questo cosa significa?
Che nel ricorso alla diagnosi pre-impianto si prevede a priori la generazione di vite umane (e tra queste di vite umane malate) cui verrà negato il diritto all’esistenza. La logica della selezione prevale su quella della cura: secondo una ben nota espressione di Jürgen Habermas, si generano embrioni “con riserva”, cioè embrioni dei quali si sa che in gran parte verranno selezionati in quanto portatori di un fattore genetico negativo. Ora, tutti vorremmo non trasferire fattori di questo tipo ai nostri figli, ma dobbiamo chiederci: davvero la strada giusta è quella di agire, mediante la selezione, su vite già iniziate?

Questo partendo dal presupposto che gli embrioni sono vite...
Una certezza, non un presupposto. La vita sussiste da quando è in atto una sequenza esistenziale che procede senza bisogno di ulteriori impulsi esterni, come per esempio ha nitidamente rimarcato, riconducendo il sussistere dell’embrione al momento fecondativo, la sentenza 18-10-2011 della Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Non solo la sentenza di Strasburgo avvalla la pratica della diagnosi pre-impianto, ma critica la legislazione italiana rilevando una «incongruenza» tra la legge 194 sull’aborto e la 40 sulla fecondazione assistita. Che idea si è fatto di questi rilievo?
In realtà il passaggio argomentativo fondamentale della sentenza – la quale motiva in rapporto all’asserita praticabilità dell’aborto su feti portatori di gravi anomalie – trascura il fatto che la legge n. 194/1978 non consente in alcun modo l’interruzione volontaria della gravidanza per il solo sussistere di una patologia del concepito, ma richiede a quel fine il sussistere di un pericolo, serio o grave, per la salute fisica o psichica della donna. La pura discrezionalità dell’aborto o il venir meno della tutela della vita umana (ancorché prima della nascita) per considerazioni relative allo stato di salute di quest’ultima sono state sempre ritenuti inaccettabili dalla giurisprudenza costituzionale italiana.

Secondo la nostra legislazione, insomma, la malattia in se stessa non fa decadere il diritto fondamentale alla vita del concepito.
Esatto. Con la diagnosi pre-impianto, d’altra parte, non ci si ritrova – malauguratamente – in presenza di una malattia, ma si mette in conto la generazione di vite umane portatrici di patologie. E la programmata selezione di vite umane sulla base di riscontri genetici resta pur sempre, quale sia la loro natura, “eugenetica”.

La legge 40 è di nuovo sotto attacco. È una norma “scomoda” per molti, anche fuori dall’Italia. Perché?
Con questa legge il nostro Paese ha fatto una scelta importante: quella di privilegiare il livello qualitativo della fecondazione assistita. Si è cercato, cioè, di ottenere un’alta qualità nelle tecniche evitando una produzione incontrollata di embrioni: così da permettere a tutti gli embrioni in gioco di avere una chance di sviluppo e così da escludere, inoltre, forme pericolose per la donna di iperstimolazione ovarica. La legge ha favorito altresì la consapevolezza relativa al problema concernente i criteri umanamente accettabili della generazione umana: riflessione che non dipende affatto da considerazioni di carattere confessionale. Sarebbe accettabile, per esempio, una totale sostituzione tecnica della gravidanza, e dunque del ruolo, in essa, della donna? O una generazione senza l’apporto genetico di due individui di sesso diverso? O il coinvolgimento di gameti al di fuori di qualsiasi relazionalità tra i soggetti generanti. O, per l’appunto, l’apertura alla logica selettiva? Sono temi di grande spessore, sui quali è necessario che la nostra società torni a discutere con pacatezza.

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PROPOSTE E POLEMICHE - Adozioni in crisi - Regole da cambiare, Laura Silvia Battaglia, 30 agosto 2012, http://www.avvenire.it

L’istituto dell’adozione è in crisi. Addirittura, l’Aibi, l’Associazione Amici dei Bambini, parla di «dati preoccupanti» perché dalle 6mila richieste di idoneità da parte delle coppie nel 2006 si è passati alle 3mila del 2011.

«Di questo passo – sottolinea il presidente Marco Griffini – nel 2018 chiuderemo le adozioni». Il punto è capire perché succede. E la risposta è semplice: l’adozione internazionale è un iter lungo, pieno di ostacoli e, in alcuni passaggi, davvero difficile.In particolare, il giudizio dei tribunali dei minori sull’idoneità delle coppie, ha reso il percorso «inquisitorio, punitivo», rimarca Griffini. «Anzi, dico di più: l’istituzione dei tribunali dei minori è una scelta medievale». La procreazione assistita ha dato, poi, un’ulteriore botta alla pratica dell’adozione, sempre meno attraente per le coppie.

Ecco perché ieri Aibi ha presentato la proposta di riforma di legge 184/1983 sull’adozione internazionale che è qualcosa di più di una proposta. «È una riforma culturale» dice Aibi. I punti focali della proposta di legge sono sei ma il primo li riassume tutti. «Puntiamo soprattutto a passare da un criterio di selezione a un principio di accompagnamento delle coppie aspiranti, prima, durante e dopo l’adozione», dice il presidente di Aibi. Un «atteggiamento culturale necessario» anche perché, finora, «il percorso era troppo sbilanciato sul prima adozione e molto poco sul dopo, e questo diventava uno dei deterrenti nella scelta della coppia».
Con la proposta di legge non dovrebbe più accadere anche perché, uno degli obiettivi è la riunificazione dei percorsi paralleli (i servizi, i tribunali, gli enti), in uno solo, molto più agile. E questo sarà possibile soprattutto eliminando il passaggio ai tribunali cioè rendendo l’iter d’adozione solo amministrativo. Non solo: l’inserimento di termini di conclusione dell’iter perentori (6 mesi o 9 mesi, non un giorno di più o di meno) sarebbe finalizzato a non aumentare le ansie dei futuri genitori e, sopratutto, a non fare gettare loro la spugna prima ancora di imbarcarsi in questa avventura.

Non meno importante, la riduzione dei costi di adozione che attualmente in Italia si aggirano intorno ai 18mila euro con punte di 30mila. Griffini: «Per ridurre i costi è necessario anche ridurre gli enti autorizzati a fornire questo servizio: l’Italia è una giungla, ne abbiamo di molto piccoli e di grandi. Se da 66 enti di varia entità venissero ridotti a 20, con una figura di riferimento per ogni Regione, personale dipendente su ogni Paese straniero dove operano e riuscissero a fare circa 200 adozioni l’anno, i costi si abbasserebbero in base alla legge dell’economia di scala».

Altre innovazioni previste: la totale gratuità del servizio per le coppie meno abbienti; l’inserimento dell’adozione internazionale negli affari di competenza del ministero degli Esteri con deleghe agli ambasciatori; estensione delle adozioni di bambini con bisogni speciali ai single (durante il convegno è stata davvero straordinaria la testimonianza di Silvia Kramer, una cittadina italo-americana che ha adottato una bambina cinese non vedente); infine, la legalizzazione dell’adozione per il nascituro, la promozione dell’affido internazionale per i minori dei Paesi in emergenza umanitaria; il riconoscimento dell’istituto islamico della kafala.

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Nell'ospedale in cui fanno nascere i bimbi condannati da mali incurabili



I farmaci equivalenti un tabù per i medici - GIORGIO FORESTI* - 30/8/2012 - http://www.lastampa.it/

Caro Direttore, qualunque lettore di giornali non può che concordare sul fatto che, dopo i temi estivi di rito, i farmaci equivalenti, o meglio le leggende metropolitane che li riguardano, sono stati un argomento frequentatissimo in queste settimane. E mi spiace dover constatare, a 11 anni dalla loro introduzione in Italia, che l’argomento scateni una ridda di osservazioni e interventi che purtroppo alimentano confusione anziché generare una corretta informazione. E questo si è ripetuto anche per le norme volte a favorire l’impiego dei generici contenute nella spending review.

E’ il caso, per esempio, delle dichiarazioni del dottor Marasso, presidente della Fimmg di Asti, intervenuto sulla «Stampa» del 21 agosto. La prima cosa che stupisce, nel suo intervento, è che si presenti come una complicazione eccessiva – e una lesione della libertà del medico – il fatto di chiedere l’indicazione del nome del principio attivo anziché quella del marchio commerciale. Nei Paesi industrializzati si fa quasi sempre così: basterebbe aver visto qualche puntata della serie ER per constatare che i medici parlano di azitromicina e non di «Zitromax». E se non ricordo male, nei testi di farmacologia si parla di principi attivi, non di marchi, quindi il medico dovrebbe conoscerli. Così come non mi sembra una vessazione chiedere di motivare la non sostituibilità in forma sintetica, soprattutto considerando che questa motivazione si richiede soltanto all’inizio di una nuova terapia, non per chi è già in trattamento.

Mi spiace poi che per contestare la pari efficacia dei generici (lo ha fatto anche Marasso, ma non è certo il solo) ricorra ad argomenti non superati, ma superatissimi. Come quello, per esempio, delle compresse che si rompono estraendole dal blister: questo era un problema, dovuto all’eccessivo spessore del foglio metallico che chiude il blister stesso, che ha riguardato, più di cinque anni fa, i medicinali di una singola azienda e non aveva nulla a che fare con il farmaco in sé. Se si dovesse revocare in dubbio la validità di un medicinale ogni volta che un’azienda farmaceutica – di generici o di griffati – deve ritirare un lotto di medicinali per difetti minori come questo, probabilmente dovremmo tornare a curarci con le radici raccolte nei boschi. Anche la questione della variazione all’interno della quale si parla di bioequivalenza, l’ormai famigerato più o meno 20% di biodisponibilità, è spesso assolutamente mal posta. In primo luogo il valore del 20% è uguale in tutto il mondo (non esistono Paesi europei in cui ci si basi sull’1-2%): sono passati i tempi in cui per avere notizie dall’estero si dovevano attendere i velieri in porto, basta usare Internet. Se questa tolleranza fosse eccessiva come si lascia intendere, resta da spiegare perché in Gran Bretagna, in Germania o in Francia – dove il generico è presente da decenni e con «numeri» ben più alti, i pazienti non paiono proprio soffrire di questa circostanza (si veda lo studio che l’Unione delle casse malattia francesi ha pubblicato paragonando direttamente pazienti trattati con statine di marca e generiche).

D’altronde sulla bioequivalenza le imprecisioni si sprecano. E a questo proposito vorrei consigliare alla dottoressa Paola Caracristini di andare a ripassare i testi di farmacologia, perché non può un farmacista affermare, come fa lei il 18 agosto, sempre sulla «Stampa», che un medicinale possa contenere il 20% in meno (o in più) di principio attivo: siamo alle barzellette che però non fanno ridere.

Infine, sarebbe il caso di valutare se tutte le difficoltà per il paziente che spesso si temono non siano dovute anche al fatto che molti cittadini il nome dei principi attivi, dal loro medico, non lo sentono mai fare. Magari, cominciando a scriverlo sulla ricetta, può darsi che questo benedetto nome entri nell’orecchio, come certe canzoncine estive…

In realtà, da cittadino, ho l’impressione che, anche su questo argomento, si ripercuota una caratteristica tutta italiana, cioè pensare che anche quando tutto il mondo affronta un problema in modo differente da noi… hanno torto gli altri. Per carità, può anche succedere, e l’innovazione nasce anche da questo atteggiamento, ma in questi ultimi tempi mi sembra che la diversità a tutti i costi sia stata uno svantaggio, e non un vantaggio, per il Paese.

*Presidente AssoGenerici

Ecco la generazione Esausti - stressati tra lavoro e famiglia - Hanno tra i 30 e i 40 anni, sono diventati genitori tardi per riuscire nella loro professione ma quando arrivano all'apice si trovano schiacciati dalla doppia incombenza: il successo nel lavoro e i doveri verso la famiglia. Ora l'Economist li definisce Generation Xhausted - dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI - 30 agosto 2012, http://www.repubblica.it

LONDRA - Sono i professionisti urbani a due velocità: quelli che vanno più lenti  con la famiglia per andare più forte nel lavoro. Rimandano la nascita  dei figli per potersi concentrare pienamente sulla carriera. Ma quando  la fanno si ritrovano in posizioni di comando in ufficio mentre sulla  porta di casa li aspettano bambini ancora piccoli, biberon e pannolini.  "Generation Xhausted", Generazione Esausti, li definisce l'Economist: i 30- 40enni d'oggi che hanno conquistato il potere precocemente, molto prima rispetto  ai loro genitori, ma che si sentono stressati, svuotati di ogni energia.  

Talvolta sono decisamente infelici, per l'accumulo  di troppe responsabilità  nel momento  sbagliato. Sono  donne come Marissa Mayer, che  a 37 anni e per la prima volta incinta  viene nominata amministratore  delegato di Yahoo, portata  via a Google come una celebrità, osannata come la manager più in voga della stagione, ma incerta su come farà adesso a gestire impegni pubblici e privati; come Louise Mensch, 41enne scrittrice di romanzi rosa e deputata conservatrice in procinto di diventare ministro, che si è dimessa dall'incarico perché non riusciva più a combinare i suoi impegni politici con quelli di madre di tre figli e moglie di un agente di rock star americane; come l'attrice 39enne Gwyneth Paltrow, che divisa tra i compiti di mamma a Londra e gli impegni cinematografici a Hollywood ha abbandonato l'Inghilterra nel tentativo di salvare famiglia e lavoro; come la politologa 49enne Anne Marie Slaughter, che ha lasciato il suo prestigioso posto di consigliera del segretario di Stato americano Hillary Clinton per tornare a occuparsi dei suoi due bambini, confessando in un articolo che ha fatto clamore sulla copertina della rivista Atlantic: "Non è vero che le donne possono avere tutto".

Ma sono esauriti pure gli uomini, quando si trovano in condizioni simili. David Cameron, diventato primo ministro britannico a 43 anni, con due figli che fanno le elementari e uno in fasce, è così sfinito che il mese scorso ha dimenticato uno dei suoi bimbi in un pub e poi è tornato a riprenderlo di corsa insieme alla scorta del servizio segreto. George Osborne, cancelliere dello Scacchiere ad appena 38 anni, è accusato di essere un pessimo ministro del Tesoro e un padre così così perché affaticato dalle duplici incombenze. Ed Miliband, nominato leader del partito laburista a 40 anni e subito allietato dall'arrivo di due pargoletti che lo hanno spinto a mettersi in "paternità", forse non ne è ancora uscito, commentano i maligni, sostenendo che il Labour è in mano al suo delfino Ed Balls.

Lo stesso fenomeno si nota nel business, dove i dirigenti delle grandi imprese sono più giovani di un tempo, e non solo in industrie digitali tipo Google (Sergey Brin ha 39 anni) e Facebook (Mark Zuckerberg ne ha 28): uno studio della Egon Zehnder International, società di cacciatori di teste aziendali, afferma che oggi il 40 per cento degli amministratori delegati di grandi aziende occidentali sono sulla quarantina, una percentuale raddoppiata negli ultimi quindici anni. Anche loro, nonostante stuoli di baby-sitter, soffrono la sindrome dell'esaurimento fisico: vedi il caso del portoghese Antonio Horta-Osorio, 46enne chief executive officer del Lloyds Banking Group, astro in ascesa della City e padre di tre figli, che l'anno scorso ha dovuto mettersi improvvisamente in malattia per stress, "volevo fare troppe cose tutte in una volta", ha dovuto riconoscere.

Non è il caso di Brin e Zuckeberger, certo, forse perché nessuno dei due ha (ancora) fatto figli: ma uno studio del Financial Times riporta che nel 2012 c'è stato un numero record (320) di dimissioni di amministratori delegati in Europa, colpa di crisi e recessione, certo, ma anche del doppio peso su executive più giovani di guidare una società e spingere carrozzine. Beninteso, il trend della spossatezza da eccessive responsabilità non riguarda soltanto capi di governo e super manager: anche nella fascia media delle professioni oggi si comincia a fare carriera prima di una volta, secondo dati dell'Office for National Statistics britannico.

Entro il compimento dei 38 anni, ammette Bagehot, pseudonimo del columnist più importante dell'Economist, "gli ambiziosi odierni sono già arrivati da qualche parte": compreso lui, che confessa di averne 37. Ciò è certamente un bene, se confrontato con le gerontocrazie del passato (o del presente, come in Italia, dove l'età media della classe dirigente politico-economica è 59 anni). Ma può diventare anche un male, perché spesso i 30- 40enni in carriera giungono a questi risultati rinviando la creazione di una famiglia e quando la formano si ritrovano schiacciati dalla doppia incombenza: il successo nel lavoro e i doveri verso i figli. In Inghilterra l'età media in cui una donna partorisce è arrivata a 32 anni e continua a crescere; quella in cui un uomo diventa padre è ancora più alta, sfiorando i 35.

Nelle generazioni precedenti, i figli si facevano prima e il successo professionale arrivava più tardi: ora le due cose coincidono, figli e successo giungono praticamente insieme, esercitando una pressione spesso insostenibile. "Ho scelto i figli e messo da parte la carriera", ammette l'ex-deputata Louise Mensch. "Se vado in crisi prenderò un sabbatico familiare ", ipotizza Marissa Meyer. "Riservo una sera alla settimana a una cena romantica con mia moglie e ogni week-end ai bambini", suggerisce come soluzione David Cameron.

Ma un rapporto di Relate, società di consulenze familiari, indica che disturbi psicologici come la solitudine, la depressione e la nevrosi sono più comuni nella fascia di età fra i 34 e i 45 anni. È anche il periodo in cui più facilmente si disintegrano le famiglie: in Gran Bretagna il più alto numero dei divorzi avviene entro tre anni dalla nascita dei figli. Non a caso il sondaggio nazionale sulla felicità promosso dal governo britannico ha riscontrato che la soddisfazione personale ha una punta intorno ai 20-25 anni, poi cala fra i 30 e i 45, per tornare a salire dopo i 50. La proverbiale "crisi di mezza età" esiste ancora, ma non colpisce più in quella che era considerata la mezza età, bensì prima: dai 35 in poi. I ruoli si capovolgono.

I 55 anni sono i "nuovi 45", affermano i sociologi: niente più ansia sul lavoro, figli finalmente grandi, voglia e possibilità di tornare a divertirsi. Guardati con invidia da quelli che 45 anni li hanno davvero. "Spent generation", generazione di scoppiati, li chiama il dottor Frank Lipman, autore di un libro con quel titolo sui 40enni esausti del giorno d'oggi. "La stanchezza di cui soffrono ha raggiunto livelli epidemici", afferma l'autore, che poi offre anche qualche ricetta per non sentirsi più così a pezzi: "Dormire di più. Fare una pausa di almeno 15 minuti per il lunche almeno una passeggiata all'aperto al giorno. Abolire caffè e zuccheri. Provare la yoga, la meditazione, qualsiasi cosa. Ma soprattutto rallentare". Facile a dirsi, per lui, che ha 55 anni, la carriera risolta e figli grandi. Più difficile se di anni ne hai 40, i tuoi dipendenti ti stanno fissando per ricevere gli ordini del giorno e poi devi correre a casa a preparare la pappa ai bebè.

Perché la grammatica può mettere d’accordo filosofia e neuroscienze - Le affinità tra Ruggero Bacone e Noam Chomsky. - Teorie del linguaggio simili al cielo stellato - Andrea Moro, 30 agosto 2012, http://www.corriere.it/

Ammettiamolo: tutti noi abbiamo una nostra teoria del linguaggio. Non è come in fisica o in chimica dove un certo timore reverenziale per la natura dei fenomeni osservati ci trattiene dal formulare spiegazioni avventate. Con il linguaggio, le cose vanno diversamente. Forse per il semplice fatto che tutti parliamo, forse per la grande facilità nell’ottenere dei dati, fatto sta che ci sentiamo autorizzati ad avere una «spiegazione» naturale di questo fenomeno. Questo stato di cose, inoltre, non caratterizza solo noi come individui ma anche la cultura dominante di un periodo storico, praticamente lungo tutto il percorso culturale della nostra civiltà. Il risultato è una sovrabbondanza unica nella storia del pensiero: praticamente ogni epoca, ogni cultura hanno espresso una teoria dominante sulla natura del linguaggio umano, a tal punto che seguendo lo sviluppo di queste riflessioni specifiche possiamo avere un campione dello «spirito del tempo», cioè della visione generale della realtà, come se la riflessione sul linguaggio costituisse una specie di «questione omerica» della storia dell’uomo. Il linguaggio è stato di volta in volta spiegato come fatto prevalentemente culturale, sociale, divino o biologico. Siamo certamente di fronte a una situazione speciale e non è facile capire cosa sappiamo oggi di più sul linguaggio umano rispetto al passato. Sempre che se ne sappia di più.

La situazione è simile a quella alla quale ci troviamo di fronte quando guardiamo un cielo stellato dove le stelle sono le opinioni che nel corso degli anni si sono formate sul linguaggio. Istintivamente, non possiamo fare a meno di congiungere tra loro le stelle che più risaltano: se non siamo particolarmente esperti, o comunque condizionati, ognuno di noi si costruisce le proprie costellazioni, alcune ovvie altre più ardite, altre implausibili. Ma il cielo notturno ha anche un’altra particolarità. Sappiamo infatti che non tutte le stelle che vediamo sono necessariamente ancora attive: la luce che ci arriva è una luce antica, che potrebbe essere ancora in viaggio quando la stella è già morta. Il cielo è dunque contemporaneamente simile a un museo di storia naturale e a uno zoo: accanto ad animali vivi vediamo l’impronta di quelli che non ci sono più. Dunque le nostre costellazioni non solo sono fondamentalmente arbitrarie, ma sono anche in qualche modo dei miraggi che possono anche essere fatti di fantasmi di stelle. Lo stesso accade per le teorie sul linguaggio. Ci sono tantissime opinioni: alcune attuali, altre decadute, altre ricorrenti; ma spesso non ce ne accorgiamo e anche per il linguaggio, come per il cielo stellato, ognuno si costruisce la costellazione preferita.



Xu Bing (1955), particolare dell’installazione «A book from the sky» (1987-1991), Pechino, China Art Gallery
Un esempio lampante di come le idee sul linguaggio possano essere difficili da interpretare e talvolta sorprendentemente ingannevoli è dato da questa citazione: «La grammatica è la stessa in tutte le lingue come conseguenza di ciò che la costituisce, anche se possono esserci variazioni accidentali». A che epoca corrisponde? Senza una data precisa, questo pensiero potrebbe benissimo essere attribuito a un linguista contemporaneo, di quelli che appartengono al filone inaugurato nella seconda metà del Novecento negli Stati Uniti da Noam Chomsky: da allora, infatti, sappiamo che, se facciamo astrazione dell’arbitrarietà con la quale si abbinano suoni e significati, la struttura delle lingue non può variare a piacimento, ma è vincolata dall’architettura neurobiologica del nostro cervello, del quale è espressione. Eppure il pensiero che sta alla base di questa citazione non si basa affatto su dati sperimentali ma è il frutto di una deduzione fondata su riflessioni filosofiche e, soprattutto, teologiche. Si tratta infatti di una frase tratta da un’opera di Ruggero Bacone, francescano, filosofo tanto famoso ed eccellente da meritarsi il titolo di «Doctor Mirabilis», attivo a Parigi verso la metà del Duecento. Secondo Bacone esiste una sola lingua perché la lingua rifletterebbe la struttura della realtà e, ovviamente, esiste una sola realtà. Secondo Chomsky, invece, esiste una sola lingua perché le lingue sarebbero espressioni di un progetto biologicamente determinato. Le regole di due lingue apparentemente diversissime sarebbero solo l’effetto macroscopico di alcuni (pochi) gradi di libertà microscopici delle quali sono dotate le lingue. Un fatto che stupisce senza dubbio, ma non di più di quanto stupisca il fatto che la differenza tra un maiale e una libellula sta nel numero e nella disposizione di quattro basi azotate lungo la catena del polimero di Dna. Due vie diversissime, dunque, quella neurobiologica e quella teologica, praticamente incommensurabili, eppure convergenti. Ma a seconda del percorso che si è fatto per arrivare alla stessa conclusione si aprono scenari diversissimi. Ad esempio, l’ipotesi biologica di Chomsky costituisce oggi di fatto la base teorica per la ricerca di tipo neurobiologico sul linguaggio, che sta dando risultati sorprendenti e, per certi versi, destabilizzanti.
Questo stato di cose, niente affatto isolato nel pensiero linguistico, ci costringe ad una riflessione inaspettata: nella scienza come altrove il percorso che porta ad una conclusione è decisivo quanto la conclusione stessa, perché è in base al percorso che decidiamo i passi successivi. E siccome la scienza è un percorso continuo, saranno i percorsi aperti da una teoria — le nuove domande, cioè — a qualificarne il valore non i punti d’arrivo. Come dire: non tutte le costellazioni che disegniamo sono utili per tracciare una rotta. La bontà della scelta si può alla fine misurare solo con la risposta della realtà; anche per il linguaggio umano.


Il fallimento della contraccezione: il caso inglese - Occorre cambiare metodo, partendo da una sana introduzione all’affettività e recupero di valori familiari -  30 agosto 2012 - http://www.uccronline.it

Troppi aborti tra le giovanissime? Un numero eccessivo di gravidanze indesiderate? No problem: basta promuovere più contraccezione e tutto si sistema. E’ più o meno questo il ragionamento che, ormai da molti anni, uomini delle istituzioni e talvolta anche celebri intellettuali propongono allorquando viene ricordato loro il problema mai risolto degli aborti tra donne anche molto giovani. Ora, posto che la gran parte delle pillole contraccettive – anche se taluni si ostinano a negarlo – sono potenzialmente abortive ed anche se numerosi studi hanno confutato questa credenza, riteniamo non ci sia lezione più autorevole di quella dei casi concreti. Prendiamo quindi, per stare all’attualità, il caso inglese.

Per chi non lo sapesse la Gran Bretagna è un Paese dove da alcuni anni – allarmati dal fenomeno abortivo tra le adolescenti e dal fatto che il numero complessivo delle interruzioni volontarie di gravidanza, anziché calare, abbia ripreso a salire – si è deciso di investire massicciamente nella diffusione di contraccettivi. Ebbene, con questo tipo di programma si è verificato un fatto totalmente inaspettato: le cose sono peggiorate.

Il numero degli aborti, anche se di poco, ha infatti continuato a crescere – nel 2011 sono stati 189.931, mentre nel 2010 furono 189.574 – ma soprattutto tra le giovanissime sono aumentati drammaticamente gli aborti multipli: nel 2010 in 485 hanno abortito per la terza volta, in 57 per la quarta, in 14 per la quinta, in 4 per la sesta e in 3 per la settima. Orbene, non occorre molto per capire che in un Paese dove quasi 500 adolescenti all’anno abortiscono per la terza volta è in corso un disastro educativo di immense proporzioni e, quel che è peggio, destinato a crescere.

Lo hanno confermato pochi giorni fa gli esiti di un’indagine condotta dalla società Insight Research Group, che ha intervistato donne e medici di famiglia rilevando come la crisi economica-finanziaria sia tra le cause dell’aumento degli aborti volontari. Ora, che fare? Come corrispondere al problema crescente delle gravidanze tra le adolescenti? E’ il caso di insistere con la promozione della contraccezione o si deve correre ai ripari organizzando corsi per mamme a ragazzine di 14 anni, come si è recentemente provveduto a fare nella contea di Merseyside?

La sola possibilità concreta sembra quella di voltare completamente pagina prendendo atto di una realtà: la politica contraccettiva è fallimentare contro gli aborti. Non serve. Anzi, ci sono studi che hanno messo in luce come un maggior accesso alla contraccezione, anche se nell’immediato può arginare i tassi di gravidanza e conseguentemente gli aborti, nel lungo periodo, a causa della mentalità sessualmente disinvolta che indirettamente incoraggia, finisce col favorire un aumento delle gravidanze. Un dato suffragato dal fatto che oltre la metà delle donne intenzionate ad abortire – secondo quanto emerso in alcune ricerche – in precedenza faceva regolare ricorso alla contraccezione.

La contraccezione come fallimento, dunque. Anche se la cosa sorprende assai poco, dal momento che costituisce una risposta inadeguata e materiale ad un problema (quello delle gravidanze tra giovanissime) sì reale ma anzitutto educativo. In tal senso è più che ragionevole ritenere che sostituendo la corrente apologia della contraccezione con una sana introduzione all’affettività e potenziando l’implementazione di interventi di gruppo che indirizzino il comportamento sessuale degli adolescenti, si possa effettivamente ridurre l’incidenza del fenomeno delle gravidanze indesiderate.

A questo punto però è opportuno chiedersi: saprà la cultura anglosassone riconoscere il proprio fallimento educativo? Sappiamo che più della metà dei genitori inglesi – verosimilmente delusi dai “successi” della cultura contraccettiva e consapevoli dei manifesti limiti della stessa – già ora non vuole che l’educazione sessuale venga insegnata ai bambini a scuola. Il fatto è che, per voltare pagina, occorre un ripensamento molto più trasversale, che coinvolga le istituzioni e che ricuperi con convinzione valori oggi impopolari quali la castità, la famiglia, la fedeltà coniugale. Insomma, per ripartire serve prima ammettere di aver sbagliato. Sapranno dunque i governanti inglesi fare questa coraggiosa ammissione oppure proseguiranno nell’attuale disastro?

Giuliano Guzzo
(www.giulianoguzzo.wordpress.com)

mercoledì 29 agosto 2012

No all'idea che esistano vite indegne, di Lucetta Scaraffia, 29 agosto 2012



Fioroni: "Attenti alla deriva eugenetica la vita non è un supermercato" - Intervista a Beppe Fioroni di Alberto Custodero - La Repubblica - di Giuseppe Fioroni,  pubblicato il 29 agosto 2012 http://www.partitodemocratico.it

«È appena il caso di ricordare che la legge 194 non sostiene da nessuna parte che sia consentito l'aborto del feto perché malato». Giuseppe Fioroni, leader cattolico del Pd - in attesa di conoscere le motivazioni, e senza entrare nel merito del ricorso-interviene sulla questione della compatibilità tra legge 40 e legge 194 sollevata dalla Corte di Strasburgo.

Fioroni, dovevamo aspettare l'Europa per consentire anche a chi è fertile l'accesso alla diagnosi preimpianto?

«Le linee guida del ministro Turco durante il governo Prodi avevano già introdotto l'utilizzo della tecnologia preimpianto, ma solo per finalità diagnostiche e terapeutiche sull'embrione stesso. Avevano escluso quelle tecnologie, invece, per i fmi " osservazionali", ovvero per quella forma di diagnosi che può portare a dire ai genitori: "Come lo volete il figlio, alto, occhi azzurri...?"».

Dopo la sentenza di Strasburgo, voterebbe ancora la legge 40?

«Sono sempre possibili miglioramenti normativi, come quelli fatti da Livia Turco. Ma i valori guida della legge erano validi ieri. E sono validi oggi».

Quali sono?

«La legge 40, emanata per garantire alle coppie sterili di poter ottenere una gravidanza, ha due obiettivi. Da una parte tutela il diritto dei genitori ad avere un figlio, e il soggetto debole, il nascituro, ad avere un solo padre o una sola madre (e questo fu il motivo per il "no" alla fecondazione eterologa). L'altro caposaldo era evitare che la fecondazione artificiale aprisse la strada a una selezione eugenetica in forza della quale il genitore sceglie il figlio che vuole e sopprime quello che non gli piace».

C'è però il problema sollevato da Strasburgo sulla compatibilità tra legge 40 e 194.

«La 194 non è una legge "neroniana" o figlia della "rupe tarpea": non autorizza, infatti, la soppressione di feti malati, ma prevede che si possa consentire l'aborto quando la salute fisica e mentale della madre è messa a repentaglio. Da questo punto di vista le due leggi mantengono la stessa impostazione di fondo: non consentono la soppressione della vita perché malata. E chiudono le porte al "supermercato della vita", e ai rischi delle sue derive eugenetiche e razziste. Mostruosità di cui la storia è piena».

Fonte: La Repubblica

LEGGE 40/ Gambino: non esiste un diritto a un figlio sano - INT. Alberto Gambino - mercoledì 29 agosto 2012 - http://www.ilsussidiario.net


Alberto Gambino, giurista ed esperto di bioetica, interviene sulla sentenza della Corte di Strasburgo che avrebbe rilevato una incoerenza nel nostro ordinamento tra due leggi, la legge 40 sulla procreazione assistita e la 194 sull’interruzione di gravidanza. I coniugi Rosetta Costa e Walter Pavan - che non hanno affatto esaurito i gradi di giudizio previsti dal nostro ordinamento - sono ricorsi a Strasburgo per poter accedere alla Fivet e avere così un figlio sano, pur essendo portatori sani di fibrosi cistica. In realtà la legge italiana consente l’accesso a queste tecniche solo alle coppie infertili, vietandolo a chi può avere figli per vie naturali.

Professore, che cosa è accaduto con quest’ultima sentenza della Corte di Strasburgo?

La Corte di Stasburgo, in fase di giudizio di prima istanza, dunque non definitivo e dunque con provvedimento impugnabile, avrebbe affermato (il condizionale è d’obbligo perché ancora non abbiamo il testo della decisione) che la legge 40 sulla procreazione assistita sarebbe in contrasto con la legge 194 sull’interruzione della gravidanza, in quanto quest’ultima consente di fare esami anche invasivi sul feto, come l’amniocentesi, al fine di valutare la presenza di certe malattie genetiche, mentre la legge 40 non consente di effettuare esami invasivi sull’embrione, come la cosiddetta diagnosi preimpianto, con la quale si prelevano alcune cellule per esaminarle.

La Corte ha bocciato dunque l’impossibilità di accedere alla diagnosi preimpianto. Quali conseguenze ha questa “bocciatura”? In che cosa si traduce dal punto di vista dell’accesso alle tecniche?

Intanto dobbiamo aspettare una decisione definitiva, poi se la tesi passasse significherebbe che coppie con queste problematiche potrebbero chiamare a loro supporto i principi applicati dai giudici di Strasburgo.

La Corte ha individuato una “incoerenza” nella normativa del nostro ordinamento. Ma allora, ben venga la sentenza della Corte europea: dobbiamo intervenire sulle nostre leggi. È così?

Ritengo che l’incoerenza non ci sia. La legge 194 consente diagnosi sul feto perché effettuate con tecniche aventi rischi ritenuti accettabili, mentre la legge 40 esclude tali diagnosi perché sottrarre una o due cellule da un embrione di poche cellule significa in diversi casi menomarne definitivamente l’integrità e provocarne la morte.

La Corte ha dato ragione a due coniugi che vogliono ricorrere alla Fivet per avere la garanzia di un figlio sano. Quali considerazioni suggerisce questo fatto? Esiste un diritto a un figlio sano?

Non esiste un diritto a un figlio sano, ma un interesse, un desiderio, che se assorto a diritto nella fase della vita nascente con rischi di imperfezioni, farebbe retrocedere l’essere umano a mero materiale biologico.

I giudici di Strasburgo nella sentenza hanno richiamato l’articolo 8 della Convenzione: “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare”. Che significa questo riferimento?
Non è la prima volta che questo articolo viene richiamato in un’accezione del tutto riduttiva, cioè come se la vita familiare fosse solo quella dei desideri e delle aspettative della coppia senza considerare la presenza e i diritti all’integrità fisica e allo sviluppo dei soggetti più fragili, come coloro che sono stati appena concepiti . Così il diritto alla vita privata e familiare finisce per trascurare indebitamente lo spessore giuridico di diritti e interessi di altri esseri umani che fanno parte della stessa famiglia.

Esiste la possibilità di una deriva eugenetica?

Sì, esiste certamente la possibilità di una deriva eugenetica se solo si riflette che proprio nel caso della fibrosi cistica che ha dato origine a questo caso, l’esito di tanti esami che danno un risultato infausto in realtà non implicano affatto che gli embrioni saranno malati, ma che, come i genitori, saranno portatori sani della patologia. È giusto eliminarli per questo? Allora la coerenza richiamata dalla Corte implicherebbe che venissero eliminati anche i genitori… Questa sarebbe selezione eugenetica aberrante. Perché, eliminare embrioni portatori sani come i genitori non è lo stesso?

Non è la prima volta che due ordinamenti, il nostro e quello europeo, entrano in conflitto.

Grazie al cielo non è un contrasto tra ordinamenti, ma n vaglio di coerenza circa leggi tutte italiane e trattandosi di interpretazioni, i giudici di Strasburgo possono sbagliare e non sarebbe la prima volta.




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