domenica 30 settembre 2012


GIORNATA PRO-ABORTO/ Sgreccia: un attacco alla ragione di tutti - sabato 29 settembre 2012 - http://www.ilsussidiario.net

Si chiama “Campagna internazionale in favore del diritto delle donne a un aborto sicuro e depenalizzato”, ed è stata lanciata attraverso il sito dell’iniziativa www.september28.org. Appunto per il 28 settembre ha organizzato una giornata mondiale cui hanno partecipato i movimenti abortisti di tutto il pianeta. La “Campagna Voglio Vivere” ha risposto con una mobilitazione dei suoi aderenti, invitandoli a denunciare l’offensiva delle lobby abortiste attraverso una e-mail ai principali quotidiani italiani. Ilsussidiario.net ha intervistato il cardinale Elio Sgreccia, esperto di bioetica di fama mondiale e presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita.

Cardinal Sgreccia, che cosa ne pensa della campagna di sensibilizzazione a favore dell’aborto?

La scienza stessa ha dimostrato che il valore del bambino prima della nascita, sul piano morale e reale, è lo stesso di una persona viva. La gravità della soppressione di un essere umano ancor prima del nascere è duplice: non solo è uguale a quella dell’omicidio, ma è anche più vile perché è fatta su un innocente, una persona che non si può difendere, il più debole dei deboli. C’è quindi un aggravamento dal punto di vista dell’entità morale del delitto.

La posizione della Chiesa nasce da motivazioni razionali o teologiche?

La posizione della Chiesa è stata supportata della scienza biologica e medica, da ragioni di ordine filosofico-razionale e dal diritto. La Bibbia del resto lega il feto all’opera di Dio, e quindi considera l’aborto in modo ancora più grave in quanto è un’offesa fatta a Dio. Sono considerazioni che possiamo depositare solo alle coscienze, e non possiamo imporre a nessuno, ma cerchiamo di potenziare attraverso la formazione di giovani e coppie sposate. Anche sul fronte del diritto ritengo che possano essere compiuti grandi passi avanti. Io stesso sono coinvolto nella pubblicazione di un’enciclopedia, intitolata “Bioetica e scienza giuridica”, per dare il giusto spessore anche nelle leggi alla vita umana fin dal concepimento.

Quale deve essere il ruolo della Chiesa nell’illuminare la politica sul tema della difesa del concepito?

La Chiesa non ha poteri politici né tantomeno coattivi. Fa appello alle coscienze, mobilita le persone, chiama a raccolta i professionisti della medicina, i genitori e i giuristi. Il Santo Padre Benedetto XVI di recente ha rivolto un appello a tutti i politici europei di ispirazione cristiana, riuniti a Roma, sulla presa di responsabilità perché anche nella legge sia praticabile per tutti la difesa della vita, e sia considerata uno dei diritti irrinunciabili. Occorre quindi che nelle normative non si affermi il diritto all’uccisione, bensì quello alla difesa di ogni vita concepita, prima e dopo la nascita e fino alla morte naturale.

A proposito, in Olanda nel 2011 c’è stato un picco dei casi di eutanasia aumentati di 559 unità rispetto al 2010. L’eutanasia, a differenza dell’aborto, riguarda persone consapevoli e consenzienti …

Non sempre, a volte la si esercita su chi ha perso la coscienza. Ma comunque è sempre la vita indebolita e meno apprezzata, in quanto grava economicamente sulla famiglia e sulla società. Per quanto riguarda l’Olanda, il cardinale e arcivescovo di Utrecht, Wim Eijk, ha pubblicato un documento in cui passa in rassegna quanto è avvenuto dall’approvazione della legge sull’eutanasia a oggi, mostrando come l’incremento dei casi è stato sempre costante. I confini della vita non devono essere infranti perché una volta oltrepassati non si riesce più a mettere un limite. E’ l’effetto del piano inclinato.

Può fare un esempio delle conseguenze di questo “piano inclinato”?

Inizialmente la legge olandese quantomeno su alcuni aspetti era molto rigorosa. Questa pratica era limitata ai casi in cui c’era il consenso dei medici, per gravissime sofferenze da parte del paziente. Poi progressivamente è stata estesa anche a chi non poteva esprimersi, ai più giovani e infine perfino ai bambini, che la legge dovrebbe proteggere anche nei confronti dei loro genitori. C’è stato un aggravarsi, uno slabbramento della legge che è andato nella direzione di una disistima sempre maggiore della vita. E’ come quando in una diga si produce una fessura che con il tempo e con la pressione si allarga. E’ la dimostrazione di quanto affermava Tommaso d’Aquino, secondo cui il bene deve rimanere intero, perché quando non lo è va perduto non solo in parte, ma completamente.

(Pietro Vernizzi)

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sabato 29 settembre 2012

Interventi di urgenza? Sono leciti anche se il paziente non intende





Nuovi studi: divorzio triplica il rischio di ictus, matrimonio allontana la povertà- Ricerche scientifiche confermano il giudizio del Catechismo cattolico - 28 settembre 2012 - http://www.uccronline.it

Uno studio pubblicato sul Journal of Stroke dimostra che gli uomini adulti che hanno sperimentato il divorzio dei genitori prima di aver compiuto 18 anni, presentano tre volte più probabilità di subire un ictus rispetto agli uomini i cui genitori sono rimasti assieme.

«Avevamo previsto che l’associazione tra l’esperienza infantile del divorzio dei genitori e ictus avrebbe comportato conseguenze rischiose per la salute o un minor stato socioeconomico» ha spiegato una delle autrici della ricerca, Angela Dalton. «Tuttavia, abbiamo fatto dei controlli statistici per la maggior parte dei fattori di rischio noti per l’ictus, tra cui l’età, la razza, reddito e istruzione, comportamenti di salute degli adulti (fumo, esercizio fisico, obesità, e alcool). Ma anche dopo queste regolazioni, il divorzio dei genitori era ancora associato con un triplice rischio di ictus tra i maschi». «E’ possibile che l’esposizione allo stress del divorzio dei genitori possa avere implicazioni biologiche che cambiano il modo in cui questi ragazzi reagiscono allo stress per il resto della loro vita», ha spiegato un altro ricercatore, Fuller-Thomson.

Rispetto alle donne questa indagine non ha segnalato modificazioni. Tuttavia esiste un ampio corpus di ricerche che mostra conseguenze fortemente negative anche per il genere femminile. Contemporaneamente uno studio realizzato dall’Heritage Foundation ha rivelato che crescere con genitori sposati aumenta notevolmente (82%) le prospettive di sfuggire alla povertà per i bambini. Gli autori hanno affermato: «Il matrimonio è di grande beneficio per i bambini, gli adulti e la società, ha bisogno di essere incoraggiato e rafforzato». Il Dailymail ha però fatto notare che negli Stati Uniti Legislatori negli Stati Uniti i legislatori sembrano più impegnati «a promuovere il matrimonio gay, invece di puntellare il tradizionale matrimonio eterosessuale a favore dei bambini».

Queste evidenze scientifiche vanno a dimostrare quanto dice il Catechismo della Chiesa Cattolica (riferito ovviamente ai matrimoni religiosi)  che ritiene il divorzio un atto immorale (dunque nemico della verità) poiché introduce anche disordine «nella cellula familiare e nella società. Tale disordine genera gravi danni: per il coniuge, che si trova abbandonato; per i figli, traumatizzati dalla separazione dei genitori, e sovente contesi tra questi; per il suo effetto contagioso, che lo rende una vera piaga sociale». Ovviamente nessuna responsabilità può essere attribuita al coniuge che sia «vittima innocente del divorzio pronunciato dalla legge civile», cioè clui che «si è sinceramente sforzato di rimanere fedele al sacramento del Matrimonio e si vede ingiustamente abbandonato».

Parental Divorce Linked to Stroke in Males - http://www.sciencedaily.com/
ScienceDaily (Sep. 13, 2012) — Men with divorced parents are significantly more likely to suffer a stroke than men from intact families, shows a new study from the University of Toronto.

The study, to be published this month in the International Journal of Stroke, shows that adult men who had experienced parental divorce before they turned 18are three times more likely to suffer a stroke than men whose parents did not divorce. Women from divorced families did not have a higher risk of stroke than women from intact families.

"The strong association we found for males between parental divorce and stroke is extremely concerning," says lead author Esme Fuller-Thomson, Sandra Rotman Chair at University of Toronto's Factor-Inwentash Faculty of Social Work and Department of Family and Community Medicine. "It is particularly perplexing in light of the fact we excluded from our study individuals who had been exposed to any form of family violence or parental addictions. We had anticipated that the association between the childhood experience of parental divorce and stroke may have been due to other factors such as riskier health behaviors or lower socioeconomic status among men whose parents had divorced," explains University of Toronto recent graduate and co-author Angela Dalton. "However, we controlled statistically for most of the known risk factors for stroke, including age, race, income and education, adult health behaviors (smoking, exercise, obesity, and alcohol use) social support, mental health status and health care coverage. Even after these adjustments, parental divorce was still associated with a threefold risk of stroke among males." Researchers cannot say with certainty why men from divorced families had triple the risk of stroke, but one possibility lies in the body's regulation of cortisol, a hormone associated with stress.

Fuller-Thomson explains the elevated rate of stroke could be linked to a process known as biological embedding. "It is possible that exposure to the stress of parental divorce may have biological implications that change the way these boys react to stress for the rest of their lives," says Fuller-Thomson.

As with all scientific research, it is essential for many researchers to replicate findings from this study in prospective studies before it is safe to draw any conclusions about causality. Fuller-Thomson notes that eventually, the results of this study could potentially affect current stroke education policy. "If these findings are replicated in other studies," says Fuller Thomson, "then perhaps health professionals will include information on a patient's parental divorce status to improve targeting of stroke prevention education."

Internationally, stroke and other cerebrovascular diseases account for 10 per cent of deaths, making stroke the second leading cause of death.

venerdì 28 settembre 2012


ORA DI RELIGIONE/ Da Profumo una proposta "nichilista" che fa male a tutti - martedì 25 settembre 2012 - http://www.ilsussidiario.net

ORA DI RELIGIONE - “Credo che l’insegnamento della religione nelle scuole così come è concepito oggi non abbia più molto senso. Nelle nostre classi il numero degli studenti stranieri e, spesso, non di religione cattolica tocca il trenta per cento”. Così il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo che, con questa proposta, ha manifestato la necessità di adeguare i programmi scolastici ad una scuola sempre più multiculturale. “Sarebbe meglio adattare l’ora di religione - ha precisato ancora Profumo - trasformandola in un corso di storia delle religioni o di etica”. Dalla Santa Sede sino ai cattolici di entrambi gli schieramenti si è levato un coro compatto di di protesta. Sul tema IlSussidiario.net ha raccolto l’opinione del filosofo Costantino Esposito.

Professore, il ministro Profumo afferma che l’insegnamento della religione va ripensato “perché la scuola è ormai multietnica”. Come valuta questa affermazione?

Il ministro Profumo dà come l’impressione di non sapere esattamente di cosa stia parlando citando, fra l’altro, cifre non corrette: la percentuale degli alunni stranieri nelle scuole italiane non è del 30% ma è ben inferiore, ed è circa il 10%. Fra l’altro, Profumo non considera un dettato di legge normato dal Concordato, quindi, un vero e proprio accordo istituzionale. Tuttavia, attraverso questo suo intervento un po’ approssimativo, ci permette di chiederci quale sia la vera emergenza, il problema di fondo nella scuola multietnica. E a me pare che tale problema, molto più che l’individuazione di strategie pedagogiche o istituzionali per integrare chi proviene da altre culture sia quello di non sapere più noi qual è la nostra identità culturale e storica. Non sappiamo più a chi e a cosa apparteniamo, anzi sembra che bisogna liberarsi da questa domanda per poter essere “aperti”. Questo è il punto: come facciamo ad aprirci agli altri se non ci “siamo” noi?

È attraverso il cambiamento dell’ora di religione che noi possiamo ritrovare questa identità?

Un dato di fatto è chiaro: per noi Italiani, l’appartenenza culturale e religiosa non è più un dato scontato. Ha perso la sua evidenza e il suo fascino, e resta magari solo come l’ispirazione di un dovere morale, il progetto di un’etica sociale ridotta alle regole della correttezza pubblica e ai princìpi di comportamento di un uomo che, di fatto, non c’è. Ed è per questo che la posta in gioco, all’interno della scuola multietnica, non è innanzitutto l’armonizzazione delle diverse culture (che semmai è una conseguenza), ma la riscoperta della nostra identità, non solo in senso culturale-religioso, ma più radicalmente in senso “personale”. L’identità o si gioca nella “domanda” su chi siamo e cosa vogliamo davvero dalla vita, oggi, oppure resta un residuo reazionario del passato. E difatti per molti ragazzi non si tratta neanche di una riscoperta, ma della prima occasione per porsi certe domande sul senso delle cose e di sé. Da questo punto di vista, l’ora di religione è uno strumento molto interessante: non tanto come difesa dell’Italia cattolica o come conservazione di una “bene culturale” della tradizione, ma come un’occasione per tutti, anche per chi non è cristiano, per mettere in questione sé stessi.

Qual è secondo lei il significato dell’ora di religione oggi?

Grazie ad essa si riaprono tre partite fondamentali tipiche del cristianesimo, e direi particolarmente del cattolicesimo: primo, esso è una religione della ragione e del logos, non della cieca obbedienza ad un destino impersonale o dell’emozione di un sentimento puramente interiore. Secondo, è l’esperienza in cui viene esaltata l’idea della coscienza individuale e, quindi, della libertà e della dignità dell’uomo come “persona”. Terzo, nel cristianesimo è possibile esercitare quella critica all’idolatria, che mette in questione tutte le ideologie totalizzanti e il loro progetto riduttivo (e spesso distruttivo) della vita degli uomini. E aggiungere un quarto punto: nell’esperienza cristiana, che in questo è la grande erede dell’ebraismo, è nata la concezione della “storia” come l’avventura degli uomini che di epoca in epoca sono stati portati avanti dal riconoscere e dal perseguire un significato, un “senso”. Solo grazie a questo significato ideale il tempo può diventare lo spazio della costruttività personale e della possibile condivisione dei bisogni nella società. L’alternativa è ritornare al cieco fato pre-cristiano (o post-cristiano) in cui l’unico “senso”, l’unica “direzione” della vita degli uomini è quella della morte, e in vita quello della continua lotta per la sopravvivenza, come tra i lupi. Per tutti questi punti, ritengo che valga la pena dedicare un’ora all’insegnamento della religione cattolica.

Come valuta, invece, l’idea espressa da Profumo che un programma scolastico “si debba adeguare” ai tempi?

Penso che oggi, “adeguarsi ai tempi” significhi comprendere i veri motivi per cui siamo al mondo, cercando di capire e prima ancora di conoscere la nostra storia e la nostra tradizione, ormai oggetti ignoti, come degli “Ufo”. Solo dopo aver davvero compreso questo, e solo grazie a questo sarà possibile aprirsi veramente e accogliere effettivamente gli altri. Non per dovere sociale ma per un bisogno. “Noi” abbiamo bisogno di “loro”, per essere noi stessi. L’incomprensione di sé o il rifiuto della propria storia porta ad un assoluto relativismo antropologico-religioso che produrrebbe un’ideologia nichilista, dove non c’è un senso condivisibile per cui vale la pena vivere e stare insieme: così, accontentandosi di un corretto e generico “diamo spazio a tutti” si ammetterebbe in fondo l’insensatezza di ognuno. Uno dei punti più interessanti del cristianesimo è quello di spingere tutti a chiedersi le ragioni ultime della propria esperienza. Questo spiega il motivo per cui le scuole cattoliche, in tutto il mondo, sono tra le più ambìte e frequentate: perché offrono un’educazione e un’esperienza religiosa e storica che portano alla razionalità e alla coscienza individuale e alla critica.

Profumo afferma ancora: “sarebbe meglio adattare l’ora di religione trasformandola in un corso di storia delle religioni o di etica”. Può spiegare i presupposti impliciti in questa affermazione?

Questa affermazione mi ricorda l’intervista rilasciata dal ministro all’educazione francese Francois Fillon al quotidiano Le Journal du Dimanche in cui si diceva che occorre istituzionalizzare in tutte le scuole d’Oltralpe un’ora di morale laica, in cui inculcare nei giovani allievi i principi dell’uguaglianza e della libertà. Dal mio punto di vista, si tratta di concetti un po’ astratti e vetero-illuministi, ripresi da Rousseau, il quale sosteneva che è lo Stato a dover determinare la morale e finanche la “natura” dei propri cittadini. Non credo che tutto ciò sia una risposta reale al bisogno delle nuove generazioni italiane e straniere. Ciò di cui abbiamo veramente bisogno non sono principi universali, ma di porre in atto un’esperienza in cui ciascuno, cattolico, indù o musulmano, possa riconoscere aspettative, esigenze e domande ultime sulla realtà che realmente accomunano tutti gli uomini. Insomma, un “universale concreto”, guadagnato nell’esperienza storica di ciascuno. La grandezza della religione cristiana sta nella sfida che Cristo pone a tutti quando domanda: Ma tu, che cosa cerchi? Che cosa ami? Per cosa spenderesti la vita? L’ora di religione non è affatto un problema di proselitismo (sarebbe avvilente per il cristianesimo stesso!), ma la possibilità di riflettere su una domanda che, ormai, non pone più nessuno a nessuno.

Il ministro, da diversi mesi, batte il tasto della modernizzazione della scuola e della docenza a suon di nuove tecnologie, tablet e pc. Quali considerazioni le suggerisce questo fatto?

Tutti questi strumenti sono fantastici perché permettono l’attivazione di nuovi progetti di apprendimento. La scuola, però, non deve solo insegnare ad usare il tablet per accedere al mondo ma deve far emergere un soggetto che sappia usarlo in modo cosciente. La capacità critica dello studente è la vera modernità, non lo strumento che usa. E se la nostra “consistenza” critica ha come prototipo questa competenza, beh, allora è una consistenza a scadenza breve, che tra un anno sarà già superata da un altro “modello”. Quello che decide il mercato.

(Federica Ghizzardi)

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Adozioni - Quei 5.000 figli e la ricerca delle origini






«Adozioni ai gay? Figli disturbati» - Bice Benvenuti - 28 settembre 2012 - http://www.avvenire.it

Basta con le banalità e le facili semplificazioni a proposito delle adozioni agli omosessuali. La confusione mediatica di questi giorni, anche causate delle dichiarazioni del sindaco di Milano Pisapia, poi in parte smentite, rischiano di diffondere «informazioni superficiali e fuorvianti».

L’allarme arriva dal  presidente della Società italiana di pediatria preventiva e sociale (Sipps) «Siamo preoccupati perché i media parlano dell’argomento con troppa leggerezza. Invece l’argomento – osserva il presidente Giuseppe Di Mauro – è molto delicato e andrebbe valutato con maggiore rigore scientifico, soprattutto per le ripercussioni che comporta sulla crescita e lo sviluppo del bambino».

Gli studi sulle coppie omosessuali che hanno adottato bambini – nei Paesi dove esiste questa possibilità – sono numerosi ma la maggior parte, su campioni piccoli e non rappresentativi, sono stati realizzati con la finalità dichiarata di sostenere liceità e opportunità delle unioni gay.

I dati a cui di solito fanno riferimento i sostenitori delle adozioni omosessuali sono quelli relativi a 59 piccoli studi analizzati nel 2004 dall’American psychological association (Apa) da cui risulta che i figli di genitori gay o lesbiche non sono svantaggiati rispetto a quelli di coppie eterosessuali. Si tralascia però di riferire che questo studio è stato successivamente screditato da una buona parte della comunità scientifica e dall’ex presidente della stessa Società Scientifica.

Infatti, proprio a luglio di quest’anno, lo studio di Loren Marks pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica "Social science research" ne ha dimostrato l’invalidità: la ricercatrice della Lousiana State University ha analizzato i 59 studi citati dall’Apa, dimostrando che questi mancano di un campionamento omogeneo e di gruppi di confronto e mostrano molte lacune: dati contraddittori, mancanza di anonimato dei partecipanti alla ricerca, portata limitata degli esiti dei bambini studiati, scarsità di dati sul lungo termine. La conclusione, secondo Loren Marks, è che le affermazioni dell’Apa non sono  giustificate. Successivamente, è stato proprio l’ex presidente dell’American psychological association, lo psicologo Nicholas Cummings, a prendere le distanze dallo studio:«L’Apa ha permesso che la correttezza politica trionfasse sulla scienza, sulla conoscenza clinica e sull’integrità professionale».

L’unico studio che ha attualmente una riconosciuta validità è quello del sociologo dell’Università del Texas Mark Regnerus. Pubblicato nel 2012, il testo vanta un impianto metodologico inedito quantitativamente e qualitativamente, sia perché si basa sul più grande campione rappresentativo raccolto sul tema (12.000), sia perché per la prima volta fa parlare direttamente i "figli" (ormai cresciuti) di genitori omosessuali, dimostrando che il 12% pensa al suicidio (contro il 5% dei figli di coppie etero), il 40% (contro il 13%) è più propenso al tradimento, il 28% è disoccupato (contro l’8%), il 19% ricorre alla psicoterapia (contro l’8%).

Inoltre i ragazzi che vivono con genitori gay sono più spesso seguiti dall’assistenza sociale rispetto ai coetanei cresciuti da coppie eterosessuali sposate. Nel 40% dei casi hanno contratto una patologia trasmissibile sessualmente (contro l’8%) e inoltre sono genericamente meno sani, più poveri, più inclini al fumo e alla criminalità.

«I bambini – conclude Di Mauro – hanno una grande capacità di adattamento, tuttavia, sulla base della letteratura scientifica disponibile, vivono meglio quando trascorrono l’intera infanzia con i loro padri e madri biologici, sposati e specialmente quando l’unione dei genitori rimane stabile a lungo».

Addio medici, c'é l'algoritmo


Ufficiale & cervellone






Se la laicità diventa figlia della secolarizzazione





40 GIORNI "COAST TO COAST" A FAVORE DELLA VITA - È partita ieri in 316 città del mondo la campagna comunitaria di impegno sociale che focalizza l'attenzione sul male dell'aborto al fine di fermarlo di Elisabetta Pittino

ZI12092723 - 27/09/2012
Permalink: http://www.zenit.org/article-32840?l=italian

ROMA, giovedì, 27 settembre 2012 (ZENIT.org) – È partita ieri, mercoledì 26 settembre, la 5° edizione di 40 Days for Life (http://40daysforlife.com), 40 giorni per la vita, una campagna pro-vita che si svolge in 316 città di USA, Canada, Sud America, Australia, Europa e Uganda, fino al 4 novembre 2012.
40 Days for Life è la mobilitazione coordinata pro-life più diffusa e duratura  di tutta la storia, secondo gli organizzatori. La prima campagna del 2007 contava 89 città degli Stati Uniti. Da allora la mobilitazione ha coinvolto persone “di fede e di coscienza” in 440 città nel mondo, dove hanno avuto luogo circa 1894 campagne individuali.
Una campagna che ha sempre registrato grandi numeri: più di 525mila persone si sono riunite per pregare e digiunare con l’intento di far cessare gli aborti. Oltre 15 mila congregazioni e Chiese hanno partecipato alle campagne di questi anni. Finora ben 5.928 bambini sono stati salvati dall’aborto grazie ai quaranta giorni. Sessantanove “abortion workers” - persone che lavoravano per l’aborto - hanno lasciato il loro lavoro e in generale “la fabbrica degli aborti”. Ventiquattro abortion facilities, centri per l’aborto dell’ IPPF, hanno chiuso i battenti.
Inoltre, centinaia di donne e uomini sono stati risparmiati dalle tragiche sofferenze dell’aborto e circa 2100 nuove esperienze sono state presentate su giornali, riviste, radio e tv in Usa e oltre. I frutti ci sono insomma. Molte persone con esperienze abortive hanno iniziato un percorso di cura per il post aborto grazie a questo evento.
Ma più nello specifico, cos’è “40 Days for Life”? È una campagna comunitaria di impegno sociale che focalizza l’attenzione sul male dell’aborto con il fine di fermarlo, attraverso un programma in tre punti: preghiera, digiuno, veglie itineranti davanti alle cliniche o agli ospedali dove si procurano gli aborti. In particolare, essa ha l’intenzione di mostrare, in maniera pacifica, alle comunità locali, le conseguenze dell’aborto sul loro territorio, per amici e famiglie.
“I 40 giorni sono ispirati dalla storia biblica, dove Dio usa il periodo di 40 giorni o anni per trasformare individui, comunità, il mondo intero” dichiarano gli organizzatori. “Da Noè nel diluvio, a Mosé sul monte, a Gesù nel deserto, è chiaro che Dio vede il valore trasformativo per il suo popolo della sfida dei 40 giorni” aggiungono.
I 40 giorni di campagna sono gestiti da volontari locali delle città coinvolte. Un piccolo ufficio locale coordina le comunicazioni, provvede al traininge ad altre risorse per i volontari. L’obiettivo è di raggiungere uno spirito di unità, mediante Cristo, attraverso preghiera, digiuno e attivismo pacifico con l’intento di far passare le menti e i cuori delle persone da una cultura di morte ad una cultura della vita.
“Il Signore ci ha detto che alcuni demoni possono essere scacciati solo con la preghiera e il digiuno - dicono gli organizzatori -. Il digiuno è una forma di preghiera fisica. Si può digiunare dal cibo, dalla TV, dall’alcool, da ogni cosa che ti separa da Dio. È, dunque, un modo di dare testimonianza”.
La componente più visibile della campagna sono le costanti veglie di preghiera fuori  dalle cliniche abortive. Gli organizzatori sperano che esse possano continuare per 24 ore al giorno durante l’intero periodo di campagna.
Ha poi un notevole rilievo l’attività sociale svolta durante i 40 Days: il messaggio pro vita è portato alle comunità locali attraverso iniziative educative mirate. Il lavoro porta a porta raggiunge tante persone e i volantini informativi riescono ad accrescere la consapevolezza di che cosa sia l’aborto. Il coinvolgimento della Chiesa, dei media e dei campus è poi fondamentale per la riuscita dell’evento.
“Dopo tanti anni di aborto legalizzato, molte persone di fede stanno facendo esperienza di un rinnovato senso di speranza!” concludono gli organizzatori, ripetendo infine entusiasti lo slogan dei 40 Days for Life: “Prega per porre fine all’aborto!”

J'ACCUSE/ Magdi Allam: Parigi farà dell'Europa una colonia dell'Islam - venerdì 28 settembre 2012 - http://www.ilsussidiario.net

I predicatori di odio e i fondamentalisti islamici verranno cacciati con intransigenza dalla Francia. Il ministro dell’Interno Manuel Valls lo ha dichiarato a Strasburgo, in occasione dell’inaugurazione della Grande Moschea, dotata della più ampia sala di preghiera musulmana del Paese.  Dopo i disordini seguiti all'uscita del film Innocence of Muslims, condannato con violenza dal mondo musulmano, il ministro transalpino ha annunciato che non esiterà a “far espellere coloro che si dichiarano dell'islam e rappresentano una minaccia grave per l'ordine pubblico” e che non rispettano la “legge e i valori” della Repubblica francese. Tale dichiarazione avviene inoltre pochi giorni dopo le rivelazione di Libération, secondo cui il governo francese avrebbe accettato l’istituzione di un fondo speciale del Qatar volto alla riqualificazione delle banlieue delle maggiori città francesi. Un’operazione controversa che porterebbe il ricco emirato affacciato sul Golfo persico ad avere tantissime proprietà in Francia, dal Paris Saint-Germain fino ai lussuosi alberghi di Parigi e della Costa azzurra. A Magdi Cristiano Allam, eurodeputato e presidente del movimento politico “Io amo l’Italia”, IlSussidiario.net ha chiesto un commento su ciò che sta avvenendo in Francia.

Come giudica le parole del ministro dell’Interno francese?

Mi sembra ovvia la necessità di sanzionare coloro che assumono atteggiamenti violenti e che perseguono il terrorismo. Proprio per questo un'affermazione del genere appare fin troppo scontata.

Come possono essere spiegate allora queste parole?

Il fatto che il ministro francese sia intervenuto proprio nel corso dell’inaugurazione della Grande Moschea di Strasburgo ha un significato che evidentemente sfugge a molti: se, come è ovvio, non tutti i musulmani sono dei terroristi, è però vero che tutti i terroristi hanno ricevuto il lavaggio del cervello all’interno delle moschee. Questi luoghi sono di per sé una realtà problematica proprio perché la problematicità è insita nell’islam, in quello che è scritto nel Corano e in quello che ha detto e ha fatto Maometto.

Cosa dovrebbe fare dunque l’Europa?

In Europa, nell’assoluto rispetto di tutti i musulmani che, come qualsiasi altra persona, godono di quei diritti e di quei doveri che valgono indistintamente per tutti, dobbiamo avere il coraggio di dire una volta per tutte che l’islam non è affatto una religione pari all’ebraismo e al cristianesimo, oppure che Gesù Cristo e Maometto sono la stessa cosa. Fin quando non avremo la consapevolezza di questa verità e il coraggio di affermarla in libertà, continueremo a prenderci in giro.

Cosa pensa invece del fondo speciale del Qatar per le banlieue francesi?

Siamo di fronte alla svendita della nostra sovranità. E' indubbio che le banlieue parigine rappresentino realtà degradate e in parte islamizzate: basti pensare che persino molte ragazze francesi non musulmane preferiscono, nel tratto che va dalla propria abitazione alla metropolitana, indossare il velo pur di non avere problemi con gli islamici. Il fatto che la Francia abbia accolto la disponibilità del Qatar a investire una cifra stimata in cento milioni di euro per la riqualificazione di aree popolate da musulmani rappresenta una reale abdicazione della nostra sovranità e una implicita ammissione che ogni valore è secondari rispetto al denaro. E’ un pessimo segno di questa Europa relativista e materialista che idolatra la moneta e che al tempo stesso è oramai è andata oltre l’essere islamicamente corretta. E’ un’Europa che, di fatto, è pronta a farsi sottomettere dall’Islam.    

Come potrebbe cambiare la Francia nel caso in cui questa riqualificazione avvenisse davvero?

Indubbiamente avremmo un territorio francese totalmente islamizzato che obbedirà alle direttive di una realtà che non è soltanto, in quanto islamica, lontana dai nostri valori, ma che sarà addirittura esterna alla Francia, straniera. A mio giudizio è una vera follia, ma evidentemente dobbiamo cominciare ad aprire gli occhi.

Cosa intende?

Intendo dire che in ambiti diversi, come quello strettamente finanziario ed economico, assistiamo già a forme di colonizzazione islamica che ci impongono delle scelte che vanno a ledere i nostri diritti fondamentali. Forse questo atto, questa presenza così palese in un ambito pubblico come quello della ricostruzione dei quartieri, ci costringerà ad aprire maggiormente gli occhi.

(Claudio Perlini)

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giovedì 27 settembre 2012


Simposio medico di Dublino: «l’aborto non serve per salvare la vita della donna» - Valorizzato positivamente il divieto di aborto presente in Irlanda - 27 settembre 2012 - http://www.uccronline.it

In Irlanda l’interruzione della gravidanza è illegale a meno che non sia in pericolo la vita della madre. La Costituzione irlandese, infatti, all’art. 40, terzo comma, afferma: “Lo Stato riconosce il diritto alla vita del bambino non nato e, con la dovuta considerazione per il pari diritto alla vita della madre, garantisce nelle sue leggi il rispetto, e nella misura del possibile, tramite le sue leggi, la difesa e la rivendicazione di tale diritto”. Tuttavia in un Simposio Internazionale sulla Salute materna, che si è svolto in questi giorni a Dublino, si è concluso che «l’aborto non è medicalmente necessario per salvare la vita di una madre».

Il simposio è stato organizzato dal “Committee for Excellence in Maternal Healthcare” presieduto da Eamon O’Dwyer, professore emerito di ostetricia e ginecologia presso la National University of Ireland (NUI), ed ha visto la partecipazione dei principali esperti del settore medico, ginecologi, psicologi e biologi molecolari.

Il prof O’Dwyer ha quindi formalmente approvato il comunicato ufficiale nel quale viene appurato che: «in qualità di professionisti esperti e ricercatori in ostetricia e ginecologia, affermiamo che l’aborto diretto non è medicalmente necessario per salvare la vita di una donna. Noi sosteniamo che esiste una differenza fondamentale tra l’aborto e i trattamenti medici necessari che si svolgono per salvare la vita della madre. Noi confermiamo che il divieto di aborto non influisce in alcun modo sulla disponibilità di fornire cure ottimali per le donne in stato di gravidanza».

L’Irlanda è da mesi sotto pressione da parte dell’Europa perché modifichi le sue leggi contrarie all’aborto, nonostante la Corte Europea dei diritti dell’uomo nel 2010 abbia stabilito che non esiste un “diritto umano all’aborto” ricavabile dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani e, pertanto, il divieto costituzionale irlandese di abortire non viola la Convenzione. Il dottor Eoghan de Faoite, membro del comitato organizzatore del simposio, ha dichiarato: «Questo simposio mette fine al falso argomento che l’Irlanda abbia bisogno dell’aborto, ed è stato incoraggiante ascoltare i relatori internazionali descrivere l’Irlanda secondo standard elevati di assistenza sanitaria materna e un basso tasso di mortalità materna». Effettivamente,  secondo l’UNICEF, la nazione irlandese -in cui l’aborto è illegale- vanta costantemente uno dei più bassi tassi di mortalità materna nel mondo (al primo posto nel 2005, e al terzo posto nel 2008).

Lo psichiatra Sean Ó Domhnaill, consulente medico di “Life Institute”, ente pro-life, ha accolto positivamente i risultati del simposio: «La dichiarazione di Dublino afferma che l’aborto non è medicalmente necessario, è un dato di fatto accettato da parte di esperti medici. Questo è un risultato significativo a livello mondiale, dimostra che l’aborto non ha posto nel trattamento sanitario delle donne e dei loro bambini non ancora nati». Effettivamente, dunque, crolla l’argomento più gettonato dei sostenitori dell’aborto, anche perché -come abbiamo già avuto modo di rivelare- recenti studi hanno stabilito che i paesi in cui l’aborto è illegale o soggetto a rigorose restrizioni (come l’Irlanda e il Cile) godono di bassi tassi di mortalità materna.

Nel 2011 i dati del Dipartimento Britannico per la Salute hanno anche dimostrato un’ulteriore riduzione del numero di donne irlandesi che si recano in Gran Bretagna per abortire. Una recente indagine ha inoltre evidenziato che il 70 per cento dei cittadini irlandesi sostengono la protezione costituzionale per la vita nascente, compreso il divieto di aborto.

Cannabis terapeutica l’inutile tentazione di Francesca Lozito, Avvenire, 27 settembre 2012

No all’uso terapeutico ordinario dei derivati chimici della cannabis. Non usa mezzi termini Silvio Garattini, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano, per affermare che far passare per legge, come sta avvenendo in alcune regioni italiane l’autorizzazione all’uso dei tetracannabinoidi in ambito ospedaliero, e a carico del Servizio sanitario, è un azzardo. «Sulla tossicità di questi farmaci e dunque sugli effetti collaterali occorre ancora fare molti studi» dice lo scienziato. La prima regione a legiferare per dare il via libera all’importazione, per lo più attualmente dal nord Europa, dei derivati chimici della cannabis è stata la Toscana, in maggio. Poi, poche settimane dopo, è stata la volta della Liguria, nei giorni scorsi ha dato luce verde il Veneto. Disegni di legge e ordini del giorno sono stati depositati e presentati dai radicali e dal centro sinistra in altre regioni, come il Lazio (che ora però si ritrova con il consiglio regionale decaduto) e il Friuli-Venezia Giulia da poche settimane. Un anno fa fece scalpore la sperimentazione con cui l’ospedale di Casarano, in provincia di Lecce, partì con la somministrazione di questi farmaci a pazienti affetti da sclerosi multipla o da malattie inguaribili.
Studi internazionali fanno da supporto ai dubbi di Garattini: secondo Cns drugs di marzo proprio sulla sclerosi multipla non ci sarebbero benefici evidenti in conseguenza all’uso dei cannabinoidi, e non si tratta del solo dubbio che viene dalla comunità scientifica internazionale. C’è poi il capitolo dei costi, non da poco in tempi di spending review, se rapportati poi agli effettivi benefici sul malato non ancora dimostrati a livello scientifico. In rete si trova la delibera di un altro ospedale pugliese, quello di Monopoli, che per 135 grammi di Bedrocan, sostanza olandese autorizzata dal Ministero della Salute, per l’importazione ha tirato fuori 1200 euro. «Non ci sono studi comparativi – dice ancora Garattini – che dimostrino come i cannabinoidi siano migliori dei farmaci già in commercio». Solo per fare un esempio, una terapia con 28 compresse di ossicodone, farmaco antidolore, costa non più di 17 euro. 

Quando il giudice si sostituisce al medico



Anfaa e "Famiglie per l’accoglienza": la segretezza serve a proteggere il bambino dal rischio di non nascere - "Genitori si diventa": occorre bilanciare i diritti, si possono trovare delle vie di mezzo ad esempio accorciando il limite dei 100 anni per avere informazioni DI Antonella Mariani, Avvenire, 27 settembre 2012

Due diritti che si scontrano: quello di un figlio adottivo a conoscere la verità sul suo abbandono e quello di una madre che ha chiesto, nel dare alla luce un bambino, che su quel giorno cadesse una pietra tombale. Il piatto della bilancia, per la legge italiana, pende a favore della madre. Un errore, secondo la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. La condanna inflitta all’Italia, che comunque può essere oggetto di ricorso, mette in discussione uno dei capisaldi del parto in anonimato, cioè la segretezza perpetua. «Questa normativa, in vigore da decenni e che riguarda solo i figli nati fuori dal matrimonio – osserva Alda Vanoni, ex presidente di "Famiglie per l’accoglienza", madre adottiva e magistrato in pensione – grazie alla segretezza del parto vuole scoraggiare l’aborto, l’abbandono in strada dei neonati o, peggio ancora, l’infanticidio». Solo la Francia, in Europa, tutela la madre in questo modo, ma Oltralpe c’è la possibilità per un figlio di chiedere una deroga al Tribunale. In Germania non esistono analoghi paletti, ma per arginare gli abbandoni e gli aborti sono state installate numerose "culle per la vita".  La "rigidità" italiana (commi 5-8 della legge 184 del 1983) ha ancora un senso? «Certo. Essa protegge il bambino perché gli permette di nascere e di avere una famiglia». Ma secondo la Corte di Strasburgo c’è un conflitto con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, laddove D stabilisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare di un individuo. «L’unico problema potrebbe nascere dalla mancata conoscenza delle vicende sanitarie della famiglia biologica per eventuali percorsi di malattia», risponde Alda Vanoni. Secondo la Corte di Strasburgo l’Italia non ha cercato «un giusto equilibrio tra gli interessi in gioco». In Parlamento giacciono diverse proposte di legge che riguardano il "parto segreto", tutte rivolte a rafforzare i sostegni e le tutele di riservatezza della madri. Altre proposte, che riguardano la "ricerca delle origini degli adottati", chiedono invece di ammorbidire la normativa, in particolare accorciando il termine di 100 anni per accedere ai fascicoli delle madri che non hanno riconosciuto il figlio alla nascita. Un dibattito che non esiste per Donata Nova Micucci, presidente della storica "Associazione famiglie affidatarie e adottive" (Anfaa). «Per noi il parto in anonimato, con la certezza per la madre di non essere mai più contattate, significa ridurre gli abbandoni, gli aborti e gli infanticidi e aumentare la possibilità che figli non voluti nascano ben assistiti negli ospedali». Ma questo, sostiene la Corte di Strasburgo, viola il diritto del figlio a conoscere la sua storia... «Per noi la storia di un figlio non è legata al volto di chi lo ha messo al mondo ma di chi lo ha cresciuto e amato». Quanto ai casi di malattie genetiche sulle quali è necessario indagare nella genealogia, secondo Donata Nova Micucci i tribunali possono comunque contattare la "madre segreta" per ottenere le informazioni necessarie.  Più possibilista e aperta a un confronto è Anna Guerrieri, presidente di "Genitori si diventa", un’associazione di famiglie adottive. «Penso che sia venuto il momento per discutere su una nuova proposta di legge, naturalmente soppesando i pro e i contro. Nella normativa italiana vengono a scontrarsi due diritti e viene fatto prevalere quello della madre a restare anonima. Ciò è discriminatorio se pensiamo al caso di figli adottivi stranieri, che invece entrano in possesso dell’intero fascicolo sui genitori biologici anche in tenera età. Io credo invece che bisogna riconoscere come fondamentale il diritto della persona adottata ad accedere ad alcune informazioni di base su se stesso, ad esempio come e perché è avvenuto l’abbandono, lo stato di salute di padre e madre biologici». Non si nasconde, la Guerrieri, che cancellare la segretezza del parto potrebbe mettere a rischio la nascita di tanti bambini, ma «credo che si possano trovare vie di mezzo, strumenti legislativi intermedi, come tempi abbreviati rispetto ai 100 anni previsti, modalità "soft" di contatto della madre». Il dibattito è aperto.
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Cureremo l'Alzheimer 25 anni prima di ammalarci




Una legge bestiale





Le cavie «avatar» per cure su misura - La nuova tecnica: cellule malate trasferite dal paziente al topo Per testare i medicinali migliori per i pazienti malati di cancro, Massimo Gaggi, 27 settembre 2012, http://www.corriere.it

Una cavia da laboratorio (Reuters)
NEW YORK - «Presto, con la medicina personalizzata, curarsi sarà come andare al supermercato. Anzi, potremo farlo andando a comprare cibo e detersivi. Entri e lasci una goccia di sangue o un campione di saliva su uno strumento tipo Blackberry e alla fine, quando esci col carrello pieno, ti danno anche una busta di medicine personalizzate per i tuoi malanni del momento». Nel 2008, quando fece questa previsione a Washington, durante un convegno sulle nuove tecnologie per la medicina, Steven Burrill fu trattato da molti come uno scrittore di fantascienza. Altri, invece, conoscendolo per il suo ruolo di investitore nelle tecnologie di punta e di architetto del «biotech», lo presero molto sul serio.
Quattro anni dopo nei supermercati andiamo ancora solo per fare la spesa, ma la medicina personalizzata, sostenuta dallo sviluppo delle biotecnologie e dalle possibilità offerte dalla mappatura del genoma umano, sta facendo passi da gigante. Giorni fa, ad esempio, la rivista Nature spiegava che stiamo ormai imparando a classificare e curare i tumori non più per la loro dislocazione - polmoni, prostata o fegato - ma sulla base delle caratteristiche genetiche. Quelli al seno, ad esempio, sono di quattro «famiglie» piuttosto diverse. Una di queste ha elementi in comune con il cancro all'utero più di quanto non ne abbia con le altre tre forme tumorali. E le terapie sono, ovviamente, molto diverse.

A ognuno la sua cura, dunque, basata non solo sulle diverse categorie patologiche, ma anche sulle caratteristiche delle cellule, le sensibilità individuali, le risposte immunitarie che sono diverse da persona a persona. Più facile a dirsi che a farsi, anche per un problema di costi: un nuovo farmaco costa circa un miliardo di dollari tra ricerca, sviluppo e sperimentazioni che durano, in media, un decennio. Se verrà prescritto in un numero troppo limitato di casi, i costi diventeranno insostenibili. La mappatura del genoma (costo dai 10 ai 25 mila dollari, negli Usa) è, poi, ancora una cosa da ricchi. Ma la tecnologia sta gradualmente abbattendo questi costi, mentre spuntano altri percorsi come quelli delle nanotecnologie che penetrano nelle difese immunitarie. Un'altra strada è quella dell'uso a tappeto di cavie nelle quali trapiantare i tessuti malati di un paziente (in genere cellule tumorali) per capire a quali farmaci sono sensibili, prima di iniziare la terapia sull'uomo.

Sono già molti i centri medici americani, dalla Mayo Clinic al Massachusetts General Hospital, a usare questa tecnica. Ad esempio trapiantando pezzi di un tumore asportato su vari topi che, a causa di un'anomalia genetica, hanno un sistema immunitario molto poco reattivo. Agli animaletti vengono poi somministrati medicinali diversi, scegliendo alla fine per il paziente quella che funziona meglio sul ratto.

Illustrando il moltiplicarsi di questi esperimenti, il New York Times raccontava mercoledì che la pratica sta diventando talmente diffusa da aver spinto i medici a soprannominare queste cavie «avatar», come le rappresentazioni digitali di persone reali. Uomini e topi: vivremo tra qualche anno in un mondo nel quale, oltre a conoscere in anticipo le nostre predisposizioni genetiche per le malattie e a disporre di «batterie» di farmaci individuali, avremo anche il nostro allevamento di cavie personali? Meglio non correre troppo: il perfezionamento dei farmaci biotech procede spedito, ma i problemi non mancano e l'uso delle cavie è un processo lungo, costoso e dai risultati tutt'altro che certi: le assicurazioni per ora non pagano per trattamenti di questa natura e sono numerosi i casi di malati di tumore che muoiono prima che la sperimentazione sulle cavie sia completata.

Ma la tecnica è promettente, i successi non mancano e, nella misura in cui evita di esporre il paziente a una moltiplicazione delle terapie alla ricerca di quella giusta, può anche diventare un fattore di contenimento dei costi. Che non sia più solo un procedere a tentoni lo dimostra anche il fatto che qualche settimana fa il National Institute for Health , l'organo del governo federale che promuove e monitora le nuove tecnologie mediche, ha dedicato un seminario proprio alle terapie che utilizzano gli «animali personalizzati».


Lo spinello divora il cervello


La strana educazione della pillola a scuola


L'aborto è libero, facile e sicuro - Ecco il Global day dell'ideologia


La Francia alla guerra dell'eutanasia, l'Olanda è già sconfitta


Sedazione: basta con gli equivoci


E pure i figli della provetta si interrogano sulle origini



«Troppi segreti sulle madri naturali» - Strasburgo condanna la legge italiana di Giovanni Maria Del Re – 27 settembre 2012, http://www.avvenire.it/


Una persona adottata da bambino ha diritto di conoscere prima o poi chi è la propria madre biologica, anche se questa ha scelto di mantenere l’anonimato. Ancora una volta la Corte europea per i diritti umani (che fa capo al Consiglio d’Europa e niente ha a che fare con l’Ue) promulga una sentenza di condanna nei confronti dell’Italia foriera di importanti conseguenze.

Nella fattispecie, la Corte di Strasburgo ha dato ragione ad Anita Godelli, una donna di 69 anni che ha fatto ricorso per protestare contro il divieto della legge italiana 184 del 1983 di conoscere l’identità della madre biologica se questa, lasciando il proprio neonato all’adozione, ha chiesto di restare segreta. Una legge, spiega la Corte, che viola l’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani (diritto al rispetto della vita privata familiare). La sentenza ha una particolare rilevanza soprattutto per quelle donne che rinuncino all’aborto in cambio della garanzia di poter dare in adozione il neonato restando anonime. Vediamo i fatti. La Godelli, che scoprì a 10 anni che i suoi genitori non erano biologici ma solo adottivi, invano chiese loro di rivelare chi fossero i suoi veri genitori. «Ella – si legge in una nota diffusa dalla Corte – afferma di aver vissuto un’infanzia molto difficile a causa del fatto di non poter conoscere le proprie radici. All’età di 63 anni, la ricorrente ha avviato nuovamente dei passi in questo senso, ma è stata respinta dal momento che la legge italiana garantisce il segreto delle origini e il rispetto della volontà della madre». Da notare che, come sottolinea la stessa nota, la Godelli non ha chiesto di sapere nome e cognome della vera madre, ma soltanto "elementi non identificanti" delle sue origini biologiche.

Ebbene, secondo la Corte di Strasburgo la legge italiana è troppo squilibrata a tutela della volontà di anonimato della madre. «Il sistema italiano – si legge nella nota della Corte – privo di qualsiasi meccanismo che cerchi un equilibrio tra gli interessi concorrenti (della madre all’anonimato e del bambino adottato a conoscere le proprie origini, ndr) ha inevitabilmente dato una preferenza cieca ai soli interessi della madre biologica». La Corte ricorda che il Parlamento italiano sta discutendo una possibile modifica della legge dal 2008. «Se la scelta delle misure volte a garantire il rispetto dell’articolo 8 (della Convenzione, <+corsivo>ndr<+tondo>) nei rapporti tra individui – si legge ancora nella nota – è di competenza, in linea di principio, del margine di valutazione degli Stati, nella misura in cui la legislazione italiana non dà alcuna possibilità al bambino adottato e non riconosciuto alla nascita di chiedere sia l’accesso a informazioni non identificanti sulle sue origini, sia la reversibilità del segreto, la Corte ritiene che l’Italia non ha cercato un giusto equilibrio tra gli interessi ed è andata oltre il suo margine di valutazione. La Corte conclude che vi è stata violazione dell’articolo 8».

L’Italia, peraltro, dovrà anche risarcire la Godelli con 15.000 euro. La questione più cruciale, tuttavia, è un’altra: e cioè la necessità di modificare la legge 184. Un modello possibile lo indica la stessa Corte, e cioè quello francese, in cui è possibile chiedere almeno la reversibilità dell’anonimato della madre se questa si dichiara d’accordo. Potrebbe essere una soluzione di compromesso che dà qualche chance in più ai bambini adottati di conoscere le proprie radici senza compromettere drasticamente il desiderio di anonimato di una madre che non può, o non vuole, tenere il proprio bambino. L’Italia, comunque, entro tre mesi potrà far ricorso di fronte alla Gran Camera della Corte Ue.

mercoledì 26 settembre 2012


Coscienza e neuro-libertà: il contributo di Tommaso d’Aquino (I° parte) - Il prof. Carrara illustra la situazione attuale delle conoscenze neuroscientifiche sul libero arbitrio - di Alberto Carrara, biotecnologo e neuroeticista presso la “Regina Apostolorum” di Roma, 26 settembre, 2012 - http://www.uccronline.it

Il problema della coscienza, dell’identità personale e del libero arbitrio è in primo piano tra le questioni oggi più dibattute nelle scienze cognitive e nella filosofia. Il pensiero classico affrontava l’argomento da un punto di vista prevalentemente metafisico. La fenomenologia e la filosofia della mente ampliano la tematica ad aspetti quali l’intenzionalità, la soggettività in prima persona, l’inconscio, la coscienza di corpo e il rapporto con altre menti. Le neuroscienze valutano queste tematiche nella prospettiva della base neurale, introducendo in questo modo nuovi orizzonti sulla questione.

Oggi è quanto mai necessaria una riflessione profonda orientata al discernimento e all’integrazione dei diversi sensi della coscienza e della libertà umana. Sin dai tempi più remoti, il tema della coscienza e del suo rapporto con la libertà umana ha coinvolto l’interesse dei migliori pensatori. Oggigiorno, mentre da una parte vengono confermati i risultati neuroscientifici condotti, sin dagli anni settanta, da Benjamin Libet[1], dall’altra si diffonde un clima scettico relativo alla coscienza personale e alla libertà d’azione. Alcuni neuroscienziati arrivano a concludere che queste peculiarità dell’essere umano, altro non sarebbero che mere illusioni funzionali, frutto dell’ingegno evolutivo del nostro cervello. La problematica è notevole: ha la coscienza un ruolo causale diretto nell’agire libero dell’uomo? Siamo davvero esseri dotati di coscienza e libertà, o automi in balia di uno stretto determinismo neurobiologico? Nel fondo la questione si riassume nella domanda seguente: che cos’è la libertà? E qual’è il suo rapporto con la coscienza personale?

Oggigiorno, lo sviluppo delle capacità tecnologiche rende possibile studiare in vivo e visualizzare le aree del nostro cervello osservandone, anche in tempo reale la loro maggiore o minore attivazione nelle circostanze più svariate. Questo ha prodotto un vero e proprio fiume di studi scientifici. Per una corretta valutazione delle interpretazioni neuroscientifiche, la tradizione filosofica che in Tommaso d’Aquino trova uno dei massimi sintetizzatori, potrebbe contribuire a fornire alcuni concetti e chiavi di lettura che aiuterebbero a rasserenare e rendere più realistiche certe conclusioni ed inferenze. Dall’altra, un’antropologia tommasiana unitiva ed integrativa, potrebbe costituire un valido fondamento neuroetico per evitare tanto il dualismo cartesiano, quanto un monismo cerebrale uni-totalizzante.

In questa prima parte riassumerò le evidenze neuroscientifiche a disposizione, mentre nella seconda parte considererò alcune conclusioni relative a tali esperimenti, mentre nella terza e ultima parte chiarirò i concetti filosofici in gioco e concluderò se o meno essi vengano annullati dalle neuroscienze.

Il dibattito contemporaneo in quest’area è stato ben riassunto da Kerri Smith e pubblicato sulla rivista scientifica Nature nel 2011[2]. I primi esperimenti che hanno maggiormente influito alla diffusione di una visione neurodeterminista dell’agire libero dell’uomo furono realizzati da Benjamin Libet nella decade degli anni ’70-’80. I risultati di Libet sono stati successivamente pubblicati sulla rivista Behavioral and Brain Sciences nel 1985[3]. Il titolo dell’articolo mette in luce l’esistenza di una “iniziativa cerebrale incosciente” che in qualche modo vincolerebbe la volontà cosciente durante l’azione volontaria. Si può a ragione affermare che gran parte del dibattito a cui ci stiamo riferendo trova la sua origine nel noto “esperimento di Libet”. Di che cosa si tratta? Libet e i suoi collaboratori presero le mosse dalle scoperte di Hans Helmut Kornhuber e Lüder Deecke avvenute nel 1965 e di ciò che questi ultimi denominarono in tedesco “Bereitschaftspotential”, “readiness potential”, in inglese, o potenziale di preparazione o disposizione (PD), in italiano. Il PD consta di un cambiamento elettrico che si ingenera in determinate aree cerebrali e che ha la caratteristica di precedere l’esecuzione dell’azione futura[4].

Libet utilizzò un apparecchio di elettroencefalografia (EEG) col quale registrò l’attività cerebrale di una serie di volontari coinvolti nel prendere una decisione, nello specifico, la decisione di muovere un dito. Lo studio si realizzò nel modo seguente: i partecipanti avevano in una mano un orologio che potevano bloccare con l’impulso volontario di un dito; quando i soggetti sentivano la necessità di muovere le dita della mano libera e lo volevano fare, dovevano bloccare l’orologio. L’esperimento fu disegnato in modo tale da poter conoscere la relazione temporale che vi era tra il potenziale di preparazione (PD), la coscienza della decisione da attuare e l’esecuzione del movimento. Tutto mirava a conoscere quando “appare” il desiderio cosciente o intenzione di portare a compimento un’azione. I risultati furono sorprendenti: esistono dei potenziali corticali di preparazione localizzati nella corteccia motoria secondaria (corteccia premotoria) che precedono di circa 350 millisecondi l’azione cosciente al realizzare un movimento volontario. I dati di Libet furono replicati e confermati da Haggard e Eimer che li pubblicarono nel 1999[5].

Nel 2008 John-Dylan Haynes, neuroscienziato del Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences di Leipzig in Germania, utilizzando tecniche di neuroimaging (fRMN o risonanza magnetica funzionale), realizzò una serie di esperimenti più sofisticati dimostrando che le intenzioni venivano codificate nella corteccia motoria secondaria (frontopolar cortex) fino a sette secondi prima che i partecipanti allo studio prendessero coscienza delle loro stesse decisioni. In pratica, si concludeva lo studio affermando che la cosiddetta libertà umana non era altro che una mera illusione[6]. Recentemente questi risultati furono confermati dallo studio più aggiornato del settore, pubblicato nel giugno 2011. Dodici studenti dell’Università di Leipzig, in parte maschi e in parte femmine, parteciparono allo studio. Nelle conclusioni, oltre a confermare i dati pubblicati nel 2008, si afferma: «questi risultati appoggiano la conclusione che la corteccia premotoria è parte di una rete di regioni cerebrali che danno forma alle decisioni coscienti molto prima che si giunga allo stato di coscienza delle stesse» [7].

Quali conclusioni possono essere desunte da questi dati sperimentali? Lo vedremo nella seconda parte che verrà pubblicata domani.



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Note
[1]. B. Libet, Unconscious cerebral initiative and the role of conscious will in voluntary action, «Behavioral and Brain Sciences», 8 (1985), pp. 529-566.
[2]. K. Smith, Neuroscience vs philosophy: Taking aim at free will, «Nature», 477 (2011), pp. 23-25.
[3]. B. Libet, Unconscious cerebral initiative and the role of conscious will in voluntary action, «Behavioral and Brain Sciences», 8 (1985), pp. 529-566.
[4]. H.H. Kornhuber – L. Deecke, Hirnpotentialänderungen bei Willkürbewegungen und passiven Bewegungen des Menschen: Bereitschaftpotential und reafferente Potentiale, «Pflugers Archive für die Gesamte Physiologie des Menschen und der Tiere», 284 (1965), pp. 1-17.
[5]. P. Haggard – M. Eimer, On the relation between brain potencials and the awereness of voluntary movements, «Experimental Brain Reserch», 126 (1999), pp. 128-133.
[6]. C. S. Soon (et al.), Unconscious determinants of free decisions in human brain, «Nature Neuroscience», 11 (2008), pp. 543-545
[7]. S. Bode (et al.), Tracking the Unconscious Generation of Free Decisions Using UItra-High Field fMRI, «PLoS ONE», 6 (2011).

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IL SAPORE DEL PANE - Poesie che cantano il cielo e incantano la terra - di Robert Cheaib

ZI12092513 - 25/09/2012
Permalink: http://www.zenit.org/article-32792?l=italian

ROMA, martedì, 25 settembre 2012 (ZENIT.org) - La vita diventa breve, un noioso ed eterno ritorno del simile, quando si assopisce alla meraviglia della sua continua novità. L'eccesso di prosa forse definisce i contorni del vissuto, ma di certo non arriva a rendere la vita vivibile. È la riscoperta del fuoco della poesia, del profumo, dell'armonia e della bellezza che si cela dietro le ceneri del tedio quotidiano a ridare al cuore della vita i suoi ritmi, rime e palpiti.
La poesia giunge a trasmettere la pienezza del suo slancio vitale quando sa coniugare all'incanto della terra il canto del Cielo e viceversa. Pochi poeti del sacro sanno salire e scendere con destrezza questa scala di Giacobbe come David Maria Turoldo. Ogni volo mistico nella sua poesia è equilibrato dalla discesa kenotica verso gli abissi della storia, verso la solitudine dell'uomo, verso la denuncia dell'indifferenza al Cristo nel fratello emarginato.
«Il sapore del pane» è una raccolta di poesie e testi del famoso poeta-mistico che si aggiunge al patrimonio della «Biblioteca universale cristiana» di San Paolo Edizioni. In ogni pagina e ogni strofa di questo libro si sente lo stile e la sensibilità di un uomo che sa calibrare i voli mistici con gli inchini della penitenza e con la concretezza della mano tesa dell'amore intrastorico. La potenza di queste poesie non nasce tanto dal fascino delle parole e delle immagini quanto dalla convergenza tra gli alti temi teologici e i comuni temi esistenziali.
Recuperare il sapore del pane, un sapore così comune ma così straordinario è un'impresa difficile che richiede una continua risurrezione dei sensi, una rinascita nello spirito a una rinnovata infanzia e così il poeta prega:
«Restituiscimi all'infanzia, Signore, fa' che ritorni fanciullo, al sapore vero delle cose, al gusto del pane e dell'acqua».
Ritornare all'infanzia è riscoprire lo stupore che non sa stare indifferente ma che con gli occhi spalancati all'accoglienza costituisce il distintivo dell'infante in un mondo di adulti anonimi e standardizzati:
«Signore, salvami dall'indifferenza, da questa anonimia di uomo adulto. È il male di cui soffriamo senza averne coscienza»
La riscoperta del gusto è una scoperta del colore che irriga il mondo e che salva dalla monocromia, morbo degli spiriti invecchiati:
«Signore, salvami dal colore grigio dell'uomo adulto e fa' che tutto il popolo sia liberato dalla senilità dello spirito».
Il ritorno all'infanzia visita anche i meandri del sacro e spazza via la polvere dell'abitudine per scoprire la luce delle cose, la Luce che non tramonta:
«Salvami dall'abitudine delle cose sacre e fammi godere il miracolo della luce e quello dell'acqua viva che sgorga dalle pietre; il miracolo delle primavere come quando, fanciullo, mi sorprendevo nei campi uguale a un calice colmo di gioia per il dialogo amoroso con le piante e i monti e gli uccelli».
Risvegliare i sensi al sapore del pane, se è autentico, non può che essere anche un risveglio alle lacrime della terra. Così in un'altra poesia Turoldo presta la sua voce e la sua parola ai poveri e si fa denuncia:
«La più amara inondazione della terra
sono le lacrime della povera gente,
lacrime silenziose e segrete:
acqua e sangue che gonfiano i fiumi
di tutti i paesi».
Ascoltare il grido dei poveri e degli oppressi, apportare salvezza è condizione per gustare realmente il pane che altrimenti si avvelenerebbe con il siero dell'indifferenza:
«Non credo, terra, che fiorirai ancora
a lungo: troppe sono le lacrime
dei poveri, lacrime divenute
veleno di questi giardini,
e del pane e dell'acqua che beviamo».
Il ritmo che redime il gusto è chinarsi di nuovo verso «fratel Nessuno», quell'emarginato, quel Lazzaro dimenticato alle porte delle nostre chiusure, quella «antica immagine di Cristo sparpagliato in ogni lembo di umanità, vessillo che ci manca».
In questo Cristo, «ragione di questo esistere, folle bellezza», Pane spezzato per amore è possibile recuperare il sapore del pane.
A ragione la Prefazione del libro che porta la firma di Mons. Gianfranco Ravasi raccomanda questo libro come «un piccolo breviario da tenere in mano quando si è nella penombra soffusa di una chiesa, ma anche in treno, tra facce assonnate all'alba, quando si corre alla città del lavoro o quando, a sera, si chiude la giornata e si prega...»