sabato 22 dicembre 2012

Anche nel neolitico si curavano i disabili gravi. La scoperta degli studiosi australiani - 21 dicembre 2012 - http://www.tempi.it

dicembre 21, 2012 Daniele Ciacci
Man Bac Burial 9 (Tilley & Oxenham 2011: 37)
Anche nel neolitico l’uomo si occupava dei compagni disabili. A dirlo è una ricerca australiana nel Vietnam del Nord, che ha rinvenuto i resti di un venticinquenne vissuto 4.000 anni fa. Gli archeologi australiani hanno dimostrato che l’uomo era affetto dalla sindrome di Klippel-Feil, un raro disturbo dell’apparato locomotore dovuto alla fusione di due o più vertebre cervicali. La malattia porta con sé effetti minori come lo strabismo e la scoliosi e, nei casi peggiori, l’atassia (l’incapacità di muoversi autonomamente). I resti dell’uomo rinvenuti dagli studiosi della National Australian University Marc Ovenham e Lorna Tilley – quest’ultima con competenze in psicologia e assistenza sanitaria – mostrano chiaramente che egli era paralizzato dalla vita in giù e che non poteva muovere le gambe.
DIGNITA’ UMANA. Lorna Tilley, in un’intervista rilasciata al The Australian, dichiara che il giovane ha vissuto in quelle condizioni almeno dieci anni. Non è stato abbandonato né maltrattato. Non c’erano segni di infezione e di fratture, nonostante sia morto in circostanze che – dopo cinque anni di ricerca – ancora non si sono chiarite. Ciò sembra dimostrare che il giovane sia stato curato nonostante l’estrema disabilità, e mostrerebbe un volto nuovo delle popolazioni del neolitico, con una primitivissima cultura assistenziale e un senso forte della dignità umana, da cui consegue cooperazione e tolleranza.

Iperattivi - e se invece dei figli si curassero i genitori?




Ideologia del gender, grave minaccia per la Chiesa
di Massimo Introvigne - http://www.lanuovabq.it22-12-2012Il Papa parla alla Curia RomanaBenedetto XVI ha impartito alcuni dei suoi più memorabili insegnamenti con i discorsi annuali alla Curia romana per gli auguri natalizi, che ha trasformato in un vero e proprio nuovo genere letterario. In questo discorsi, ogni anno, ricorda i momenti più importanti del suo Magistero nei dodici mesi passati e segnala le sfide principali per la Chiesa per il tempo a venire.

Per il 2012 il Papa segnala come «momenti salienti» del suo Magistero il viaggio in Messico e a Cuba, la Festa delle Famiglie a Milano, l'esortazione apostolica post-sinodale «Ecclesia in Oriente» consegnata durante il viaggio in Libano, e il Sinodo sulla nuova evangelizzazione.  Non certo come mera nota di colore, ma perché è un grande segno di speranza, il Pontefice ricorda il grande successo di popolo dei suoi viaggi, che sempre regolarmente smentisce lo scetticissimo dei media. «Ricordo che, dopo l’arrivo in Messico, ai bordi della lunga strada da percorrere, c’erano interminabili schiere di persone che salutavano, sventolando fazzoletti e bandiere. Ricordo che durante il tragitto verso Guanajuato, pittoresca capitale dello Stato omonimo, c’erano giovani devotamente inginocchiati ai margini della strada per ricevere la benedizione del Successore di Pietro; ricordo come la grande liturgia nelle vicinanze della statua di Cristo Re sia diventata un atto che ha reso presente la regalita? di Cristo». E le stesse scene di entusiasmo si sono ripetute a Cuba e in Libano.

I punti salienti del Magistero del 2012 annunciano anche le sfide del 2013. Il Papa le ha riassunte in tre punti: fare fronte alle ideologie che minacciano la famiglia e la stessa persona umana, nella linea tracciata dai suoi interventi a Milano; impostare correttamente il dialogo interreligioso, specie con l'islam, riprendendo l'esortazione «Ecclesia in Oriente»; trarre il massimo profitto dall'Anno della fede per la nuova evangelizzazione, dando un seguito concreto al Sinodo.

L'aspetto più grave della situazione attuale, ha detto il Papa, è una crisi della famiglia che «la minaccia fino nelle basi». È una sfida radicale che minaccia l'essenza della persona umana: «nella questione della famiglia non si tratta soltanto di una determinata forma sociale, ma della questione dell’uomo stesso – della questione di che cosa sia l’uomo e di che cosa occorra fare per essere uomini in modo giusto». La famiglia è in crisi perché la persona è in crisi. «Il rifiuto del legame umano, che si diffonde sempre piu? a causa di un’errata comprensione della liberta? e dell’autorealizzazione, come anche a motivo della fuga davanti alla paziente sopportazione della sofferenza, significa che l’uomo rimane chiuso in se stesso e, in ultima analisi, conserva il proprio “io” per se stesso, non lo supera veramente». 

Ma questa crisi, ha detto con coraggio il Pontefice, deriva anche dall'attacco metodico di forze che propongono una vera «rivoluzione antropologica» in nome della più pericolosa ideologia apparsa negli ultimi anni, quella del gender.

«Il Gran Rabbino di Francia, Gilles Bernheim - ha detto il Papa -, in un trattato accuratamente documentato e profondamente toccante ["Mariage homosexuel, homoparentalité et adoption. Ce que l'on oublie souvent de dire"], ha mostrato che l’attentato, al quale oggi ci troviamo esposti, all’autentica forma della famiglia, costituita da padre, madre e figlio, giunge ad una dimensione ancora piu? profonda. Se finora avevamo visto come causa della crisi della famiglia un fraintendimento dell’essenza della liberta? umana, ora diventa chiaro che qui e? in gioco la visione dell’essere stesso, di cio? che in realta? significa l’essere uomini».  Sulla scia di Bernheim il Papa ricorda «l’affermazione, diventata famosa, di Simone de Beauvoir [teorica francese del femminismo, 1908-1986]: "Donna non si nasce, lo si diventa” (“On ne nai?t pas femme, on le devient”). In queste parole e? dato il fondamento di cio? che oggi, sotto il lemma “gender”, viene presentato come nuova filosofia della sessualita?. Il sesso, secondo tale filosofia, non e? piu? un dato originario della natura che l’uomo deve accettare e riempire personalmente di senso, bensi? un ruolo sociale del quale si decide autonomamente, mentre finora era la societa? a decidervi».

Si tratta di una delle più gravi sfide cui la Chiesa si è trovata di fronte nella sua storia. E non solo la Chiesa: l'ideologia del gender minaccia tutta la società e sovverte la stessa persona umana. «La profonda erroneita? di questa teoria e della rivoluzione antropologica in essa soggiacente e? evidente. L’uomo contesta di avere una natura precostituita dalla sua corporeita?, che caratterizza l’essere umano. Nega la propria natura e decide che essa non gli e? data come fatto precostituito, ma che e? lui stesso a crearsela».

Si tratta in ultimo, afferma Benedetto XVI, di una rivolta contro Dio. «Non e? piu? valido cio? che si legge nel racconto della creazione: “Maschio e femmina Egli li creo?” (Gen 1,27). No, adesso vale che non e? stato Lui a crearli maschio e femmina, ma finora e? stata la societa? a determinarlo e adesso siamo noi stessi a decidere su questo. Maschio e femmina come realta? della creazione, come natura della persona umana non esistono piu?. L’uomo contesta la propria natura. Egli e? ormai solo spirito e volonta?». Con questa scelta faustiana l'uomo in concreto, propriamente, muore. «Esiste ormai solo l’uomo in astratto, che poi sceglie per se? autonomamente qualcosa come sua natura. Maschio e femmina vengono contestati nella loro esigenza creazionale».  

La crisi della famiglia è solo un aspetto di una crisi globale. «Dove la liberta? del fare diventa liberta? di farsi da se?, si giunge necessariamente a negare il Creatore stesso e con cio?, infine, anche l’uomo quale creatura di Dio». Ma «dove Dio viene negato, si dissolve anche la dignita? dell’uomo. Chi difende Dio, difende l’uomo».

A questa difesa dell'uomo di fronte a minacce radicali e inaudite la Chiesa convoca tutte le religioni e anche i non credenti che credono nel diritto naturale. È questa la seconda sfida per il 2013: capire bene la nozione di dialogo. Il Papa fa riferimento al suo viaggio in Libano e ribadisce che «il dialogo delle religioni e? una condizione necessaria per la pace nel mondo, e pertanto e? un dovere per i cristiani come pure per le altre comunita? religiose».  Il dialogo, oggi, deve partire non tanto dalla teologia, ma dall'antropologia e dal diritto naturale. Questo vale anche nel caso, così obiettivamente difficile, dell'islam. Benedetto XVI ricorda le due regole del dialogo di cui parlano diversi documenti di dicasteri vaticani: «1. Il dialogo non ha di mira la conversione, bensi? la comprensione. In questo si distingue dall’evangelizzazione, dalla missione. 2. Conformemente a cio?, in questo dialogo ambedue le parti restano consapevolmente nella loro identita?, che, nel dialogo, non mettono in questione ne? per se? ne? per gli altri». «Queste regole - commenta il Papa - sono giuste. Penso, tuttavia, che in questa forma siano formulate troppo superficialmente. Si?, il dialogo non ha di mira la conversione, ma una migliore comprensione reciproca: cio? e? corretto. La ricerca di conoscenza e di comprensione, pero?, vuole sempre essere anche un avvicinamento alla verita?». 

A costo di correggere qualche documento dei dicasteri preposti al dialogo, il Pontefice osserva che «sarebbe troppo poco se il cristiano con la sua decisione per la propria identita? interrompesse, per cosi? dire, in base alla sua volonta?, la via verso la verita?. Allora il suo essere cristiano diventerebbe qualcosa di arbitrario, una scelta semplicemente fattuale. Allora egli, evidentemente, non metterebbe in conto che nella religione si ha a che fare con la verita?». Dialogo sì, dunque: ma senza mai rinunciare all'annuncio, senza mai il più piccolo cedimento al relativismo, che alla fine favorisce le ideologie anti-religiose e danneggia tutte le religioni.

Per resistere a queste ideologie e proporre un dialogo che non sia relativista, è necessario anzitutto che i cristiani siano cristiani. Ecco allora la terza sfida del 2013: trarre davvero profitto dall'Anno della fede, conoscere la verità della fede cattolica, essere «docili» al Magistero, acquisire e sviluppare il senso della Chiesa. L'ideologia ci ha lanciato una sfida radicale. C'è bisogno di cattolici che lo siano veramente, e che quindi siano capaci di dialogare con gli altri in modo non relativista, per rispondere in modo adeguato.

venerdì 21 dicembre 2012


La negazione della Legge Naturale, o il regno dell’arbitrio - 20 dicembre 2012 - http://www.prolifenews.it

legge naturale_diritto ala vita_dottrina del diritto naturale
La legge positiva che non rispetta la legge naturale non è vera legge
Tra le implicazioni filosofiche connesse a una legge come la L.194/1978 vi è sicuramente quella del rapporto tra potere del legislatore e il limite che questo potere trova in una realtà preesistente alla volontà del legislatore. Le esperienze terribili dei totalitarismi del ‘900 hanno spinto alcuni filosofi del diritto a rivalorizzare, giustamente, una dottrina quasi dimenticata: la dottrina del diritto naturale classico. Cosa differenzia questa dall’opinione direttamente contraria, cioè quella del positivismo giuridico? Il riconoscimento della “relatività”, o “non-assolutezza” della volontà del legislatore. Ancor più precisamente: il riconoscimento del fatto che la legge positiva, per essere vera legge, deve rispettare un dato oggettivo, assoluto, che le è anteriore. Questo dato è “la natura”. Potremmo dire semplicemente: “la realtà delle cose”. Per dare un esempio concreto, il legislatore non può svegliarsi una mattina e decidere che le persone bionde non sono più soggetti di diritto. Perché? Perché la sua volontà non è assoluta, ma condizionata da qualcosa di preesistente, un “dato di fatto”, il quale esige che una certa realtà, denominata “persona”, sia soggetto di diritti.Questo ancoraggio alla realtà delle cose ci salva da una grossa calamità: l’arbitrarietà del diritto.
Arbitraria, perché poneva un discrimine non fondato nella realtà delle cose, fu la storica sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 1857, la quale stabilì che “i negri, a norma delle leggi civili, non sono persone […] non hanno alcun diritto o privilegio tranne quelli che preferisce loro concedere chi detiene il potere e il governo […] i negri sono tanto inferiori da non avere alcun diritto che l’uomo bianco sia tenuto a rispettare. Arbitraria, per andare al biologismo nazista, fu la sentenza del tribunale di Lunéville che nel 1937 dichiarò l’aborto essere punibile solo quando il feto fosse di razza ariana.
Detto questo, come non scorgere l’arbitrarietà nelle legislazioni mondiali che attualmente disciplinano l’aborto? Dove sta la ragione oggettiva, in virtù della quale la vita di un bambino non dovrebbe essere tutelata in Italia prima dei 90 giorni  (legge 194/1978, art. 4), o meglio, prima che sussista la possibilità di vita autonoma del feto (art. 7), mentre in Inghilterra non è tutelata prima delle 24 settimane (Abortion Act, 1967, emendato nel 1990)?  Perché il pieno diritto alla vita si acquisisce prima in Svizzera (12 settimane: cfr. codice penale, art. 119) che in Svezia (18, o meglio, 22 settimane, cfr. SFS 1974/595), o prima in Francia (10 settimane, cfr. legge del 1975) piuttosto che in Giappone (28 settimane, sin dalle leggi 1949)? E se si può decidere che il diritto alla vita si acquisisce a 13 piuttosto che a 24 o a 28 settimane, perché non dopo la nascita (come taluni cominciano ad ipotizzare)? Perché non privare di questo diritto determinate categorie di persone per le loro caratteristiche fisiche, psicologiche o razziali?
Sono queste le tristi contraddizioni in cui si perde la legge che pone un discrimine, una discontinuità, dove, in realtà, non c’è. Il discrimine, la discontinuità, in quel processo continuo che è la vita di un essere umano, non coincide con la mezzanotte dopo l’ottantaquattresimo, il novantesimo o il centosessantottesimo giorno dal concepimento. Il discrimine, la discontinuità in quel processo c’è, invece, nella realtà delle cose, al momento del concepimento, quando comincia ad esistere un nuovo individuo della specie umana.

di Alessandro Fiore
 

Aborto e sviluppo fetale - 20 dicembre 2012 - http://www.prolifenews.it 

sviluppo feto_aborto_diritto alla vita
La medicina moderna permette che molti feti prematuri siano curati con successo quando sopravviene un parto precoce, spontaneo o realizzato per motivi medici.
Attualmente, è possibile che feti che nascono con 24, 23 o perfino con 22 settimane di gravidanza, ricevano un’efficace assistenza medica. Le percentuali di successo variano molto secondo l’età gestazionale e secondo la perizia e gli strumenti tecnici usati dai medici, perché molte e complesse sono le difficoltà con le quali questi bambini iniziano la vita extrauterina.
I progressi della medicina in questo campo hanno sempre più ripercussione nei dibattiti sull’aborto. Di fronte alle normative che permettono aborti tardivi, sorge, allora, la domanda: non è “eccessivo” permettere aborti di 22-24 settimane, quando i feti che hanno raggiunto tale tappa di sviluppo potrebbero, in molti casi, sopravvivere fuori del seno materno?
La domanda rinchiude un importante elemento di buona volontà: difendere il diritto alla vita dei feti che hanno raggiunto un sufficiente stato di sviluppo, che sono “vitali” fuori del seno materno grazie alla tecnica moderna.
Ma nasconde, in molti casi, un errore profondo: pensare che l’aborto sia più grave quando il feto eliminato è più sviluppato, e meno grave quando il feto eliminato è meno sviluppato, quando ha meno settimane di vita.
In realtà, qualunque forma di aborto è sempre un atto sommamente ingiusto.L’avere una maggiore grandezza fisica, certamente, fa che la soppressione della vita del figlio sia più “violenta”, più invasiva, più pericolosa perfino per la stessa madre. Ma il numero di settimane non rende più o meno grave il fatto nella sua drammatica realtà: l’eliminazione di una vita umana, di un figlio, semplicemente perché così lè stato deciso da altri.
Nessuno oserebbe dire che è più grave l’assassinio da un bambino di 4 anni che l’assassinio di un bambino di 2 anni perché il primo è più “vitale” e più sviluppato del secondo.
La stessa cosa si può dire sull’aborto: eliminare un embrione di 5 settimane è ugualmente grave come eliminare un feto di 25 settimane, perché tutti e due sono esseri umani con la stessa dignità. Uno sarà molto più piccolo, l’altro più grande, ma le dimensioni fisiche ed il livello di sviluppo non dovrebbero essere mai motivo per discriminare ai più piccoli, per considerarli meno “umani”, per sopprimerli attraverso l’ingiustizia dell’aborto.
Non c’inganniamo: non “migliora” una legge dell’aborto se con essa rimangono protetti soltanto i figli con più di “X” settimane, mentre i figli con meno di “X” settimane possono essere soppressi negli ospedali. L’unico modo di “migliorare” una legge dell’aborto consiste nella sua soppressione.
Dobbiamo riconoscere, per crescere in umanità, che qualunque aborto è sempre l’uccisione del figlio nel seno materno, e che tale uccisione non dovrebbe essere mai permessa in una società che pretenda di raggiungere un minimo di giustizia e, soprattutto, un minimo di amore verso il più indifeso degli esseri umani: il figlio prima di nascere.
di P. Fernando Pascual, L.C.
Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma

 

L’eliminazione selettiva di genere - 21 dicembre 2012 - http://www.prolifenews.it

aborti selettivi_Bruxelles_infanticidio
Sollevato per la prima volta da Mary Anne Warren col suo Gendercide (Rowman & Allanheld, 1985), il problema dell’eliminazione selettiva di genere, e più precisamente quello dell’aborto selettivo ai danni delle bambine – soppresse a milioni – è stato a lungo trascurato.  Questa “dimenticanza” – determinata dal fatto che l’aborto è un tema scomodo e che quello selettivo ha riguardato per lo più il continente asiatico – potrebbe essere superata dalla diffusione di It’s a girl, un docufilm presentato nei giorni scorsi a Bruxelles, al Parlamento europeo.
La cosa inaspettata e per molti versi sorprendente è che la notizia di questo film ha finora trovato spazio anche sulla stampa progressista, a partire dal britannico “Independent”. Attenzione, però: It’s a girl non riguarda solamente gli aborti selettivi: si parla anche a di strangolamenti ed annegamenti, di infanticidi. Particolarmente scioccanti sono le parole di una donna che, nel film, ammette di essersi in prima persona resa autrice di ben otto omicidi di bambine. Un altro aspetto interessante del film è che – come ha notato Giulio Meotti ? «sfata il mito per cui a pagare siano le bambine delle famiglie povere e analfabete (…) è la classe media benestante e urbana, che usa gli strumenti di analisi prenatale (…) più sono emancipate più utilizzano l’aborto selettivo» (“Il Foglio”, 15 novembre 2012, p. 2).
Grande è dunque il merito che va riconosciuto a Evan Grae Davis e ad Andrew Brown, rispettivamente regista e produttore del film. Anche se pare che finalmente – dopo il vastissimo e sanguinario “svuotamento demografico” femminile – del continente asiatico siano in corso, anche se lenti e parziali, dei significativi ripensamenti. Il riferimento è qui alla Cina dove qualche settimana fa la Fondazione per la ricerca sullo sviluppo ha messo in chiaro come l’ormai trentennale politica del figlio unico debba essere rivista.Subito. Si, perché «pochi figli, Cina vecchia, crescita addio» (“Corriere della Sera”, 1 novembre 2011, p. 21).
Certo, non sarà facile nel breve termine rimediare a decenni di aborto selettivo. I numeri, infatti, sono impressionanti, basti dire che dal censimento indiano del 2011 è emerso che l’equilibrio fa maschi e femmine è sceso a 1.000 contro 914 mentre nel 1981 le femmine erano 962, nel 1991 945 e nel 2001 927: un calo costante e drammatico. Che – lo abbiamo detto – non sarà facile da arrestare e da invertire anche se indubbiamente denunce forti come quella di It’s a girl non possono che sortire effetti positivi. Rimane da capire quando si aprirà gli occhi non solo sull’aborto selettivo ma sull’aborto in generale nel mondo occidentale, dove i bambini nascono in numero largamente inferiore rispetto all’Asia e dove ce n’è un grandissimo bisogno.
Perfino per uscire dalla crisi economica come dimostrano le considerazioni di studiosi come i due Nobel come Gary Becker e Amartya Sen, i quali – ribadendo cose già dette da Alfred Sauvy (1898 – 1990) – da tempo hanno sottolineato come la crescita demografica sia fondamentale per lo sviluppo economico (Cfr. AA. VV. Emergenza Demografia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, p. 69). Ne consegue non già la possibilità bensì la necessità, soprattutto per noi italiani – che notoriamente abitiamo il Paese più vecchio del mondo – di un ripensamento di cui abbisogna l’intero sistema sociale. E chissà che non venga prodotto pure per noi, prossimamente, un film che ci apra gli occhi sui danni demografici che ha prodotti in Occidente l’aborto di massa.
di Giuliano Guzzo
 
Non c'è dialogo senza chiarezza
di Angelo Francesco Filardo - http://www.lanuovabq.it21-12-2012fecondazione assistita
Nell'articolo pubblicato il 19 dicembre sulla NBQ Giacomo Samek Lodovici vuole affrontare una riflessione tra i vari pro life sulla legge 40/2004 rinunciando per sua scelta di parlare della sua promulgazione e ribadendo questa affermazione sia all'inizio che alla conclusione dell'articolo.

A me sembra troppo semplicistico affrontare una riflessione omettendo di parlare delle origini molto travagliate e dolorose - che mi hanno indotto a titolare Fecondazione in vitro via crucis dei pro life italiani un voluminoso dossier che documenta dettagliatamente tale travaglio - perché proprio in esse si trova la genesi di tante possibili picconate dei giudici e della scarsa attenzione che gli stessi giudici danno alle ripetute e manifeste violazioni della stessa legge 40.

Volendo limitare la riflessione sulle origini della legge 40 agli anni Novanta - anche se iniziano nella seconda metà degli anni Sessanta! - per capire come è nata la proposta di legge dell'on. Carlo Casini o del Nuovo Millennio, che sembra una fotocopia di quanto in esse descritto, basta leggere le pagine 37-40 di Sanare infirmos di dicembre 1996, n. 25 del terzo quadrimestre dell'anno 1996: "Fecondazione in provetta nel rispetto dell'uomo" (pagg. 37 e 38) e "Il Comitato di Etica e la procreazione assistita" (pagg. 39 e 40). A pag. 40 Alfredo Anzani, Delegato Regionale per la Lombardia (1995-2005) e consigliere nazionale dell'Associazione Medici Cattolici Italiani, Membro corrispondente della PAV e vicepresidente (dal 2004) della FEAMC (Federazione Europea dei Medici Cattolici), nella veste di segretario del Comitato Etico HSR (Ospedale San Raffaele), scrive:
1. Il Comitato, pur prospettando ai medici alcune fondamentali perplessità etiche relative alla tecnica di fecondazione extra-corporea, ha riconosciuto nel contempo gli innegabili benefici offerti da questa forma di terapia della sterilità grave, ha valutato attentamente la soluzione proposta e ha giudicato in modo favorevole la restrizione alla sola fecondazione omologa e le forme di tutela poste in atto per evitare, in maniera assoluta, lo spreco e la selezione degli embrioni.
2. Il Comitato ha apprezzato il principio esplicitamente espresso dai medici di operare “non per mezzo dell? embrione” ma “per l?embrione”, presupponendo cioè la dignità umana del concepito e considerando ogni embrione formato come oggetto di attenzione individuale.
3. Il San Raffaele ritiene che gli interventi in esso praticati sono sostanzialmente conformi agli insegnamenti complessivi del magistero ecclesiale, interpretati e applicati secondo i criteri generali e comunemente proposti dai moralisti cattolici. Più precisamente il San Raffaele ritiene che tali interenti siano riconducibili a una forma di “aiuto” che, anche secondo la dottrina ecclesiale, può essere legittimamente prestato per realizzare, in alcune condizioni, il fine della procreazione umana; con la fecondazione assistita non si vuole sostituire, infatti, al rapporto coniugale ma si desidera fare in modo che tale rapporto raggiunga il suo obiettivo, grazie all?aiuto che la medicina offre. Con questa metodica non si vuole operare al di fuori dell'"unità morale e fisica della coppia". L'atto di amore c?è, continua, è aperto alla vita…

In un rinomato Ospedale ambrosiano, fondato e gestito da un Sacerdote non solo viene praticata la fecondazione extra-corporea, ma nella loro rivista quadrimestrale viene affermato - con il silenzio/assenso dell'Ordinario del luogo - che tale pratica è terapia della sterilità ed è conforme agli insegnamenti complessivi del magistero ecclesiale, interpretati e comunemente proposti dai moralisti cattolici; e tutto questo accade nonostante la CDF in più occasioni ha invitato tramite l'Ordinario del luogo ad osservare l'insegnamento del Magistero espresso nella Donum vitae.

Da qui nasce l'ostinata sordità alle ripetute richieste di affermare nell'art. 1 della legge che la fecondazione in vitro non è terapia della sterilità e dell'infertilità coniugale per cui non rientra tra le prestazioni elargite dal Sistema Sanitario Nazionale e la semplicioneria dell'articolato della legge, che si limita a fare affermazioni di principio senza esplicitare in che modo bisogna applicarle.

E non sarà stata, forse, casuale la scelta della denominazione equivoca ed equivocabile di PMA, procreazione medicalmente assistita, che comprende procedure terapeutiche in vivo già in uso da decenni - l'inseminazione omologa, che a certe condizioni è anche eticamente accettabile per i Cattolici - e tecniche assolutamente non terapeutiche di riproduzione umana, quali sono i vari tipi di fecondazione extra corporea o in vitro.

Né è un caso che la Corte Costituzionale abbia dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 14, comma 2, della legge n. 40 del 2004 limitatamente alle parole «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre» affermando “Va premesso che la legge in esame rivela - come sottolineato da alcuni dei rimettenti - un limite alla tutela apprestata all'embrione, poiché anche nel caso di limitazione a soli tre del numero di embrioni prodotti, si ammette comunque che alcuni di essi possano non dar luogo a gravidanza, postulando la individuazione del numero massimo di embrioni impiantabili appunto un tale rischio, e consentendo un affievolimento della tutela dell'embrione al fine di assicurare concrete aspettative di gravidanza, in conformità alla finalità proclamata dalla legge. E dunque, la tutela dell'embrione non è comunque assoluta, ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione” e sottolineando che è prevalente la tutela del diritto alla salute della donna rispetto alla tutela vita degli embrioni “Il limite legislativo in esame finisce, quindi, per un verso, per favorire - rendendo necessario il ricorso alla reiterazione di detti cicli di stimolazione ovarica, ove il primo impianto non dia luogo ad alcun esito - l'aumento dei rischi di insorgenza di patologie che a tale iperstimolazione sono collegate”.

Da qui nasce anche l'ostinazione di Carlo Casini di continuare a parlare di destinazione nascita anche dopo la pubblicazione dell'istruzione della CDF Dignitas personae, che esplicitamente al n. 14 afferma “Occorre tuttavia rilevare che, considerando il rapporto tra il numero totale di embrioni prodotti e di quelli effettivamente nati, il numero di embrioni sacrificati è altissimo. Queste perdite sono accettate dagli specialisti delle tecniche di fecondazione in vitro come prezzo da pagare per ottenere risultati positivi. Quindi se l'autore dell'articolo legge bene i dati delle relazioni annuali del Ministro della Salute si rende conto che anche con la fivet omologa nell'anno 2010 il 90,3% degli embrioni trasferiti in utero (vedi tab. 3.67) ed il 92,8% degli ovociti fecondati (zigoti) (vedi tab. 3.37) sono stati sacrificati per far nascere i loro 10.036 fratellini, come anche la Corte Costituzionale riconosce nella sopracitata sentenza.

Da qui nasce anche l'ultima trovata dell'Associazione Scienza e Vita l'APN, adozione per la nascita, con la pretesa che ciò possa far riconoscere la dignità personale del concepito e quindi il suo diritto alla vita!

Riguardo all'interpretazione del n. 73 di Evangelium vitae è stato un eminente moralista cattolico, forse uno dei moralisti cattolici citati da Alfredo Anzani nel sopra riportato articolo di Sanare infirmos, a dare un'interpretazione funzionale alla proposta di legge ed autorevoli pareri, che non sono corretti come altri autorevolissimi moralisti hanno anche pubblicamente affermato. Un'interpretazione corretta è stata da me e da Altri data allo stesso n. 73 di E. V. in occasione dei Referendum sulla legge 40: durante la campagna referendaria dicendo tutta la verità scientifica conosciuta sulla fecondazione in vitro e manifestando apertamente la nostra contrarietà ad ogni forma di fecondazione in vitro abbiamo invitato tutti i cittadini ad astenersi dal votare perché così facendo si sono potuti limitare i possibili danni derivanti dall'abrogazione di alcuni divieti in essa contenuti.

Io capisco che un collaboratore assiduo di Avvenire senta il bisogno di difendere il quotidiano, che in fondo non fa altro che seguire le indicazioni ricevute, ma non mi pare che l'Avvenire abbia permesso il confronto tra ipro life sulla fecondazione in vitro pubblicando qualcuna delle numerose lettere inviate, ma che piuttosto abbia frequentemente ecceduto nella difesa e nell'esaltazione della legge 40 come in occasione dell' articolo comparso su Avvenire il 27 settembre 2011 a pag. 16 con il titolo trionfalistico "Incinta muore dopo il tumore grazie a ovuli congelati", che ha spinto Maurizio Mori a scrivere una lettera al Direttore per chiedergli se i Vescovi italiani avevano cambiato idea sulla fecondazione in vitro.

Non riesco a comprendere a fondo la finalità di questo intervento di Giacomo Samek Lodovici, ma una cosa è difendere a spada tratta la legge 40/2004 un'altra è denunciare
  1. gli attacchi che i vari giudici e le varie Corti continuamente fanno;
  2. le inadempienze del Ministro della Salute, che non si preoccupa di emanare linee guida che esplicitino in forma chiara quanto l'articolato della legge solamente proclama;
  3. gli abusi di alcune Amministrazioni Regionali (come ad esempio il Veneto);
  4. le omissioni di tanti giudici che invece di perseguire le violazioni della legge 40 da parte delle coppie che loro si rivolgono autorizzano ulteriori violazioni;
cosa che è stata sempre puntualmente fatta dai pro life che continuano a considerare ingiusta e mortifera la legge 40/2004 proponendo pure suggerimenti per limitare la strage di concepiti.

Se l'intento di Giacomo Samek Lodovici è quello di aprire un dialogo chiarificatore per por fine a questa dolorosa e triste vicenda a me sembra che non sia questo il luogo ed il modo migliore per farlo, ma Chi sta in alto ed ha a cuore il bene di tantissimi nostri fratelli concepiti e la comunione di tutti quelli che vogliono operare in questo senso sa chi invitare per un dialogo franco e costruttivo in cui deve splendere la verità e sicuramente - come sempre - saremo lieti di accogliere l'invito.
Le maniere cortesi di Don Rodrigo
di Tommaso Scandroglio - http://www.lanuovabq.it/21-12-2012Fecondazione artificiale
Leggendo l’articolo di Giacomo Samek Lodovici sulla legge 40, la quale ha legittimato le pratiche di fecondazione artificiale nel nostro Paese, vengono da articolare alcune riflessioni. Talune in sintonia con il suo scritto, altre meno.

Accettiamo di mettere da parte un giudizio storico e relative responsabilità morali di alcuni soggetti che si fecero promotori della legge 40, soggetti provenienti anche dall’ambiente “cattolico”. Lo facciamo anche se pesano non poco queste responsabilità.
Partiamo dal punto indicato dallo stesso Samek, cioè un fatto, bello o brutto che sia, ma un fatto inoppugnabile: esiste una legge che permette la fecondazione artificiale. “Che fare?” domanda Samek e domandiamo noi. Due sono le direttrici lungo le quali muoversi: quella culturale e quella politico-giuridica.

Da un punto di vista culturale occorre giudicarla alla luce del diritto naturale: è una legge intrinsecamente iniqua. Sia perché dissocia l’atto unitivo da quello procreativo reificando così il nascituro, sia perché, con dolo eventuale, sacrifica moltissimi embrioni al fine di avere pochi bambini in braccio. Quindi il giudizio è assolutamente negativo e i media, soprattutto quelli di area cattolica, non dovrebbero stancarsi di ripeterlo, così come ha fatto più volte lo stesso Samek (altra musica è accennare tra una parentesi e l’altra che non è una legge cattolica). In merito all’intrinseca iniquità della legge 40 Samek obietta che alcune sue parti – prese a se stanti - sono buone: il divieto di eterologa, la sperimentazioni sugli embrioni, ecc.

Alcune considerazioni su queste parti “buone”. In primis come ha accennato lo stesso Samek molti di questi divieti – non tutti – sono puramente formali, ma non sostanziali (come ben spiega il magistrato Giacomo Rocchi nel suo Il legislatore distratto, ESD). Sia perché sono facilmente aggirabili, sia perché spesso a fronte di un divieto manca una sanzione. E un divieto senza pena non è un divieto. Samek aggiunge a questo proposito che perlomeno sopravvive un effetto pedagogico di carattere deterrente di questi divieti nonostante siano solo formali. A questo proposito viene da rispondere – e Samek ne conviene - che simile effetto pedagogico, ben più marcato, è allora riscontrabile in tutta la legge 40 che sicuramente ha incoraggiato molte coppie a ricorrere alla provetta, coppie che senza questa legge non avrebbero mai pensato di avere un figlio nato in laboratorio.
Però – e qui c’è un snodo non sufficientemente messo in evidenza da Samek - tale spinta alla fecondazione artificiale di tipo omologo – consentita dalla legge – prima o poi travolgerà il divieto formale alla fecondazione eterologa, nonchè gli altri divieti, e di conseguenza i relativi effetti pedagogici. Gli attuali ricorsi giurisprudenziali depongono a favore di questa previsione.

In realtà nulla di nuovo sotto il sole. Il codice civile ad esempio impone un obbligo di fedeltà del coniuge verso l’altro coniuge. Anche in questo caso l’obbligo è meramente formale perché il reato di adulterio e connesse sanzioni sono ormai decadute. Può avere un effetto pedagogico tale comando ad essere fedeli al proprio coniuge? Sì, ma di lievissima entità, non solo perché manca una sanzione che possa essere di deterrente a condotte fedifraghe (e non ci riferiamo al carcere bensì a sanzioni alternative), ma soprattutto perché c’è una legge sul divorzio che formalizza e legittima l’infedeltà (la rottura del legame matrimoniale è di per se stessa atto di infedeltà al patto coniugale, anche se non c’è nessun terzo incomodo nel letto).

Così anche per la legge 194: legittimato l’aborto chirurgico eseguito in ospedale va da sé che il divieto delle pratiche abortive extra-ospedaliere – e relativi effetti pedagogici – hanno le ore contate. Ed infatti la RU486 è sì somministrata in ospedale (forse), ma poi la paziente che per legge dovrebbe rimanere nella struttura ospedaliera grazie alle dimissioni volontarie può far ritorno casa. E il divieto di pratiche abortive extra-ospedaliere e connessi effetti educativi che fine fanno? Rimangono sulla carta.
Stessa dinamica sta coinvolgendo la legge 40 in relazione alla legge 194: i giudici europei hanno infatti fatto notare che è illogico vietare la distruzione dell’embrione prima dell’impianto (legge 40) se poi è permesso (legge 194).

In soldoni: l’effetto pedagogico di divieti o comandi scritti nero su bianco nelle legge o nei codici è pressoché vanificato se non ci sono pene per chi sgarra e se ci sono altre leggi o norme delle stesse leggi che le contraddicono de iure e de facto. Si chiama mancanza di effettività del divieto. Ciò a dire che il presunto effetto di orientare le condotte in modo virtuoso si avvicina all’astrazione e non apporta reali effetti positivi nella vita concreta. Ma il giurisperito, ahinoi, si occupa della vita reale non delle astrazioni filosofiche. Occorre quindi stare attenti a non peccare di irrealismo.

Dunque di fatto e di diritto le parti buone vengono travolte non dalle parti cattive, ma dal DNA delle leggi intrinsecamente inique. Dire che una legge è intrinsecamente malvagia significa che la sua struttura portante, la sua essenza, la sua natura intima è marcia. E quando la pianta è marcia anche i suoi frutti, persino quelli potenzialmente buoni, marciranno prima o poi. La legge 40 sconta un peccato originale che intacca tutte le sue parti, così come una breccia in una diga prima o poi interesserà tutta la diga. E i diversi ricorsi giurisprudenziali che la stanno smantellando sono la naturale e inevitabile conseguenza di questo peccato originale. Di converso se la matrice di una legge è buona anche se non perfetta – vedasi il caso della legge tedesca citato da Samek che proibiva l’aborto seppur con ampia clemenza – c’è da sperare che qualche frutto buono lo porti.

Crediamo poi che sia da privilegiare una lettura della legge nella sua completezza più che nelle sue singole parti. Anzi: il giudizio su una legge per essere corretto dovrebbe derivare da un’analisi della legge all’interno dell’intero ordinamento giuridico: vedasi l’esempio di prima sulla relazione l. 40 e l. 194. Questo perché la legge è come un organismo umano. Che dire di una persona che ha un tumore ad un polmone? Quale medico affermerebbe che la persona è sana e che solo un polmone è malato? Inoltre se il male non viene debellato in quell’organo quanto prima, come sopra accennato, anche le altre parti sane si ammaleranno.

Oppure, per esemplificare ancora, sarebbe un poco temerario asserire che nella vita di Toto Riina è opportuno fare un distinguo tra condotte malvagie – le stragi, gli omicidi – e condotte buone, es. l’aver coltivato la terra. Sicuramente anche nell’esistenza di questo mafioso qualcosa di buono c’è stato, ma il giudizio sulla persona alla fin fine – cioè in toto - non può che essere negativo.
Dunque in buona sostanza e su un piano meramente critico la legge 40 è una legge iniqua perché permette pratiche inique e le sue parti buone assomigliano tanto alle maniere cortesi con le quali Don Rodrigo accolse Fra Cristoforo nel suo palazzotto.

Ma ritorniamo alla domanda iniziale: che fare con questa legge? Nella prospettiva giuridica occorre distinguere il piano di azione nelle aule dei tribunali da quello in ambito parlamentare. In merito al primo aspetto, laddove c’è un ricorso contro la legge 40 c’è poco da fare: occorre aggrapparsi a tutto. E se l’unico appiglio sono quei divieti fragili, fragilissimi contenuti nella legge 40 non si potrà che difenderli in tutti i modi per evitare che una legge ingiusta diventi ancora più ingiusta, sperando che non si sgretolino nelle nostre mani.

Sul piano invece politico-parlamentare la meta ultima è doverosamente - per il credente e non solo - l’abrogazione. Naturalmente non basterebbe abrogare il testo ma occorrerebbe sostituirlo con uno di segno opposto che vieti qualsiasi pratica di fecondazione artificiale. Ovviamente poi questo risultato abrogativo non è raggiungibile realisticamente domani. Ma se non ci si muove mai verso quella direzione, mai ci arriveremo. In genere l’obiezione usuale e sicuramente ragionevole è la seguente: proporre un disegno di legge o un referendum per la sua abrogazione e per l’inserimento di conserva di una normativa che vieti la fecondazione artificiale sarebbe controproducente per due motivi. Non solo perderemmo politicamente dato che il Paese non è pronto a simili cambiamenti, ma perderemmo per sempre anche la facoltà di opporci seppur in modo minimale contro la legge 40. Vero, ed infatti è un’opzione da valutare con attenzione per evitare effetti boomerang.

Ma su un fronte opposto come non ricordare le lezioni di strategia che ci vengono dal nemico? Come non ricordare la batosta che nel 2005 hanno ricevuto i radicali nel referendum da loro perso sulla legge 40? Eppure il giorno dopo sono ripartiti all’attacco e i frutti amari di quel loro impegno tutti noi oggi li gustiamo. Come non ricordare il referendum massimalista da loro perso nell’81 sull’aborto? Ma nonostante ciò nell’immaginario collettivo i radicali rimangono i difensori dell’aborto libero. Come non rammentare le sei volte che Beppino Englaro andò da un giudice per chiedere che venisse staccata la spina a sua figlia e le relative volte che un giudice gli negò questa facoltà? Eppure alla fine riuscì nel suo intento. Ed infine come non ricordare il disegno di legge dell’on. Grillini che nel 2002 voleva l’equiparazione del “matrimonio” omosessuale con quello etero? È finito in un cassetto, ma non è finito in un cassetto il tam tam culturale che spinge in quella direzione.

Perché dunque è importante provarci? In primo luogo perché è irrealistico illudersi che al primo tiro in porta si possa far gol, occorre tentare più volte. In secondo luogo perchè – muovendoci nella prospettiva pedagogica indicata da Samek – anche se si perde in Parlamento si sposta il baricentro della lotta culturale dalla propria parte, come testimoniano gli esempi citati. Cioè si istruisce la massa a favore delle proprie posizioni dato che solo proporre un referendum o una legge fa parlare di sé, muove opinioni, crea discussione, facendo avvicinare sempre più la meta ultima.

Sempre sul piano politico poi è strategicamente perdente difendere la legge 40, o sue parti buone. Perché giocare sempre in difesa magari fa pareggiare una partita, ma di certo fa perdere il campionato (oltre che far nascere nei tifosi il sospetto di qualche strana combine con gli avversari). Occorre invece giocare d’attacco, così come mi pare che lo stesso Samek proponga. Cioè nei modi e tempi opportuni – se la prudenza politica sconsiglia un’azione di abrogazione totale della legge - è necessario farsi promotori di azioni politiche volte allo smantellamento graduale della legge 40 nelle sue parti inique con l’inserimento in parallelo di effettivi divieti. In aggiunta oppure in alternativa restringere l’ambito di applicazione di alcune sue norme. Questo è il vero ambito di applicazione del n. 73 dell’Evangelium Vitae citato da Samek, che non incensa le parti buone di leggi cattive, ma che sprona a rendere meno cattive queste leggi.

Se si gioca in attacco è vero che ci si espone al contropiede, ma forse si corre anche il rischio di mettere a segno qualche rete. In tal modo poi rovesceremo la situazione odierna che vede più di un cattolico difendere la legge 40 perché teme che venga peggiorata, ingenerando poi tra i fedeli non poca confusione. Infatti proprio nella prospettiva pedagogica che sta così a cuore a Samek, il credente comune si trova non poco disorientato a leggere su alcuni giornali cattolici che la legge 40 deve essere difesa e non è infrequente che arrivi a considerare la legge 40 una buona legge e quindi ad approvare le tecniche di fecondazione extra-corporea. Se si gioca protesi in avanti invece saranno i pro-choice che si vedranno costretti a difendere la propria porta, cioè la legge 40, e non più i “cattolici”. Questo è l’unico modo non solo per tentare di rendere meno peggiore una legge ingiusta – obiettivo più alto – ma anche, puntando al minimo sindacale, per sperare che non venga smantellata dai giudici. Il resto è cronaca di una morte annunciata.
L'imbroglio delle biomasse "pulite"
di Michele Corti - http://www.lanuovabq.it21-12-2012
La stampa nazionale tace su quanto ribolle nel far west della produzione di energia da biomasse. Troppi e troppo forti sono gli interessi coinvolti nel business. Ogni giorno, però, vi sono manifestazioni, assemblee, ricorsi, polemiche al calor bianco che esprimono un elevato livello di conflittualità scatenato dalla corsa a realizzare nuove centrali sulla spinta dei super incentivi. Questi ultimi, nonostante la quota di energia elettrica “verde” abbia superato gli obiettivi prefissati, sono stati semplicemente “limati” e resteranno sino al 2028. L'opposizione, oltre che dai temuti impatti degli impianti, è motivata anche dalla consapevolezza di essere in presenza di una truffa, a partire da quella etichetta “rinnovabili”.
Definire “rinnovabile” l'energia delle biomasse appositamente coltivate (che richiede l'impiego di grandi quantità di energia fossile per la lavorazione dei terreni, la produzione dei concimi chimici e dei pesticidi, i trasporti) ed equiparandola a fonti come il sole e il vento o le maree è di per sè fuorviante. Aggiungasi che le superfici utilizzate per produrre queste biomasse sono spesso sottratte alle foreste, alle savane, alle torbiere in Asia o in Africa. La messa a coltura di queste terre “vergini” provoca grandi emissioni di CO2. La scarsa sostenibilità della produzione di olio di palma è stata riconosciuta dall'agenzia per l'ambiente Usa che lo ha classificato biomassa “non rinnovabile”, così come altri paesi.

Anche a casa nostra le biomasse sottraggono terreno alla produzione alimentare. Le centrali “agricole” a biogas sono passate da 179 nel 2010 a 499 nel 2011 a 1000 nel 2012. A Cremona, dove se ne contano 140, il 15% della superficie coltivata è destinato a biogas. Gli apologeti del business non considerano che ai costi energetici diretti si sommano gli effetti indiretti legati al fatto che gli alimenti per l'uomo e per il bestiame non più prodotti in loco vanno prodotti altrove a costi energetici spesso più elevati (cui si aggiungono i trasporti). Non ci sono quindi risparmi di energia fossile e di emissioni di gas climalteranti.
Un risultato cui contribuisce significativamente lo spreco dell'energia prodotta. Solo 1/3 viene sfruttata per produrre energia elettrica (superincentivata) mentre il resto è disperso come calore in atmosfera perché la decantata “cogenerazione” è quasi impossibile. O i “camini” si avvicinano alle abitazioni e alle scuole (esponendo chi vive nelle immediate vicinanze agli effetti di forti emissioni inquinanti e ai miasmi) o si devono realizzare km di tubazioni a costi che i gestori degli impianti non si sognano di assumersi. Una centrale a biogas da 1MW el. emette 35 kg di NO2 al giorno (ossidi di azoto = precursori delle polveri sottili), ovvero l'equivalente delle emissioni di 20 mila autovetture che percorrono 20 km al giorno. Va molto peggio, ovviamente, con le centrali a combustione e viene da dire che c'è della perversione in questo aumento di camini, specie in una pianura padana dove le polveri sottili nell'aria superano quasi ovunque la soglia dei 35 giorni con concentrazioni superiori a 50μg/m3.
I disagi (emissioni, odori, traffico, danno paesaggistico) si ripercuotono anche sulle attività economiche nelle vicinanze e sul valore degli immobili . L'intera economa agricola è  turbata dall'aumento dei prezzi degli affitti dei terreni, raddoppiati o triplicati sotto la spinta di una concorrenza  impari. Grazie ad una tariffa “onnicomprensiva” di 28 cent/kWh si realizza (centrale da 1MW) un incasso di 2,1 milioni di euro ovvero 1 milione di profitto netto annuo garantito per 15 anni (a fronte di un investimento di 3-3,5 milioni di euro). Lo scandalo è che questo reddito è “agricolo” ovvero esentasse (si continua a pagare in base in base al valore d'estimo del tipo di terreno).
Non è finita: sulle superfici coltivate a biomasse, almeno per ora, si incassano i premi della PAC. I gruppi finanziari, forti anche della liquidità assicurata dal business, stanno mettendo le mani sulla terra attraverso contratti di affitto a lunga scadenza. Una tendenza che non lascia intravedere nulla di buono: concentrazione sempre più forte della produzione di cibo in poche mani e - una volta cessati gli incentivi alle scandalose biomasse coltivate - trasformazione delle centrali in recettori di rifiuti e fanghi, con tutti i rischi legati alla disseminazione di migliaia di impianti in tutta la penisola. Di impossibile controllo.