mercoledì 30 ottobre 2013

L'inquisizione gay mette il Senegal nel mirino dell'Onu di Massimo Introvigne, 30-10-2013, http://www.lanuovabq.it

Obama in Senegal

A partire dal 21 ottobre si è giocata a Ginevra, di fronte alla Commissione per i Diritti dell'Uomo delle Nazioni Unite, un'interessante partita che riguarda il Senegal. Su domanda di Gran Bretagna, Germania, Belgio e Olanda il Senegal è stato sottoposto a una vera e propria inquisizione per le sue norme in materia di omosessualità. La vicenda interessa i cattolici, perché è stata tirata in ballo anche la Santa Sede.

Nel mirino dell'ONU è l'articolo 319 del Codice penale senegalese, che punisce «chiunque avrà commesso un atto improprio o contro natura con una persona dello stesso sesso» con la reclusione da uno a cinque anni. Il Ministro della Giustizia del Senegal Sidiki Kaba ha spiegato a Ginevra che, benché i giornali europei e americani parlino spesso di persone condannate in quanto omosessuali, di fatto i tribunali condannano solo per comportamenti osceni omosessuali tenuti in luoghi pubblici - che sarebbero sanzionati anche in molti Paesi europei - o per attività propagandistiche in favore dell'omosessualità. «Nessuno è oggi in prigione in Senegal soltanto per la sua omosessualità», ha dichiarato il ministro. Se al Senegal saranno applicate sanzioni si chiarirà nelle prossime settimane.

Il Senegal è un Paese democratico. I più fedeli lettori del nostro quotidiano ricorderanno le mie cronache delle elezioni presidenziali del 2012, che avevo avuto occasione di studiare sul posto. Contrariamente a molti timori, le elezioni si svolsero regolarmente e portarono al potere un oppositore del precedente presidente Wade. Il Senegal - lo posso dire sulla base della mia osservazione - è un Paese sostanzialmente libero, dove la stampa dibatte di ogni argomento criticando spesso le autorità. Anche le società di sondaggi - come dimostrarono le elezioni - svolgono il loro lavoro in modo indipendente. 

La questione dell'articolo 319 del Codice penale è stata sollevata in modo piuttosto arrogante dal presidente americano Obama nella sua visita in Senegal del 26-28 giugno 2013. Obama ha affermato in quell'occasione che la sua amministrazione non collabora e non concede aiuti ai Paesi che non tutelano i diritti degli omosessuali. L'intero consiglio dei ministri del Senegal  lo ha mandato a quel paese, dichiarando che una modifica dell'articolo 319 non è all'ordine del giorno perché sarebbe interpretata come una dichiarazione da parte dello Stato che gli atti omosessuali sono qualche cosa di «normale» e positivo, il che è contrario al comune sentire della società senegalese. Un sondaggio ha rilevato che il 98% dei senegalesi condivide questa posizione del governo. Una trentina di organizzazioni musulmane - che rappresentano in buona parte il mondo delle confraternite sufi, cui aderisce la maggioranza della popolazione senegalese - ha espresso la stessa posizione.

Queste organizzazioni, cui si sono aggiunti anche esponenti cattolici - il cattolicesimo è la seconda religione del Senegal - hanno ora protestato per l'indagine delle Nazioni Unite, che considerano il risultato di manovre degli Stati Uniti e di alcuni Paesi europei. Il problema sollevato da queste personalità religiose senegalesi è di grande interesse. La portata dell'articolo 319 è ampiamente simbolica, e la sua difesa consiste nella riaffermazione del principio secondo cui gli atti omosessuali sono intrinsecamente disordinati e la propaganda di questi atti nuoce al bene comune. Si può discutere se norme che incriminino gli atti omosessuali - per quanto poco o mai applicate - siano  oggi uno strumento efficace per ribadire questo principio. Ci sono anche voci cattoliche che ritengono la formulazione di queste norme obsoleta. 

La stessa Santa Sede, nel suo intervento alla Sessione delle Nazioni Unite del 18 dicembre 2008 sull'orientamento sessuale e l'identità di genere, si è detta favorevole all'abrogazione delle norme penali che «sulla base del diritto penale impongano pene alle persone omosessuali in quanto tali». È una dichiarazione spesso citata dalle organizzazioni omosessuali, le quali però si dimenticano che nello stesso documento si legge che l'abolizione di norme penali che colpiscano le persone omosessuali in quanto tali non deve risolversi in una promozione dell'ideologia di genere né andare al di là del suo scopo preciso e limitato, la «protezione delle persone omosessuali da ogni forma di violenza» pubblica o privata: una protezione che ovviamente la Chiesa considera del tutto legittima e anzi doverosa.

D'altro canto, le organizzazioni religiose senegalesi e il governo toccano un punto delicato quando accusano l'amministrazione Obama e l'Europa di neocolonialismo,  scrivendo in un documento sull'inchiesta di Ginevra che «si vuole imporre al Senegal un modello subculturale presunto "universale" ma che il popolo senegalese non vuole e che contrasta con i suoi valori tradizionali e religiosi». E lo si vuole imporre con il ricatto: o accettate la nostra visione dell'omosessualità o vi blocchiamo gli aiuti. Davvero possiamo imporre ai senegalesi un modello che il 98% della popolazione rifiuta? Tanti intellettuali europei pronti a riempirsi la bocca con slogan anticolonialisti non hanno nulla da dire?

E non c'è solo il Senegal. In Belize, nel Centro-America, la Corte Suprema sta discutendo il fato di una norma simile a quella senegalese, difesa dalla maggioranza delle comunità religiose del Paese contro fortissime pressioni dell'amministrazione Obama. Non manca neppure chi vuole tirare il Papa per la talare. Il 16 ottobre 2013 Human Rights Watch ha scritto una lettera a Papa Francesco ricordandogli la famosa dichiarazione della Santa Sede all'ONU del 2008, lodando le sue presunte «aperture» agli omosessuali in qualche intervista, e mandandogli una straordinaria «lista nera» di vescovi che si oppongono all'abrogazione delle norme che incriminano gli atti omosessuali e che il Papa dovrebbe punire. In realtà - esaminando i casi uno per uno, dal Senegal al Belize - non esiste nessun vescovo che vuole vedere gli omosessuali messi in prigione a causa della loro condizione. Ma ci sono vescovi che, esattamente come la dichiarazione della Santa Sede del 2008, si preoccupano che l'abrogazione delle norme penali sull'omosessualità - pure in sé e per sé auspicabile - non avvenga in un contesto che apra le porte alla promozione dell'ideologia di genere e al riconoscimento pubblico delle unioni omosessuali, oltre a provocare reazioni in popolazioni che percepiscono le pressioni straniere come imposizioni neocolonialiste.

C'è, infine, un altro aspetto del problema. Tutti sappiamo come sia delicato oggi distinguere fra emigrazione economica e fuga dalle persecuzioni, e fra immigrati e rifugiati. Un certo numero di senegalesi oggi arriva in Europa e chiede lo status di rifugiato dichiarando di essere omosessuale, perseguitato come tale in base all'art. 319. In Francia le richieste sono numerose, e la questione è sofferta, anche perché la polizia ha scoperto che alcuni dei richiedenti asilo non sono affatto omosessuali ma si dichiarano tali per acquisire la comoda posizione di rifugiato. In Italia ci facciamo meno problemi. Il 20 settembre 2012 la Cassazione ha stabilito che l'esistenza in Senegal dell'articolo 319 «giustifica la concessione dello status di rifugiato politico all'omosessuale» senegalese, che non potrebbe «vivere liberamente la propria sessualità» in patria e dunque deve essere accolto come rifugiato per poterla vivere da noi.

Bambini rieducati a scoprire il... "segreto di papà" di Roberto Marchesini, http://www.lanuovabq.it

Il segreto di papà

Secondo lo psicologo olandese, naturalizzato statunitense, Conrad Baars il dono più grande che i genitori possono fare a dei bambini è la “affermazione” (affirmation), definita come “la radice di una felice vita umana”.
In cosa consiste l'affermazione? In poche parole, nell'autorizzazione ad essere se stessi: a provare i sentimenti che si provano, a pensare ciò che si pensa, a reagire come si reagisce. Poi, ovviamente, su queste cose si può lavorare (è questo il ruolo dell'educazione); ma in questo modo il bambino sa di essere adeguato, di essere apprezzato incondizionatamente, per quello che è.
Una persona non affermata, secondo Baars, è una persona che è costretta a indossare delle maschere per tutta la sua vita, perché fin da piccola ha vissuto la sensazione di non essere adeguata, di non “andare bene”, di essere sbagliata.
Pensavo a queste cose mentre sfogliavo un libro per bambini, intitolato “Qual è il segreto di papà”. La casa editrice e l'autrice sono le stesse di un altro libro per l'infanzia, del quale la Bussola si è già occupata.
In questo nuovo libro leggiamo la storia di due fratelli, Giulia (6 anni) e Carlo (9 anni). Papà e la mamma si sono separati; all'inizio i due piccoli erano un po' preoccupati (avrebbero rivisto il papà?), ma poi tutto è andato a posto: “Trascorrono con lui un pomeriggio alla settimana, un fine settimana su due e quindici giorni di vacanza all'anno”. Che gioia! Ma le belle notizie non sono finite: “La mamma ha invitato Ale, il suo nuovo compagno, a vivere con loro”. Che bello, Ale non sgrida mai i due bimbi, e quando c'è lui la mamma è più contenta!
Papà, invece, è molto misterioso, e non vuole stare con tutti i membri della sua famiglia allargata. Quale sarà il segreto di papà? Forse soffre per la separazione? Perché la mamma ha un nuovo compagno e l'ha portato a vivere con i suoi figli? Ha problemi di depressione, problemi economici, difficoltà come ne hanno tutti i padri separati? Figuriamoci... Niente di tutto ciò: papà è gay! È  innamorato di Luca e i due si sposerebbero anche “Se qui si potesse”.
Gulia – ovviamente – è felice; Carlo, invece, no. A scuola, per prendere in giro qualcuno, i suoi compagni usano proprio la parola “Gay”. Allora il papà è andato a parlare con la maestra, la quale ha spiegato ai bambini che la parola “Gay” non è un insulto, ma significa “Allegro”! Così tutti sono felici e contenti, anzi: allegri! Tutto bene, ottimo e abbondante, anzi: allegro. Il problema è che: è tutto falso.
A partire dalla faccenda della separazione, per finire in un crescendo rossiniano, quello descritto è un mondo immaginario. Chi ha avuto a che fare con le separazioni è abituato a meccanismi come il “conflitto di lealtà”, o alle conseguenze dell'egocentrismo infantile; conosce le conseguenze di una separazione sui bambini, e sulle loro relazioni con i genitori. È noto quale sia il dramma dei padri separati, e quali siano le conseguenze di una separazione anche sugli adulti (cfr. Massimiliano Fiorin, Finché la legge non vi separi, San Paolo 2012).
Per non parlare dell'impatto dei nuovi partner dei genitori, o dell'omogenitorialità (cfr. Dawn Stefanowicz, Fuori dal buio, Ares 2012), sui bambini.
Così il mio primo pensiero è stato: se un bambino vive anche una sola delle situazioni descritte nel libro, e non è “allegro” per quello che gli sta capitando, non si sentirà “non affermato”, come diceva Conrad Baars?
Ma poi ho pensato a Pavka Morozov, al “Country del cavaliere nano”, al tredicenne oratore al congresso di Libertà e Giustizia, ai bambini che sfilavano all'Europride 2011. E ho capito che la mia è una domanda stupida. Cosa volete che importi dei bambini a chi ha votato la sua vita all'ideologia?

martedì 29 ottobre 2013

Storia della Neuroetica (6), di Alberto Carrara, LC, lunedì 28 ottobre 2013, http://acarrara.blogspot.it/




Per inquadrare al meglio in neurocentrismo contemporaneo, bisogna, a questo punto, considerare lo sviluppo spettacolare delle tecniche di neuroimaging, frutto di una visione interdisciplinare che alle scoperte mediche associa lo sviluppo tecnologico.

  

Come recentemente messo in luce da due ricercatori italiani sulle prestigiose riviste scientifiche The Journal of Neuroscience e Brain, la prima testimonianza in assoluto di quelle che attualmente conosciamo come tecniche di neuroimaging (come la risonanza magnetica funzionale, fRMN e la tomografia a emissione di positroni, PET), presenti negli ospedali di tutto il mondo, è da attribuire al medico e scienziato torinese Angelo Mosso (1846-1910), pioniere della neurologia e delle neuroscienze. Gli esperimenti originali e le invenzioni di Mosso, che possono venir definite The first neuroimaging ante litteram, seppur poco note, costituiscono la prima, sorprendente, dimostrazione di come l’attività cognitiva ed emotiva sia intimamente legata ad un aumentato flusso di sangue al cervello, che è maggiore all’aumentare della difficoltà del compito che si sta eseguendo. 



Mosso mise a punto una curiosa struttura, detta “bilancia per pesare le emozioni e l’attività cognitiva”, in grado di valutare la respirazione e la circolazione, con misure all’altezza del torace, delle mani e dei piedi del soggetto che veniva fatto coricare. Mosso, quindi, invitava il soggetto a rilassarsi per un’ora, periodo necessario affinché il sangue potesse raggiungere una posizione di “equilibrio” in tutto il corpo. Quando al soggetto coricato era mostrato un testo scritto, la bilancia pendeva dalla parte della testa in modo proporzionale alla difficoltà della lettura. Ecco l’evidenza e il fondamento delle moderne tecniche di neuroimaging.



Oggi, infatti, sappiamo che quando pensiamo o proviamo emozioni aumenta il flusso di sangue al cervello: Mosso fu il primo a dimostrarlo35.

Questi contributi, insieme agli ulteriori sviluppi dell’angiografia cerebrale degli anni ’30 ad opera del premio Nobel António Egas Moniz, e all’avvento della tecnica dell’elettroencefalografia, hanno prodotto un notevole e cruciale passo in avanti nella storia della medicina36.

L’avvento della TAC, tomografia assiale computerizzata, costituì il preludio ad una nuova ed avvincente epoca nello studio del cervello umano. Altre tecniche di importanza capitale nelle neuroscienze e nella neuroetica sono: la risonanza magnetica, in particolare, la risonanza magnetica funzionale, che permette di evidenziare i cambiamenti della distribuzione del flusso ematico cerebrale in individui sottoposti a compiti (tasks) sia di ordine sensoriale, come motorio a seconda dei diversi paradigmi cognitivi, emozionali o motivazionali. Queste tecnologie hanno letteralmente catapultato gli studi relativi al nostro organo cerebrale, sia in condizioni patologiche, come in situazioni normali. Questa tecnica funzionale, insieme alla tomografia ad emissione di positroni, la PET, e la magnetoencefalografia, hanno fatto sì che la ricerca con neuroimaging costituisca attualmente la frontiera più ambita e più sviluppata degli studi relativi al sistema nervoso37.

Tutta questa storia, riassunta per sommi capi in alcune delle sue tappe più salienti, ha contribuito agli eventi globali sopra menzionati: la decade del cervello (1990-200038) e quella della mente (2001-2011), l’anno delle neuroscienze (2012), etc.

Questo progresso neuroscientifico e le scoperte relative al funzionamento e l’applicazione nanotecnologica, sia nell’ambito diagnostico, come in quello terapeutico, sul cervello umano, hanno creato un panorama scientifico e mediatico peculiare nella storia del pensiero che diversi esperti non hanno esitato a ribattezzare come una vera e propria “neuromania”39. 

Accanto a questa è sorta e si sta promuovendo una neuro-cultura che mira a diffondere le scoperte e le nozioni relative alle neuroscienze. Oggi, lo sviluppo delle capacità tecnologiche rende possibile studiare in vivo e visualizzare le aree del nostro cervello osservandone, anche in tempo reale, la loro maggiore o minore attivazione nelle circostanze più svariate. Questo ha prodotto un vero e proprio fiume di studi scientifici in base alla fantasia e al genio di ciascun ricercatore.

Dal voler comprendere le basi neurofisiologiche di attività umane quali la memoria, il linguaggio, la vista, la personalità, etc., si è iniziato a studiare i tratti più caratteristici dell’umano: la coscienza e la libertà.

Tutta una neuro-cultura, volenti o nolenti, ci pervade, forse, senza che ce ne rendiamo conto: pubblicità, ad esempio, come quella che illustra dei pantaloni da uomo che conformano un cervello umano, oppure oggetti d’abbigliamento, borse, persino torte e cioccolatini a forma di encefalo umano.

… (continua lunedì prossimo)


35 Cf. S. Sandrone – M. Bacigaluppi, «Learning from Default Mode Network: The Predictive Value of Resting State in Traumatic Brain Injury», The Journal of Neuroscience 32 (6), 8th of February 2012, 1915-1971; http://acarrara.blogspot.com/2013/05/the-first-ante-litteram-neuroimaging.html.
36 Cf. J. M. Giménez Amaya – S. Sánchez-Migallón, De la Neurociencia a la Neuroética..., 31.
37 Cf. J. M. Giménez Amaya – S. Sánchez-Migallón, De la Neurociencia a la Neuroética..., 35-37.
38 Per un breve resocondo si possono leggere le seguenti pagine: Cf. J. M. Giménez Amaya – S. Sánchez-Migallón, De la Neurociencia a la Neuroética..., 40-45.

39 Cf. Legrenzi, P. - Umiltá, C., Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo, Il Mulino, Bologna 2009.

venerdì 25 ottobre 2013

«Legge anti-omofobia? Illiberale e contro la Costituzione», 25 ottobre 2013, Avvenire.it



Il disegno di legge contro l’omofobia, approvato in prima lettura dalla Camera il 19 settembre, presenta il «forte rischio» di «una deriva antiliberale». Lo scrive e lo dimostra Marco Ferraresi, ricercatore di Diritto del lavoro all’Università di Pavia e presidente dell’Unione giuristi cattolici italiani pavese, in un lucido e documentato articolo che apre il Forum monografico su «Omosessualità e "omofobia"» pubblicato sul nuovo fascicolo del trimestrale Iustitia.

La rivista di informazione e cultura dell’Ugci offre come utile strumento di riflessione quattro interventi che riflettono e argomentano sulla legge passata ora all’esame del Senato. Con le firme di Gianfranco Garancini («La proposta di legge "anti-omofobia" tra – legittima – garanzia della libertà individuale e – inaccettabile – protezione del soggettivismo»), Ferrando Mantovani («I delitti di "omofobia" e di transfobia e le inquietudini giuridiche») e Maria Costanza («Genere o non genere, questo è il problema») Iustitia mette a disposizione dei lettori dati di fatto, idee controcorrente e spunti giuridici per formarsi un’opinione documentata su una vicenda che ha diviso l’opinione pubblica ed è ben lontana dal chiudersi, anche perché finalmente nell’opinione pubblica alcune vicende (il caso-Barilla in primis) hanno aiutato a comprendere le incognite della discussa norma. «Taluni movimenti che promuovono la proposta di legge – scrive Ferraresi – già utilizzano toni verbali accesi contro chi esprime un pensiero diverso, minacciando sin da ora azioni legali». Ed è ugualmente vero che «all’estero, là dove vigono già leggi simili, i margini della libertà di espressione nell’applicazione giurisprudenziale e nella prassi amministrativa sembrano assottigliarsi significativamente, rischiandosi conseguenze penali financo per la mera citazione in pubblico dei passi biblici in tema di omosessualità». In realtà, documenta Ferraresi, «sembra che il diritto italiano già protegga adeguatamente la persona, doverosamente, qualunque sia il suo orientamento sessuale o di "genere"». Per questo motivo, e per le pesanti perplessità sui limiti alla libertà di espressione, «la legge desta forti dubbi di illegittimità costituzionale, peraltro emersi nel corso della discussione nella Commissione Affari costituzionali della Camera».

A far pensare a una possibile incostituzionalità della legge, ammesso (e non concesso) che venga approvata in via definitiva nell’attuale formulazione, sono il «profilo dei princìpi di tassatività della fattispecie penale e di libertà di manifestazione del pensiero» ma anche la limitazione dei capisaldi «di libertà religiosa e di libertà educativa, comprensiva della educazione sessuale, dei genitori verso i figli e delle scuole verso gli alunni». Di legge «inaccettabile» parla anche il giurista Gianfranco Garancini, presidente Ugci di Milano, biasimando l’idea di una norma che «in nome della tolleranza "speciale" predica intolleranza» e che «in nome di una libertà d’espressione per alcuni pochi predica negazione della libertà d’espressione per altri». Di «dettagli non certo irrilevanti» nella legge sull’omofobia che «agevolano il percorso per raggiungere il riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali e l’attribuzione alle stesse del diritto di adozione» parla il direttore e animatore di Iustitia Benito Perrone, in un editoriale nel quale richiama l’attenzione sull’inquietante documento «Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (2013-2015)» varato dal Dipartimento per le pari opportunità (sotto il governo Monti) per promuovere «"buone prassi" – come ricorda Perrone – che promuovano la realizzazione in concreto degli obiettivi prefissati, che stravolgono, senza parere, alcuni pilastri culturali della Costituzione».

Francesco Ognibene

Y a-t-il une «théorie du genre» ? - Par Les éveilleurs dans Anthropologie le 25 Octobre 2013



Mme Vallaud-Belkacem, porte-parole de l’actuel gouvernement, a affirmé qu’il n’y avait pas de « théorie du genre ». Le débat est clos ; La polémique est nulle et non avenue ! Il est intéressant de constater que l’autorité politique tranche ainsi une question d’ordre théorique. Le Politique doit avoir ses convictions ; mais doit-il décider d’autorité de ce qu’il doit en être d’un problème qui relève d’un champ théorique d’interrogation ? L’attitude de la porte-parole est d’autant plus douteuse que ces questions scientifiques, d’abord sont problématiques du point de vue de  leurs fondements, ensuite  paraissent dogmatiquement vouloir venir orienter dans une large mesure la politique actuelle.

La « théorie du genre » renvoie-t-elle à quelque chose ou pas ? Faut-il parler plus adéquatement d’ « études de genre » ? Pourquoi insister sur cette différence d’appellation ? Parce qu’il y a eu un glissement depuis le cadre des « études de genre » vers ce qu’on peut appeler une « théorie du genre ». Nous nous poserons ici la question de savoir quel est le fondement de ce cadre théorique afin de décider s’il s’agit là d’une théorie comme une autre ou bien si l’interprétation du réel qu’elle engage, loin d’être neutre, pourrait avoir des conséquences fâcheuses voir idéologiques.

I/ La base médicale et psychologique des « études de genre »  ;:

La notion de « genre » renvoie à la question de l’identité sexuelle de tout un chacun. Les « études de genre » tendent à montrer que cette identité est intégralement construite culturellement, la différenciation sexuée naturelle, comme fait biologique, étant alors minimisé voire niée. La mise en place d’un tel cadre d’étude a une histoire qui commence avec des recherches à la croisée de la médecine et de la psychologie.

D’origine américaine, les « études de genre » (« gender studies ») étaient au départ – dans les années 1930 – les « women studies »[1] ; leur champ d’étude concerne les rapports de pouvoir entre hommes et  femmes, les politiques mises en œuvre et les différences sociales liées au sexe biologique. Dans les années 70, certains mouvements féministes radicaux proches des thèses marxistes s’en sont emparés. Les différences ont été appelées « inégalités »[2] et la répartition des tâches renommée « assignation sexuelle » ; ce glissement a permis d’introduire les concepts de « domination masculine », de « patriarcat », voir « d’oppression »[3]. Pour ces mouvements extrémistes, on peut raisonnablement parler de croisade contre le sexe masculin, présenté comme le mal absolu, l’oppresseur, le responsable de toutes les violences et injustices. Judith Butler est depuis revenue sur la radicalité de ses propos ; il n’empêche que ceux-ci ont eu une postérité certaine.

En ce qui concerne les postulats de ce que l’on peut légitimement appeler une « théorie du genre », il faut aller voir du côté de la philosophie constructiviste (Derrida, Deleuze, Foucault) selon laquelle tout ce qui est humain est intégralement construit, relatif, si bien que tout peut être légitimement déconstruit et reconstruit. Plus largement, nous sommes dans l’héritage de la pensée de Nietzsche, penseur allemand du XIX°siècle[4]. Nier qu’un cadre théorique oriente la lecture des faits est une absurdité. Aucune science, digne de ce nom, n’est dans une lecture brute des faits. C’est bien un arrière-fond théorique et philosophique qui a  orienté les recherches scientifiques et la pratique médicale de John Money[5], psychologue au Johns Hopkins Hospital à Baltimore, dans les années 1950. Pour celui-ci, l’identité sexuelle n’est pas clivée chez l’enfant qui est neutre, indéterminé initialement, si bien qu’il serait possible de «  réassigner le masculin en féminin » par exemple. L’identité sexuelle serait donc une question de perception par le sujet de sa propre identité sexuelle. Pour distinguer le sexe biologique du sexe culturel, construit, que chacun peut « choisir », on parle alors d’« identité de genre » plutôt que d’identité sexuelle.

Ces études médico-psychologiques et les pratiques qui en découlent n’ont pas fait l’unanimité ; ce qui n’a rien d’étonnant dans un contexte scientifique : c’est le propre de la science en effet que de discuter, d’interpréter les faits qui jamais ne vont de soi. Milton Diamond, un biologiste qui intègre en 1958 le laboratoire de recherche de l’anatomiste William C. Young à l’Université du Kansas, va mener des expériences[6] qui vont montrer  le caractère douteux du postulat et des prospectives de Money. Diamond publie une thèse (en 1965) qui, au final, rejette formellement la théorie du John Hopkins (et de Money) décrite comme « spécieuse, prétendant que l’homme est totalement séparé de son héritage évolutif ». Il pose comme base que les facteurs prénataux définissent les limites dans lesquelles la culture, l’apprentissage, l’éducation et l’environnement peuvent influer sur l’identité de « genre » pour les humains ; il cite à l’appui quantité d’évidences issues de la biologie, la psychologie, l’anthropologie, l’endocrinologie pour démontrer que « l’identité de genre » est inscrite dans les connexions du cerveau virtuellement depuis la conception. Concernant les cas d’indétermination sexuelle, il pointe que l’ambivalence apparente de la sexualité est liée à une ambivalence génétique ou hormonale au cours de la gestation ; ambivalence que les enfants génétiquement normaux ne partagent pas. Il achève sa critique des affirmations de John Money en soulignant l’absence d’un cas décisif : « Pour conforter une telle théorie, nous n’avons vu aucun exemple d’individu normal, d’apparence clairement mâle, éduqué avec succès comme une fille. » Il ajoute « Si un tel cas existe, il n’a pas été porté à l’appui de la théorie de la « neutralité à la naissance » ; on peut supposer qu’un tel cas sera difficile à trouver. »[7]

L’idée de Diamond n’est pas le fait d’une spéculation scientifique isolée. En 1959, trois chercheurs canadiens avaient publié une étude[8] très critique sur les conclusions de l’équipe du Johns Hopkins, en pointant notamment de sérieuses failles méthodologiques statistiques : « Ces chercheurs échouent à relier les composantes physique et psychologique d’une personne dans son ensemble, et considèrent seulement certains aspects sans soumettre ces comparaisons à une validation mathématique ». En conduisant leurs propres recherches sur une cohorte de 17 patients intersexués, les chercheurs canadiens prirent des précautions ignorées par l’équipe de John Money : deux équipes indépendantes, abordant l’angle psychologique pour l’une et endocrinien pour l’autre, avec un groupe témoin composé de personnes diverses, homosexuelles, transgenres ou normales. Les résultats montrent qu’il est dangereux de préjuger l’absence « d’identité de genre » dans les cas d’intersexualité, et que l’état des chromosomes, gonades ou hormones peut prédisposer l’enfant à s’identifier davantage avec un sexe qu’un autre à l’âge adulte. L’article mettait enfin fermement en garde contre un acte chirurgical précoce.

Money reste malgré tout dans son idée. Dans l’absolu, il n’y a à cela rien d’étonnant : être scientifique, c’est toujours poser un cadre interprétatif et s’y tenir, dans le cadre de ses recherches. Cela dit, le scientifique doit aussi être capable de renoncer à ce cadre interprétatif si son invalidité est théoriquement démontrée.[9] Un cas va toutefois se présenter et permettre à Money d’essayer de tester et d’asseoir sa théorie d’une réassignation du masculin en féminin : c’est celui d’un des jumeaux Reimer, victime à 8 mois d’un accident qui détruit son pénis. Les parents désespérés ont connaissance de John Money par une émission télévisée (CBC 1967) ; contacté, celui-ci les accueille naturellement à bras ouverts et parvient à les convaincre de castrer le jumeau accidenté, sans leur dire que c’est une première, ni prendre l’avis de son équipe. Le petit Bruce devient Brenda. Les parents suivent docilement toutes les injonctions de Money et l’élèvent comme une fille. Régulièrement ils rencontrent Money qui suit l’évolution et passe un moment seul avec ‘Brenda’ ; une fois adulte et redevenu David, il parlera enfin de ces rencontres cauchemardesques qui provoquent à l’approche de la puberté un rejet violent, accompagné de crises profondes, jusqu’à ce qu’une psychologue parvienne à convaincre les parents Reimer de lui dévoiler la vérité sur sa naissance. Plus tard David décrira ses sentiments à cet instant : incrédulité, stupéfaction, colère, mais surtout : « j’étais soulagé ; soudain tout prenait sens dans ce que je ressentais ; je n’étais plus une sorte de monstre ; je n’étais pas fou. »[10] Cela n’empêche aucunement John Money de publier dans le même temps des articles vantant le succès de son expérience, qui lui valent une notoriété mondiale. Il continue à soutenir la thèse du bénéfice pour l’adulte d’une « réassignation en fille » de bébés mâles nés sans pénis normalement constitué. Y compris après que ‘Brenda’ ait pris la décision de retrouver son sexe d’origine – sous le nom de David – et coupé tout lien avec lui[11]. Mais il prend soin de cacher soigneusement son identité à tout autre chercheur. L’inconsistance de ces théories saute pourtant aux yeux pour deux raisons élémentaires : d’abord parce qu’aucune étude systématique de suivi n’a jamais été publiée par John Money ou le Johns Hopkins, démontrant ces prétendus ‘bénéfices’ ; ensuite parce que le seul cas de suivi est celui de Bruce-Brenda-David Reimer, qui s’est avéré un échec patent.

A la suite des expériences de Milton Diamond, une étude désormais classique est menée à l’Université d’Oxford en 1971 ; elle met en évidence une différence anatomique entre les cerveaux des rats mâles et femelles. Six ans plus tard les chercheurs de l’UCLA cernent cette même différence dans un groupe de cellules de l’hypothalamus humain. Une étude menée à Amsterdam au milieu des années 80 localise plus précisément l’aire concernée de l’hypothalamus, deux fois plus importante chez les homosexuels. Certaines études ultérieures, pas encore confirmées, tendent à identifier un motif particulier sur le chromosome X de garçons homosexuels. D’autres études comportementales montrent une différence significative des comportements de bébés de 9 mois confrontés au choix de jouets sexués qui leur sont présentés (Pr. Trond Diseth, Université d’Oslo), voire dès la naissance (Pr Simon Baron-Cohen, Cambridge). Une étude statistique d’une étendue sans précédent (plus de 200.000 réponses sur toute la planète) met en évidence une différence sexuée des choix professionnels, indépendamment des cultures (Pr Richard Lippa, U. Fullerton, Californie).

II/ Enjeux autour de la question du « genre »  ;:

Toutes ces études médicales citées ci-dessus sont intéressantes et d’un apport précieux ; elles ne sont pas non plus sans risque épistémologique. Si elles tendent à montrer que le sexe n’est pas qu’une construction culturelle (et tendent à invalider une « théorie du genre »), il faut veiller aussi à ne pas tomber dans l’excès inverse qui serait le suivant : l’homme n’est pas que son corps. Nous ne sommes pas que du biologique ou du physiologiquement prédéterminé. La donnée culturelle dans la construction de soi est bien évidemment essentielle ; nous affirmons seulement ici que le culturel ne se construit pas à partir de rien et qu’il faut penser l’humain dans son intégrité, naturelle et culturelle à la fois. C’est sur la base de ce qui nous détermine, sans préfixation absolue, qu’il faut penser notre liberté. Nous renvoyons dos à dos l’idée que notre liberté serait absolue sans que rien ne vienne l’orienter d’une part, ainsi que l’idée que tout serait fixé d’avance (ce qui conduirait à l’absence de liberté) d’autre part. Voyons de plus près ces deux écueils.

Tout d’abord, le « biologisme » ou l’idée selon laquelle nous serions intégralement ce à quoi notre corps nous prédispose pourrait avoir (et a eu déjà) de funestes conséquences. Cela fut le lit de thèses naturalistes et racistes développées au XIX° siècle, thèses non seulement inacceptables moralement mais aussi infondées scientifiquement. Il s’agit par exemple des théories de Lavater avec la physiognomonie et de Gall avec la phrénologie : dans la première, il s’agissait d’affirmer que ce que nous sommes est déterminé intégralement par  la physionomie ; pour la seconde, ce sont les formes du crâne qui nous prédétermineraient (de là vient l’expression la « bosse des mathématiques », ou bien, la moins sympathique – par ce qu’elle suppose et implique en terme d’accusation et de culpabilité – « bosse de la criminalité »…). Hegel, dans la 3° partie de la Phénoménologie de l’Esprit, dans le moment consacré à la « raison observante », dénonce ces pseudo sciences en affirmant que  « l’Esprit n’est pas un os. »

Poser que l’homme ne se réduit pas à sa constitution physique et corporel est indéniable. Affirmer que l’homme se construit, y compris dans son identité sexuelle à la croisée de son éducation, de son caractère, de son histoire, etc. nous ne le nions pas. Dire que les garçons et les filles sont égaux, selon le principe d’une égalité de droit absolue, il ne nous vient même pas à l’esprit de le remettre en cause. Affirmer par contre que tout individu est universellement indifférencié selon une identité unisexe et que la distinction homme/femme n’a aucune incidence, nous ne pouvons l’accréditer. Si une thèse a toujours ses limites, il ne convient pas de se jeter à corps perdu dans la thèse adverse sans en mesurer les présupposés et les implications. Nous tomberions en effet dans le deuxième écueil évoqué ci-dessus et qu’il nous faut analyser maintenant. Simple question de prudence !...

Ce que nous sommes repose-t-il intégralement sur ce que nous avons choisi d’être ? Nous sommes-nous intégralement construit indépendamment de toute prédisposition naturelle ? Ce qui ici est présupposé, c’est que nous serions ce que nous choisirions d’être. Tel est l’arrière-fond théorique des « études de genre » qui ne suppose aucune détermination initiale, pas même sexuelle. Au fond, la sexualité ne serait qu’une question de pratique, pas de nature. Nous serions ce que nous faisons, ce que nous avons décidé d’être et non pas ce que la nature (ou toute autre instance ou entité) nous demanderait d’être ou d’accomplir. On reconnaît ici (en plus des influences de la philosophie constructiviste et des autres philosophies évoquées ci-dessus) une influence certaine de la pensée de Sartre et de l’existentialisme athée. Dans L’existentialisme est un humanisme, Sarte explique que nous sommes ce que nous choisissons d’être, si bien qu’aucune « essence » ne prédétermine nos choix. « L’existence précède l’essence », ce qui veut dire que notre vie est ce que nous aurons décidé d’en faire ; aucune instance extérieure (la nature, Dieu, l’inconscient,…) ne vient influer sur nos choix. Nous sommes « condamnés à être libre » et rien ne peut être une « excuse » (ex-causa : idée d’une cause extérieure). Nous ne pouvons nous dédouaner  de quoi que ce soit et chercher ailleurs qu’en nous la cause de ce que nous sommes et faisons.

Ce que dit Sarte est très juste dans la mesure où cela met l’accent sur notre liberté et son caractère absolu, séparé de tout déterminisme. Cependant, est-il certain que  notre liberté s’exerce indépendamment de toute influence ? Il est possible de ne pas rester indéfectiblement attaché à la pensée de Sartre. C’est d’ailleurs ce que font les partisans de la « théorie du genre » puisque, d’une part, de Sartre ils héritent de cette idée d’une liberté absolue, indéterminée dans son essence ; mais d’autre part, ils acceptent le fait que l’on puisse, voire que l’on doive agir en fonction de nos tendances, de notre « nature ». Le concept de « nature » ici est compris dans un sens non pas moral (le devoir que l’homme devrait accomplir), mais plutôt physiologique (il nous faudrait aller dans le sens de nos pulsions). Quoi qu’il en soit, il faut constater ici que le concept de « nature » n’est pas complètement abandonné, au contraire. Il est recompris. L’« essence », le naturel duquel Sartre voulait se débarrasser (puisque rien ne devrait précéder nos choix) revient ici au galop : le parricide est commis !... Pour les partisans du « genre », tout ce qui culturellement influencerait l’individu (la tradition, la religion, l’idée d’autorité..) serait « construit » et qualifié de « stéréotype » culturel (et se trouverait de ce fait disqualifié). Au nom de la liberté déchaînée (sans chaîne), il faudrait les déconstruire. Par contre, les influences de la « nature » (à comprendre dans un sens naturaliste et physiologique) seraient à écouter et à exécuter. Qui irait dans le sens de ses pulsions ne serait pas prisonnier ; il ne ferait qu’accomplir sa « nature » authentique.

Or, d’un point de vue strictement théorique, il est possible de contester de tels présupposés ainsi que leurs incidences, parce qu’ils véhiculent  une compréhension insuffisante voire immature de la liberté. Cette dernière ne peut, selon nous, être seulement comprise à partir de l’idée de plénipotence : la toute-puissance est un moment nécessaire de la liberté, mais il faut aussi considérer qu’être libre, c’est aussi choisir et se nier comme liberté. Pour se déterminer (et sortir de l’indétermination initiale), il faut savoir où aller. Par conséquent, nous postulons, à l’inverse de ce qu’affirme le cadre théorique des études de genre, que le concept de liberté ne peut être dissocié du concept de vérité. Sans vouloir imposer un ordre arbitrairement préétabli, il faut considérer que tout choix ne nous structure pas également ; tout ne nous édifie pas. Les choix sont donc à évaluer ; la tradition et la culture, en ce sens, sans être des références absolues, peuvent être un précieux soutien.

Il n’y a donc pas de liberté réelle sans connaissance de ce que nous devons faire ou choisir. C’est sur la base de la connaissance des adultes que la liberté de l’enfant par exemple se structure. Nous sommes de ceux qui philosophiquement pensent que l’autorité (auctor, « faire grandir », étymologiquement en latin)  et la tradition (tradere, « transmettre ») sont les conditions sine qua non de la construction du soi, si bien que tout déracinement aurait sur l’individu des conséquences catastrophiques.[12]

D’un point de vue pratique ensuite, c’est-à-dire quand la théorie veut régenter les comportements, il y a une intention que l’on peut être amené à discuter. Notre inquiétude devient légitime quand cela veut se traduire dans des mesures politiques. Le risque d’endoctrinement idéologique et les dérives totalitaires sont, à notre avis, bien réels. Que voulons-nous dire ? Sommes-nous en train d’exagérer démesurément les enjeux ?

Pour répondre à cette question, il nous faut voir ce que l’on entend par idéologie d’une part et par totalitarisme d’autre part. Hannah Arendt a très précisément pensé la chose dans un ouvrage intitulé les Origines du totalitarisme.  Au Chapitre IV du tome III (intitulé « Idéologie et terreur »), Arendt  définit l’idéologie comme « la logique d’une idée » qui a l’apparence d’une « théorie scientifique » mais n’en est pas une.  Une idéologie n’est pas en effet  un ensemble d’énoncés sur quelque chose qui est, mais le déploiement d’un processus perpétuellement changeant, une logique dans le cadre de laquelle tout le réel doit entrer. Il s’agit d’une espèce de « trou noir »[13] de la pensée qui est tel que  l’enchaînement des événements est censé obéir à une  même « loi », à une logique de l’idée.

Dans le nazisme[14] par exemple, la loi en question (prétendument scientifique), c’est la supériorité de la race ; dans le communisme bolchévique, c’est le mouvement de l’histoire qui dans toute société fait que l’égalité s’accomplira (avec l’idée d’une lutte des classes). Par conséquent, une idéologie se caractérise de la façon suivante : elle prétend tout expliquer, et dans cette perspective, elle s’affranchit de toute expérience dont elle ne peut rien apprendre de nouveau, même s’il s’agit de quelque chose qui vient de se produire. En conséquence, toute relation avec la réalité est ruinée. Le paradoxe, c’est qu’une idéologie est plus facile à croire que la réalité elle-même, parce que le réel est toujours trop complexe pour notre raison qui ne peut jamais rendre compte de tout absolument ; alors que l’idéologie résoud ce problème : elle simplifie de façon simpliste ; elle est donc plus crédible que le réel lui-même.

Une idéologie ne fait-elle pas ce que toute science fait (simplifier, schématiser) ? Tout savoir serait-il par essence idéologique ? Pour répondre à cela, nous dirons qu’un savoir digne de ce nom ne prétend jamais se substituer au réel, ni l’appréhender de façon simpliste. Le schéma n’est pas la caricature. L’auxiliaire de l’entendement qu’est la schématisation ne doit pas être une substitution de la raison au réel. Il y a là un vrai risque, déjà perçu par Bacon au XVI° siècle. Dans le Novum Organum, celui-cinousmettait en garde, d’un point de vue scientifique,  contre cette prétention de l’esprit humain qui consiste à vouloir tout enfermer dans ses concepts au risque de se couper de la nature à laquelle « on ne commande qu’en lui obéissant ». Dans l’aphorisme 45, il nous dit que  : "L'entendement humain, est porté à supposer dans les choses plus d'ordre et d'égalité qu'il n'en découvre ; et, bien qu'il y ait dans la nature beaucoup de choses sans concert et sans pareil, cependant, l'entendement surajoute des parallèles, des correspondances, des relations qui n'existent pas." [Nous soulignons]. Le travers est tel que « L'entendement humain, une fois qu'il s'est plu à certaines opinions (parce qu'elles sont tenues pour vraies ou qu'elles sont agréables) entraîne tout le reste à les appuyer et à les confirmer ; si fortes et nombreuses que soient les instances contraires (...) non sans une présomption grave et funeste » (aphorisme 46). Pour Bacon, ce qui permet d’éviter les risques de la spéculation creuse, ce sera, scientifiquement, la mise en place de la pratique expérimentale qui permettra de garder un lien avec la nature que nous tâchons d’expliquer. Mais comment éviter ce risque lorsqu’on se situe dans le giron des sciences humaines, essentiellement interprétatives et qui peuvent amener à des considérations  contradictoires mais légitimes ? En ce qui concerne les études de genre, sommes-nous dans un cadre théorique recevable ou bien peut-on (et au nom de quoi) qualifier ce cadre d’idéologique ?

Tout d’abord, les sciences humaines, quoiqu’interprétatives, ne sont pas par nature idéologiques, leur but étant  de tenter de comprendre le réel : pour ce faire, elles doivent justifier des faits sur lesquels elles s’appuient, d’une part ainsi que l’orientation interprétative qu’elles donnent à ces faits. La théorie du genre reste-t-elle dans ce contexte scientifique classique ?

La difficulté, c’est que le postulat initial (« le sexe est une construction ») tend  à se couper de sa base factuelle, à savoir la différenciation sexuée, puisque celle-ci est considérée comme accidentelle et secondaire. Le risque d’une interprétation qui se coupe du réel est donc bien présent. Présenter ensuite cette lecture comme une relecture des faits dans leur nudité (comme les tenants de cette théorie le font), voilà un manque de distance critique qui ignore complètement ce que penser le réel présuppose et engage ; voilà une attitude qui voudrait faire prendre pour « argent comptant » ce qui n’est qu’une vision, une interprétation du réel. Qu’enfin cette lecture aille dans le sens d’une justification d’une « liberté absolue » (dont nous avons vu qu’elle n’était cependant pas si absolue parce qu’attachée à une redéfinition du concept de nature) pour justifier toutes les tendances et orientations sexuelles (puisque l’identité  sexuelle est assimilée à nos actes), il semble que nous soyons bien ici dans une lecture simpliste, agréable, confortable du réel parce qu’elle permet, sur une base prétendument vérifiée scientifiquement et médicalement, de justifier tout type de comportement.  Nous ne sommes pas des moralistes, chacun fait ce qu’il veut. Ce qui par contre devient ennuyant, c’est que cette base théorique oriente le politique qui, sur une « base scientifique », pose des règles qui deviennent contraignantes. Et la base de la contrainte est ici la permissivité. Or, une loi qui vient cautionner des pratiques en mouvement si bien que les repères clairs, objectifs, réalistes volent en éclat, voilà qui ressemble à une loi idéologique.

En conséquence, sur la base des présupposés théoriques des études de genre et en vertu des conséquences pratiques et politiques qu’ils engagent, il nous paraît légitime de penser que des dérives idéologiques (en fonction de ce qui a été défini ci-dessus) sont non seulement possibles mais certaines. Plus encore, ces dérives sont même effectives et peuvent être mesurées à partir de l’évaluation de ce qui se passe en France en particulier et ailleurs dans le monde. Le problème ici n’est pas seulement celui de l’identité ou des mœurs sexuelles. Quelques exemples nous permettent de penser que les idées se nivellent dans notre pays de façon dangereuse : quand l’Etat réprime des manifestations pacifiques comme celles des « veilleurs », défenseurs de la famille et de la tradition, la liberté de penser et de croire, quoiqu’affirmée dans nos institutions (article 10 de la Déclaration des droits de l’Homme et du Citoyen notamment), se trouve bafouée en acte. Quand l’Etat interdit la liberté de conscience des maires[15] par rapport à l’application de la loi sur le « mariage pour tous », le même article de loi subsiste mais ne protège plus les citoyens. Un parallèle surprenant et troublant peut être fait  avec ce qu’écrit Arendt (ce qui n’est pas pour nous rassurer) : au chapitre II de l’ouvrage cité ci-dessus[16], elle explique que ni les nazis ni les bolchéviques jamais n’abolirent les constitutions politiques dans lesquelles ils sont parvenus au pouvoir : jamais Hitler, par exemple, n’abolit la Constitution de Weimar ; Stalline quant à lui fit rédiger une constitution en 1936 (avant de faire exécuter ensuite la quasi-totalité de ses rédacteurs… !). C’est que, explique Arendt, ce qui compte dans le système totalitaire, ce n’est pas la législation mais la « constante marche en avant vers des objectifs sans cesse nouveaux », c’est-à-dire la pensée en mouvement de l’idéologie. En pratique nous dit Arendt c’est, contrairement à ce que l’on peut croire, un  état permanent d’anarchie (et non un ordre établi) qui s’impose politiquement. Adolph Hitler disait que « l’Etat total doit ignorer la différence entre la loi et l’éthique » (si la loi coïncide avec l’éthique commune, il n’est plus nécessaire de rendre les décrets publics)[17]. Avons-nous atteint le « point de Godwin », l’argument-injure qui permet de désamorcer toute réflexion ? Nous ne voulons pas nous situer dans l’affectif, mais bien dans l’analyse rationnelle des faits. L’Etat peut nier [18] ; dans la pratique, nous constatons que dans les faits les citoyens ne sont plus protégés par les textes. Les tendances totalitaires ne sont donc pas un fantasme mais une réalité. Certes, nous n’en sommes pas à un totalitarisme abouti avec sa milice, ses camps de concentration… Des agissements de la police qui vont dans le sens d’une police de la pensée sont déjà perceptibles ; une interprétation déviante des textes se met en place au niveau de l’encadrement politique mais aussi au niveau de la perception de ces faits par l’opinion publique (qui pense que le fait religieux doit par exemple être éradiqué du domaine publique : la plus grande vigilance de la part des citoyens est donc  de mise…

En conclusion …

L’affirmation selon laquelle il n’y aurait pas de « théorie du genre » nous paraît suspecte : on ne se fâche pas, on ne cherche pas à tourner l’autre en ridicule (surtout quand celui-ci est quelqu’un qui cherche à réfléchir et à dialoguer) quand on n’a rien à se reprocher. Il y a là un déni de la part de la pensée majoritaire dont nous avons essayé de mettre à jour les présupposés.

Aujourd’hui, quand vous n’êtes pas dans le giron de la pensée majoritaire et que – conséquence logique – vous vous retrouvez en situation de minorité, vous avez vite fait de passer pour un imbécile, un attardé que l’on peut impunément mépriser, insulter. Quelle grandeur d’âme, surtout quand les tenants de la pensée majoritaire, auteurs de ces griefs, se revendiquent des valeurs de tolérance, de  liberté de penser et des droits de l’homme… Depuis l’intimidation jusqu’aux menaces effectives, on demandera à toute pensée réputée discordante, de se taire. La raison profonde d’une telle attitude, c’est que dans les temps d’uniformisation et de mimétisme que nous vivons, chacun est amené à penser la même chose. Penser différemment, ce serait paradoxalement se risquer et s’exposer à ne plus exister (tout simplement parce que celui qui ne rentre pas dans les rangs de la pensée unique n’existe pas). Pourtant, penser, c’est se singulariser, s’affirmer dans son unicité, exister vraiment pour entrer en relation, se risquer sur le terrain d’une parole commune afin d’essayer de construire une communauté humaine, plus humaine. Faire pression sur la possibilité de parler,  voilà qui porte atteinte à notre condition humaine profonde pour réduire celle-ci au rang de chose maîtrisable – méprisable ? –. Cet état de fait, les « éveilleurs de conscience » le refusent.

            A propos du « genre », parler de l’égalité entre filles et garçons et de « l’éducation à égalité de genre », c’est à la fois faire référence à un postulat incontestable (celui de l’égale dignité et de l’égalité en droit de tous les individus, quelles que soient leurs conditions d’existence) ; mais c’est aussi faire référence à cette nébuleuse de recherche qui n’est pas neutre. Le débat est devenu polémique si bien que l’alternative est la suivante : soit l’on  se situe du côté de la parole autorisée des défenseurs et promoteurs de ces études, soit  l’on se situe du côté de ceux qui veulent discuter (c’est le cas des « éveilleurs de conscience ») de la légitimité et de la pertinence de telles études. Dans ce dernier cas,  nous prenons le risque d’être raillés, humiliés : on nous regardera avec dédain et on nous classera du côté des archaïsants, des ringards fermés et dogmatiques, des réfractaires à tout progrès de la pensée et à la modernité ; bref, on nous figera et on nous tuera intellectuellement derrière l’étiquette de  « réactionnaire ». L’alternative qui consiste  soit à louer les « études de genre », soit à être sommé de se taire ne satisfait ni notre curiosité intellectuelle ni notre esprit critique. C’est pourquoi nous prenons le risque et le temps de parler, d’expliquer, d’informer et de former.

Nicodème

[1] Nous reprenons largement ici la présentation intéressante des « Enseignants pour l’enfance » dont le lien est : www.enseignants-pour-enfance.org/spip.php?article32

[2] Cela est repris par Françoise Milewski, IEP de Paris, in le journal L’Express de septembre 2011. Françoise Milewski est Chargée de mission auprès du Président, Coresponsable du Programme de Recherche et d’Enseignement des SAvoirs sur le Genre (PRESAGE). Elle est Membre de l'Observatoire de la parité entre les femmes et les hommes, Membre du Conseil supérieur de l’égalité professionnelle entre les femmes et les hommes, en qualité des personnes désignées en raison de leur compétence ou de leur expérience

[3] Résumé dans Trouble dans le genre, pour un féminisme de la subversion de Judith Butler, paru en 1990

[4] Pour Nietzsche, les valeurs morales sont des valeurs de haine de la vie, des valeurs de mort (nihilisme). Il faut selon lui subvertir ces valeurs obsolètes pour en reconstruire de nouvelles qui vont dans le sens de la vie désirante qui assume la vie dans l’instant, sans faux-fuyant moraliste.

[5] Né en 1921 en Nouvelle Zélande John Money fait un doctorat de psychologie à Harvard, puis intègre le Johns Hopkins Hospital de Baltimore en 1952 en tant que spécialiste des questions sexuelles. Brièvement marié (et divorcé) au début des années 50, il n’a jamais eu d’enfant. Promoteur de la pédophilie (cf. Time Magazine, avril 1980) et de l’homosexualité pédophile (cf. la préface à Boys ans their contacts with men de Théo Sandford, 1987, ouvrage qui fait l’apologie des expériences sexuelles entre jeunes garçons de 11 ans et hommes dans la soixantaine), il est fasciné par le pseudo hermaphrodisme (anomalies génétiques ou hormonales) et l’intersexualité (organes génitaux non clairement identifiés comme masculins ou féminins) sur lesquels il écrit une thèse (consultable uniquement par demande écrite à la Widener Library at Harvard University) soutenue en 1951. Celle-ci met en évidence le peu d’importance de l’aspect pathologique des organes génitaux et l’épanouissement des sujets qu’on laisse librement choisir à l’âge adulte, quelle que soit la façon dont ils ont été éduqués, dans une approche psychologique.

Au Johns Hopkins, il est amené à étudier 131 cas d’indétermination sexuelle sur lesquels il formule sa conviction que l’orientation masculin / féminin n’a pas de fondement biologique, inné. La publication qui accompagne cette affirmation lui apporte la célébrité malgré les graves entorses méthodologiques de l’étude. Par la suite il esquive toute discussion argumentée avec ses adversaires et se contente de les dénigrer, souvent violemment (cf. en fév. 1967, l’interview à l’émission de la CBC : This hour has seven days). Ses « théories » ont été largement invalidées à la fin des années 90, notamment par le Dr Milton Diamond, biologiste, mais également de manière indépendante par d’autres scientifiques de diverses spécialités.

[6] Les recherches portent sur le rôle des hormones au cours de la gestation : entre les 6ème et 8ème semaines, les cellules mâles XY commencent à produire de la testostérone, ce qui n’est pas le cas pour des cellules femelles XX. Cette présence – ou absence – d’hormones conduit à un développement différent des organes sexuels. La question que cherche à résoudre l’équipe est de savoir si cette présence, ou absence, d’hormones influe sur le développement du cerveau.

Il est mis en évidence que les fœtus femelles dont la gestation a été perturbée par des injections de testostérone présentent un comportement de mâle lorsqu’à la maturité sexuelle, ils sont mis en présence de femelles ; et cet effet se vérifie même en l’absence de modification apparente de l’appareil sexuel. Sans extrapolation trop hâtive par rapport aux comportements humains, un article publié (journal Endocrinology 1959) permet toutefois de parler d’un principe organisateur du comportement sexuel mâle adulte.

[7] Cf. Quaterly review of biology : « A critical evaluation of the ontogeny of human sexuel behavior »

[8] The canadian psychiatric association journal, 1959

[9] Kuhn montre, dans La Structure des révolutions scientifiques, qu’un chercheur mène toujours ses investigations dans un cadre appelé « paradigme », cadre herméneutique dans lequel le savant doit placer sa « confiance » car le paradigme est une « promesse de succès ». Il y a donc chez le scientifique aussi, une forme d’adhésion aveugle, de « foi ». Là où la science n’est pas foi religieuse cependant, c’est qu’avec un paradigme, il s’agit de comprendre rationnellement le réel ; si le cadre interprétatif rationnel présente des insuffisances, il y a un devoir théorique, au nom de la probité intellectuelle, d’y renoncer. Voici par exemple ce que dit Kuhn au chapitre 11 de l’ouvrage cité : « Celui qui adopte un nouveau paradigme à un stade précoce doit souvent le faire au mépris des preuves fournies par les résolutions de problèmes. Autant dire qu'il lui faut faire confiance au nouveau paradigme pour résoudre les nombreux et importants problèmes qui sont posés en sachant seulement l'incapacité de l'ancien à en résoudre quelques-uns. Une décision de ce genre relève de la foi. »[c’est nous qui soulignons] Puis : "Les scientifiques, étant seulement des hommes, ne peuvent pas toujours admettre leurs erreurs, même en face de preuves absolues (...). Dans ce domaine, il ne s'agit ni de preuve ni d'erreur. Quand on adhère à un paradigme, en accepter un autre est une expérience de conversion qui ne peut être imposée de force."

[10] Cela est rapporté dans As nature made him, de John Colapinto.

[11] C’est l’obstination de Milton Diamond qui lui avait permet de retrouver  la trace de David Reimer vers la fin des années 90 et qui avait poussé ce dernier à publier  – difficilement – un article démentant les affirmations antérieures de J.Money et s’achevant sur une recommandation forte : « Eduquer l’enfant dans une identité sexuelle claire, mais laisser tomber le scalpel. ».

De crises en crises difficilement surmontées, Bruce-Brenda-David Reimer finit par se suicider en 2004.

[12] Certes, il y a bien des exemples de déterminismes malsains. Le père qui boit ne peut vertueusement éduquer ses enfants à travers ce vice ; le mépris de la femme ne peut construire une saine estime de soi chez la fille ou chez le garçon qui voit ainsi traiter sa sœur ; il n’empêche qu’au sein de notre nature humaine bien imparfaite, c’est toujours sur la base d’un sol initial que la transmission s’opère et que l’individu se construit.

Hannah Arendt analyse cela de façon admirable dans le dernier chapitre du tome III des Origines du totalitarisme : l’absence de « sol » (entendons la tradition, la transmission, l’autorité) est la pire des choses : l’individu vit ainsi la dé-sol-ation. Il y a forcément dans l’existence des moments de « désolation » (ils entrent nécessairement en alternance avec ce qu’Ignace de Loyola spirituellement appelle les moments de « consolation »). Cependant, des mesures politiques qui iraient dans le sens de l’éradication du fait culturel et des réalités transmises auraient des conséquences  catastrophiques. Cela est étudié aussi dans La crise de la culture de Hannah Arendt encore : dans le chapitre « la crise de l’éducation », elle y explique que la démission des adultes (garants de la tradition, de l’autorité) est la cause essentielle de la crise du système éducatif dans l’Amérique moderne.

[13] L’expression n’est pas de Arendt mais elle est de notre fait. Un « trou noir », en astrophysique, est défini comme étant un « champ gravitationnel intense » qui absorbe toute particule de matière, y compris les photons. Dans l’idéologie, il y a une prééminence de la logique sur le réel, si bien que le réel « n’existe plus » et se trouve comme absorbé par ce champ gravitationnel intense de la pensée qui anéantit le réel.

[14] A l’époque où Arendt écrit (les années 1950, juste après la 2° guerre mondiale, nous n’avons connu que deux types de totalitarisme : l’Allemagne nazie et le bolchévisme. L’Italie fasciste (de même que l’Espagne franquiste par exemple) relèvent d’un schéma politique de tyrannie « classique » ; ce qui veut dire que le totalitarisme est une tyrannie d’un ordre nouveau et inédit, irréductible aux formes antérieures d’oppression. Elle expose tout cela de façon magistrale dans le tome III de l’ouvrage cité.

[15] Le refus récent de la part d’une haute juridiction de l’Etat français, le Conseil constitutionnel, en ce qui concerne la clause de conscience par laquelle un maire de la République pourrait, du fait de ses convictions profondes, ne pas vouloir marier deux personnes du même sexe, est tout à fait révélateur des temps que nous vivons. Selon la circulaire du Ministre de l’Intérieur M.Valls du 13/06/2013, un maire qui ne se plie pas à la loi risque 5 ans d’emprisonnement et une amende de 75 000 €.

[16] Les Origines du totalitarisme, tome III, p.172.

[17] Extrait de l’« avertissement » du Führer aux juristes en 1933, cité par Hans frank, Nationalsozialistische Leitsätze für ein neues deutsches Strafrecht.

[18] Comme la charte de la laïcité par exemple, qui n’abroge pas les lois anciennes, mais qui laisse entrevoir un durcissement laïciste radical de la notion de laïcité, ce qui met les textes de la République en auto-contradiction. Cf. notre analyse de la charte de la laïcité, de la « lettre à l’esprit » sur le site www.les-eveilleurs.com.



Vietare l’aborto aumenta mortalità materna? Gli studi smentiscono - 24 ottobre, 2013 - http://www.uccronline.it

Gravidanza


Gravidanza Il direttore dell’Institute for Family Policies di New York, Lola Velarde, ha denunciato presso la sede dell’ONU le falsità del femminismo circa la necessità di legalizzare l’aborto per ridurre la mortalità materna. Sono vecchie bugie, ampiamente smentite oggi dagli studi scientifici.

Nel suo intervento alla conferenza del 19 settembre scorso ha spiegato che «senza garantire il diritto alla vita e alla famiglia, non si possono raggiungere gli obiettivi di sviluppo programmati delle Nazioni Unite». E’ passata dunque a sfatare il mito principale dei sostenitori dell’aborto: la salute materna. Attraverso esso si è voluto gestire i recenti casi di Beatriz in El Salvador e di Savita in Irlanda, fallendo in entrambi. Ha quindi citato il caso dell‘Irlanda, un paese con leggi severe in materia di aborto (applicato solo in caso di oggettivo rischio di morte della madre) e considerato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come il paese più sicuro al mondo per partorire.

E’ intervenuto anche il dott. Monique V. Chireau, professore all’University Medical Center in North Carolina (USA), spiegando che il basso tasso di mortalità materna in Irlanda dimostra che «il trattamento delle gravidanze ad alto rischio non richiede una falsa scelta tra i bisogni e i diritti della madre e del bambino. In effetti, i dati del Ministero della Sanità britannico mostrano che negli ultimi 20 anni ha non è stato necessario nemmeno un aborto per salvare la vita della madre». Inoltre, il dott. Chireau ha sottolineato che «i medici hanno il dovere di fornire assistenza alla salute considerando gli interessi sia della madre che del neonato».

Non a caso alla conclusione del recente Simposio di Dublino, organizzato dal “Committee for Excellence in Maternal Healthcare” presieduto da Eamon O’Dwyer, professore emerito di ostetricia e ginecologia presso la National University of Ireland (NUI) e presenziato dei principali esperti del settore medico, ginecologi, psicologi e biologi molecolari, ha concluso i lavori sostenendo che «l’aborto diretto – la deliberata distruzione del nascituro – non è mai necessario dal punto di medico per salvare la vita di una donna» e «il divieto di aborto non influisce in alcun modo sulla disponibilità delle migliori cure mediche per le donne in gravidanza».

Il Cile è un altro esempio di legislazione pro-life e di maternità sicura, essendo il secondo paese del continente americano, dopo il Canada, con il tasso di mortalità materna più basso. Sul caso cileno ha parlato il dottor Elard Koch, direttore dell’Institute of Molecular Epidemiology (MELISA) che ha presentato uno studio completo con i dati degli ultimi 50 anni mostrando che dal divieto di aborto iniziato nel 1989 la mortalità materna in Cile è diminuita del 69 per cento. Koch ha anche presentato i dati relativi al Messico dove ha comparato i 14 stati con leggi permissive in materia di aborto ai 18 che hanno leggi più restrittive, mostrano che questi ultimi offrono risultati migliori in tassi di mortalità materna.

La redazione

New Jersey, matrimoni gay imposti da un giudice di Lorenzo Schoepflin, 25-10-2013 - http://www.lanuovabq.it/

Manifestazione gay nel New Jersey

Si è consumato negli Stati Uniti l’ennesimo capitolo del dilagare coercitivo dell’omosessualismo. Dopo che a livello federale la Corte suprema statunitense ha deciso per l’incostituzionalità delle parti del Defense of marriage act (Doma) che definiscono il matrimonio come l’unione tra un uomo e una donna, adesso è la volta del New Jersey.

Venerdì 27 settembre, Mary Jacobson, giudice di una corte locale, prendendo spunto proprio dalla decisione della Corte suprema avversa al Doma, aveva stabilito che la legge del New Jersey che rende impossibile la ridefinizione del matrimonio è incostituzionale. Secondo quanto deciso, allo Stato del New Jersey si chiedeva di riconoscere i matrimoni omosessuali a partire dal 21 ottobre. Il governatore Chris Christie annunciò immediatamente un ricorso alla Corte Suprema statale, forte anche di una precedente decisione della medesima Corte, che con un voto di margine aveva negato il presunto diritto degli omosessuali ad essere riconosciuti come sposati. Il giudice Jacobson riteneva che ciò fosse discriminatorio per le coppie dello stesso sesso, con particolare riferimento all’accesso agli aiuti federali per le famiglie.

Va ricordato inoltre che Christie aveva posto il veto – prerogativa dei governatori – contro una legge che già nel febbraio scorso intendeva aprire ai matrimoni omosessuali nel New Jersey. A tale veto, Camera e Senato del New Jersey non riuscirono ad opporsi per mancanza dei voti necessari. Il governatore avrebbe accettato solo l’esito di un referendum popolare, anche in considerazione del fatto che già il New Jersey è dotato dell’istituto delle unioni civili. Secondo quanto emerso da sondaggi effettuati, il favore dei cittadini del New Jersey per il matrimonio gay scendeva ben al di sotto della maggioranza quando si spiegava che i diritti fondamentali erano già garantiti dalle leggi ordinarie e dalle stesse unioni civili.

Fino alla discesa in campo di Mary Jacobson, dunque, la situazione in New Jersey sembrava ferma al rifiuto del matrimonio omosessuale. Ma, come altre volte accaduto, la volontà popolare e dei rappresentati eletti è stata calpestata dall’attivismo di giudici compiacenti verso la lobby omosessuale.

Christie, infatti, aveva presentato regolarmente alla Corte Suprema statale il ricorso annunciato subito dopo la decisione del giudice Jacobson. Ricorso che la Corte aveva dichiarato di voler prendere in esame nel corso di audizioni che si sarebbero svolte a partire dal prossimo 6 gennaio. Nel frattempo, con un appello pendente, logica avrebbe voluto che gli effetti della decisione di Mary Jacobson fossero sospesi, in attesa del chiarimento definitivo da parte della Corte Suprema. Invece, quest’ultima ha stabilito che, fino a quando non si fosse arrivati al pronunciamento, nel New Jersey si sarebbero dovuti celebrare i matrimoni omosessuali. Nei fatti, un’implicita approvazione dell’operato del giudice Jacobson. A questo punto – e siamo arrivati all’esito negativo della vicenda risalente a pochi giorni fa – il governatore Christie ha deciso di ritirare il ricorso alla Corte Suprema proprio il 21 ottobre, giorno dell’entrata in vigore delle conseguenze della sentenza. Christie ha affermato che la decisione unanime della Corte di non voler sospendere gli effetti di tale sentenza esprime in modo chiaro la visione che la stessa Corte ha della costituzione del New Jersey e che a questo punto il matrimonio omosessuale è legge.

Il New Jersey è diventato in questo modo il quattordicesimo Stato degli Usa dove gay e lesbiche possono sposarsi. Così come l’approvazione delle unioni civili del 2006, anche questa arriva per volere del potere giudiziario. A tal proposito si è espresso Len Deo, Presidente del New Jersey Family Policy Council – «La Corte ha permesso ad un singolo giudice di decidere per un intero Stato», ha affermato Deo – sottolineando le preoccupazioni relative all’assenza di garanzie per l’obiezione di coscienza da parte di chi, per motivi morali o religiosi, non volesse celebrare i matrimoni tra coppie dello stesso sesso. Parole che non possono che essere pienamente condivise.

Chris Christie si è attirato non poche critiche dal mondo cristiano e conservatore degli Stati Uniti. Molte associazioni schierate in difesa della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna – pur partendo dalla ferma condanna del modo di agire della Corte Suprema – hanno parlato di fallimento di un governatore che non ha saputo procedere convinto nella direzione opposta alla lobby gay. Christie era già stato oggetto di disapprovazione quando, lo scorso agosto, aveva firmato una legge che mette al bando le terapie riparative per adolescenti che manifestano attrazione per persone dello stesso sesso. Una decisione che limita la possibilità dei genitori di decidere per i propri figli e dunque la libertà di educazione. In quella occasione, Christie si espresse in questi termini: «La mia religione afferma che l’omosessualità è un peccato, ma io non sono d’accordo».

Al di là delle posizioni personali di Christie e di quello che si può pensare circa il suo coraggio, è impossibile negare che il governatore, in occasione della decisione del giudice Jacobson, si è trovato nella morsa dell’attivismo dei giudici, strumento spesso usato dai sostenitori del matrimonio omosessuale laddove volontà popolare e dei rappresentati eletti non collimano con la loro.

La vicenda del New Jersey è emblematica per molti aspetti. Innanzitutto, le unioni civili si sono dimostrate ancora una volta il primo passo di un percorso che prima o poi conduce al matrimonio omosessuale. La decisione di un singolo giudice, poi, ha avuto un’efficacia ben maggiore di quanto è nei poteri dei rappresentanti del popolo. Infine, un governatore, pur criticabile per alcuni aspetti, si è trovato a dover mollare dopo aver opposto il proprio veto ad una legge sul matrimonio omosessuale e aver presentato un ricorso contro un giudice.

Quando lo scenario è questo, non si può fare a meno di scomodare lo spettro di una vera e propria dittatura.

Prossima fermata: eutanasia di Massimo Introvigne, 25-10-2013 - http://www.lanuovabq.it



Campagna dell'Associazione Luca Coscioni

Non ho simpatia per i complottisti, che spiegano la storia come un unico grande complotto. Ma non ne ho neppure per gli ingenui, i quali pensano che i complotti non esistano. Non c'è il Grande Complotto, ma ci sono tanti complotti con la «c» minuscola, settoriali e locali. Uno dei più evidenti è costituito dallo sforzo di diverse lobby - anticlericali, massoniche, ideologiche, legate a certi interessi dei «poteri forti», dell'industria farmaceutica e delle cliniche - per aggredire la vita e la famiglia in un escalation di leggi sempre più radicali. A Malta, introdotto il divorzio per referendum, siamo già a una proposta di legge per il riconoscimento delle unioni civili omosessuali, con diritto di adozione. In Francia Tugdual Derville, portavoce della Manif pour Tous, sta cercando di radunare nuovamente il popolo della famiglia e della vita, contro una legge sull'eutanasia che galoppa verso l'approvazione. Anche da noi la strada è tracciata: appena approvata la legge sull'omofobia, seguita da quella sulle unioni omosessuali, il Parlamento si occuperà di eutanasia.

Si tratta di regolare pochi casi pietosi? Questa è la menzogna consueta, ma la verità è diversa. Mentre si discute di eutanasia in Francia, la giornalista Stéphane Kovacs ha pubblicato sul quotidiano «Le Figaro» un'agghiacciante inchiesta su come vanno le cose nel vicino Belgio, dove l'eutanasia c'è già. L'inchiesta constata la «banalizzazione» del l'eutanasia. Una proposta di legge che mira a estenderla - come in Olanda - ai minorenni «capaci di discernimento» e ad alcune categorie di malati mentali - che «chiederebbero» l'eutanasia «tramite» i loro parenti, cioè sarebbero messi a morte senza avere voce in capitolo - gode secondo i sondaggi del favore della maggioranza della popolazione.

Perché - lo sappiamo in Italia in tema di aborto - la legge produce costume. L'eutanasia in Belgio ormai è considerata normale. Nel 2012 i casi di eutanasia sono aumentati del 25% rispetto al 2011, nel 2013 stanno ancora aumentando e rappresentano ormai il due per cento di tutti i decessi sul territorio belga. Sono 1.432 i morti per eutanasia del 2012, e aumenteranno certamente nel 2013. La chiave degli spaventosi numeri belgi sta nella legge che permette di chiedere di morire non solo per gravi «sofferenze fisiche» ma anche per «sofferenze psichiche» che il paziente denuncia come intollerabili. I medici che fanno parte delle commissioni chiamate a esaminare le richieste lo confessano: alla fine, decide il paziente perché il medico non ha nessun criterio sicuro per escludere la presenza di una sofferenza psicologica che qualcuno dichiara di non riuscire più a sopportare.

Il caso di Nathan ha scosso il Belgio agli inizi di ottobre. Questo transessuale di 44 anni ha chiesto e ottenuto l'eutanasia perché l'operazione che - gli era stato promesso - lo avrebbe trasformato in donna era fallita. Non potendo diventare donna, Nathan ha preferito morire: una tragica parabola dove s'incrociano eutanasia e ideologia del gender, producendo una miscela che uccide. E non finisce qui. «Dora», altro transessuale e migliore amico di Nathan, ha dichiarato che la morte della sola persona che gli era vicina, appunto Nathan, ha reso le sue sofferenze psicologiche intollerabili. Anche «Dora» ha chiesto l'eutanasia, e ora attende di morire.

Due gemelli sordi di 45 anni hanno chiesto e ottenuto l'eutanasia insieme perché una malattia rischiava di renderli anche ciechi. E l'inchiesta della giornalista francese rivela come negli ospedali i malati di Alzheimer e di alcune forme di cancro «spariscano» - i pazienti in cura per l'Alzheimer sono diminuiti del venticinque per cento in due anni -, qualche volta per l'eutanasia formale amministrata secondo la legge, qualche volta più rapidamente e discretamente. È quella «eutanasia silenziosa» nelle corsie degli ospedali di cui ha parlato diverse volte Papa Francesco, figlia di quella che il Pontefice chiama «cultura dello scarto»: le vite che non servono sono scartate.

Non solo l'eutanasia si banalizza. C'è anche chi la propone come una scelta morale meritevole, che va a beneficio della collettività facendo risparmiare spese inutili. Una propaganda seducente esalta chi ha il coraggio di chiedere l'eutanasia anziché costringere lo Stato, in tempi di crisi economica, a fornirgli cure costosissime, e induce un senso di colpa in chi invece l'eutanasia non la chiede.

L'estensione ai minorenni «capaci di discernimento» non potrà che peggiorare ulteriormente le cose. Intervistato dalla Kovacs, un avvocato specializzato si chiede già come faranno le commissioni a negare che una minorenne anoressica che si vede grassa e che è stata lasciata dal ragazzo provi una «sofferenza psichica» intollerabile, che giustifica il suo desiderio di morire. Una volta «voglio morire» era una battuta retorica da scrivere sul diario. Oggi rischia di essere presa immediatamente sul serio da una commissione in camice bianco. Prima di poterci ripensare, la poveretta sarà già morta. Sembra un film dell'orrore, ma è già realtà. Oggi in Belgio e in Olanda, domani in Francia, dopodomani in Italia.