martedì 31 dicembre 2013

23-12-2013 Matrimoni gay, se i giudici rieducano il popolo di Massimo Introvigne, www.lanuovabq.it

Una settimana dopo la storica sentenza di un tribunale federale che liberalizza la poligamia nello Stato americano dello Utah – dove i mormoni, la maggioranza della popolazione, sono stati poligami fino al 1890 e ancora oggi alcuni gruppi scismatici, condannati dalla Chiesa Mormone maggioritaria, mantengono la pratica – è arrivata il 20 dicembre 2013, sempre nello Utah, un’altra sentenza che impone agli ufficiali di stato civile di celebrare «matrimoni» omosessuali. La sentenza ha effetto immediato: sabato nelle diverse contee dello Stato persone dello stesso sesso hanno cominciato a «sposarsi». Il giorno prima, il 19 dicembre, la Corte Suprema statale del New Mexico aveva emesso un’analoga sentenza, dichiarando incostituzionale il rifiuto delle contee dello Stato di rilasciare licenze a coppie dello stesso sesso che intendono contrarre «matrimonio». E anche qui i gay hanno subito dato il via ai «matrimoni», orchestrando eventi che hanno ottenuto notevole eco sui media locali e anche in Italia su «Repubblica», che peraltro è incorsa in un curioso incidente confondendo il New Mexico, uno Stato degli Stati Uniti, con il Messico, dove il «matrimonio» omosessuale è stato peraltro introdotto nella capitale, Città del Messico, nel 2009 e nello Stato di Quintana Roo nel 2011.
Con Utah e New Mexico, diciotto dei cinquanta Stati degli Stati Uniti hanno introdotto il «matrimonio» omosessuale, insieme al Distretto di Columbia – che comprende la capitale Washington – e a otto giurisdizioni tribali che esercitano la loro autorità su riserve indiane. La sentenza della Corte Suprema di Washington del 26 giugno 2013 nel caso «United States vs Windsor» ha dichiarato incostituzionale l’interpretazione a livello federale della nozione di «matrimonio» come riferita solo a un uomo e a una donna, ma a rigore non ha obbligato i singoli Stati a introdurre il «matrimonio» omosessuale nella loro legislazione. Tuttavia lo stesso giorno la Corte Suprema nel caso parallelo «Hollingworth vs Perry» ha annullato come incostituzionale il referendum del 2008 con cui gli elettori della California avevano rifiutato il «matrimonio» omosessuale. Anche in quel caso, i «matrimoni» tra persone dello stesso sesso sono iniziati in California a poche ore dalla sentenza.
Le due sentenze del New Mexico e dello Utah sono diverse. Nel New Mexico la tecnica usata dagli attivisti favorevoli al «matrimonio» gay è stata quella di trovare ufficiali di stato civile disposti a disubbidire alla legge in vigore e celebrare «matrimoni» fra persone dello stesso sesso. Quando i loro superiori hanno cercato di punirli, hanno fatto loro causa e sollevato la questione della costituzionalità (statale) della legge del New Mexico che considerava matrimonio solo quello fra un uomo e una donna, determinando la decisione della Corte Suprema dello Stato che l’ha dichiarata incostituzionale.

Si tratta di una strategia che gli attivisti LGBT hanno tentato di usare anche in altri Paesi, e che l’episodio del New Mexico potrebbe rilanciare. Nel 2010 a Torino l’allora sindaco Sergio Chiamparino (PD) «sposò» due lesbiche – sostenendo poi che si trattava di un gesto puramente «simbolico» – e le organizzazioni LGBT diedero il via alla campagna «Mille Chiamparino», incitando i sindaci a violare la legge e a «sposare» coppie dello stesso sesso, per poi farsi incriminare e sperare in un intervento dei giudici che avrebbe introdotto anche in Italia il «matrimonio» omosessuale per via giudiziaria. Ma nessun giudice perseguì Chiamparino, né si trovarono altri sindaci avventurosi, e la campagna morì lì. I giudici del New Mexico rischiano ora d’indurre qualcuno a riprenderla.
Lo Utah è uno degli Stati americani dove si sono celebrati referendum sulla questione del «matrimonio» omosessuale. Nel 2004 una solida maggioranza del 65,8% votò per affermare che il matrimonio è solo fra un uomo e una donna. In trenta Stati dei cinquanta che compongono gli Stati Uniti gli elettori si sono espressi nello stesso senso – compresa la California, dov’è nato il movimento LGBT – mentre solo nel Maryland e nel Maine nel 2012, sulla scia della vittoriosa campagna elettorale di Obama e con referendum celebrati lo stesso giorno delle elezioni presidenziali, gli elettori hanno votato per l’introduzione del «matrimonio» omosessuale. Nonostante questi «gol della bandiera» realizzati a fine partita, i sostenitori dei «matrimoni» omosessuali negli Stati Uniti hanno perso i referendum con un risultato per loro imbarazzante: trenta a due.
La sentenza dello Utah è figlia di quella della Corte Suprema federale sulla California. Infatti – a differenza della decisione del New Mexico, uno Stato dove non erano stati celebrati referendum – nello Utah il giudice federale se l’è presa direttamente con il referendum del 2004, annullandone nove anni dopo i risultati. La sentenza è particolarmente interessante e inquietante perché ribadisce il diritto – che secondo la decisione è anche un dovere – dei giudici di «rieducare» gli elettori quando sbagliano, non tenendo alcun conto della volontà popolare e imponendo loro tesi «politicamente corrette» anche quando la maggioranza le rifiuta. Non si tratta più di giustizia, ma – per usare un’espressione di Benedetto XVI – di tecnocrazia. L’elettore vota bene? Il giudice lo premia. L’elettore sbaglia? Niente paura, il giudice illuminista – espressione di un’élite tecnocratica, che ne sa di più del popolo ignorante – lo corregge, lo bastona e fa anche pagare allo Stato – cioè ai contribuenti, dunque agli stessi elettori – le ingenti spese della pluriennale causa.
A prima vista le due sentenze che in una settimana hanno cambiato la storia dello Utah – una legalizzando la poligamia e la seconda introducendo il «matrimonio» gay – vanno nello stesso senso. Entrambe negano che l’unione che lo Stato considera lecita e produttiva di effetti giuridici sia solo quello fra un uomo e una donna. C’è però una differenza fondamentale. La sentenza sulla poligamia sostiene che il costume è cambiato e che ormai la maggioranza dei cittadini non è più scandalizzata dalla poligamia. La sentenza sugli omosessuali afferma precisamente il contrario. I giudici sanno perfettamente che non solo nel 2004, quando fu celebrato il referendum, ma anche oggi, nel 2013, la grande maggioranza dei cittadini dello Utah è contraria al «matrimonio» omosessuale. Il tribunale conosceva i sondaggi, unanimi, e conosceva anche l’opinione della Chiesa Mormone, di cui si dichiara parte – stando all’ultimo censimento, del 2010 – il 62% della popolazione dello Utah, che è risolutamente contraria al «matrimonio» omosessuale e ora ha energicamente protestato contro la sentenza. Per inciso, la Chiesa Mormone è contraria anche alla sentenza sulla poligamia, perché considera coloro che la praticano «eretici» ancora renitenti, dopo decenni, ad accettare la riforma del 1890 con cui la stessa Chiesa ha cessato la pratica dei matrimoni poligami.
Ma l’opinione della maggioranza – che ha spinto lo Stato dello Utah a fare appello, e numerosi ufficiali di stato civile a rifiutarsi di applicare la sentenza, rischiando però il carcere – secondo i giudici è irrilevante. Quella che conta è l’opinione «giusta», non l’opinione maggioritaria. La tecnocrazia dei giudici si sostituisce alla democrazia: o, se si preferisce, quando si tratta di «diritti» degli omosessuali la democrazia è sospesa. È una deriva totalitaria, che purtroppo non è all’opera solo nello Utah.

31-12-2013 Vescovi polacchi in campo contro il "gender" di Roberto Marchesini, lanuovabq.it

Domenica 29 dicembre, festa della Sacra Famiglia, in tutte le chiese polacche è stata etta dal pulpito la lettera che i vescovi hanno scritto per condannare l'ideologia di genere e l'omosessualismo (clicca qui per l'originale).
La lettera è piuttosto elaborata, ma è scritta in un tono deciso e combattivo. I vescovi, dopo aver introdotto la festa, ricordano la visione della sessualità umana espressa nella Teologia del Corpo di Giovanni Paolo II e da questa base affermano: “[...] ci sentiamo costretti a parlare in modo fermo ed inequivocabile in difesa della famiglia cristiana e dei valori fondamentali che essa protegge e a mettere in guardia contro i pericoli di chi promuove un nuovo tipo di forme di vita familiare”.
I vescovi ricostruiscono le fondamenta ideologiche dell'ideologia di genere e le rinvengono nel marxismo e nel neomarxismo espresso dal movimento femminista. Questa ideologia, negando la realtà umana, nega l'importanza del sesso biologico e afferma che il genere sessuale può essere modellato indipendentemente dal sesso biologico. Questa forma di autodeterminazione si spinge anche nella scelta del genere sessuale e apre la strada a un uovo tipo di famiglia basato su rapporti omosessuali.

“Il pericolo dell'ideologia di genere deriva fondamentalmente dalla sua natura profondamente distruttiva sia nei confronti della persona che delle relazioni interpersonali, e quindi di tutta la vita sociale. Un uomo con una identità di genere incerta non è in grado di scoprire e svolgere i compiti che deve affrontare, nel matrimonio come nella vita familiare, nonché socio-professionale. Cercando di equiparare i diversi tipi di unioni, di fatto indebolisce seriamente il matrimonio come  comunità di uomo e donna e la famiglia fondata sul matrimonio”.
I vescovi passano poi a denunciare la violenta penetrazione dell'ideologia di genere nelle strutture che animano la vita sociale anche a causa del forte coinvolgimento dei media.
Proseguono: “Non è l'esistenza dei due sessi la fonte di discriminazioni, ma la mancanza di riferimenti spirituali, l'egoismo umano e l'orgoglio, che bisogna costantemente superare. La Chiesa condanna le umiliazioni inflitte a persone con tendenze omosessuali, ma nello stesso tempo insiste sul fatto che l'attività omosessuale è profondamente disordinata, e che il matrimonio, essendo la comunità di un uomo e una donna, non può essere socialmente equiparato ad una relazione omosessuale”.
Si appellano infine alle famiglie cristiane, ai rappresentanti dei movimenti religiosi e delle associazioni ecclesiali e a tutte le persone di buona volontà perché intraprendano coraggiosamente azioni volte a diffondere la verità sul matrimonio e sulla famiglia; si rivolgono anche alle istituzioni responsabili della formazione perché non cedano alle pressioni di pochi che, in nome dell'educazione moderna, conducono esperimenti su bambini e giovani; invitano le istituzioni educative ad impegnarsi nella promozione di una visione integrale dell'uomo.
La lettera, resa pubblica alcuni giorni prima, ha suscitato reazioni molto forti. Si distingue, come al solito, per la sua virulenza il quotidiano Gazeta Wyborcza, nato come bollettino del sindacato Solidarnosc e ora espressione dell'ideologia laicista, che ha attaccato la lettera dei vescovi definendola “scioccante” e riferendosi all'ideologia di genere come un “nemico inventato” (clicca qui per l'originale). Intervistata dal quotidiano, il plenipotenziario del governo Tusk per le pari opportunità, Agnieszka Kozlowska-Rajewicz, si è detta “stupita” per i toni utilizzati dai prelati: “Purtroppo, questo non è un ramoscello d'ulivo. Dopo aver letto la lettera si può avere l'impressione che l'Europa occidentale arrivi in Polonia con questa cosa terribile del genere, che vuole sessualizzare i bambini e distruggere la famiglia. Ma chi vuole fare una cosa così orribile? Di certo non il governo, non l'Unione europea o le organizzazioni femministe”.
Secondo la professoressa Magdalena Środa, insegnante di filosofia presso l'Università di Varsavia e membro dell'Accademia Polacca delle Scienze, questa lettera sarebbe la solita cortina fumogena per distrarre l'attenzione dal problema della pedofilia nel clero polacco, ed “è la prova dell'enorme ignoranza della gerarchia, chiusa alle scienze umanistiche contemporanee. Questa lettera trasuda odio”.
Per il professor Krzysztof Podemski, insegnante di sociologia presso l'Università di Poznan, “La gerarchia ha incarnato il male nel misterioso genere. Hanno un nuovo nemico per spaventare la gente. Questa aberrazione è destinata a coloro che odiano gli avversari di Kaczynsky, gli ebrei, i gay, chi vota a sinistra, i liberali; coloro che hanno paura dell'Europa e dei cambiamenti. La Chiesa polacca è completamente radiomariizzata. Tra 5, 10 o 15 anni pagheranno con lo svuotamento completo delle chiese”.
Considerata la situazione attuale della Polonia, non c'è dubbio che la mossa dei vescovi sia stata clamorosa e coraggiosa; il fatto che la lettera sia stata letta in tutte le chiese dimostra sia la sua importanza sia l'attenzione pastorale dei vescovi polacchi.

martedì 24 dicembre 2013

22-12-2013 Follia collettiva a cui non ci si può arrendere di Riccardo Cascioli, www.lanuovabq.it

L’isteria per presunti casi di omofobia non è soltanto italiana, come la storia di Phil Robertson (che riportiamo in Primo Piano) dimostra. Ma è vero che in Italia abbiamo una vocazione tutta particolare per estremizzare certi fenomeni fino a trasformare una tragedia in farsa. Così è, appunto, a proposito della presunta “emergenza omofobia”. E ora i dati lo dimostrano inequivocabilmente. Dopo molte insistenze, e a iter quasi concluso, il governo si è finalmente deciso a fornire le cifre che riguardano i casi di discriminazione per orientamento sessuale. Come i nostri lettori ricorderanno, nella seduta della Commissione Giustizia del Senato dello scorso 3 dicembre, il senatore Carlo Giovanardi (Nuovo Centro Destra) aveva avuto un duro confronto con il sottosegretario Ferri (clicca qui per leggere), chiedendo con forza che – data l’urgenza con cui si sta procedendo per approvare la legge anti-omofobia – almeno fossero mostrati i dati che dimostrerebbero l’esistenza dell’asserita emergenza.
Ebbene, dopo molto tergiversare, il governo nel giorno in cui scadeva il termine per la presentazione degli emendamenti alla legge anti-omofobia (120 ne sono stati presentati dal Nuovo Centro Destra) ha finalmente inviato i dati in suo possesso per quel che riguarda la discriminazione in Italia. E il risultato era ampiamente prevedibile: «In Italia – come ha subito commentato il senatore Giovanardi - non esiste affatto un'emergenza di violenza e discriminazione nei confronti di omosessuali e transessuali, mentre questo disegno di legge ideologico e liberticida mira a togliere la possibilità di espressione e di azione a chi non condivide le tesi delle associazioni gay militanti, per esempio sul matrimonio o sull'adozione».
I dati in questione sono quelli offerti dal rapporto dell’Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori (Oscad, incardinato nell'ambito del dipartimento della sicurezza - direzione centrale della Polizia criminale, organismo interforze composto dai rappresentanti della Polizia di Stato e dei Carabinieri).
Dal settembre 2010 l'Oscad monitora tutte le segnalazioni a presunti reati a sfondo discriminatorio motivati da origine etnica o razziale, genere, convinzioni religiose, orientamento sessuale, identità di genere, disabilità, età, lingua. Ebbene, il documento certifica che in più di 3 anni di attività dell'osservatorio sono pervenute all'Oscad 83 segnalazioni - complessivamente per offese, aggressioni, lesioni, istigazione alla violenza, danneggiamenti, casi di suicidio e minacce - relative all'orientamento sessuale. Di queste segnalazioni poi, la maggior parte riguarda offese e insulti (il 42,17%), seguito da aggressioni e violenze. In realtà, per quanto deprecabili, queste violenze sono in effetti molto rare. Prendiamo ad esempio il dato più tragico, quello dei suicidi: in tre anni ci sono stati 4 casi di suicidio direttamente collegabili a discriminazioni per l’orientamento sessuale. Quattro in 3 anni, quando in Italia si registrano tra i 3500 e i 4mila suicidi l’anno. Non dovrebbe accadere neanche a una persona, siamo d’accordo, ma da un punto di vista della descrizione delle priorità è evidente che quattro suicidi in tre anni non raccontano certo di una emergenza.
Quanto ad aggressioni e lesioni parliamo di 32 segnalazioni in tre anni quando in un solo anno, tanto per fare un esempio, sono vittime di violenza più di un milione di donne (dati Istat). La sproporzione è evidente, così come è evidente che parlare di emergenza omofobia rischia di far cadere nel ridicolo.
Potremmo andare avanti, ma sarebbe inutile perché chi è guidato dall’ideologia troverà sempre un pretesto per sostenere che a sbagliare è la realtà.
Eppure non possiamo arrenderci a questa follia collettiva che vuole fare diventare l’Italia come un gigantesco gulag. Nel mentre respingiamo ogni forma di violenza, per il bene di tutti dobbiamo impedire che la legge anti-omofobia venga approvata e dobbiamo chiedere che il governo ritiri la famigerata “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (2013-2015)”.

24-12-2013 Con il "metodo Barilla" si tacitano i cattolici irlandesi di Massimo Introvigne, http://www.lanuovabq.it

In Irlanda nel 2015 si terrà il referendum per introdurre il «matrimonio» omosessuale, e il governo è già sceso in campo per invitare gli irlandesi a votare a favore, per sentirsi – così recita la propaganda – «più europei». Oltre alla carota un po’ andata a male dell’Europa, si comincia a usare però anche il bastone. L’incredibile episodio che è andato in scena questo mese all’Università Nazionale dell’Irlanda, a Galway, mostra esattamente come funziona la macchina brutale dell’intimidazione.
Courage International è un’organizzazione cattolica riconosciuta sia a livello internazionale sia da diverse Conferenze Episcopali, che promuove un apostolato per le persone omosessuali cui propone di vivere in castità richiamandosi esplicitamente al n. 2359 del «Catechismo della Chiesa Cattolica»: «Le persone omosessuali sono chiamate alla castità. Attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, mediante il sostegno, talvolta, di un'amicizia disinteressata, con la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradatamente e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana». L’organizzazione propone un itinerario verso la castità attraverso l’amicizia e la preghiera. Dichiaratamente, non s’interessa invece alle cosiddette «terapie riparative» né ai problemi relativi alla natura e alla genesi dell’omosessualità.
La Legione di Maria è un movimento cattolico fondato negli anni 1920 in Irlanda, che ha oltre due milioni di membri in Irlanda ed è da decenni una componente di fondamentale importanza del cattolicesimo irlandese.
All’Università Nazionale dell’Irlanda nello scorso mese di novembre è stata lanciata una campagna. «Purity matters», «La purezza è importante», patrocinata insieme dal gruppo universitario della Legione di Maria e da Courage International, dove si proponeva alle persone omosessuali l’itinerario di preghiera e amicizia di Courage verso «una vita di castità», con lo slogan «Sono un figlio di Dio: non chiamatemi gay». I poster spiegavano il significato dello slogan: «andare al di là dei confini dell’etichetta omosessuale verso una più completa identità in Cristo».
Subito si è scatenato un putiferio, che ha coinvolto la stampa nazionale irlandese ed esponenti del governo, fino a quando l’Università Nazionale non solo ha vietato il manifesto e ha fatto rimuovere quelli esposti nelle sue sedi, ma ha sospeso ogni attività della Legione di Maria nel campus «con effetto immediato». Il comunicato menziona anche non meglio precisate «leggi europee», che impedirebbero campagne di questo genere in quanto omofobe.
Non basta. Siccome il «metodo Barilla», ormai applicato in tutta Europa, prevede non solo che il reprobo sia punito ma che «si converta» e chieda scusa, la (disciolta) branca studentesca della Legione di Maria dell’Università Nazionale ha dovuto pubblicare un comunicato di scuse. La Legione di Maria nazionale ha emesso a sua volta un comunicato dove afferma semplicemente di «non sapere nulla» della vicenda e «di non essere stata contattata» dalla branca universitaria a proposito della campagna. Il portavoce del vescovo di Galway, dove si trova l’università, ha dichiarato che si tratta di questioni che riguardano la Legione di Maria e non la diocesi, che «l’appello a vivere una vita casta è parte dell’insegnamento cristiano» ma che lo slogan «Sono un figlio di Dio, non chiamatemi gay» è offensivo e non andava usato.
Paradossalmente, non sostenuta dal clero e neppure dai suoi stessi dirigenti, la Legione di Maria dell’Università Nazionale è stata difesa dall’influente organizzazione laica britannica per la libertà di espressione Index of Free Speech, il cui dirigente Padraig Reidy scrivendo sul Telegraph ha protestato perché «un messaggio non violento e non intimidatorio che espone la posizione cattolica ortodossa è stato bandito da un campus universitario», violando «il principio fondamentale della libertà di parola».
È sempre sconsigliabile fare i martiri con il sangue degli altri e, come la nostra testata ha a suo tempo documentato, il clero e il mondo cattolico irlandese vivono una condizione molto difficile a causa delle colpe di alcuni sacerdoti, responsabili di alcuni fra i più gravi casi di pedofilia che si siano verificati su scala internazionale, e delle improprie generalizzazioni della stampa e del governo, che – profittando dello scandalo, purtroppo reale, dei preti pedofili – cercano di regolare antichi conti con una Chiesa che appare spesso stordita dai tanti colpi ricevuti e incapace di difendersi.
Occorre però che tutti difendano – «leggi europee» o no – il diritto dei cattolici a diffondere la loro dottrina in tema di omosessualità, che è quella contenuta nel «Catechismo della Chiesa Cattolica», che Papa Francesco ci assicura essere «lo strumento fondamentale per quell’atto unitario con cui la Chiesa comunica il contenuto intero della fede, “tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede”» (enc. «Lumen fidei», n. 46). In Italia la campagna dell’Arcigay sull’omofobia «Spegniamo l’odio», finanziata con fondi del Consiglio d’Europa, presenta uno spot con frasi «omofobe» che la legge in discussione in Senato dovrebbe trasformare in reati penali, tra cui una dell’avvocato Giancarlo Cerrelli, vice-presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, secondo cui «l’omosessualità in realtà è un disagio». Si tratta, ancora una volta, di una parafrasi del «Catechismo» che al n. 2358 afferma che «questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro [omosessuali] una prova». Una «prova» è certamente un disagio. E le persone omosessuali, per superare il disagio, dallo stesso «Catechismo» sono «chiamate alla castità».
Coloro che, in Irlanda come in Italia, vogliono «spegnere» le voci che ripetono il «Catechismo» violano gravemente la libertà religiosa. Se un clero intimidito dai bastoni del «metodo Barilla» non se la sente di protestare, anzi chiede scusa, noi laici rifiutiamo di farci imbavagliare. Non chiediamo scusa a nessuno, e ripetiamo con il «Catechismo» (n. 2357) che «gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati. Sono contrari alla legge naturale. Precludono all'atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati».
Il documento preparatorio per il Sinodo sulla Famiglia del 2014 – proprio quello del fin troppo famoso «questionario» –, fatto inviare da Papa Francesco a tutti i vescovi del mondo, afferma a proposito degli articoli del «Catechismo» che abbiamo appena citato che «l’attenta lettura di queste parti del “Catechismo” procura una comprensione aggiornata della dottrina della fede a sostegno dell’azione della Chiesa davanti alle sfide odierne. La sua pastorale trova ispirazione nella verità del matrimonio visto nel disegno di Dio che ha creato maschio e femmina». Chi diffonde questa «comprensione aggiornata della dottrina della fede […] davanti alle sfide odierne» oggi però in Europa rischia di andare in prigione. E magari di farsi dire da qualche prete che faceva meglio a stare zitto.

giovedì 19 dicembre 2013

La lobby gay imbavaglia i giornalisti di Massimo Introvigne, 15-12-2013, http://www.lanuovabq.it


Manif pour Tous ItaliaCredevate che l'UNAR, l'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali del Ministero delle Pari Opportunità ce l'avesse solo con gli insegnanti, imponendo loro d'insegnare obbligatoriamente l'ideologia di genere? Sbagliavate. Ora se la prende con i giornalisti, pubblicando il 13 dicembre un documento tecnicamente incredibile, intitolato «Linee guida per un'informazione rispettosa delle persone LGBT» (in fondo all'articolo si può scaricare il documento). Il modesto titolo «Linee guida» non inganni. Si precisa subito infatti che i giornalisti che non si piegheranno ai diktat dell'UNAR violeranno le norme deontologiche, per cui la denuncia all'Ordine dei Giornalisti è dietro l'angolo. Inoltre il testo - tutto bastone e poca carota - spiega anche che è solo questione di tempo: «l'Italia si sta adeguando» ai Paesi più civili, presto il Parlamento introdurrà una «legislazione specifica» contro l'omofobia e il giornalista che sbaglia rischierà non solo il deferimento all'Ordine ma la galera.

E che cosa si deve fare per adeguarsi? Occorre rispettare dieci comandamenti, redatti dagli esperti - quasi tutti di organizzazioni LGBT - che hanno preparato le linee guida. Primo: non confonderai il sesso con il genere. Il sesso è una caratteristica anatomica, ma ognuno sceglie se essere uomo o donna «indipendentemente dal sesso anatomico di nascita». È davvero il primo comandamento dell'ideologia di genere, ma ora diventa obbligatorio.

Secondo: benedirai il «coming out». Vietato parlare di «gay esibizionisti»: il giornalista porrà invece attenzione a sottolineare gli aspetti positivi della «visibilità» degli omosessuali e il coraggio di chi si rende visibile.

Terzo: riabiliterai la parola «lesbica».  «Dare della lesbica» non è un insulto: è un complimento. Ma attenzione a non esagerare, promuovendo il «voyeurismo» dei maschietti. Quarto comandamento: attenzione agli articoli. Se un transessuale si sente donna il giornalista deve scrivere «la trans» e non «il trans». Per Vladimir Luxuria, per esempio - è esplicitamente citato (o citata?) nelle linee guida - vanno sempre usati articoli e aggettivi al femminile. Non importa - al solito - l'anatomia: se qualcuno «sente di essere una donna va trattata come tale». Quinto: non associare transessuali e prostituzione. E comunque mai parlare di prostitute o prostituti. Il giornalista userà invece l'espressione «lavoratrice del sesso trans».

Come è giusto per materie di questo genere, molto si gioca sul sesto comandamento: il giornalista dovrà educare i suoi lettori a considerare cosa buona e giusta il «matrimonio» omosessuale, «o almeno il riconoscimento dei diritti attraverso un istituto ad hoc» . Farà notare che «il matrimonio non esiste in natura, mentre in natura esiste l'omosessualità». Fuggirà come la peste «i tre concetti: tradizione, natura, procreazione», sicuro indizio di omofobia. Ricorderà ai suoi lettori che il «diritto delle persone omosessuali ad avere una famiglia è sancito a livello europeo».

Il sesto comandamento dell'UNAR basta a mettere nei pasticci qualunque giornalista che per avventura fosse d'accordo con il Magistero cattolico. Se qualcuno sfuggisse al sesto, incalza però il settimo comandamento: vietato parlare di «matrimonio tradizionale» e, per converso, di «matrimonio gay», che il giornalista dovrà invece qualificare come «matrimonio fra persone dello stesso sesso» per non rischiare, anche involontariamente, di diffondere la pericolosa idea secondo cui si tratterebbe di «un istituto a parte, diverso da quello tradizionale».

Difficilissimo poi per il giornalista cattolico - o, che so, per il collaboratore di questa testata - evitare di violare l'ottavo comandamento, il quale in tema di adozioni vieta di sostenere che il bambino «ha bisogno di una figura maschile e di una femminile come condizione fondamentale per la completezza dell'equilibrio psicologico». Il giornalista che sostenesse questa tesi si renderebbe responsabile della propagazione di un «luogo comune», smentito dalla «letteratura scientifica». Vietatissimo, poi, parlare di «utero in affitto», espressione «dispregiativa» da sostituire subito con «gestazione di sostegno».

Il nono comandamento sembra scritto apposta per il caso di Giancarlo Cerrelli, il noto vicepresidente dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani colpevole di rappresentare troppo efficacemente le ragioni di chi ė contrario alla legge sull'omofobia in televisione e quindi dichiarato persona non gradita nei programmi RAI. «Quando si parla di tematiche LGBT - si legge in un passaggio delle linee guida che sarebbe esilarante se non ci fosse la minaccia di gravi sanzioni per chi sgarra - è frequente che giornali e televisioni istituiscano un contraddittorio: se c'è chi difende i diritti delle persone LGBT si dovrà dare voce anche a chi è contrario». Sembrerebbe il minimo sindacale del pluralismo e della democrazia, specie se parliamo della RAI e di servizio pubblico. 

Ma le linee guida ci dicono che questo «non è affatto ovvio». Il caso Cerrelli insegna. «Cosa deve accadere affinché il contraddittorio fra favorevoli e contrari ai diritti delle persone gay e lesbiche non sia più necessario?». La risposta corretta sarebbe che deve accadere l'instaurazione di una dittatura, per dirla con Papa Francesco, simile a quella del romanzo «Il padrone del mondo» di Benson. La risposta delle linee guida invece è che basta una «scelta puramente politica» - che l'UNAR si arroga l'autorità di fare - per dire basta a questi dibattiti fastidiosi e pericolosi. Il buon conduttore televisivo avrà cura che sia espressa solo un'opinione, quella corretta. «Non esiste una soglia di consenso prefissata, oggettiva, oltre la quale diventa imprescindibile il contraddittorio». Quindi su questi temi se ne deve prescindere. Tornatene a casa, avvocato Cerrelli - in attesa magari di sentire anche per televisione il ritornello scandito da certi simpatici attivisti: «e se saltelli muore anche Cerrelli».

Non si salvano, infine, neanche i fotografi. Il decimo comandamento li invita a fare attenzione a che cosa fotografano nei gay pride, evitando immagini di persone «luccicanti e svestite». L'obiezione secondo cui se chi partecipa ai gay pride non si svestisse non correrebbe il rischio di essere fotografato nudo non sembra essere venuta in mente agli esimi redattori del testo.

Che però hanno pensato a una possibile difesa del malcapitato giornalista, il quale potrebbe sostenere che lui la pensa diversamente, ma per dovere di cronaca ha ritenuto di riportare anche le strane idee di chi si oppone al «matrimonio» omosessuale, e che magari ha radunato in una sala centinaia di persone. Difesa debole, sentenzia il documento. Il giornalista che riporta dichiarazioni, anche «di politici e rappresentanti delle istituzioni», contrarie alle linee guida può farlo per «dovere di cronaca» ma deve «attenersi ad alcune regole»: «virgolettare i discorsi», spiegare che sono sbagliati, contrapporre dichiarazioni di rappresentanti delle organizzazioni LGBT, che andranno tempestivamente intervistati,  usare «particolare attenzione nella titolazione». Non sono forniti esempi, ma il bravo giornalista capisce al volo. Se per esempio un vescovo si dichiara contrario al «matrimonio» omosessuale, il titolo dovrà essere «Fedeli scandalizzati dal discorso omofobo del vescovo» e non «Il vescovo ricorda: la Chiesa non accetta il matrimonio omosessuale».

Giornalista avvisato, mezzo salvato. Ma anche italiani e parlamentari avvisati, mezzi salvati. Perché le linee guida per i giornalisti rendono involontariamente un enorme servizio. Spiegano esattamente, nero su bianco, che cosa sarà davvero vietato dalla legge contro l'omofobia. Altro che proteggere le persone omosessuali - com'è giusto che sia, e come già affermano le leggi in vigore - da insulti, minacce e violenze. Qui si tratta della dittatura del relativismo, senza sottigliezze e senza misericordia. Fermiamo questa macchina impazzita prima di ritrovarci tutti in un GULag gestito da militanti LGBT.


Documenti

mercoledì 18 dicembre 2013

L'arcobaleno in classe. Obbligatorio dall'asilo di Tommaso Scandroglio, 18-12-2013 - http://www.lanuovabq.it/


Immemori che il 25 dicembre si celebra la nascita di Gesù, molti affermano che il Natale è la festa dei bambini. Il Comune di Venezia ha pensato bene invece di far la festa ai bambini introducendo in tutti i nido e asili comunali delle lezioni sull’omosessualità.

Genitore arcobalenoPer l’anno scolastico 2013-2014 è stato infatti approvato per tramite dell’Assessorato Politiche Educative e Politiche per la Famiglia un “Piano di Formazione” per le “Educatrici e Insegnanti dei Servizi per l’Infanzia Comunali” che tra le altre cose prevede corsi di formazione per le maestre il cui focus è lo sdoganamento in tenera età della teoria del gender. Tra i docenti figura Ilaria Trivellato, referente delle Famiglie Arcobaleno per l’Emilia Romagna.

In merito alla formazione degli insegnanti nel “Piano di Formazione” si può leggere che “il percorso […] ha l’obiettivo di aumentare le informazioni relative alle nuove tipologie di famiglia in Italia. […] L’educazione di genere pone fra gli obiettivi quello di accrescere la conoscenza sulle famiglie omogenitoriali ed i loro bambini”. Si chiamano “pratiche educative inclusive”.

Riguardo invece ai piccoli ospiti degli asili, il documento prosegue mettendo in guardia da un pericolo: “succede talvolta che gli sguardi e le parole che gli adulti rivolgono ai bambini veicolino una valorizzazione o una svalutazione legate al maschile e al femminile che si insinua negli esempi, nei giochi e nei giocattoli, nei libri letti, nelle filastrocche e nelle fiabe, nei modi di dire”. Tutto questo può ingenerare “profonde asimmetrie e stereotipi legati a identità e ruoli di genere”. Tradotto significa che guai se le bambine vogliono giocare con le bambole perché si sentono piccole mamme e guai se i maschietti tirano calci ad un pallone, gioco troppo virile. E guai soprattutto se si crede ancora che l’universo della specie umana sia divisa in maschi e femmine. Le nuance dell’identità sessuale sono invece infinite ed indefinite.

Detto questo ecco gli obiettivi che si pone il corso in questo specifico ambito: “accrescere le conoscenze sulle famiglie omosessuali e i loro bambini; potenziare le competenze relative alla comunicazione con i genitori omosessuali; perfezionare le pratiche educative affinché siano inclusive dei bambini che vivono in famiglie non tradizionali”.

Se andiamo poi a spulciare il programma didattico del corso per gli insegnanti troviamo lezioni su “famiglie omogenitoriali e diritti negati; casi, situazioni e ‘imbarazzismi’ in classe, che fare?”. La soluzione degli hard cases prevede giochi di ruolo tra i docenti. Lasciamo all’immaginazione del lettore riempire di significato quest’ultima espressione. Il programma prosegue con “una educatrice di nido e una di materna [che] raccontano la loro esperienza ‘arcobaleno’; le mamme arcobaleno [che] raccontano il loro rapporto con la scuola e le educatrici dei loro figli”.

Una volta imbottiti dei dogmi del credo omosessualista, va da sé che le maestre di asilo saranno pronte a far leggere filastrocche omo ai bambini ed a inventare role playing arcobaleni dove Anna si fingerà Marco e Claudio darà un bacio sulla guancia a Stefano.

Più che un futuro arcobaleno per i bambini di Venezia ci pare che questo sarà un futuro orcobaleno. Si badi bene: tale iter formativo non è una trovata bislacca del comune di Venezia, ma, come sa bene il lettore della Nuova Bussola, ricalca fedelmente le indicazioni contenute nel documento della Sezione Europea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dal titolo “Standards for Sexuality Education in Europe”, in quello denominato “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere” pubblicato dal nostro Dipartimento delle Pari Opportunità e infine nel recente Decreto scuola (104/2013) che impone corsi formativi agli insegnanti anche sui temi legati all’orientamento sessuale.

Dicevamo prima che per molti il Natale è la festa dei bambini. Ecco questi bambini per legge non solo sono cresciuti come piccoli gay, ma – andando oltre al caso veneziano – vengono dati in affido a coppie gay (v. l’episodio della bambina data in affido ad una coppia omosessuale di Bologna), uccisi prima di nascere con l’aborto e subito dopo con l’eutanasia infantile (v. il caso della recente legge belga), concepiti in provetta come se fossero cose, usati per la sperimentazione (come vuole il nuovo programma Horizon 2020 della UE), violentati prima dai pedofili e poi dai giudici (v. il caso del pedofilo a cui la Cassazione ha mitigato la pena perché si trattava di “amore”), indotti alla masturbazione a scuola (v. il documento dell’OMS prima citato), fatti prostituire dalle mamme (v. i casi di baby squillo romane) e naturalmente costretti a crescere con un solo genitore perché papà e mamma sono divorziati. Erode al confronto era un boy scout. Buon Natale bambini.

martedì 17 dicembre 2013

Nello Utah legalizzano la poligamia di Massimo Introvigne, 17-12-2013, http://www.lanuovabq.it


Famiglia mormoneUno degli argomenti degli oppositori del «matrimonio» omosessuale è che, se si ammette una forma alternativa di «matrimonio» diversa da quello fra un uomo e una donna, si apre la porta al riconoscimento di altre forme alternative, a partire dalla poligamia. Dopo la sentenza della Corte Suprema americana del 26 giugno 2013, che apriva le porte al «matrimonio» fra persone dello stesso sesso, un sorridente presidente Obama aveva commentato che «love is love», l'amore è amore. Ma se l'amore è sempre amore, chi siamo noi per giudicare che quello poligamo - cantato, per esempio, nella poesia araba molti secoli prima che qualcuno cominciasse a parlare di «matrimoni» omosessuali - non dev'essere riconosciuto dallo Stato?

All'epoca, i sostenitori del «matrimonio» omosessuale avevano liquidato l'obiezione relativa alla poligamia come una sciocchezza. Sono passati meno di sei mesi, e ci siamo già. Con una sentenza storica - sulle prime pagine di molti quotidiani americani, e sostanzialmente ignorata in Italia - il 13 dicembre 2013 il Tribunale Federale per il Distretto dello Utah ha giudicato incostituzionali molti articoli della legge di quello Stato che proibisce la poligamia. Lo Utah è l'unico Stato degli Stati Uniti dove i mormoni sono in maggioranza, e uno sguardo al contesto storico - del resto esaminato a lungo nella stessa sentenza - è obbligatorio.

Tra le rivelazioni più sconcertanti che il fondatore dei mormoni, Joseph Smith (1805-1844), affermava di avere ricevuto da Dio c'era quella secondo cui, insieme ad altre pratiche dell'Antico Testamento, doveva essere restaurata anche la poligamia. I mormoni iniziarono a praticare la poligamia nel 1842. Dopo l'assassinio del fondatore si trasferirono nel remoto Utah, dove fondarono un loro Stato indipendente che legalizzò la pratica della poligamia nel 1852. Con gli anni, lo Utah divenne meno remoto dagli Stati Uniti, e la costruzione della ferrovia transcontinentale rese la sua «separatezza» un ricordo del passato. Il governo federale americano cominciò a sostenere che il territorio dello Utah faceva parte degli Stati Uniti. Dopo battaglie legali e perfino una piccola guerra i mormoni si piegarono. In tutte queste vicende la questione della poligamia dei mormoni, considerata scandalosa da molti americani, giocò un ruolo non trascurabile. Nel 1890 lo Utah divenne uno Stato degli Stati Uniti, e la Chiesa Mormone - sulla base di una nuova rivelazione che il suo presidente affermava di avere ricevuto da Dio - abbandonò la pratica della poligamia.

Come sempre avviene in questi casi, alcuni mormoni «tradizionalisti» non accettarono la riforma, e continuarono a praticare la poligamia. Oggi i membri della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, cioè la Chiesa mormone maggioritaria, sono quindici milioni mentre i poligamisti scismatici - una comunità che ho personalmente studiato anche con ricerche e interviste sul campo - sono circa quarantamila.

Il tema della poligamia è stato riportato all'attenzione degli americani dalla serie televisiva «Big Love», in onda - anche in Italia, ma solo via satellite su Fox Life - dal 2006 al 2011, che narra le vicende di un imprenditore poligamo con tre mogli. La Chiesa mormone ha protestato perché, a suo dire, questa serie, peraltro pluri-premiata per la sua ottima qualità, avrebbe nuovamente associato i mormoni a una pratica, la poligamia, che hanno abbandonato da oltre cento anni. Ma in realtà la serie chiarisce che la Chiesa mormone maggioritaria, semmai, è attiva nel denunciare i mormoni scismatici poligami chiedendo che siano puniti dalla legge, e li considera responsabili di atti non solo illegali ma dal suo punto di vista anche eretici.

«Big Love» ha molto a che fare con la vicenda giudiziaria degli ultimi giorni. La serie televisiva è stata creata da una coppia di sceneggiatori omosessuali in un'epoca in cui in nessuno Stato degli Stati Uniti era possibile il «matrimonio» tra persone dello stesso sesso. I due sceneggiatori, Mark Olsen e Will Scheffer, hanno sempre ammesso che, mostrando una famiglia poligama tormentata ma simpatica, volevano convincere gli americani che anche in forme alternative di «matrimonio» - quello poligamo così come quello omosessuale - ci può essere il «grande amore» che dà il titolo alla serie. Appena è stato possibile, Olsen e Scheffer si sono sposati - tra loro, beninteso.

«Big Love» è finito nel 2011, ma il suo successo ha spinto la televisione americana a proporre degli altri prodotti simili. Uno di questi, «Sister Wives» («mogli sorelle», come si chiamano tra loro le mogli di uno stesso marito nei gruppi mormoni scismatici), non è uno sceneggiato ma un reality show, che mostra la vita reale di un poligamista, Kody Brown, delle sue quattro mogli e dei loro diciassette figli. Il programma è iniziato nel 2010 ed è tuttora in onda. Non senza qualche denuncia giornalistica della Chiesa mormone maggioritaria - che, come ho accennato, non solo non protegge i poligamisti scismatici ma li detesta - Kody Brown è stato incriminato in base alla legge dello Utah che proibisce la poligamia. Come ha affermato il pubblico ministero, il signor Brown non solo viola la legge contro la poligamia - lo fanno qualche migliaio di persone nello Utah, e non tutte sono perseguite - ma la viola tutte le settimane in televisione, sfidando apertamente lo Stato.

Brown ha fatto ricorso - contro le corti e la legge dello Utah - a un tribunale federale, sostenendo che la legge che vieta la poligamia è incostituzionale, per due ragioni. La prima è che viola la libertà religiosa. È vero, sostiene Brown, che la libertà religiosa ha dei limiti, ma la Corte Suprema già in un caso del 1993, il caso Hialeah, ha autorizzato un culto afro-cubano della Florida a sacrificare animali nei suoi riti nonostante le leggi sulla protezione degli animali, sostenendo che la libertà di religione deve prevalere. E, afferma Brown, gli americani del XXI secolo sono certamente più scandalizzati dai maltrattamenti degli animali che dalla poligamia. In secondo luogo, il ricorso di Brown cita - precisamente - la questione degli omosessuali e afferma che, se è cambiato il modo in cui la politica e le leggi vedono l'omosessualità, non si vede perché lo stesso non possa e debba accadere per la poligamia.

Venerdì scorso il Tribunale Federale ha dato ragione a Brown, dichiarando incostituzionali e cancellando diversi articoli della legge anti-poligamia dello Utah. Lo ha fatto in nome della libertà religiosa, sostenendo che quella legge era stata creata per colpire specificamente i mormoni prima del 1890 - quando praticavano la poligamia - e mantenuta poi per colpire i mormoni scismatici. Ma ha accolto anche l'argomento relativo all'omosessualità, citando la Corte Suprema la quale ha affermato che l'esclusione come «immorali» dei rapporti omosessuali dalla sfera di quelli che hanno rilievo e meritano protezione giuridica, per quanto abbia una tradizione secolare, non è oggi più condivisa dal comune sentire americano.

La vittoria di Brown non è piena. Il signor Brown - e qualche migliaio di altri poligamisti dello Utah - potranno convivere alla luce del sole con le loro mogli - siano due, quattro o quindici - senza essere inquietato dalla polizia e dalle leggi, e potranno sposare le loro mogli plurime in cerimonie religiose. Ma - almeno per ora - non potranno pretendere che questi matrimoni poligami siano celebrati nei comuni e abbiano effetti civili ulteriori rispetto a quelli che la legge garantisce a qualunque convivenza non illecita (e con questa sentenza la poligamia illecita non lo è più). Ma è solo questione di tempo, e anche i riconoscimenti giuridici si adegueranno alle situazioni di fatto. Lo Stato dello Utah potrebbe fare appello, ma commentatori autorevoli glielo sconsigliano affermando che non ha nessuna possibilità di successo.

Americanate? In Europa, è vero, non ci sono mormoni scismatici che vivono in poligamia. Ma ci sono già ora musulmani poligami, e alcuni si sono rivolti alla Corte Europea dei Diritti Umani. Sostenendo che è vero, in passato i musulmani poligami avevano perso delle cause perché era stato loro risposto che, se vengono in Europa, devono adattarsi al millenario modello europeo del matrimonio. Ora però, sostengono questi musulmani, i modelli sono due: matrimonio fra un uomo e una donna e «matrimonio» omosessuale. Perché non potrebbero essere tre, includendo la poligamia che tra l'altro ha una storia e una diffusione mondiale ben più ampia del «matrimonio» omosessuale? La sentenza americana del 14 dicembre dimostra che non è impossibile che i giudici diano loro ragione. E che è dimostrato, nei fatti, uno degli argomenti di chi si oppone al «matrimonio» omosessuale: quando s'introducono nuove forme di matrimonio, non ci si ferma a due. Dopo la poligamia, in Germania un fratello e una sorella hanno fatto ricorso alla Corte Suprema perché sia dichiarata incostituzionale anche la legge che vieta l'incesto. Se sì al «matrimonio» omosessuale, perché no alla poligamia? Se sì alla poligamia, perché no all'incesto? «Love is love», come direbbe Obama.

“Emergenza omofobia”? I (pochi) studi esistenti dimostrano che è più una “sensazione”. Ecco tutti i dati - 16 dicembre 2013, Benedetta Frigerio, http://www.tempi.it/



La legge sull’omofobia, dopo l’approvazione alla Camera, sta procedendo nel suo iter al Senato, ma a tappe forzate e per giunta senza che il governo abbia presentato i dati promessi e necessari per giustificare la procedura d’urgenza. Il tutto si sta svolgendo frettolosamente e senza discussioni. Nonostante la mancanza di informazioni, infatti, il termine per presentare gli emendamenti è stato fissato al 20 dicembre.
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ACCUSE GENERICHE. La norma prevede fra le pene addirittura il carcere, un misura estrema per combattere un reato di opinione che secondo i sostenitori del ddl rappresenterebbe ormai una vera e propria emergenza in Italia. A provare però che non esiste alcun allarme reale è un documento dell’Avvocatura per i diritti Lgbt, associazione di avvocati che si occupano della tutela giudiziaria delle persone con tendenze omosessuali. Nel report, intitolato Realizzazione di uno studio volto all’identificazione, analisi e al trasferimento di buone prassi in materia di non discriminazione nello specifico ambito dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere (2007-2013), si accusano gli italiani di omofobia solo per il fatto che hanno ancora un giudizio negativo su matrimonio gay e adozione per le coppie omosessuali. Non ci sono invece dati precisi su episodi di violenza o discriminazioni di altro tipo. Invece vi si può leggere quanto segue: «Si può dunque sostenere che l’intolleranza nei confronti delle persone con impulsi omosessuali e bisessuali sembrerebbe nella maggior parte della popolazione fondata non su un immotivato odio omofobico, ma sull’adesione al preciso modello familiare di tipo nucleare eterosessuale». Secondo l’Avvocatura Lgbt dunque basta “aderire” a un modello familiare eterosessuale per essere considerati intolleranti? E di conseguenza, una volta in vigore la legge sull’omofobia, basterà esprimere contrarietà alle nozze o alle adozioni gay per ricadere nella fattispecie di reato per cui è previsto il carcere?



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«NON CI SONO RICERCHE». Nonostante nel documento non compaiano denunce circostanziate di minacce, derisioni o calunnie, né rilevazioni numeriche sulla casistica di questi fenomeni, il 50 per cento degli intervistati si dice comunque convinto che bisogna fare di più contro l’omofobia. Diverso il caso delle discriminazioni nei confronti dei transessuali: qui dei dati ci sono, si parla di numerosi episodi di violenza fisica (subiti dal 24 per cento degli intervistati) e molestie (18 per cento), ma è lo stesso rapporto a specificare che il 62 per cento del campione è composto da soggetti legati alla prostituzione, una categoria di per sé a rischio di violenza. L’Avvocatura Lgbt, infatti, prosegue affermando che «esistono pochissimi dati sulla discriminazione delle persone Lgbt» e «ad oggi sono state condotte pochissime ricerche scientifiche, specificamente mirate a valutare e misurare questo fenomeno».


I SUICIDI. Un altro argomento generalmente utilizzato a riprova dell’esistenza di una “emergenza omofobia” è il tasso di suicidi, più alto nella popolazione con tendenze omosessuali che nella restante. Sono diverse le ricerche condotto in tutto il mondo che confermano quest’ultima tendenza. Relativamente all’Italia, in Omosessuali moderni. Gay e lesbiche in Italia, scritto da Marzio Barbagli e Asher Colombo per il Mulino, si legge che un terzo dei gay e un quarto delle lesbiche hanno pensato almeno una volta di togliersi la vita. E nel 6 per cento dei casi ci hanno anche provato. La colpa – si sente ripetere – è della società omofobica che non accetta l’omosessualità. Ma anche questa affermazione non è suffragata da dati certi, e anzi, le poche informazioni a disposizione spesso la smentiscono.

NEI PAESI “GAY FRIENDLY”. Alcune ricerche svolte nei paesi cosiddetti “gay friendly” dimostrano infatti che la sofferenza di chi ha impulsi omosessuali non è correlabile all’omofobia. Ad esempio in Danimarca, dove le unioni gay sono legali dal 1990, è emerso che da allora fino al 2001 il tasso di suicidi tra le coppie di uomini era otto volte superiore a quello registrato per gli uomini uniti a donne. Lo studio The association between relationship markers of sexual orientation and suicide: Denmark, 1990-2001, condotto da ricercatori dell’Università di Oxford, riporta inoltre un tasso di suicidi più alto tra gli uomini uniti civilmente ad altri uomini, rispetto al resto della popolazione con tendenze omosessuali. Un’altra ricerca, Marriage, cohabitation and mortality in Denmark: national cohort study of 6.5 million persons followed for up to three decades,1982-2011, pubblicata nel 2009 sulla rivista scientifica Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology ed estesa a un campione di ben 6,5 milioni di persone, lungo un arco di tempo di 29 anni, dimostra lo stesso: il tasso di suicidi fra gli uomini sposati con altri uomini è quattro volte maggiore di quello fra uomini sposati con donne. Del resto già nel 1978 i ricercatori Alan P. Bell e Martin S. Weinbergdimostrarono che la causa principale del suicidio delle persone con impulsi omosessuali derivava da rotture, litigi e relazioni problematiche con il compagno/a, non dai presunti pregiudizi della società. Nel loro libro, Homosexualities: A study of diversity among men and women, sono gli stessi gay intervistati a spiegarlo.

@frigeriobenedet  

lunedì 16 dicembre 2013

L'ascesa mondiale del partito dei pedofili di Gianfranco Amato, 16-12-2013, http://www.lanuovabq.it/

E’ ormai considerato un punto di arrivo ineludibile. Dopo lo sdoganamento culturale, politico e giuridico dell’omosessualità, ora tocca alla pedofilia. Diversi sono, purtroppo, i segnali che da tempo fanno apparire sempre più verosimile questo scenario agghiacciante. 

bambini vittimeCerto non aiuta la notizia della recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, di cui parliamo a parte riportando anche la sentenza: con essa è stata sollecitata l'applicazione dell’attenuante del «caso di minore gravità» di cui all'art. 609-quater, quinto comma, del Codice Penale, per un’ipotesi di plurimi rapporti sessuali completi tra un sessantenne ed una bimba di undici anni, sulla considerazione che tra autore del reato e vittima vi era un “rapporto amoroso”, e che la vittima era innamorata dell’adulto. Il punto è che tale pronuncia, inaccettabile sotto il profilo giuridico, ammettendo la possibilità di una relazione amorosa tra un uomo di sessant’anni ed una undicenne, rischia di offrire il destro a quella preoccupante deriva ideologica che tende a fare riconoscere la pedofilia non quale grave e depravata patologia, ma come semplice orientamento sessuale.

L’esperienza insegna che i provvedimenti giudiziari in questa delicata materia rischiano di destabilizzare l’opinione pubblica se non sono adeguatamente soppesati e valutati, come è accaduto lo scorso 2 aprile 2013 con la sentenza della Corte d’Appello olandese di Arnhem-Leeuwarden, la quale, in riforma della decisione di primo grado, ha stabilito di non doversi disporre lo scioglimento del gruppo di ispirazione pedofila Stitching Martijn, che propone la liberalizzazione dei contatti sessuali tra adulti e minori. Tra l’altro, contro quella discussa sentenza fu lanciata l’iniziativa di una petizione popolare alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. 

Non sono incoraggianti i segnali che giungono da alcuni Paesi europei ove è in atto un dibattito sull’abbassamento dell’età minima per il consenso sessuale, come dimostra, ad esempio, il caso discusso nel Regno Unito a seguito della proposta avanzata da Barbara Hewson, avvocato inglese nota per le sue battaglie per i diritti civili, di portare il limite di tale consenso a 13 anni.

Non appaiono neppure incoraggianti i segnali che giungono da Oltreoceano. Anzi, possiamo definire inquietante, ad esempio, il fatto che l’American Psychiatric Association (APA) lo scorso 31 novembre 2013 abbia dovuto rettificare ufficialmente quanto scritto nell’ultima versione del Dsm-5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) pubblicata quest’anno, in cui la pedofilia era stata declassata da “disordine” ad «orientamento sessuale» (dieci anni fa nel Dsm-4 era già stata derubricata da «malattia» a «disordine»). 

L’Apa, comunque, distingue tra pedofilia e atto pedofilo, nel senso che considera il desiderio sessuale nei confronti dei minori un orientamento come gli altri, mentre ritiene l’atto sessuale “disordinato” solo per gli eventuali effetti negativi che può determinare nei confronti degli stessi minori. E’ una distinzione assai pericolosa che ricorda da vicino il ragionamento surrettizio che ha portato allo sdoganamento dell’omosessualità. Né si può dimenticare il controverso studio intitolato, A Meta-Analytic Examination of Assumed Properties of Child Sexual Abuse Using College Samples pubblicato nel luglio del 1998 sul prestigioso Psyichological Bulletin della stessa APA, e redatto dal Dr. Bruce Rind del Dipartimento di Psicologia della Temple University, dal Dr. Philip Tromovich della Graduate School of Education presso la University of Pennsylvania, e dal Dr. Robert Bauserman del Dipartimento di Psicologia della University of Michigan. 

In quello studio si è ridefinito il concetto di «abuso sessuale sui minori», partendo dalla considerazione che «le classificazioni scientifiche dei comportamenti sessuali devono prescindere da criteri di ordine legale e morale», e definendo come «alquanto modeste» le conseguenze derivanti dagli abusi sessuali subiti da minori di ambo i sessi, ritenute comunque «non produttive di conseguenze negative di lunga durata». Secondo i tre accademici, infine, «Il sesso consensuale tra bambini e adulti, e tra adolescenti e bambini, dovrebbe venire descritto in termini più positivi, come “sesso adulto-minore” (adult-minor sex)». 

Il fatto è che in tema di pedofilia l’APA tende a spostare l’asticella rossa sempre più in là,  come dimostra l’ultima omerica gaffe sul Dsm-5.

Ancora più inquietante è il dibattito che si è svolto lo scorso 14 febbraio presso la Queen’s University tra il Dr. Vernon Quinsey, professore emerito di psicologia della medesima università e il Dr. Hubert Van Gijseghem, ex professore di psicologia presso l’Università di Montreal, in cui si è “scientificamente” sostenuto di come la pedofilia debba essere considerata un orientamento sessuale paragonabile all’eterosessualità e all’omosessualità. Roberto Marchesini nel suo ottimo articolo Pedofilia “variante naturale della sessualità umana”?, pubblicato su Libertà e Persona, dà un esauriente resoconto dell’audizione dei due cattedratici. Secondo Marchesini lo scenario appare segnato: «L’OMS finirà per dichiarare che la pedofilia è una “variante naturale della sessualità umana”», e il «Ministero per le pari opportunità farà delle campagne per combattere la “pedofobia”, mentre nei corsi di educazione sessuale si insegneranno le tecniche con le quali i bambini possono soddisfare sessualmente degli adulti». 

Poiché non intendono assistere passivamente a questo epilogo da incubo, i Giuristi per la Vita hanno lanciato un appello «a tutte le competenti Istituzioni Pubbliche affinché non vengano introdotte nell’ordinamento giuridico disposizioni normative tali da attenuare la gravità sociale dell’odioso fenomeno della pedofilia, né vengano adottati provvedimenti giurisdizionali che possano apparire non rigorosamente severi nei confronti del predetto fenomeno». E si sono dichiarati disposti ad «opporsi in ogni sede e con ogni mezzo, a qualunque tentativo di legittimare, per via legislativa o giudiziaria, ogni forma o espressione riconducibile l’abominevole fenomeno della pedofilia».

Ecco la sentenza che introduce la pedofilia di Tommaso Scandroglio, 16-12-2013, http://www.lanuovabq.it/

Quello che nei giorni scorsi davamo in forma dubitativa, non avendo il testo della sentenza, ora lo possiamo dire con certezza: la Corte di Cassazione ha aperto la strada per il riconoscimento della pedofilia in Italia. La sentenza, che ora abbiamo in mano e riportiamo in fondo a questo articolo, è purtroppo inequivocabile.

Prima pagina della sentenzaIl caso è quello del 60enne, impiegato nei servizi di assistenza sociale del suo comune, condannato in appello a 5 anni di reclusione perché trovato in atteggiamenti intimi con una bambina di 11 anni a lui affidata. Come noto i giudici di Cassazione hanno parzialmente annullato la sentenza della Corte di Appello. Per capire perché ci soffermiamo sul numero 6 dei “Motivi della sentenza”. La Cassazione vuole che al caso si applichi l’«attenuante del fatto di minore gravità di cui all’art. 609 quater, comma 4». Nello specifico l’attenuante dovrebbe essere ravvisata nel consenso prestato dalla bambina, cioè dal fatto che – come vedremo più in dettaglio tra qualche riga – la piccola non subì coartazione alcuna perché “innamorata”. In sintesi la Cassazione giudicava erroneo che per i magistrati dell’Appello “non rilevava che l’imputato non avesse adottato forme di violenza e coartazione verso la vittima. Erano poi irrilevanti [per la Corte di Appello] il consenso della vittima e la circostanza che i rapporti sessuali si erano innestati nell’ambito di una relazione amorosa”.

La corte di Appello invece stabilì che “l’attenuante in questione non poteva essere riconosciuta perché vi era stata congiunzione carnale e perché si trattava di una ragazza minore di anni quattordici, il cui consenso non rilevava”. In altri termini ciò che è importante per i giudici d’Appello e per il Codice Penale ai fini della configurazione dell’ipotesi delittuosa è il fatto in sé, con o senza consenso della vittima. La minore gravità inoltre non si può ravvisare perché appare evidente che se l’imputato si fosse fermato a qualche bacio la situazione – pur sempre aberrante – sarebbe stata oggettivamente di minore gravità rispetto a rapporti completi e pure reiterati nel tempo. Ma così non è stato e dunque non si può configurare un minor grado di gravità del reato.

In merito poi al “consenso” prestato dalla undicenne – consenso che secondo la Cassazione dovrebbe mitigare la pena -  l’art. 609 quater configura l’illecito anche se la vittima è consenziente proprio per evitare attenuanti in casi dove, per l’immaturità del soggetto coinvolto, un valido consenso non si può ipotizzare essendo questi facilmente manipolabile dall’adulto e non in grado comunque di comprendere appieno la portata del gesto intimo che andrà a compiere. Ciò non toglie che se ci fosse stata violenza, la pena sarebbe stata ancor più grave (art. 609 ter comma 1, n. 1). Insomma la Corte di Appello si è limitata ad applicare la legge. Ed invece cosa ti scrivono i giudici di Roma? “L’attenuante è stata quindi esclusa sulla base di elementi in realtà non voluti e non previsti dal legislatore”.

Infatti gli ermellini della Cassazione individuano “ragioni mitigatorie attenuative”. La prima sarebbe che “l’atto sessuale si inseriva nell’ambito di una relazione amorosa; e che […] lo stesso nel caso di specie non poteva ritenersi invasivo allo stesso modo dell’ipotesi in cui avvenga con forza e violenza e al di fuori di una relazione amorosa”. Sul punto ci sono da rilevare almeno due critiche. La prima: come ha detto la Corte di Appello parlare di “amore” tra un sessantenne e una undicenne è “innaturale” e ciò che è insano come fa ad essere un’attenuante? Ai giudici di Roma invece appare cosa normale, tanto da poter attenuare la pena inflitta.

In secondo luogo laddove la Cassazione considera la mancanza di violenza come un motivo di attenuazione della pena, il Codice Penale invece la considera come fattispecie a se stante. Non è una sottigliezza da legulei, ma è un problema di sostanza. La legge ti dice che se tu adulto hai rapporti con una minore di anni 14 che non si ribella a te è molto grave (art. 609 quater). Se invece c’è stata violenza è ancor più grave e la pena è maggiorata (art. 609 ter comma 1, n. 1). Le norme del Codice Penale non parlano di attenuanti laddove non c’è violenza, bensì parlano di atto grave (senza violenza) e ancor più grave (con violenza), distinguendoli in due reati separati. L’attenuante infatti rimanda ad un elemento in sé buono da applicarsi ad un reato, capace di suscitare nei giudici non giustificazione dell’atto ma tuttalpiù comprensione. Chi plaudirebbe il reo perché, sebbene abbia abusato della piccola, non l’ha fatta oggetto di violenza? Ed è proprio per il fatto che la mancanza di violenza nei rapporti con una minore di anni 14 non è considerata un’attenuante che questa fattispecie trova una sua norma ad hoc, per ribadire il suo carattere comunque delittuoso, stante un presunto consenso da parte della vittima.

Se invece seguiamo la logica della sentenza della Cassazione allora dovremmo abrogare l’art. 609 quater perché la stessa sentenza ne vuole sopprimere proprio la sua peculiarità: l’illiceità degli atti sessuali compiuti con minore di anni 14 anche se questo è consenziente. La cifra caratteristica di questo articolo è il fatto in se stesso, cioè l’avere avuto atti intimi con un bambino, nulla rilevando la personale maturità psicologica, gli stati d’animo, il consenso, la mancanza di violenza, etc. Forse che la Cassazione vuole cancellare il reato di pedofilia?

Invece i magistrati capitolini vanno per la loro strada e si appellano a precedenti pronunciamenti dei loro colleghi in Cassazione. Ma andando a leggere gli stralci riportati di queste sentenze, si comprende che il rimando non è pertinente. Infatti i giudici semplicemente tengono a puntualizzare che le attenuanti di minore gravità ex art. 609 quater ultimo comma possono applicarsi anche laddove la vittima è davvero piccola. Ma non scrivono da nessuna parte che un’attenuante da tenere in considerazione è la mancanza della violenza sessuale o una relazione “amorosa” tra vittima e carnefice. “I casi di minore gravità” di cui parla l’art. 609 quater devono essere ravvisati ex art 133 cp in alcuni elementi oggettivi della condotta quali la natura, la specie, i mezzi, l'oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell'azione che costituisce reato. Nel caso in esame il reo non si è “limitato” a toccamenti e carezze ma si è spinto ben più oltre e dunque, come abbiamo già visto, queste attenuanti non si possono tenere in conto.

Sempre ex art 133 la gravità del reato deve essere giudicata in base alla “gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato”. E’ di palmare evidenza che una bambina violata nella propria intimità porterà per moltissimi anni nella sua psiche danni gravissimi e forse irreparabili. E’ proprio perché la presunzione è certa che il Parlamento ha novellato la materia con la legge n. 38/2006 sanzionando sempre questi particolari illeciti.

Infine la quantità di pena da comminare deve tenere conto della “intensità del dolo” o del “grado della colpa”. Nel nostro caso il dolo è stato assai “intenso” dato che c’è stata reiterazione dell’atto illecito come rilevato dalla Corte di Appello che ha ravvisato la continuazione di reato ex art. 81 cp. Insomma nessuno dei criteri previsti dall’art. 133 e richiamati dalla stessa Cassazione per mitigare la pena può essere applicato a questo caso.

Ed invece i giudici della Cassazione rinvengono una “minore lesività del fatto in concreto” nei seguenti elementi oggettivi: “la qualità dell’atto compiuto (più che la quantità di violenza fisica)”. Traduciamo: l’ “affetto” tra vittima e reo è un aspetto qualitativo importante da tenere in considerazione per essere equi, più che la mera mancanza di violenza fisica. Peccato che il nostro ordinamento giuridico disapprova anche il solo “affetto” perché lo considera insano - tentando di reprimere anche le sole avances dei pedofili - nonché pericoloso perché può aprire la porta ad azioni più lesive.

Poi la Cassazione trova un’attenuante anche nel “grado di coartazione esercitato sulla vittima”, scordandosi che una undicenne non comprende quasi per nulla quale sia il reale significato dell’atto sessuale e che la sua libertà è minima nelle mani di una persona adulta.

I giudici inoltre fanno riferimento alle “condizioni (fisiche e mentali)” della vittima e alle sue “caratteristiche psicologiche (valutate in relazione all’età)” sempre nell’intento di mitigare la pena. Ma è proprio tenendo in considerazione queste caratteristiche che è stato introdotto il reato di “atti sessuali con minorenne”. Se escludiamo tali aspetti di natura fisiologica e psicologica dobbiamo mandare in soffitta lo stesso reato di “atti sessuali con minorenne”.

Infine si fa menzione, come altro motivo attenuante, all’“entità della compressione della liberà sessuale” e al “danno arrecato alla vittima anche in termini psichici”. Sulla questione del consenso e del danno ci siamo soffermati più sopra ricordando che una undicenne non può esprimere un consenso davvero valido in relazione a rapporti intimi e che i danni ci saranno sicuramente in futuro nella psiche di questa bambina. Ed invece la Cassazione rimbrotta i propri colleghi dell’Appello perché “il turbamento e le conseguenze patite dalla vittima anche in un’ottica futura” sono solo ipotesi non verificate, perché mancherebbe la “prova di aver ancorato il proprio asserto su emergenze specifiche (sì che l’assunto si propone quasi come un’affermazione di principio frutto di mera supposizione)”. Avete compreso bene: un rapporto pedofilo non è di suo dannoso, sempre e comunque. Si deve dare prova contraria per sostenerlo. Ci deve essere inoltre un’emergenza specifica per attivarsi, altrimenti lasciamo correre. Perché il danno – per la Cassazione – se si è verificato, è stato comunque mitigato da fattori quali “il ‘consenso’, l’esistenza di un rapporto amoroso, l’assenza di costrizione fisica, l’innamoramento della ragazza”.

E quindi la Corte rimanda l’incartamento di nuovo in Appello perché quest’ultima non ha spiegato il motivo per cui tutti gli elementi suddetti non configurano una minore gravità dell’atto. E tutto questo in nome del Popolo italiano, cioè a nome nostro.


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giovedì 12 dicembre 2013

Dietrofront dell'Australia: no ai matrimoni gay Giovedì, 12 dicembre 2013 - http://www.affaritaliani.it/

Dietrofront di Cramberra. La Corte costituzionale australiana ha cancellato con un colpo di spunga i matrimoni tra coppie dello stesso sesso. Con una sentenza arrivata solo qualche giorno dopo la celebrazione delle prime nozze gay, la Consulta ha annullato di fatto la legge approvata dal Parlamento che permette le unioni omosessuali.
Il matrimonio in Australia è disciplinato dalla legge federale e non da quelle dei sei stati e dei due territori che compongono il Paese. Per questo, la deliberazione dell'Alta Corte australiana, si applica all'intera nazione.
"La legge sul matrimonio non è valida per la formazione o il riconoscimento dell'unione di coppie dello stesso sesso", ha spiegato la Corte, che ha votato all'unanimità la decisione.
Dopo l'approvazione del matrimonio gay nel mese di ottobre nel Territorio di Canberra, la legge è entrata in vigore, soltanto in questo Stato sabato scorso, e diverse coppie aveva sigillato la loro unione allo scoccare della mezzanotte.
Ma il governo ha fatto immediato ricorso in tribunale per annullare queste unioni. Le unioni civili tra persone dello stesso sesso sono consentiti nella maggior parte degli stati australiani, ma il matrimonio resta definito a livello federale,  come l'unione di un uomo e una donna.

LA CRISI GIURIDICA. IL V RAPPORTO DELL'OSSERVATORIO SULLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA NEL MONDO INCENTRATO SULL'"INGIUSTIZIA LEGALE" - Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan Newsletter n.461 | 2013-12-11


Si parla tanto – e giustamente – di crisi economica, ma secondo il V Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân – oggi in libreria per le edizioni Cantagalli – c’è una crisi nascosta, sottile ma molto invasiva e destabilizzante: la crisi giuridica ovvero, come dice il Rapporto, l’”ingiustizia legale”. Se le Corti internazionali di giustizia entrano a gamba tesa a definire chi è persona, se i giudici ordinari demoliscono con le loro sentenze le leggi e si sostituiscono ai Parlamenti; se le Carte costituzionali sono ormai il terreno di aspre contese anziché di un riconoscimento comune in alcuni valori naturali, allora siamo davanti ad una profonda crisi giuridica, che poi si estende alla totalità dei rapporti sociali ed economici, spiegando ampiamente la crisi in atto: secondo il Rapporto si moltiplicano le norme, ma viene meno la legge e sempre più di frequente il vero Stato di diritto è in crisi, anche nelle democrazia occidentali.

Immagine 1Come affermato da Mons. Mamberti in un intervento all’Onu di cui si dà conto nel Rapporto, il diritto sbiadisce nella legge e, inevitabilmente, la legge sbiadisce a sua volta nelle regole. Abbiamo così solo una “società delle regole” (rules) e non più uno Stato di diritto ove governa la legge (rule of law). In una società delle regole, le regole sono senza fondamento. Questa è la crisi giuridica che dà luogo all’ingiustizia legale. Gianluca Guerzoni, nello studio centrale del Rapporto dedicato proprio alla crisi giuridica, afferma “per crisi giuridica intendiamo la debolezza del diritto davanti a queste sfide, come conseguenza di una divaricazione del diritto da un’etica condivisa ed effetto di un pluralismo etico incapace di individuare cifre comuni”.

La crisi giuridica che il Rapporto documenta è legislativa e giurisprudenziale nello stesso tempo. Crisi legislativa, in quanto nel corso dell’anno di riferimento del Rapporto, il 2012, molti Parlamenti hanno legiferato contro il diritto naturale nei campi della vita e della famiglia, dall’Argentina, all’Uruguay, dall’Irlanda alla Francia. Crisi giurisprudenziale, sia perché le Corti internazionali di giustizia entrano in terreni non propri, sia perché i  giudici ordinari si stanno sostituendo con le loro sentenze ai Parlamenti.

Il Rapporto riporta i fatti, come la sentenza del 28 novembre 2012 della Corte Interamericana per i diritti umani, che ha condannato il Costa Rica per non avere ancora una legge che permettesse la fecondazione in vitro; oppure la sentenza del Supremo Tribunale Federale del Brasile, che nel marzo 2012 ha autorizzato la cosiddetta “anticipazione terapeutica del parto” – ossia l’aborto. In ambedue i casi, le Corti si sono sentite autorizzate a definire concetti non di propria competenza: la prima sostenendo che il concepimento «ha luogo da quando l’embrione viene impiantato nell’utero» e il secondo affermando che «l’acefalo non diventerà mai una persona». Questa “metafisica delle sentenze” che, come oracoli divini, decretano cosa significhi essere uomo e chi debba godere di questo riconoscimento, escludendo i non idonei, mette in crisi di affidabilità il sistema delle Corti internazionali di giustizia che hanno però la forza per condizionare la politica degli Stati.  

Quanto alle sentenze dei giudici ordinari, il Rapporto mostra che ove c’è vuoto legislativo legiferano di fatto i giudici con le loro sentenze, ove non c’è vuoto legislativo essi demoliscono la legge a suon di sentenze. Si nota in molti Paesi una forte tensione tra il potere legislativo dei Parlamenti nazionali, quello della magistratura ordinaria in quegli stessi Paesi e quello della giustizia internazionale. Questo squilibrio lacera il tessuto delle nazioni ponendo in crisi il collante delle Carte costituzionali. E’ probabile che si giunga a far sì che i cittadini siano indotti a fare obiezione di coscienza rispetto alla stessa Costituzione del loro Paese, il che minerebbe alla base la stabilità non solo giuridica ma anche morale e sociale degli Stati.

Il Rapporto analizza, tra gli altri, i casi degli Stati Uniti, delle Filippine e dell’Argentina. Nel 2012 in Argentina è continuata l’attività legislativa di distruzione dei principi della vita e della famiglia. Le strutture sanitarie statali sono obbligate a praticare l’aborto, è ammessa l’eutanasia; viene assunta l’ideologia del gender, è possibile registrare come figlio di due donne il bambino avuto da una donna unita con un’altra donna prima dell’entrata in vigore della legge sul matrimonio civile; la “ley de sangre” è stata modificata per impedire di chiedere ai donatori di sangue informazioni sul loro orientamento sessuale, la riproduzione medicalmente assistita e fornita integralmente dalla struttura pubblica con esclusione dell’obiezione di cosienza; possono essere distrutti gli embrioni umani prodotti in vitro e non trasferiti in utero. Su tutte queste leggi pende il dubbio, che in molti casi è una certezza, di incostituzionalità. Si prevedono quindi ricorsi e contenziosi sia giuridici che politici. Su tutte questi leggi si nota la pressione degli organismi internazionali.

I dati del Rapporto dell’Osservatorio Van Thuân testimoniano una diffusione dell’anomia sociale nel mondo, la sospensione della legge in molte aree, la crisi delle istituzioni, la corruzione più o meno consentita, l’oligopolio dell’uso della forza, le pratiche illegali impunite, le limitazioni del diritto all’obiezione di coscienza. In America Latina e in Africa soprattutto questo quadro è desolante, non viene risparmiato però nemmeno il mondo cosiddetto avanzato. Questo ci dice che non sono privi di influenza sulla organizzazione della vita quotidiana nelle nostre società i fenomeni di crisi della giustizia che il Rapporto documenta a livello delle Corti internazionali, del comportamento dei giudici e con riferimento alle Carte costituzionali.

Il Rapporto riferisce anche su come l’attività internazionale della Santa Sede abbia condotto una “pedagogia giuridica”. Di grande valore il magistero sociale del Papa, documentato dall’arcivescovo Giampaolo Crepaldi che, insieme a Stefano Fontana, ha curato questa nuova edizione del Rapporto.

Stefano Fontana



Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuân, V Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo, a cura di G. Crepaldi e S. Fontana, Cantagalli, Siena 2013, pp. 220, € 14,00.