venerdì 28 giugno 2013

Dal 2015 in Inghilterra si potranno avere “tre genitori”. Quintavalle: «Fantascienza eugenetica» - marzo 22, 2013 Benedetta Frigerio - http://www.tempi.it/

quintavalle_josephine_0

Figlio di tre genitori. La Gran Bretagna vuole di dare il via libera alla fecondazione assistita con “tre genitori’, per la cura di rare malattie genetiche. L’ultima parola spetta al parlamento. Le prime applicazioni nel 2015. Ecco una nostra intervista sulla questione a Josephine Quintavalle, leader pro life inglese.

«I giornali inglesi ne hanno parlato come di un semplice scambio di mitocondri, mentre si tratta di un progetto fantascientifico eugenetico di cui poco si sa e che si prefigge la creazione di esseri umani con due mamme e un papà, manipolando il corredo genetico degli embrioni. Il messaggio passato fra la gente, complice la disinformazione e la mancanza di leader che parlino chiaro, è che si stanno semplicemente sperimentando nuove cure». Sono le dichiarazioni a tempi.it di Josephine Quintavalle, la più nota esponente laica del movimento pro-life britannico, fondatrice e direttrice del Comment on Reproductive Ethics, l’osservatorio sulle tecniche riproduttive umane, chiamata dalla Human Fertilization and Embryology Authority (Hfea), organo governativo che regolamenta la fecondazione assistita, ad argomentare contro la proposta di permettere la fecondazione artificiale di un bambino con tre persone diverse.

SPERIMENTAZIONE SUGLI EMBRIONI. La Hfea ha stabilito che la sperimentazione potrà procedere, sebbene non si sappia nulla degli esiti probabili. «Durante la discussione moltissimi laici, fra cui noti progressisti, si sono dichiarati contrari alla procedura. È poi stata pubblicata una lettera contraria alla sperimentazione sul giornale liberal The Guardian, firmata da esponenti di destra e sinistra, religiosi e atei. Un’altro documento contrario è apparso sul Times, firmato da circa 40 intellettuali di tutto il mondo. Sono colpita da come i verdi tedeschi si stiano avvicinando a chi ha a cuore la vita, davvero rispettano il creato. Mentre quelli inglesi parlano solo di ambiente, dimenticando la manipolazione umana. Non solo, gli inglesi non si curano nemmeno del giudizio europeo la cui Corte ha recentemente vietato la sperimentazione sugli embrioni». Per questo la Hfea ha comunque chiesto al Parlamento di approvare la modifica della legge sulla fecondazione? Quintavalle non usa mezzi termini: «Il nostro pragmatismo isolano e presuntuoso esprime esattamente la mentalità contenuta in questa decisione: non si lascia entrare nulla rispetto al proprio progetto di controllo sulla vita».

UNA CHIMERA SPAVENTOSA. «Il tentativo – dice Quintavalle – è quello di prendere un ovocita per cambiargli parte del corredo genetico inserendone un altro sano proveniente da una donatrice e poi di fecondare questo ibrido con lo spermatozoo del marito, compagno o donatore che sia. Oppure di prendere un embrione con un corredo genetico che si suppone malato per togliergli il nucleo sano e impiantarlo in un altro embrione. Se sono fattibili queste cose? Non si sa. Quel che è certo è che si manipoleranno tanti esseri umani. L’esito può essere nullo oppure mostruoso».
Si approva dunque una procedura di cui non si conoscono le conseguenze, «perché tanto, poi, esiste l’aborto. Stiamo facendo una strage e seminando sempre più morte». E la felicità dei genitori? «È l’imprevedibile a farci contenti o i nostri progetti asfissianti e ristretti? Ribadisco: manipolando la realtà ci scaviamo la fossa da soli. Quello che sta accadendo è l’esito spaventoso di una chimera».

@frigeriobenedet  
«Leggi contro natura, dove sono i laici cattolici?» di Stefano Fontana - 28-06-2013 - http://www.lanuovabq.it/

Monsignor Giampaolo Crepaldi

    
Pubblichiamo l'intervista a monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, che esce oggi sul settimanale diocesano Vita Nuova, in cui offre un giudizio sulla realtà presente del laicato cattolico e il suo impegno nel sociale e nel politico.

Eccellenza, nella sua omelia per la chiusura della processione del Corpus Domini di domenica 2 giugno, lei ha avuto parole dure circa l’approvazione di leggi che possono «compromettere i capisaldi del nostro vivere umano: la vita, la famiglia e la nostra libertà». Ora, proprio quello dovrebbe essere il campo dell’impegno dei fedeli laici. Il suo discorso era un richiamo anche a loro?
Non c’è dubbio che questa dovrebbe essere l’ora del laicato. Ma purtroppo il laicato cattolico non si fa sentire. Magari lamentando poi che i Vescovi parlano troppo.

Perché, secondo lei, questa è l’ora del laicato?
Certamente ogni ora è l’ora del laicato, perché non c’è un momento in cui il laico non tragga dal suo battesimo il compito di ordinare a Dio le cose temporali. Però questa è l’ora del laicato in modo particolare. La politica e le leggi stanno mettendo mano all’ordine della creazione, alla natura della famiglia e alle relazioni naturali di base, quella tra padre e madre e tra genitori e figli. Si tratta di qualcosa di inedito e sconvolgente che  richiede una presenza particolarmente convinta ed attiva.

Perché dice che il laicato cattolico non si fa sentire?
Sono molti i laici cattolici che nella famiglia, nel lavoro, nella società incarnano con fedeltà la propria fede cristiana. Ciò avviene però soprattutto nella quotidianità. Ciò che manca in modo evidente è una presenza unitaria e coordinata nella società civile e una testimonianza chiara e coerente a livello politico, legislativo e dentro le pubbliche istituzioni.

Eppure esistono vari organismi di rete tra cattolici e in passato sono stati in grado di portare in piazza con il Family Day moltissime persone. Non ci sono più?
Ci sono ancora, però bisogna prendere atto di alcuni mutamenti. Intanto alcune di queste reti si sono costituite ma non si sono consolidate, sono rimaste tali a livello formale di vertice e più di qualche convegno non potranno fare. In secondo luogo, mi sembra che alcune reti un tempo molto attive su questi temi – penso per esempio a Scienza e Vita oppure al Forum delle Associazioni familiari – abbiano un po’ allentato la presa, dirottando l’attenzione verso altre tematiche a mio avviso meno importanti. Infine, vorrei notare che anche dentro le singole associazioni e i singoli movimenti la presa di posizione sui temi che ho sopra richiamato è scarsa sia in sede nazionale che in sede locale.

Può spiegare meglio cosa intende quando parla di “testimonianza coerente a livello politico, legislativo e dentro le pubbliche istituzioni”?.
Nelle amministrazioni pubbliche ci sono cattolici dichiaratamente tali. Ma quando si tratta di affrontare questi temi, essi utilizzano le categorie mentali di tutti gli altri e si fanno scudo della laicità della politica per non prendere una posizione che certamente costerebbe loro sul piano politico, ma che io vedrei come coerente sul piano umano con la fede professata.

Una delle storiche associazioni di fedeli laici è l’Azione cattolica. Cosa mi può dire a riguardo?
Prendo spunto da un recente libro di Luigi Alici dal titolo “I cattolici e il paese. Provocazioni per la politica” edito da La Scuola.

Ma Luigi Alici non è più presidente dell’Azione cattolica…
Però lo è stato a lungo e può dirsi un intellettuale fortemente impegnato nell’associazionismo del laicato cattolico. Recentemente egli ha girato tutta l’Italia – è stato anche in Friuli Venezia Giulia ed anche a Trieste. Certo il suo libro non rappresenta l’Azione cattolica, però può essere indicativo di un modo di pensare, diffuso anche dentro l’associazione. 

Cosa l’ha maggiormente colpita nel libro?
Il suo appartenere alla categoria dei libri “Sì, ma …”: affermare i principi nello stesso momento in cui si aprono fessure per non rispettarli. Ho cercato in questo libro le affermazioni di fedeltà al magistero e di adesione ai principi della tutela della vita o della famiglia: li ho trovati. Però l’esposizione è sempre volutamente ambigua, dice, ma nega ed è piena di “tuttavia”. 

Può fare un esempio?
Alici ha parole molto belle sulla famiglia, ma poi si dice a favore del riconoscimento delle convivenze tra omosessuali. Si rifà al cardinale Martini, ma non ai Vescovi italiani che, in una Nota del 2007, hanno chiarito la questione. I diritti per le persone omosessuali vanno affrontati sul piano del diritto privato. Il riconoscimento della convivenza in quanto tale non è accettabile né per le cosiddette coppie di fatto eterosessuali né per quelle omosessuali. Manca il requisito della valenza pubblica.

Quali sono gli argomenti di Luigi Alici a proposito?
Quello della gradualità dei diritti. Secondo lui una coppia di omosessuali non ha diritto ad essere considerata famiglia in quanto non lo è, ma ha diritto ad essere considerata qualcosa di più di due studenti che condividono lo stesso appartamento. Una simile argomentazione non è accettabile: ciò che è sbagliato non può essere fonte di diritti pubblicamente riconosciuti, e non può esserci per esso nessuna gradualità.

Cosa significa questo? 
Credo che questo libro esprima bene una certa cultura dentro il mondo cattolico. I laici che vi si ispirano sposteranno sempre più in avanti l’asticella del “non possumus”, adeguandosi al mondo.

Nel libro di Alici c'è il continuo rifarsi al “paradosso” cristiano che farebbe del fedele laico una persona continuamente combattuta al proprio interno e a cui solo la risposta della propria coscienza potrà indicare la via.
Il paradosso cristiano non va interpretato come un'insanabile contraddizione interna del cristiano, perché la fede e la ragione, come ci insegna la dottrina, vanno insieme e solo il peccato introduce la divisione. Quello di Alici è un modo per far sì che l’agire dei cattolici nella società e nella politica sia lasciato unicamente alla loro autonoma coscienza.

Alici sostiene che c’è un ambito di partecipazione politica non direttamente partitica in cui dovrebbe valere la collaborazione dei cattolici con tutti gli altri e un ambito strettamente partitico in cui vale la competizione. E’ d’accordo?
Non solo tra i partiti, ma anche nella società ci sono oggi antropologie in conflitto. Anzi, oggi si assiste alla competizione tra chi dice che non c’è una antropologia, una vera visione dell’uomo, e chi invece dice che c’è. In questi campi – penso alla cultura, all’animazione sociale, alla formazione dei giovani, alla comunicazione - non può esserci solo collaborazione. Smettiamola una buona volta di continuare a illuderci e a illudere su questo punto. Dialogo e rispetto non devono mancare mai, ma la collaborazione la si fa sulla verità.

Da cosa dipende tutto ciò?
Credo dipenda dall’aver cambiato lo scopo della presenza dei laici cristiani nel mondo. I laici hanno come scopo di ordinare a Dio l’ordine temporale – come dice il Concilio – o, in altre parole, di costruire la società secondo il progetto di Dio. Invece, lo scopo dei fedeli laici è stato ridotto a conseguire il bene comune, a costruire la democrazia, a realizzare la Costituzione, a far funzionare le istituzioni.

Perché l’obiettivo del bene comune non va bene?
Va bene, a patto però che in esso si faccia rientrare anche il rispetto dell’ordine del creato e il benessere spirituale e religioso delle persone. Non c’è vero bene comune quando Dio viene messo tra parentesi e quando a Dio non è riconosciuto un posto nel mondo. 

L’Azione cattolica ha avuto una lunga storia. Qual è stato il suo momento critico secondo lei? 
Lascio questo compito agli storici. Posso solo tentare qualche ipotesi. La cosiddetta “scelta religiosa” fu interpretata dagli uomini di Azione cattolica in modo ambiguo. Doveva comportare il concentrarsi sul proprium dell’Azione cattolica, quello che Benedetto XVI ha poi chiamato “il posto di Dio nel mondo”. E’ stata invece vissuta come un apparente disimpegno rispetto ad una presenza visibile e organizzata condannata troppo frettolosamente come preconciliare. Dico “apparente” perché – strano a dirsi! – da allora moltissimi dirigenti dell’Azione cattolica si impegnarono direttamente in politica, prevalentemente nei partiti di sinistra. Ultimo esempio è stato Ernesto Preziosi alle recenti elezioni politiche. 

Allora a lei l’Azione Cattolica non va bene?
Io credo nell’Azione Cattolica, continuo ad esserne un sostenitore convinto e, a parte qualcuno e qualcuna, sono assai grato a quella diocesana per quello che fa e nutro grandi aspettative verso di essa. Credo però che l’Azione cattolica - sto parlando in termini generali - oggi abbia bisogno di riconsiderare la propria linea e il proprio ruolo. Ciò sarebbe di grande vantaggio non solo per la missione pastorale delle nostre Diocesi, ma anche per le altre forme di associazionismo dei fedeli laici. 

In che modo?
Si tratta di essere fedeli, in maniera integrale e con generosità spirituale, all’insegnamento del Concilio Vaticano II: essere laici nel mondo per ordinarlo a Dio, mettendo in primo piano l'esigenza e l'urgenza dell'ordinarlo a Dio. Per l'Azione cattolica significa: recuperare la sostanza del proprio passato, anche di quello che oggi si ricorda con un certo inspiegabile disprezzo; recuperare la dottrina sociale della Chiesa in tutti i suoi sostanziali collegamenti con la dottrina cristiana; intendere la laicità nel modo che ci ha insegnato Benedetto XVI, cioè pensare che al mondo non bisogna solo adeguarsi se si vuole veramente servirlo; superare una visione inadeguata del Concilio, recuperandone tutto l’insegnamento dentro la tradizione della Chiesa e non le solite due o tre frasi adoperate in modo retorico; non minimizzare gli attacchi che oggi vengono portati alla natura umana e alla fede cristiana, accusando quanti cercano di reagire di voler ristabilire uno schema mentale integralista proprio del passato. La Chiesa ha un bisogno immenso di un'Azione cattolica così, che riprenda a formare laici capaci di costruire la società secondo il cuore e il progetto di Dio. Per questo continuo a pregare e a sperare...
FINE VITA/ La "solidarietà" di Hollande che mette in pericolo la vita di Vincent Lambert - venerdì 28 giugno 2013 - http://www.ilsussidiario.net/

FINE VITA/ La solidarietà di Hollande che mette in pericolo la vita di Vincent Lambert

Con la cosiddetta loi Leonetti «relativa ai diritti dei malati e al fine vita» il legislatore francese ha inteso impedire il ricorso a pratiche eutanasiche ed escludere al contempo ogni forma di accanimento terapeutico. La loi Leonetti è stata promulgata il 22 aprile 2005. Si tratta dunque di una legge ancora giovane, che ha appena compiuto l’ottavo anno di vita. Nondimeno i francesi sono già in attesa dell’imminente presentazione di una proposta di riforma.

L’ha annunciata proprio per questo mese di giugno il presidente Hollande, quando, il 18 dicembre scorso, gli è stato consegnato il rapporto intitolato Penser solidairement la fin de vie, elaborato da una Commissione di esperti, alla quale lo stesso Hollande aveva affidato il compito di valutare la possibilità di introdurre forme di «assistenza medicalizzata per concludere dignitosamente la vita». Sembra dunque che la legislazione francese in materia di fine vita sia già prossima alla riscrittura. E ciò benché, proprio nel rapporto commissionato da Hollande, si metta bene in chiaro come i contenuti innovativi della loi Leonetti siano ancora poco conosciuti dai cittadini e dagli operatori sanitari. E benché, nelle conclusioni di quello stesso documento, si sottolinei con forza «l’esigenza di applicare decisamente le leggi vigenti piuttosto che immaginarne sempre di nuove», «l’utopia di risolvere per legge la grande complessità delle questioni del fine vita» e «il rischio di superare le barriere di un divieto» con la depenalizzazione dell’aiuto al suicidio.

Frattanto, proprio in questi giorni, nell’attesa di conoscere i contenuti dell’iniziativa riformatrice annunciata da Hollande, l’opinione pubblica francese torna a dividersi intorno al caso di un uomo di 37 anni, Vincent Lambert, il quale, come si apprende dalla stampa, da più di quattro anni, a seguito di un grave incidente automobilistico, versa in uno stato inizialmente indicato come “vegetativo” e poi divenuto “di minima coscienza”. A quanto pare, infatti, già da più di due anni, Vincent risponde di nuovo a talune stimolazioni sensoriali. Nondimeno, dopo aver consultato sua moglie, i medici hanno deciso di non somministrargli più nutrizione e idratazione e hanno pure iniziato a dar corso a tale decisione.

I genitori e i fratelli di Vincent si sono tempestivamente opposti anche con opportune iniziative processuali. Il giudice competente ha quindi ordinato la ripresa immediata della somministrazione dei sostegni vitali e il trasferimento di Vincent in un’altra struttura ospedaliera. E ciò perché, in violazione delle norme vigenti, i medici che avevano in cura Vincent avevano deciso l’interruzione di nutrizione e idratazione senza aver consultato anche i suoi genitori e i suoi fratelli. 

In effetti, nel Code de la santé publique, così come è stato novellato dalla loi Leonetti del 2005, si dice ora con chiarezza che, laddove il paziente sia «en phase avancée ou terminale d'une affection grave et incurable» e versi altresì in una condizione di incapacità, il medico può sempre decidere di limitare o di interrompere un trattamento considerato «inutile, disproportionné ou n'ayant d'autre objet que la seule prolongation artificielle de la vie» e di determinare così la morte del paziente, purché però assuma una decisione tanto grave - che dev’essere corredata da un’adeguata motivazione scritta - solo all’esito di un’apposita procedura di consultazione collegiale regolata dal codice deontologico e dopo aver ascoltato la personne de confiance del malato, ove designata, e la sua famiglia o, in difetto, uno dei suoi parenti, e avendo tenuto conto anche delle eventuali direttive anticipate predisposte dallo stesso paziente (sempre che non si tratti di direttive risalenti a più di tre mesi prima dell’inizio della situazione di incoscienza).

Nel caso di Vincent la scelta dei medici di considerare anche un paziente in stato di minima coscienza come un soggetto «in fase avanzata o terminale di una patologia grave i incurabile » appare certamente discutibile. E non meno discutibile è pure l’idea degli stessi medici secondo cui anche la nutrizione e l’idratazione di un tale paziente sarebbero «un trattamento inutile, non proporzionato e non avente altro fine al di là del prolungamento artificiale della vita».

Il legislatore francese del 2005 ha scelto nondimeno di lasciare alla discrezionalità tecnica dei medici la concreta determinazione di concetti come “fase terminale”, “malattia grave e incurabile”, “trattamento”, ecc., ritenendo che, anche nelle situazioni più perplesse, il riferimento ai principi della deontologia medica – e al relativo apparato sanzionatorio – e il necessario ricorso a una procedura di consultazione collegiale, destinata a coinvolgere anche la famiglia del paziente, rappresentino un presidio sufficiente di fronte al rischio di valutazioni arbitrarie.

D’altra parte, almeno in linea di principio, l’impiego di una simile tecnica legislativa nella regolazione delle questioni di fine vita (e, più in generale, delle più diverse questioni del cd. biodiritto), e cioè la previsione di un’integrazione del sistema delle fonti attraverso un’istanza intermedia di valutazione “tecnica”, che si collochi, per così dire, a metà strada tra il caso singolo e la generalità della legge, appare a molti come la soluzione più opportuna. E molto probabilmente lo è. Ciò non vuol dire però che il rischio di decisioni mediche inadeguate o senz’altro scorrette anche sotto un profilo deontologico sia per ciò solo scongiurato. Del resto, almeno a una prima considerazione superficiale, proprio la decisione presa dai medici nel caso di Vincent appare per più versi censurabile. 



NOZZE GAY/ 2. Esposito: cosa si nasconde dietro l’"amore" di Obama? - venerdì 28 giugno 2013 - http://www.ilsussidiario.net

NOZZE GAY/ 2. Esposito: cosa si nasconde dietro l’amore di Obama?

Perché la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, che ha dichiarato incostituzionale il Defense of Marriage Act, vale a dire la legge del 1996 che aveva circoscritto il matrimonio alle sole unioni eterosessuali, è stata presentata ed enfatizzata da molti media americani (e nostrani) come inevitabilmente, irrevocabilmente «progressista»? È come se ci trovassimo di fronte a una delle più evidenti manifestazioni dello «spirito» del nostro tempo, alla maturazione di un sentire sempre più comune all’interno dell’opinione pubblica. Tanto che anche le forti critiche a questa decisione finiscono inevitabilmente per essere rubricate come conservatrici, se non addirittura come reazionarie. 

Naturalmente la questione risulta pesantemente condizionata dai contrasti di natura politica e ideologica (tot giudici liberal contro tot giudici conservatori) e dal peso delle lobbies più attive circa una sempre più radicale omologazione ed equiparazione dei diritti degli individui rispetto alle differenze di genere. Ma penso che la semplice opposizione tra questi due fronti non spieghi ancora adeguatamente la posta in gioco di una sentenza da più parti definita «storica» (quale che sia la valutazione, positiva o negativa, che se ne dà), e il senso del clamore che essa ha scatenato. La novità che in questa circostanza è venuta a galla, sta piuttosto nel fatto che è cambiato o sta progressivamente cambiando il significato di alcune parole decisive, le quali racchiudono e veicolano una concezione e un sentimento determinato di sé e del mondo.  

Dal punto di vista di queste parole a me sembra che sia avvenuta una mutazione di non poco conto. Il progressismo di cui si ammanta la decisione della Corte sui matrimoni gay non è più sinonimo di libertarismo (come è stato di fatto a partire soprattutto dagli anni Settanta), quanto di un nuovo assetto borghese. Ad essere rivendicata non è la libertà di ciascuno nel progettare, costruire ed esprimere pubblicamente la propria scelta autonoma di vita, quanto la garanzia di poter regolarizzare in via di principio ogni possibile differenza di progetto esistenziale in un canone neutro a livello giuridico e istituzionale. Il rovescio esatto della medaglia, si potrebbe dire: dalla rivendicazione di diritti intesi come tendenzialmente assoluti (perché assoluta era la soggettività che essi esprimevano), e che per questo non tolleravano alcuna delimitazione da parte di un ordine culturale e sociale visto come soffocante, sino alla rivendicazione del diritto di poter disporre di istituzioni e leggi che permettano a quei diritti assoluti di stabilizzarsi, di istituzionalizzarsi, di diventare addirittura doveri sociali.  

È interessante ad esempio leggere in questa prospettiva le dichiarazioni di un intellettuale gay-oriented come lo scrittore David Leavitt, che in un’intervista al Corriere della Sera del 27 giugno (p. 14) ha ammesso con molta onestà: «Negli anni 70 e 80 a molti gay interessava fare outing e vivere secondo [un] modello di liberazione e promiscuità sessuale», di fronte al quale il matrimonio restava «un’istituzione borghese per eterosessuali. 

Ma forse eravamo come la volpe e l’uva: ci eravamo convinti di non averne bisogno perché non potevamo averlo». Ma poi, soprattutto «di fronte a una catastrofe sterminata come l’Aids molti gay si sono rifugiati in stili di vita più conservatori», fino a «diventare coppie e famiglie affiatate». 

Ma c’è un secondo aspetto di questa mutazione antropologica e semantica, ed è che questo esito egualitarista-istituzionale dei diritti individuali si appella in definitiva a motivazioni «naturali» e «religiose», se non addirittura addirittura «evangeliche». E questo, paradossalmente, a dispetto dell’aspra polemica ingaggiata contro le presunte basi naturali attribuite tradizionalmente dalle Chiese al solo matrimonio tra un uomo e una donna in vista della procreazione di un terzo. 

Basti rileggere a questo proposito le dichiarazioni del presidente Obama a commento – entusiasta e commosso – della decisione della Corte suprema (cito dal sito della Casa Bianca): «Il nostro popolo ha dichiarato che noi siamo stati creati tutti uguali – e uguale dev’essere anche l’amore con cui ci impegniamo gli uni con gli altri». L’eguaglianza creaturale viene tradotta nella uniformità dell’amore. Ma cosa vuol dire che quest’ultimo dev’essere «uguale» per tutti? Forse nient’altro che la misura dell’amore è il sentimento soggettivo, e dunque l’emozione reciproca, e che questo è del tutto sufficiente a renderlo un’istituzione matrimoniale (e patrimoniale). Come si concludeva il caldo tweet del Presidente fatto circolare contemporaneamente a queste dichiarazioni, love is love, l’amore è quello che è, senza alcun’altra «ragione» che il suo stesso feeling. Il carattere «naturale» del matrimonio gay è dovuto qui al semplice fatto che esso esprime la naturale uguaglianza di tutti gli individui. Tralasciando che, di fatto, la natura degli individui creati dice sì un’uguaglianza in ordine alla dignità e al valore del singolo, ma dentro delle precise e costitutive differenze.

Ma continuiamo ancora con le dichiarazioni presidenziali: «Su un tema delicato come questo, sappiamo che gli americani hanno una vasta gamma di punti di vista sulla base di convinzioni profonde. Perciò è vitale mantenere l’impegno della nostra nazione per la libertà religiosa». Il che vuol dire concretamente che la decisione della Corte «si applica solo ai matrimoni civili» e che questo «non cambia in nulla» il concetto di matrimonio fatto proprio tradizionalmente da queste istituzioni religiose. Insomma, coloro che vogliono attestarsi su una nozione religiosa di matrimonio devono poterlo fare tranquillamente, ma, appunto, questo dipende da opzioni di fede particolari, mentre la nozione standard, direi neutra, dell’istituto matrimoniale è un diritto per tutti, senza alcuna condizione che non sia la volontà di amarsi.

 Infine, «Le leggi del nostro Paese si stanno approssimando alla verità fondamentale che milioni di noi americani conserviamo nel nostro cuore: quando tutti gli americani sono trattati come uguali – non importa chi sono o chi amano – siamo tutti più liberi». Appunto, è la verità che rende liberi, secondo il detto del Vangelo: e la verità è che tutti devono essere trattati ugualmente. Ma quando ciascuno di noi pensa a se stesso, che cosa pensa in verità? Solo di essere uguale agli altri? O più al fondo di questa uguaglianza (sacrosanta, beninteso) sta quell’irriducibile impronta personale che ognuno ha, o meglio «è» per se stesso? E non fa parte di questa irriducibilità il nostro essere maschi o femmine? O il nostro esser nati da un uomo e da una donna, da un padre e da una madre? 

Ciascuno penso debba essere libero di amare chi vuole; ma non di essere ciò che non è, di negare la sua storia personale e la sua differenza specifica. 

© Riproduzione Riservata. 
NOZZE GAY/ 1. McCarthy (Usa): le leggi hanno fallito, ora sta a noi difendere il matrimonio - venerdì 28 giugno 2013 - http://www.ilsussidiario.net/

NOZZE GAY/ 1. McCarthy (Usa): le leggi hanno fallito, ora sta a noi difendere il matrimonio

L’altro ieri il presidente Barack Obama ha espresso la sua opinione a proposito di amore e matrimonio, a seguito della decisione della Corte Suprema di cancellare il Defense of Marriage Act (Doma). “L’amore è amore”, ha cinguettato sull’account presidenziale di Twitter. Tutto qui. Insomma, perché tutte queste storie da millenni? "Fate l'amore, non la guerra!"

Per esser chiari, la sentenza di ieri non ha reso costituzionale il “matrimonio” omosessuale. La sentenza ha dichiarato incostituzionale quella parte del Doma, approvato nel 1996, che impediva alle coppie omosessuali, il cui matrimonio era stato riconosciuto dallo Stato in cui vivevano, di usufruire dei benefici riconosciuti dalla legge federale alle altre coppie sposate. La maggioranza (costituita, presumibilmente, dai giudici di “sinistra” più il “voto oscillante” del giudice Anthony Kennedy) ha posto una sorta di ipotesi di “federalismo” passivo, “lasciando che siano gli Stati a decidere” (per inciso, su queste basi anche il senatore Rand Paul, un libertario del Tea party, si è dichiarato a favore della decisione).

Nello stesso tempo, tuttavia, la medesima maggioranza ha truccato i dadi per la prossima battaglia legale - la costituzionalità del matrimonio omosessuale in sé - affermando che il difetto fondamentale del Doma era la sua “deprivazione della equa libertà delle persone”, con “lo scopo e l’effetto di creare disparità” e offendere la “personalità e dignità” delle coppie omosessuali. Il giudice Antonin Scalia, in rappresentanza della minoranza, ha letto il suo fermo dissenso da una decisione che ha la pretesa di non decidere nulla mentre decide tutto in anticipo.

“Ci vuole una bella faccia tosta della maggioranza odierna per assicurarci, mentre esce dalla porta, che qui non è in discussione una necessità costituzionale di dare riconoscimento formale alle coppie omosessuali, quando ciò che ha preceduto questa assicurazione è una lezione sulla superiorità del giudizio morale della maggioranza in favore del matrimonio omosessuale rispetto all’odioso giudizio morale del Congresso contro di esso… Dichiarando formalmente che chiunque si opponga al matrimonio omosessuale è un nemico della dignità umana, la maggioranza arma nel migliore dei modi ogni ricorrente contro una legge statale che restringa il matrimonio alla sua definizione tradizionale”. 

Il problema è, ovviamente, molto più grande del dibattito che lo riguarda, sia che i giudici debbano “legiferare dall’alto” o “lasciare che decidano gli Stati”. Dovremmo forse “rimandare agli Stati” la decisione se le persone di colore sono o non sono esseri umani? In gioco è la natura umana, e questa include lo status della corporeità umana, della differenza sessuale, del fatto che i bambini sono concepiti da un padre e da una madre. Non si vota su questo, nemmeno in democrazia. Per ironia, è stata la lobby gay a far appello ad una sorta di “legge naturale”, quando il matrimonio omosessuale è stato vietato in California (“Proposizione 8”), affermando che un diritto così naturale come il matrimonio non poteva essere sottoposto al voto popolare!

Il punto, quindi, è cosa e chi siamo noi? La risposta della cultura dominante, come sappiamo, è diventata progressivamente negativa, senza contenuto. Siamo il prodotto della nostra volontà, “liberati” dal peso del nostro passato, delle nostre ascendenze, delle nostre tradizioni e, soprattutto, l’uno dall’altro. E andiamo avanti (“speranza”), ricreando noi stessi secondo i nostri desideri (“e cambiamento”): avanti! 

Questa non è una storia nuova. Per molto tempo abbiamo guardato a noi stessi solo come individui e portatori di diritti astratti nel nostro “stato naturale”. La famosa dichiarazione del citato giudice Kennedy nel caso Planned Parenthood vs. Casey (1992) dice tutto a tal proposito: “Al cuore della libertà è il diritto di definire il proprio concetto di esistenza, di significato, dell’universo e del mistero della vita umana”. Questa dichiarazione ci dà un’idea di cosa “vita, libertà e ricerca della felicità” hanno voluto dire per un lungo periodo e cosa di sicuro significano oggi. 

Ciò che si percepisce ora come una rivalsa, comunque, è che tutto si sta giocando sul piano del corpo umano, l’ultimo baluardo di resistenza al progetto dell’io moderno. Essere incarnati ci chiede di riconoscere che troviamo noi stessi in relazioni che non sono il prodotto di una scelta e che invece, ci costituiscono. Essere in un corpo è riconoscere che siamo quello che siamo in virtù di un altro (diverso) e che il nostro compimento è legato al “rischio” che assumiamo con lui o lei. Nel corpo, non siamo un prodotto nostro, il prodotto dei nostri voleri. E la nostra felicità non è “come noi la definiamo”.

Le decisioni prese ieri dalla Corte Suprema, ma anche decisioni precedenti (sul divorzio e l’aborto) e altre che si prospettano negli anni a venire (sul “diritto” delle coppie omosessuali ad “avere figli”, attraverso “l’uguale diritto di accesso” alle tecniche di riproduzione artificiale) possono essere tutte comprese come mosse per superare l’ultima frontiera di resistenza a quella che Papa Benedetto ha definito la “dittatura del relativismo”.

È chiaro che il bene dei figli, che ora saranno certamente separati da almeno un genitore, se non da tutti e due, non sarà avvantaggiato da quest’ultima decisione, come non lo è stato dalle precedenti. Ed è dubbio che lo sia il bene dei loro “genitori”. Talvolta l’amore non è amore, talvolta è guerra.

In risposta alla decisione di ieri, i vescovi degli Stati Uniti hanno parlato di “decisione tragica”.


“Il bene comune di tutti, specialmente dei nostri figli, dipende da una società che lotti per difendere la verità del matrimonio.  Adesso è il momento di raddoppiare i nostri sforzi nel testimoniare questa verità. Queste decisioni sono parte di una discussione pubblica di grande importanza. Il futuro del matrimonio e il bene della nostra società sono in bilico”. 

Dobbiamo notare che i vescovi non hanno fatto come molti protestanti, che si rifanno subito al “piano divino” o a “ciò che la Bibbia dice”. Hanno fatto ciò che Gesù fece quando si trovò a discutere sul matrimonio con i Farisei. Hanno fatto riferimento “all’inizio”, alla creazione iniziale di Dio che creò l’uomo maschio e femmina, ma hanno fatto anche riferimento “all’inizio” nel cuore dell’uomo, per cui ognuno, uomo, donna, bambino, può conoscere, in linea di principio, la verità della propria umanità, corpo e anima.  

Ciò detto, non è mai stato facile capire tutte queste cose, perché non è mai stato facile essere un marito, una moglie, una madre, un padre, un figlio. Come suggeriscono i vescovi, per poter capire tutte queste cose ci vogliono testimoni della più profonda verità del cuore dell’uomo. 

© Riproduzione Riservata. 

giovedì 27 giugno 2013

NOZZE GAY/ Sentenza Usa, un errore di ragione - giovedì 27 giugno 2013 - http://www.ilsussidiario.net/

NOZZE GAY/ Sentenza Usa, un errore di ragione

La dichiarazione di incostituzionalità della Corte Suprema degli Stati Uniti del Defense of Marriage Act in quanto “deprivazione di libertà eque” in contrasto con il quinto emendamento sulla difesa delle libertà individuali, è un grave errore di logica giuridica, oltre che una lesione dalle conseguenze difficilmente calcolabili ad un istituto etico della società, prima ancora che giuridico, il matrimonio; istituto da sempre fondativo e strutturante un’ordinata convivenza sociale, le cui basi “naturali” (il legame eterosessuale orientato alla procreazione) riconosceva già il diritto romano, alla luce della semplice ragione naturale, e al netto di ogni illuminazione religiosa. 

Tanto per segnalare quanto sia fuorviante assegnare alla “credenza religiosa” il patrocinio della limitazione alle coppie eterosessuali dell’istituto matrimoniale, e non piuttosto al semplice buon uso della ragione. Ed è questo buon uso della ragione, della ragionevolezza e della sensatezza della norma, che è venuto meno nella pronuncia della Corte Suprema statunitense. Anche in questo caso, come già in Francia, nell’assunto che le coppie eterosessuali e le coppie gay non siano discriminabili in base all’orientamento sessuale, nei loro diritti per accedere all’istituto familiare del matrimonio, che ogni persona avrebbe diritto a metter su (e questa sarebbe la presunta discriminazione da rimuovere), assistiamo ad un uso ideologico e improprio, in diritto e in fatto, di una transitività analogica di ciò che va riconosciuto a coppia, famiglia, matrimonio, che sono realtà affatto diverse, e richiederebbero istituti giuridici diversi, anche quando si voglia riconoscere a chi vi sia coinvolto (nella coppia, nella famiglia, nel matrimonio) una base comune, più o meno ampia, di eguali diritti. 

Al contrario, ciò che discende dalla pronuncia della Corte Suprema Usa è una sorta di “neutralizzazione” familiare dell’orientamento sessuale nella e tramite la famiglia, al fine di poter riconoscere eguali diritti ad eguali famiglie, riducendosi il legame alla pura affettività. Il che appunto non è, perché il legame di coppia, nelle sue basi affettive e sessuali, non è la famiglia. La famiglia è un legame sociale diverso dalla coppia affettivo-sessuale; tant’è che spesso fattualmente prescinde dalla presenza in essa di un legame di coppia affettivo-sessuale. Facciano o no famiglia, la pregnanza della differenza, anche per rispetto al dato esistenziale che vi si rappresenta, tra le coppie gay e le coppie eterosessuali resta tutta in piedi. 

E l’istanza di uno stesso istituto giuridico di protezione sociale, il matrimonio, per legami di coppia differenti, non ha quindi quel fondamento antidiscriminatorio che pretende. Né ci si può appellare per questa estensione del matrimonio alle coppie gay ai diritti della persona singola, perché il matrimonio è istituto giuridico che tutela le persone nella loro associazione in vista di un terzo, il figlio; cioè la loro naturalità procreativa, non la loro singolarità desiderante. 

All’origine della decisione della Corte Suprema Usa c’è per altro la richiesta di una tutela patrimoniale (vedersi riconosciuti, all’atto della successione ereditaria, gli stessi benefici fiscali previsti dalla legge federale per le coppie eterosessuali legalmente sposate) da parte di una signora di New York legalmente sposata a Toronto in Ontario con un’altra donna, deceduta, e da cui aveva ereditato. Questa tutela poteva, e potrebbe, anche essere prevista - come ogni altro beneficio tributario, sanitario, pensionistico, che si volesse riconoscere - in via ordinaria senza equiparare il matrimonio eterosessuale a quale che sia forma legalmente riconosciuta e tutelata di convivenza omosessuale. 

Anche per questo la pronuncia della Corte Suprema Usa “trasuda”, al di là del merito giuridico, un assunto ideologico e politico (quattro giudici “democratici” contro quattro giudici “repubblicani”, con la contesa decisa dal nono giudice che si è schierato con i democratici) estremamente pericoloso, affidando la sopravvivenza di istituti etici, prima ancora che giuridici, della società che hanno basi socio-biologiche e densità antropologica di lungo periodo, ad equilibri decisionali per loro natura friabili. Equilibri che rispondono  alla congiuntura politico-ideologica del momento, più che − come dovrebbero − alla riflessività di un diritto che nasca dalle cose come sono, e appaiono ad una spassionata analisi razionale, e non come sono avvertite, con forza più o meno gridata, da questo o quello “sentire” sociale che vi sia coinvolto. 

Una decisione così delicata, come quella presa dalla Corte Suprema Usa, che ha fatto parlare il Cardinale Dolan di “decisione tragica”, e con buone ragioni, non meritava davvero il tweet di Obama “Love is love”. Risolve, e crede di eludere, con una battuta un problema di verità, delle cose e dei sentimenti delle persone, che una sentenza sbagliata non farà tacere. Se ne poteva fare a meno.

© Riproduzione Riservata. 

mercoledì 26 giugno 2013

Olanda: dopo le nozze gay legalizzata anche al poligamia - 26 giugno, 2013 - http://www.uccronline.it/

Poligamia

“Noi ve lo avevamo detto…”, è antipatico da dirsi tuttavia non possiamo non ricordare che il 3/09/12 abbiamo chiesto: “Perché accettare le nozze gay e non incesto e poligamia? “, spiegando che se il matrimonio viene concepito erroneamente riducendolo come l’unione di persone legate da un sentimento, e pertanto aperto anche alle coppie omosessuale, allora non si può più sostenere il divieto al riconoscimento statale e all’equiparazione al matrimonio naturale anche per altre relazioni romantiche basate sul consenso reciproco, come incesto e poligamia (ma anche un intenso rapporto di amicizia, o di amore tra sorelle o fratelli ecc.). Il matrimonio si distrugge poiché ne vengono minate le fondamenta.

Il 22/04/13 abbiamo infatti fatto notare che le stesse richieste degli omosessuali circa il matrimonio sono avanzate -con le stesse parole- anche dai gruppi poligamici, come la Polyamory Action Lobby. Giancarlo Galan (PDL) ha aperto recentemente alle nozze gay affermando che «i colleghi cattolici non negheranno la felicità agli altri». Dato che Galan non ha approvato anche il matrimonio incestuoso e la poligamia, ci chiediamo coerentemente perché lui voglia negare la felicità agli incestuosi e ai poligamici. Tutto questo ovviamente per dire che l’errore è sul concetto sbagliato di matrimonio, che non necessità solo dell’amore reciproco e consenziente perché non è solo un contratto, ma è il legame istituzionale alla base di una famiglia, è l’istituzione nata per proteggere e garantire la filiazione, stabilita in modo da determinare i diritti e i doveri che passano fra le generazioni.

In Olanda, il primo Paese a legalizzare i matrimoni gay e tra i luoghi più gay-friendly al mondo, non potendo più frenare l’ipocrisia, si è dovuta legalizzare la poligamia come previsto, riconoscendo ufficialmente il primo caso di poligamia “legale” in Europa nel settembre del 2005 . Victor de Brujin (46 anni) ha “sposato” sia Bianca (31 ani) che Mirjan (35 anni) in una cerimonia davanti a un notaio che ha registrato la loro unione civile. La notizia è stata rilanciata erroneamente un mese fa in Italia, squarciando in ogni caso il velo di ombra su tale notizia (almeno in Italia). I nostri sospetti erano dunque fondati e occorre soltanto attendere che i media comincino a ricattare emotivamente i loro lettori parlando di “poligami infelici” e inventandosi la “poligamofobia” e la realtà olandese si diffonderà in tutto l’Occidente, trasformando le nozze gay in cose da trogloditi conservatori.

Lo dice già oggi il filosofo di Princeton Peter Singer: nel momento in cui i politici discutono sulla definizione di matrimonio tra due persone, Singer sostiene che ogni tipo di comportamento sessuale “pienamente consensuale” è eticamente giusto, ed è indifferente che coinvolga due persone oppure duecento. Ad esempio, intervistato da Marvin Olasky (qui tradotto in italiano), ha approvato la necrofilia (due persone che si accordano sulla possibilità, concessa a chi dei due sopravvive all’altro, di avere rapporti sessuali con il cadavere del partner) perché «non c’è alcun problema morale al riguardo». Riguardo alla zoofilia (persone che fanno sesso con gli animali, considerati come partecipanti consenzienti) ha invece risposto: «ti chiederei che cosa ti trattiene dall’avere una relazione più appagante, ma di sicuro non è qualcosa di moralmente sbagliato».

Come ha spiegato il criminologo Alessandro Benedetti, il Consiglio d’Europa attraverso l’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, istituito all’interno del Dipartimento per le Pari Opportunità), nell’intento di combattere la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o l’identità di genere ha invitato gli Stati membri ad abrogare «qualsiasi legislazione discriminatoria ai sensi della quale sia considerato reato penale il rapporto sessuale tra adulti consenzienti dello stesso sesso, ivi comprese le disposizioni che stabiliscono una distinzione tra l’età del consenso per gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso e tra eterosessuali» (art. 18). Ecco dunque che anche la pedofilia (o comunque il rapporto sessuale con un minore consenziente) comincia a fare sempre più capolino nelle società gay-friendly, poiché -ha spiegato l’avvocato- «se il criterio per considerare lecito e normale – e pertanto generatore di diritti – qualsiasi tipo di unione sessuale ed affettiva è la libertà ed il libero consenso delle parti, dopo aver sdoganato penalmente e quindi culturalmente i rapporti tra maggiorenni e minori anche di anni 14, si passerà a sdoganare l’incesto (che già oggi è reato solo in caso di pubblico scandalo: art. 564 cod.pen.) e la poligamia ed a richiedere per entrambi il riconoscimento giuridico con relativi diritti».

Nel frattempo sono sempre più numerosi gli studiosi che chiedono proprio l’apertura all’incesto. Lo ha fatto il bioeticista della Harvard Law School, Glenn Cohen (e non un Odifreddi qualsiasi!), il quale vorrebbe abolire il concetto di «interesse superiore del bambino» quando si parla di fecondazione assistita: «Lo Stato non può giustificare i tentativi di intervenire sul se, come, quando e con chi un individuo si riproduce sulla base del danno che sarà arrecato al bambino, perché senza quell’intervento il bambino non esisterebbe». Secondo l’accademico, in questo senso, anche l’incesto non deve essere proibito perché i tentativi di «regolare la riproduzione» sulla base dell’interesse del bambino che nascerà «sono ingiustificati».

Arrivederci a fra pochi anni per il prossimo: “noi ve l’avevamo detto….”.
In piedi! Entra il Tribunale della coscienza dei medici e dei farmacisti! - http://veritaevita.blogspot.it/


L'avv. Marilisa D'Amico, su L'Unità (cliccando sul titolo si accede all'articolo) presenta la sua soluzione per quello che ritiene il problema dell'alto numero degli obiettori di coscienza all'aborto. 

Vediamo, intanto, come l'Autrice presenta il quadro normativo:
"Con la legge 194 del 1978, si è garantita la possibilità per la donna di interrompere la gravidanza, a certe condizioni, bilanciando il suo diritto alla salute, fisica e psichica, con il diritto alla vita del nascituro, che naturalmente dipende dalla scelta libera della donna circa il proprio futuro.La stessa legge garantisce, all’art. 9, il diritto dei medici di dichiarare la propria obiezione di coscienza, astenendosi dagli interventi abortivi, a certe condizioni"
Come vedete, l'avv. D'Amico usa due volte l'espressione "a certe condizioni": prima riferendosi al diritto della donna di abortire e poi a quello dei medici di dichiarare la propria obiezione di coscienza. 
Ma quali "condizioni" sussistono per la donna se il diritto alla vita del bambino "naturalmente dipende dalla scelta libera della donna"?Ma soprattutto: dove sono le "condizioni" per esercitare l'obiezione di coscienza nell'art. 9 della legge 194, se, per esercitare il diritto, il medico deve esclusivamente fare una dichiarazione?
E allora diciamolo chiaramente: il diritto della donna di abortire è, in realtà (fino al momento in cui sussiste la possibilità di vita autonoma del feto), incondizionato; e altrettanto incondizionato è il diritto dei sanitari all'obiezione di coscienza alle pratiche abortive (cioè a quelle specificamente e necessariamente dirette a provocare l'aborto). 

Il fatto è che l'avv. D'Amico vuole mantenere incondizionato il primo diritto, mentre vuole limitare il secondo. E vediamo come: 
"La soluzione, a mio avviso, non sta nell’abolizione del diritto all’obiezione, e cioè dell’art. 9 della legge, come pure è chiesto da più parti, ma nella corretta e severa applicazione dello stesso: un esame serio delle motivazioni individuali; la necessità che l’obiezione sia limitata all’intervento strettamente abortivo e non alle attività collaterali, che per alcuni arrivano fino al farmacista che nega “la pillola del giorno dopo”, pure dietro prescrizione; una verifica a livello regionale della presenza in tutti gli ospedali di medici che applicano pienamente la legge". 
Avete capito bene: qualcuno (la D'Amico non dice chi: si propone Lei?) dovrà "seriamente esaminare le motivazioni individuali" del medico o dell'infermiere o del portantino che non vogliono contribuire all'uccisione dei bambini non ancora nati. Come verrà condotto questo esame? Che domande verranno fatte al medico? 
Sarà ammesso all'obiezione di coscienza il medico che si limita a recitare il giuramento di Ippocrate? 
Si verificherà la situazione familiare del soggetto, la sua fede religiosa (se è un ateo potrà fare obiezione di coscienza?), il suo impegno politico? 
Si permetterà ad un medico che per anni ha eseguito aborti di fare obiezione di coscienza ("ma dottore, che problema c'è? Ne ha già fatti tanti ... non è mica che vuole prendersela comoda!")? 
E a un giovane laureato in medicina pronto a curare e ad aiutare le persone malate ("perché non ha fatto il dentista? Eppure lo sapeva che abortire è un diritto delle donne! Provi a ripetere con me: l'IVG tutela la salute fisica e psichica della donna ... coraggio, è semplice, provi a chiudere gli occhi e non guardare ...")?

Accanto a questo Tribunale della coscienza dei sanitari la Autrice pensa, ovviamente, a ben altri limiti, come l'obbligo di compimento delle attività "collaterali". Peccato che questo sia già previsto dalla legge e che all'Autrice interessa solo impedire l'obiezione di coscienza ai farmacisti alla pillola del giorno dopo. Interessante vedere il concetto di "collaterale" che ha l'avv. D'Amico: c'è un medico che fa la prescrizione per un preparato; questo preparato viene distribuito nelle farmacie: come fa ad essere "collaterale" la consegna del farmaco, se è un passaggio essenziale tra la prescrizione del medico e l'assunzione del preparato? 
Ovviamente la D'Amico non spiega per quale motivo il farmacista non possa esercitare la sua coscienza, ben consapevole che la "pillola del giorno dopo" (come quella "dei cinque giorni dopo") viene prescritta solo per impedire l'annidamento in utero dell'embrione (nel caso sia stato concepito) e quindi per farlo morire ...

Ma, in realtà, alla D'Amico interessa davvero un risultato: bandi di concorso riservati a non obiettori. 
Questa si chiama - banalmente - DISCRIMINAZIONE di un soggetto che ha esercitato un diritto riconosciuto dalla legge e garantito dalla Costituzione. Ma attenzione: significa anche che il medico che ha partecipato al concorso riservato ai non obiettori non potrà più obiettare per tutta la vita, pena il licenziamento.
Ma, dirà qualcuno, qualcosa bisogna pur fare! E' vero o no che l'alto numero degli obiettori rende quasi impossibile l'esercizio del diritto delle donne?
No: purtroppo non è affatto vero. Ma di questo parleremo nel prossimo post.
Giacomo Rocchi
SLA/ Vescovi: dai primi risultati alla sconfitta della malattia, ecco come ci arriveremo - mercoledì 26 giugno 2013 - http://www.ilsussidiario.net/

SLA/ Vescovi: dai primi risultati alla sconfitta della malattia, ecco come ci arriveremo

I primi test di trapianto di cellule staminali celebrali umane su sei pazienti affetti da Sclerosi Laterale Amiotrofica (Sla) hanno dato esiti positivi. Non ci sono stati effetti collaterali. Lo ha annunciato con una certa soddisfazione Angelo Vescovi, docente all’Università Bicocca di Milano e direttore scientifico di Neurothon che intervistato da ilsussidiario.net ha spiegato i risultati, le fasi e gli obiettivi della sperimentazione. Si tratta certamente di un primo passo verso una possibile terapia futura per una malattia che ancora oggi è inguaribile. Una speranza per i malati, anche se è lo stesso Vescovi a voler in qualche modo smorzare l’entusiasmo per non alimentare aspettative:”Per onestà intellettuale e per non creare illusioni su eventuali effetti positivi neurologici, sottolineo che ad oggi sono troppo pochi i pazienti trapiantati e che bisogna procedere con cautela”.

Che tipologia di studio state portando avanti?

Dal 28 marzo 2011, data in cui abbiamo ottenuto l’autorizzazione a procedere con il trapianto in questi pazienti affetti da Sla stiamo procedendo con la sperimentazione. Abbiamo trapiantato cellule staminali celebrali umane, derivate da feti da aborto spontaneo, quindi da morte naturale in utero con una tecnica di prelievo assolutamente analoga a quella della donazione d’organo (che non comportano nessun problema etico di qualsivoglia natura) in prossimità dei motoneuroni che muoiono nella parte inferiore del midollo spinale.

Quali sono stati i primi riscontri?

Il primo gruppo di pazienti ci ha rivelato ciò che speravamo di vedere: il trapianto intramidollare di cellule staminali celebrali, che è una cosa molto particolare, difficile, in pazienti molto malati, quasi terminali, è innocuo. Non abbiamo constatato effetti collaterali. A differenza di quanto avvenuto negli Stati Uniti, dove stanno portando avanti una sperimentazione simile.

A questo punto, quale sarà il prossimo step?

Consegnata tutta la documentazione all’Istituto Superiore di Sanità e dell’agenzia del farmaco (Aifa), proprio in questi giorni abbiamo già ricevuto il permesso di realizzare il trapianto in altri sei pazienti (il secondo gruppo della fase uno) però questa volta in una zona del midollo molto più alta, appena sotto la nuca. Un’operazione molto più pericolosa, ma in una zona dove il trapianto è più foriero di migliori risultati perché è dove ci sono i centri di controllo della respirazione distrutti dalla malattia.

Qual è lo scopo della fase uno?

Lo scopo della fase uno è ovviamente per definizione la constatazione della sicurezza e dell’innocuità del trapianto, a margine si valutano gli eventuali effetti neurologici che, però, devono essere studiati in una successiva fase. Vediamo delle cose interessanti ma con soli sei pazienti non è assolutamente possibile concludere nulla in termini di efficacia terapeutica. Ci siamo limitati a concludere che questo tipo di approccio che poteva essere completamente invalidato già con il primo trapianto in realtà è un approccio sicuro, scevro da effetti collaterali. Questo ci dovrebbe portare a concludere la prima fase abbastanza rapidamente e procedere a una fase due, nella quale vengono arruolati in genere decine di pazienti e valutare anche gli effetti positivi sulla patologia.

È una vera e propria svolta… 

Sì, è un grande passo avanti, perché è una strada che non si sapeva nemmeno se fosse praticabile. Ci tengo a ribadire, però, che il compito della sperimentazione in fase uno è quello di dimostrare che la procedura è effettuabile in maniera sicura e mi creda in pazienti come questi non è una cosa da poco: è un po’ come dimostrare che fare il trapianto di cuore non uccide i pazienti, i primi cinque a Parma morirono…

Ora come andrà avanti la sperimentazione?

Lo studio di fase uno prevede tre gruppi: il primo gruppo è stato completato, ora dobbiamo iniziare con il secondo gruppo, dovevamo cominciare il 3 agosto poi il paziente che avevamo reclutato si è ammalato e quindi fare il primo paziente del secondo gruppo con trapianto cervicale, ancora più complesso, la prima o seconda settimana di settembre e da lì speriamo di riuscire ogni tre settimane a operare i sei pazienti del secondo gruppo. Poi riproporremo all’Aifa i nostri risultati (che speriamo essere positivi) e ottenuta l’autorizzazione per procedere con il terzo gruppo che chiuderà la fase uno che prevede il trapianto nella stessa zona ma su pazienti appena diagnosticati, potremmo trovarci di fronte a qualche effetto positivo. Ecco lì dovrebbe essere più facile vederlo.

Che tempi ci sono per la conclusione dei test?

Attualmente procediamo con un trapianto al mese non per un problema di carattere tecnico, ma economico, stiamo finendo le risorse e la sperimentazione potrebbe subire un rallentamento. Credo, comunque, che alla fine della primavera 2014 la prima fase si concluda e che potremmo, quindi valutare gli effetti neurologici. Tra un anno potremmo essere in grado di chiedere di poter iniziare una fase due. Sarebbe un bel risultato.

Neurothon ha cambiato nome in Revert, perché?

Perché intendiamo lanciare una massiccia campagna per allargare la sperimentazione a un numero significativo di pazienti e ad altre malattie. Stiamo già scrivendo il testo per la sperimentazione sulla Sclerosi multipla e sulle malattie genetiche pediatriche. È stato dimostrato che è possibile farlo nel totale rispetto delle regole normative e anche quelle di etiche e morali. Io penso che con una campagna di raccolta fondi articolata sulla prova di un fatto e non più di una teoria dovremmo essere in grado tra un anno di valutare gli effetti neurologici.

Quando questa terapia sperimentale diventerà una terapia consolidata? Quando potrà essere “curato” il paziente per rallentare la patologia?

Secondo me se ci saranno degli effetti significativi li potremmo vedere nel terzo gruppo, ovvero quello dei pazienti appena diagnosticati. La fase due, in genere, in queste situazioni, siccome si tratta di una malattia essenzialmente orfana, viene già utilizzata come fase terapeutica vera.

Cioè?

La fase due che andrà a validare la terapia su un largo numero di soggetti potrebbe divenire già pura. Ci potrebbe, dunque, già essere un passaggio tra test e cura, però dovremmo avere dei dati più certi. Ad esempio se dei pazienti arruolati dopo un anno nessuno ha avuto un peggioramento della malattia, la statistica salta e lei procede utilizzandola come cura.

Perché finora le terapie sono risultate inefficaci?

Non lo sappiamo. Penso che il problema sia legato al fatto che ancora i meccanismi che portano alla morte di questi motoneuroni sono solo parzialmente chiariti, nel senso che non conosciamo cosa ha innescato il processo. Non è così semplice andare a intervenire su questi meccanismi, ed è proprio per questo che brancoliamo un po’ nel buio.

In cosa si differenzia il vostro approccio?

Non si fa la somministrazioni di un farmaco, di una molecola che può andare a influenzare il fenomeno ma si mette nella zona in cui la morte del motoneurone sta avvenendo (per mille ragioni) un sistema che rileva lo stato patologico del tessuto e reagisce di conseguenza secernendo migliaia di molecole, intervenendo nella rimozione si sostanze tossiche. L’approccio che viene dalla terapia cellulare è molto più complesso e anche molto più promettente dei classici farmaci.

In altre parole?

Non conoscendo precisamente il meccanismo, ma solo in generale, si mette una cellula in grado di agire su tutti i meccanismi leggendoli e interpretandoli nel modo che le è consono. Questo è il ruolo delle staminali e delle cellule che generano. Il motivo per cui ad oggi tutte le terapie hanno fallito è anche perché la Sla è una malattia rara, è stata curata molto poco e i modelli animali che mimano la malattia sono disponibili solo da un decennio e quindi la possibilità di accesso allo studio dei meccanismi che porta a sviluppare i farmaci era veramente limitato.

(Elena Pescucci)

© Riproduzione Riservata. 

sabato 22 giugno 2013

La Corte Suprema: «l’essere umano non è brevettabile » - 21 giugno, 2013 - di Aldo Vitale, ricercatore in filosofia e storia del diritto, http://www.uccronline.it/

Aldo Vitale

La decisione risulta essere storica, soprattutto considerando quelle già registrate in passato: la Corte Suprema degli Stati Uniti, decidendo sul caso Association for molecular pathology et al. vs Myriad genetics Inc. et al., ha statuito che il Dna umano non è brevettabile.

Tutta la vicenda è legata alla attività della Myriad genetics Inc. svolta nella ricerca e individuazione di alcuni geni il Brca1 e Brca2 che sono legati alla probabilità di sviluppare masse tumorali al seno e alle ovaie. La Myriad Genetics Inc., dopo aver isolato i predetti geni, ha proceduto a registrare numerosi brevetti facendo sì che chiunque volesse effettuare una indagine genetica sui già citati geni dovesse pagare i diritti derivanti dalla tutela brevettale. La vicenda è stata altalenante tra le corti locali, fino a che non è approdata alla Corte Suprema. I problemi sono senza dubbio molteplici, implicando un intreccio complesso tra le diverse sfere della scienza, della tecnica, del diritto e della morale.

In primo luogo non si può fare a meno di notare che la problematica è stata originariamente affrontata in modo differente dalle due sponde dell’Atlantico, avendo già da anni l’Europa emanato precise regole per la cosiddetta “brevettabilità del vivente” grazie alla direttiva del Parlamento Europeo del 1998 n. 98/44/CE, la quale ha sancito i limiti della brevettabilità escludendo l’essere umano perfino dal suo stato embrionale. Già nel 1993 , infatti, il CNB italiano, in veste sostanzialmente pionieristica, aveva problematizzato il tema, auspicando una disciplina a livello europeo. Risale oramai ad un paio di anni or sono la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Brustle vs Greeenpeace , con sui è stata negata la brevettabilità della vita ed in special modo quella delle cellule staminali embrionali.

La statuizione della US Supreme Court, quindi, si inserisce nell’ambito di una prospettiva critica della subordinabilità della vita in genere e di quella umana in particolare agli interessi del mercato, perseguiti e tutelati tramite l’utilizzo di strumenti giuridici quali il brevetto. Tuttavia, non correttamente sembra essere stata intesa l’importanza di tale decisione da parte di alcuni commentatori della prima ora che hanno trascurato la valenza etico-giuridica della stessa, per concentrarsi, commettendo il medesimo fatale errore di chi invece si batte per la brevettabilità del DNA umano, sui risvolti economico-industriali di una tale pronuncia giurisprudenziale.

Alexandra Sifferlin, infatti, sul Time , ha rinvenuto, tra i diversi motivi per cui si deve ritenere la predetta sentenza come “monumentale”, la possibilità di una migliore concorrenza nel testing genetico e una maggiore libertà di innovare messa adesso a disposizione delle imprese biotecnologiche. Occorre quindi mettere esattamente a fuoco l’intera questione. Con la altrettanto storica sentenza Diamond vs Chakrabarty  la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva aperto la strada, negli anni ’80, alla brevettabilità del vivente, alla pari di qualunque manufatto, purché il vivente da brevettare fosse il risultato di una manipolazione da parte dell’uomo e non un qualcosa di già esistente in natura. Per la prima volta veniva timidamente ad affermarsi nell’ordinamento statunitense il sottile discrimine tra invenzione e scoperta, distinzione che invece in Europa ha sempre avuto ampio riconoscimento teoretico e giuridico.

Con la recente sentenza sulla Myriad la Corte Suprema statunitense ha sancito che il DNA umano non è brevettabile poiché è qualcosa che esiste in natura e che in quanto tale, sebbene oggetto di studio da parte dell’uomo, non costituisce il risultato di una manipolazione o creazione artificiale. Brevettare i geni, del resto, comporterebbe la possibilità di utilizzare in regime sostanzialmente monopolistico lo screening genetico e la terapia genica e farmacologica legata a quei geni che eventualmente fossero brevettati, con evidenti ricadute, più che economiche o industriali, più grevemente etiche e giuridiche. Sebbene già da tempo la brevettazione del mondo animale e vegetale sia considerata lecita, pur con diversi limiti che in questa sede non è possibile esaminare in dettaglio, è anche vero che il tentativo ripetuto nel corso degli ultimi decenni di brevettare il DNA umano indica la fase ultimale dia una errata idea dell’uomo che si è affermata nel mondo occidentale.

Pur non essendo l’essere umano riducibile al suo DNA, come a nessuno dei suoi organi, similmente alla circostanza per cui l’anima non risieda concretamente in nessuna parte specifica del corpo, occorre evidenziare quanto sia ugualmente contrario alla dignità umana il concreto sviluppo di tecniche scientifiche e istituti giuridici che consentano di utilizzare parti umane, o perfino l’uomo nella sua interezza, non tanto e non solo ai fini della mera ricerca, ma addirittura per scopi di carattere prettamente economico-industriale. Secondo la migliore dottrina giuridica (Vanzetti – Di Cataldo), il brevetto è un contratto tra l’inventore e la società, con cui il primo mette a disposizione i risultati del proprio lavoro (in termini di innovazione, potenziamento, sviluppo tecnologico ecc ) e la seconda, invece, garantisce che solo l’inventore potrà ricevere i benefici economici dello sfruttamento della propria invenzione. Il problema è proprio questo; per i principi generali del diritto un contratto per essere valido non può avere un oggetto illecito o contrario a norme imperative, ordine pubblico o buon costume. Come si evince, fare dell’essere umano o di sue parti ( si pensi alla compravendita di organi così come liberalizzata da qualche anno dal Parlamento di Singapore ) l’oggetto di un contratto significa contrastare tutti i requisiti presupposti per la validità del contratto stesso.

Del resto, proprio adottando un’etica fondata sulla ragione e sull’autonomia, cioè l’etica kantiana, si scopre che l’uomo in quanto tale ha una sua dignità e, kantianamente, ciò che ha una dignità non ha un prezzo. Nikolaj Berdjaev criticando sia l’individualismo capitalistico, sia il collettivismo socialista, ha ben ricordato che nel mondo contemporaneo, in cui la dimensione economicistica assurge a predominante chiave ermeneutica della realtà, «l’uomo è trasformato in una categoria economica […], diventa uno strumento della collettività sociale e del suo sviluppo». In quest’ottica anche l’uomo viene utilizzato quale risorsa economica da poter sfruttare. Accettando questa prospettiva, ovviamente, si comincerebbe a percorrere una strada, l’ennesima del mondo contemporaneo, in grado di mettere a rischio la “libertà genomica” delle generazioni future, come, tra i tanti, hanno osservato  due ricercatori della Cornell University di New York.

Sarebbe, tuttavia, più opportuno riflettere più che sui rischi, comunque verosimili, a cui è esposta la libertà genomica dell’uomo, su quelli riguardanti la “genetica” libertà umana che per l’appunto assurge a criterio fondamentale di distinzione dell’uomo dal resto del creato animanto o inanimato. Infatti, la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di negare la brevettabilità del DNA umano ( ammettendo semmai solo quella del DNA artificiale ), non significa tanto ridurre la natura dell’uomo a quella del suo codice genetico, ma riaffermare proprio che la natura della persona, cominciando dal suo codice genetico, non può essere considerata alla stregua di quella di tutto il resto, che cioè, in conclusione, la persona in quanto tale, come precisa sempre Berdjaev, «non è una categoria biologica o psicologica, ma una categoria etica e spirituale».

venerdì 21 giugno 2013

Le donne a cui è negato l’aborto? Vivono felici e contente - 20 giugno, 2013 - http://www.uccronline.it

Donna incinta

Qualche giorno fa il “New York Times” ha pubblicato un articolo dal titolo abbastanza inquietante: “Cosa succede alle donne a cui è negato l’aborto?”.

Si è cercato di rispondere alla domanda attraverso il “Turnaway Study”, uno studio realizzato da ricercatori dichiaratamente abortisti su 200 donne che hanno cercato l’aborto ma sono state respinte in quanto la gravidanza era troppo inoltrata per svolgere legalmente la procedura di uccisione del feto umano.

L’autore dell’articolo ha accompagnato il lettore attraverso la storia di S., una delle donne a cui è stata negata l’interruzione di gravidanza. Il lungo post parla di svariate tematiche arrivando poi a rivelare che oggi S. è una persona contenta e il suo bambino è «la cosa migliore che le sia mai accaduta. Lei dice: “è più che il mio migliore amico, più che l’amore della mia vita”. La donna ha realizzato quello che in termine tecnico si chiama “bonding”, ovvero il processo di formazione del legame tra i genitori e il loro bambino.

Quando l’autore dell’articolo ha raccontato questo a una delle autrici della ricerca, Diana Greene Foster, essa non si è affatto sorpresa. «Questo appare in linea con il nostro studio: circa il 5% delle donne a cui è stato rifiutato l’aborto, dopo aver avuto il bambino, ancora non desidera averlo. Mentre il resto di loro si assesta». Da questa sorprendente affermazione se ne ricava che il 95% delle donne a cui è stato negato l’aborto ha lo stesso futuro di S., ovvero contentezza e felicità materna.

E’ evidente che il “New York Times” ha dovuto subito cercare di negare con varie teorie questa frase, dando la parola ad un bioeticista pro-choice, Katie Watson, il quale ha accusato queste donne di mentire a loro stesse e alla società: «psicologicamente è nel nostro interesse raccontare una storia positiva e andare avanti». Ecco che entra in campo l’ideologia: non si ascoltano le donne ma la teoria e se i fatti la negano, tanto peggio per i fatti. Eppure non erano proprio i pro-choice a sbandierare il loro attivismo come fosse a favore della donna?

La redazione