venerdì 29 novembre 2013

Morte agli innocenti: eutanasia dei bambini in Belgio di Tommaso Scandroglio, 29-11-2013, http://www.lanuovabq.it/

Il Belgio ha battuto un funereo primato: è diventato il primo paese al mondo che consente di praticare l’eutanasia anche sui bambini, senza limiti di età. E così la vita in Belgio può essere interrotta senza soluzione di continuità dal concepimento fino ai 99 anni.

EutanasiaL’estensione anche ai minori e – così si sta tentando - alle persone affette da demenza della legge del 2002 sull’eutanasia è stata decisa mercoledì dalle Commissioni Giustizia e Affari sociali con 13 voti a favore e 4 contrari (i cristiano-democratici francofoni e fiamminghi e i membri del partito di estrema destra fiammingo).

Entro fine maggio il Senato dovrà esprimersi, ma il risultato è pressoché scontato e la legge quasi certamente passerà.

La proposta di legge, nata in seno al partito socialista, prevede che i medici, una volta ottenuto il consenso di entrambi genitori o dei rappresentanti legali del minore, potranno porre «fine alla vita di un bambino, qualora si trovi in una situazione medica senza uscita, in uno stato di sofferenza fisica costante e insopportabile, e che presenti una domanda di eutanasia». Oltre a ciò è richiesto che versi in uno “stadio terminale” della malattia.

Inizialmente il testo prevedeva che lo stato di sofferenza non fosse soltanto fisico ma anche psichico, ma questa ultima circostanza è stata omessa. In realtà si tratta di una foglia di fico: perché la sofferenza, anche quella generata da un malessere fisico, è uno stato psichico e dunque sperimentabile misurabile solo dal soggetto stesso. Ciò a dire che qualsiasi pur lieve patologia potrà essere percepita dal piccolo paziente come “insopportabile” e quindi risultare motivo sufficiente perché i genitori chiedano l’eutanasia.

In merito poi al requisito che prevede che sia il minore a chiedere di morire – minore che non può acquistare un’auto ma che può decidere di farla finita - un’equipe di psicologi e psichiatri dovranno valutare la «capacità di discernimento» del minore con la «garanzia che ciò che esprime sia ciò che comprende». Ovvio che gli ermeneuti del disagio infantile vedranno in una qualsiasi e innocua smorfia di dolore una dichiarata volontà di morte.

Senza poi contare il fatto che a nessun bambino viene in mente di chiedere di morire. Ma i legislatori belgi hanno pensato pure a questo: il minore dovrà essere edotto anche su tale possibilità. È evidente che l’azione di suggestione su un bambino è facilissima da attuarsi.

All’inizio di novembre un comunicato congiunto dei principali leader religiosi aveva attaccato la proposta di legge: «L'eutanasia di persone vulnerabili, bambini o persone con demenza è una contraddizione radicale del loro status di esseri umani».

La cosiddetta “dolce morte” in Belgio è legale dal 2002. Lo scorso anno si è verificata un’impennata delle morti per eutanasia del 25% rispetto all’anno precedente. Siamo passati dai 235 decessi del primo anno di introduzione della legge ai 1.432 del 2012. Hanno avuto libero accesso anche i detenuti, quasi una decina (d’altronde il carcere non è una pena?), e i disabili.

La pratica eutanasica si tenta di venderla addirittura non come se fosse l’extrema ratio di fronte ad una situazione intollerabile, bensì come atto ricco di umanità proprio del buon samaritano. Infatti a maggio di quest’anno alcuni medici belgi presenti alla 21° Conferenza di Chirurgia Toracica Generale a Birmingham proposero che l’eutanasia venisse diffusa come pratica utile per reperire organi umani.

Nei lavori preparatori della Commissioni parlamentari sono intervenuti il dott. Jan Barnheim, il quale ha reso noto che anche le infermiere ormai praticano l’eutanasia ai pazienti, Alex Schandeberg della Euthanasia Prevention Coalition e il prof. Etienne Veermersch il padre delle leggi su aborto e eutanasia in Belgio. Veermersch – ex seminarista gesuita e sostenitore di una legge sulla pedofilia - ha detto che occorre modificare la legge esistente «per consentire di praticare l’eutanasia sugli handicappati» e che «la paralisi dà diritto all’eutanasia». Chiede che venga abolito il giuramento di Ippocrate e che tutti gli ospedali anche quelli cattolici debbano fornire i servizi abortivi. È un vecchio malthusiano convinto della bontà delle decrescita della popolazione: «È assolutamente immorale che chiunque possa avere dei figli se lo vuole». Propone anche un incentivo per chi non fa figli: «Premi alle donne che si sottopongono alla sterilizzazione»: la chiama “coercizione lieve”. Chiaro è che Veermersch ha visto nella proposta di estendere anche ai minori l’eutanasia una ghiotta opportunità per diminuire il numero di bocche, seppur piccole, che questo esausto pianeta deve sfamare.

Il cardinale Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita, intervistato da Radio Vaticana ha così commentato l’approvazione del testo da parte delle commissioni parlamentari: «È un salto. Un salto abissale, sotto il livello di civiltà, di umanità. […] Se si giustifica un intervento umanitario, anche armato, per fermare la lesione dei diritti umani, qui c’è da mobilitare se non altro le coscienze». E in merito alla verifica da parte di uno psicologo che il bambino sia cosciente di quello che sta chiedendo, il cardinale puntualizza che «chiunque sia a certificarlo, non può certificare il diritto alla vita. Io non ho visto mai che ad una persona che sta per suicidarsi buttandosi da un ponte, gli si vada a chiamare lo psicologo».

È comprensibile che lo sconcerto, non solo in casa cattolica, sia grande, ma in fondo non stupisce più di tanto questa mossa del Belgio, in un certo qual modo anticipata dall’Olanda dove è possibile sopprimere i bambini fino al 12° anno di età. Non stupisce perché laddove si pone come unico criterio quello della qualità della vita e non quello dell’intrinseca preziosità della persona umana allora, per logica, il criterio dell’età appare meramente accessorio. Se le porte dell’eutanasia per gli adulti si possono aprire allorquando la propria esistenza è percepita come un peso perché non estendere questo criterio anche ai bambini? Forse che questi non soffrono come soffrono gli adulti, anzi in modo ancor più acuto? Se il dolore promette ad una piccola creatura di accompagnarlo per tutta la sua vita, non è meglio intervenire il prima possibile per togliergli questa molesta compagnia?

martedì 26 novembre 2013

Storia della Neuroetica (10) di Alberto Carrara, LC

lunedì 25 novembre 2013


Definizioni di Neuroetica

A questo punto è utile esporre la definizione “classica” di questa pseudo-disciplina, la Neuroetica. Mi riferisco all’apporto del politologo americano William Safire che nel 2002 definì la Neuroetica “lo studio di ciò che è corretto o incorretto, di buono o cattivo, circa il trattamento, il perfezionamento, gli interventi o le manipolazioni del cervello umano” 54.

Una prima definizione di Neuroetica può essere ricercata già a partire dalla finalità stessa dei numerosi studi promossi dagli anni ’70 dall’ Hastings Center: esaminare i problemi etici relativi agli interventi chirurgici e farmacologici sul cervello umano.
William Safire consideraba, come molti altri al suo tempo, la Neuroetica, exclusivamente come sottocategoria dell’ampio campo di riflessione della Bioetica che si interessa di stabilire ciò che è lecito, ciò che si può fare, rispetto alla terapia o al miglioramento delle funzioni cerebrali, come pure di giudicare le diverse modalità di manipolazione del cervello umano.


All’interno dello stesso scenario delle riunioni di San Francisco del 2002, Steve J. Marcus esplicitò ulteriormente la finalità propria della Neuroetica affermando: “la neuroetica dovrebbe esaminare in che modo i medici, i giudici, gli avvocati, i dirigenti di compagnie assicurative e i politici, come pure la società in generale, si rapportano ai risultati neuroscientifici”.


Sono convinto della necessità di aprire maggiormente l’ambito e il campo d’azione della Neuroetica includendo una forma “amplia” di definizione, come fa per esempio, la divulgatrice scientifica Kemi Bevington nel suo articolo Mindless Entertainment in the Neuroethics Era: A Review of Eternal Sunshine af the Spotless Mind pubblicato dal Center for Bioethics and Human Dignity. In questo lavoro, la Neuroetica viene definita come lo studio delle questioni etiche, legali e sociali che scaturiscono quando gli sviluppi scientifici relativi al cervello giungono alla pratica clinica o a conclusioni interpretative di ordine legale, politico o sociale.
Man mano che la neuroscienza avanza in territori di ricerca prima inesplorati, aumenta il numero e la complessità delle domande etiche relative alla responsabilità morale e all’identità stessa dell’essere umano.

A mò di riassunto sintetico sui diversi temi della Neuroetica, consiglio la lettura del volume monografico dell’estate 2012 della Mind and Brain Society (MBS) dedicato all’argomento 55 come pure la “voce” Neuroetica curata da Sergio Sánchez-Migallón Granados e José Manuel Giménez Amaya 56.

… (continua lunedì prossimo)


54 Cf. W. Safire, «Visions for a new field of “neuroethics”», Neuroethics. Mapping the Field. Conference Proceedings, Dana Press, New York 2002.
55 Cf. Mind and Brain Society, The Nerve, Winter 2012, Vol. 3, Issue 1, Boston University; http://www.bu.edu/mbs/files/2013/01/TheNerve_JF2012030112-2.pdf.

56 http://www.philosophica.info/voces/neuroetica/Neuroetica.html. 

mercoledì 20 novembre 2013

Storia della Neuroetica (9)

lunedì 18 novembre 2013
di Alberto Carrara, LC

Il termine neurobioetica, che invece vuol sottolineare la centralità della persona umana in ambito di ricerca neuroscientifica, è stato coniato ed utilizzato per la prima volta nel 2005 dal neuroscienziato James Giordano.

Il 10 marzo del 2009, presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma, sorse il Gruppo di Neurobioetica, una realtà costituita da professionisti e studiosi provenienti da diversi ambiti che attraverso una metodologia di approccio pluri e interdisciplinare affrontano sia le questioni etiche delle Neuroscienze, come pure le Neuroscienze dell’etica51.

Altre date salienti nella storia della Neuroetica riguardano le numerose conferenze e riunioni in merito che hanno proliferato dal maggio 2002 ad oggi.

Come non ricordare le primissime degli anni 2002 organizzate dall’American Association for the Advancement of Science, attraverso la rivista Neuron, e che ha intitolato l’evento Understanding the Neural Basis of Complex Behaviors: The Implications for Science and Society. Altre importanti tappe di consolidamento della Neuroetica furono le conferenze organizzate dalla Royal Institution di Londra sul tema: Neuroscience Future. Grazie a questi eventi si scatenò un vero e proprio interesse a livello mediatico sulle implicazioni etiche delle applicazioni all’essere umano delle neurotecnologie.

La rivista Neuron uscì con un articolo storico firmato della neuroscienziata e filosofa Adina Roskies52. Oltre a ciò, nella rivista britannica The Economist uscirono una serie di articoli monografici sul cervello dove venivano messe in evidenza le conseguenze etiche di detti studi neuroscientifici (2 maggio 2002). Il 16 maggio 2002 il The New York Times pubblicò un editoriale dello stesso William Safire in merito.

Nel 2003 avvenne un fatto importante per la storia della Neuroetica: la Society for Neuroscience organizzò, per la prima volta, una conferenza sulla neuroetica e nel 2005 la stessa società iniziò una serie di incontri pubblici sull’impatto della ricerca neuroscientifica a livello sociale.


Nello stesso anno, 2005, il neuroscienziato James Giordano conia il neologismo neurobioethics volendo sottolineare la centralità dell’individuo umano nel contesto della discussione neuroscientifica53. Giordano vuole integrare la riflessione sul cervello nella cornice più ampia dell’intero sistema vitale e biologico dell’essere umano, senza dimenticare o tralasciare la sua intrinseca relazionalità all’ambiente esterno: sociale e culturale.

Non si può non menzionare in questo contesto storico la “creazione”, presso la città californiana di Asilomar, nel 2006, della Neuroethics Society. Questa società conta con un nutrito gruppo di studiosi, scienziati, clinici che, insieme ad altri professionisti, condividono uno stesso interesse comune che mira a mettere in luce le ripercussioni sociali, legali, etiche e politiche degli sviluppi delle neuroscienze.

Infine, bisogna far menzione che dal marzo 2008, l’editoriale Springer iniziò a pubblicare una rivista specialistica intitolata Neuroethics, sotto la direzione del professor Neil Levy.



50 Cf. W. Safire, «Visions for a new field of “neuroethics”», in: S. Marcus (ed.), Neuroethics: Mapping the Field. Conference Proceedings, Dana Press, New York 2002, 3-9.
51 Sito ufficiale del Gruppo di Neurobioetica (GdN): http://www.neurobioetica.it/; http://www.uprait.org/index.php?option=com_content&view=article&id=358&phpMyAdmin=6f4b7ccc14574744aeb2b4ccda244025&Itemid=234&lang=it; si può leggere l’interessante Editoriale della rivista Studia Bioethica a mò di inquadramento sulla Neurobioetica: http://www.uprait.org/sb/index.php/bioethica/article/viewFile/517/380; il GdN è parte dell’UNESCO Chair in Bioethics and Human Rights: http://www.unescobiochair.org/index.php?option=com_content&view=article&id=53&Itemid=28; a coronamento dei primi 3 anni di attività (2009-2012) è stato organizzato un Corso Estivo di Approfondimento di due settimane nel 2012: http://www.uprait.org/index.php?option=com_eventlist&view=details&id=223; si può consultare l’intervista che mi è stata fatta: http://www.zenit.org/it/articles/la-persona-al-centro-della-neurobioetica; a questo riguardo si possono scaricare i poster riassuntivi dell’attività del Gruppo di Neurobioetica (GdN) ai seguenti indirizzi: http://f1000.com/posters/browse/summary/1089636; http://cdn.f1000.com/posters/docs/251651915; http://cdn.f1000.com/posters/docs/108805818; le attività del GdN dal 2009 al 2011 sono riassunte in questo breve articolo in lingua inglese: http://www.regnumchristi.org/english/articulos/articulo.phtml?se=364&ca=118&te=782&id=33232.
52 Cf. A. L. Roskies, «Neuroethics for the new millennium», Neuron 35, 2002, 21-23; si può anche consultare per approfondimenti ulteriori: A. L. Roskies, «What’s New in Neuroethics», in: J. Binckle (ed.), The Oxford Handbook of Philosophy and Neuroscience, Oxford University Press, Oxford 2009, 454-470; A. L. Roskies, «Che cos’è la neuroetica?», in: V. A. Sironi – M. Di Francesco (a cura di), Neuroetica. La nuova sfida delle neuroscienze, Laterza, Bari 2011, 21-42.
53 http://www.neurobioethics.com/; http://neurobioethics.wordpress.com/. 

venerdì 15 novembre 2013

Bologna. Bambina di tre anni affidata a coppia gay, 15 novembre 2013 - http://www.tempi.it


adozioni gay


L’adozione in Italia a coppie omosessuali è vietata, ma forzando l’interpretazione, il giudice ha deciso che, nel caso dell’affidamento, la minore poteva essere affidata ai due omosessuali.
adozioni gay. Il Tribunale dei minori di Bologna ha deciso di dare in affidamento temporaneo una bambina di tre anni a una coppia omosessuale. Si tratta di una decisione decisamente sorprendente, presa dal Tribunale presieduto da Giuseppe Spadaro che ha scelto di affidare la minore a due uomini di mezza età che, racconta il Corriere della Sera edizione di Bologna, sono descritti come «coppia solida». Tale affidamento è stato caldeggiato anche dai servizi sociali.
L’adozione in Italia a coppie omosessuali è vietata, ma forzando l’interpretazione, il giudice ha deciso che, nel caso dell’affidamento, la minore poteva essere affidata ai due omosessuali. Secondo il Corriere, il Tribunale ha valutato di poter compiere questo passo in forza di una sentenza di gennaio della Corte di Cassazione che aveva sancito «il diritto di una coppia di donne all’affidamento del figlio minore di una delle due partner. Per la Corte (Prima sezione civile) è un “mero pregiudizio” sostenere che “sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale”». Quel caso, però era diverso dall’attuale perché si trattava di una coppia di lesbiche in cui una delle due donne era anche la madre biologica del minore. Allora il padre, un islamico, si era opposto, invano. Ora, è possibile che la Procura minorile di Bologna («che già aveva espresso parere contrario all’affidamento ai due uomini») decida di opporsi.

La responsabilità colpevole tra libero arbitrio e neodeterminismo biologico. Profili psicologici e forensi dei nuovi strumenti delle neuroscienze.



ABSTRACT
I nuovi strumenti delle Neuroscienze hanno acquisito, negli ultimi anni, una posizione di sempre maggior rilievo nel campo delle Scienze Forensi, modificando entità e natura del loro contributo al Sistema Giustizia, che si trova così di fronte alla riproposizione di interrogativi riguardanti l’oggetto, i mezzi ed i criteri di conduzione dell’indagine sullo stato mentale del reo.
Gli autori, da prospettive in costante relazione, tentano di rispondere a queste domande, approfondendo il rapporto tra libero arbitrio e responsabilità colpevole, anche alla luce delle più recenti innovazioni della clinica.
La disamina è frutto di una corposa opera di ricerca multidisciplinare, alla quale ha fatto seguito un confronto teso ad evidenziare i punti di contatto della riflessioni dei singoli studiosi, conducendo, poi, a delle conclusioni condivise.

Per visualizzare il testo integrale dell'articolo clikkare qui.

L’emergenza educativa ormai è un allarme: la scuola è in preda alla «pseudoscienza del genere», 15 novembre 2013 - http://www.tempi.it

legge-omofobia-manif-pour-tous-italia-5-agosto_1


L’appello dell’Osservatorio Van Thuan: «Non ci si limita a prescindere dalla natura umana, la si vuole trasformare e ri-creare. I genitori stanno perdendo la libertà di educare l’identità dei figli: mobilitarsi è un atto di carità, non solo di verità»gay-pride-bambino-hPubblichiamo il comunicato stampa dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa, presieduto da monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste.
Le notizie che giungono dal fronte dell’educazione ci dicono che un grande cambiamento è in atto rispetto a quanto ormai siamo soliti chiamare “emergenza educativa”. Il primo a parlare di emergenza educativa è stato, come si ricorderà, Benedetto XVI. Il 21 gennaio 2008, nella Lettera alla diocesi di Roma sui problemi dell’educazione, egli disse che le difficoltà ad educare da parte della famiglia, della scuola e della società intera derivano dal fatto che non si sa più chi educare e a cosa educare. Derivano da «una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di certo, regole di comportamento, obiettivi credibili intorno ai quali costruire la propria vita».
Ora, l’accelerazione dei fenomeni di degenerazione nell’educazione ha superato questa visione. Il fronte dell’emergenza educativa è ormai diventato un altro, al punto che bisogna ormai parlare di nuova emergenza educativa o, meglio, di allarme educativo.
Il fatto nuovo è stata l’irruzione dell’ideologia del gender nell’educazione, soprattutto nelle scuole.
scuola-francia-uguaglianza-genereLa Francia, dopo l’approvazione della “Charte de la laïcité” predisposta dal ministro Peillon, si prepara ad introdurre nei licei, a partire dal 2015, un’ora di insegnamento di “morale laica”. Lo Stato impone una propria religione civile ed una propria etica pubblica tese a riplasmare i cittadini, secondo gli insegnamenti di Rousseau.
In Italia, la “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”, elaborata dal Ministero per le pari opportunità e dall’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali a difesa delle differenze), sta producendo i suoi effetti nelle scuole: i corsi per docenti sono impostati secondo l’ideologia del gender. A ciò contribuisce la RE.A.DY, la Rete delle pubbliche amministrazioni contro le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere, che fornisce sostegno e patrocinio. Sul piano locale c’è una collaborazione educativa ideologicamente orientata tra aziende sanitarie locali, comuni, scuole statali e associazioni Lgbt.
Il governo attualmente in carica in Italia ha approvato un decreto, che ha superato l’esame della Camera ed ora è in discussione al Senato, che destina risorse per 10 milioni di euro nel 2014 per la formazione dei docenti al «superamento degli stereotipi di genere».
legge-omofobia-manif-pour-tous-italia-5-agosto_1La legge cosiddetta sull’omofobia, anche questa già approvata alla Camera ed ora in discussione al Senato, se approvata, creerebbe un quadro di intolleranza ideologica e, insieme al decreto suddetto, stabilirebbe nella scuola un clima culturale di completa estromissione della famiglia. Diventerebbe impossibile educare alla famiglia naturale.
Un ulteriore allarme deriva da come viene attuata l’educazione sessuale nelle scuole italiane. Prevale un pensiero unico basato su contraccezione e aborto a cui ora si aggiunge l’ideologia gender. Nel Discorso al Corpo diplomatico del 10 gennaio 2011, Benedetto XVI aveva detto: «Non posso passare sotto silenzio un’altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, là dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un’antropologia contraria alla fede e alla retta ragione».
Comincia anche ed esserci un allarme libri di testo. Durante la discussione alla Camera del Parlamento italiano del suddetto decreto scuola, il governo ha fatto proprio un ordine del giorno che introduce il rispetto del codice delle pari opportunità nei libri di testo. In Francia c’è già stato un grande dibattito negli anni scorsi che tuttora continua, ma la cosa comincia a preoccupare seriamente anche in Italia. Questo è sempre stato un problema, data la forte caratterizzazione ideologica di molti libri che si usano nella scuola italiana, ma ora la cosa si fa allarmante in quanto i manuali scientifici sempre più veicolano una pseudoscienza del gender.
La nascita di scuole materne in cui bambini e bambine non sono aiutati a coltivare correttamente la propria identità sessuata, ma educati in modo “neutro” in attesa che siano loro, in futuro, a scegliere; la diffusione di favole per bambini o di spettacoli e sceneggiati per le scuole in cui il naturale approccio alla diversità sessuale viene stravolto in base alla nuova ideologia gender; la pianificazione centralizzata da parte dei governi di una educazione sessuale praticata in modo discutibile fin dai primissimi anni di vita, come previsto dagli orientamenti dell’OMS-Europa, tutto questo getta una luce molto inquietante sulla educazione dei nostri figli, davanti a cui nessuno può ritenere di poter tacere.
preservativoQuesti fenomeni hanno trasformato l’emergenza educativa in allarme educativo. Non si tratta più solo di non sapere chi sia l’uomo da educare, il fatto nuovo è che si pretende di saperlo benissimo. Non ci si astiene dall’educare, abbandonando i bambini e i giovani a se stessi, ma si agisce attivamente per educare contro natura. Non ci si limita a prescindere dalla natura umana, la si vuole trasformare e ri-creare.
Lo smarrimento educativo, la fiacchezza, lo sconforto di tanti educatori, che Benedetto XVI ha descritto benissimo parlando dell’emergenza educativa nella Lettera del 2008, oggi è qualcosa di ben più grave: si rischia l’accondiscendenza passiva ad una contro-educazione. Ed infatti, i gravissimi casi che abbiamo nominato sopra non hanno visto grandi proteste o levate di scudi, se non quelle di alcune agenzie di informazione e di associazioni che si stanno faticosamente mobilitando.
Davanti a questa nuova situazione, il nostro Osservatorio fa tre riflessioni.
La prima è che si ripropone in modo nuovo il problema della concreta libertà di educazione. È questo un argomento che di solito emerge solo in situazioni di difficoltà economica delle scuole non statali. Il popolo cattolico deve sentire in profondità l’importanza formidabile di questa libertà e venire adeguatamente educato a sentirla. Il fronte laico lo considera un terreno pericoloso. Davanti ai pericoli gravissimi che l’allarme educativo fa trapelare, la lotta per la libertà di educazione deve essere posta in primo piano e condotta con costanza e consapevolezza. I genitori stanno perdendo la possibilità di educare i loro figli non su cose di marginale importanza ma sulla identità della natura umana.
La seconda osservazione è che siamo davanti ad una logica a suo modo coerente e rigorosa. In molti pensano che possa darsi una laicità moderata ed aperta. Ma davanti a questi fenomeni, che ormai interessano non solo le nazioni rette da sistemi “giacobini”, ma anche quelle caratterizzate in origine o in passato da un rispettoso equilibrio tra politica e religione, si constata che la moderazione può anche darsi in via temporanea e in alcune contingenze, ma che, una volta eliminato Dio dalla pubblica piazza, si procede coerentemente con l’eliminazione dell’umano. È una secolarizzazione sempre più esigente e aggressiva, che spesso invece viene scambiata per semplice laicità.
La terza osservazione è di invito alla mobilitazione. I cattolici, come del resto ogni persona emancipata dalle sirene del proprio tempo, non possono girarsi dall’altra parte. Si tratta, in questo caso, di una grande testimonianza di carità che ci viene richiesta. Sì, di carità e non solo di verità.
Trieste, 15 novembre 2013

mercoledì 13 novembre 2013

Cure palliative: sollievo dal dolore, per non soffrire inutilmente - http://www.zenit.org/


Intervista con la professoressa Valeria Ascheri in occasione della Giornata Nazionale delle Cure Palliative, che si celebra domani, lunedì 11 di novembre


Roma, 10 Novembre 2013 (Zenit.org) Laura Guadalupi | 161 hits

Quando tutto sembra perduto, quando la malattia non risponde alle terapie e non si può più guarire, c’è ancora tempo per prendere in mano la propria vita, accompagnandola verso l’epilogo finale con dignità. È l’alternativa offerta dalle Cure Palliative, il cui scopo non è accelerare o ritardare la morte, ma preservare la qualità della vita fino all’ultimo istante. Questo tipo di cura consiste nel controllo del dolore e nella risposta ai bisogni psicologici, sociali e spirituali del malato e della sua famiglia da parte di équipe di specialisti, spesso affiancati da volontari.

Approfondiamo la questione con Valeria Ascheri, docente di Filosofia all'Istituto Superiore di Scienze Religiose all'Apollinare della Pontificia Università della Santa Croce, che di recente ha svolto un lavoro di ricerca nell'area “Mass Media e Bioetica” presso la facoltà di Comunicazione Sociale Istituzionale della Pontificia Università della Santa Croce.

Chiunque sia  affetto da una malattia inguaribile in fase avanzata può avere accesso alle Cure Palliative, quindi non solo i malati oncologici. Inoltre, la Legge 38 del 2010 sancisce che le Cure Palliative rientrano nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza, ndr) e, quindi, sono garantite dal Sistema Sanitario Nazionale a titolo gratuito.

Ritiene che la popolazione sia sufficientemente informata sulle possibilità di sottoporsi a tali cure? Qual è la comunicazione che ne viene fatta sui mass media italiani?

Valeria Ascheri: Penso che una larga fetta della popolazione non ne sia ancora informata o, quanto meno, abbia un'informazione scarsa e confusa, nonostante le cure palliative siano oggi un diritto per ogni cittadino. Sui mass media si parla assai raramente di cure palliative e, quando accade, è di solito in programmi televisivi di approfondimento (spesso in onda a tarda notte o in orari molto mattutini) oppure su giornali e riviste specializzate o all'interno di pagine o rubriche dedicate alla salute. Sui quotidiani si trova qualche cenno nelle cronache locali, che informano su attività dei centri operanti nel territorio, specialmente in occasione di manifestazioni a scopo benefico oppure quando, purtroppo, mancano le risorse finanziarie per attivare qualche progetto o garantire l'assistenza ai malati.

Le cause dell'assenza delle cure palliative dall'agenda setting dei mass media sono molte, ma il motivo principale è che parlare di sofferenza, malattie inguaribili e morte è molto difficile e non attira né il pubblico, né, tantomeno, finanziamenti o sponsor. Insomma, le cure palliative non fanno audience e per questo l'argomento sofferenza-morte-cure palliative è rimasto l'ultimo “argomento-tabù”, di cui è meglio non parlare affatto, se non in qualche caso eclatante e, di norma, per raccontare storie drammatiche e molto singolari, dai toni esasperati e, a volte, anche disperati.

Il paziente può decidere di essere assistito in ospedale, in hospice, a domicilio o in altre strutture residenziali a seconda della regione. Qual è la scelta migliore?

Valeria Ascheri: Certamente per il paziente è meglio essere curato a casa, circondato dai suoi cari, continuando a vivere nel suo ambiente e mantenendo alcune abitudini quotidiane che tutti noi abbiamo. È questo lo spirito delle cure palliative: una medicina “olistica” che si prende cura della persona (patient centered), dell'uomo nella sua integralità, superando la visione della medicina che mira soltanto a guarire la malattia (desease centered), ossia il corpo dell'uomo. In poche parole, si tratta di passare dal to cure (curare una malattia) al to care (prendersi cura della persona). Per questa ragione, la soluzione migliore sono le cure al domicilio con l'assistenza di personale qualificato. Gli hospice sono certamente strutture che, a differenza degli ospedali, si pongono l'obiettivo di offrire ai loro ospiti tutto quello che possono desiderare e di cui hanno bisogno. Al di là dell'assistenza sanitaria infermieristica e fisioterapica e delle terapie per alleviare o ridurre il più possibile il dolore, cure palliative significa assistenza psicologica e spirituale, estesa anche ai familiari vicini al malato. Significa proporre al paziente attività distensive (artistiche, musicali, botaniche, ecc.) che lo possano impegnare e, allo stesso tempo, rasserenare, accompagnandolo, giorno dopo giorno, nella malattia e nel graduale congedo dalla vita e dagli affetti.  La qualità di vita di una persona non si misura soltanto in base al suo benessere fisico o all'efficienza personale, ma è molto di più, perché la persona non si riduce al suo corpo e la vita merita di essere vissuta fino alla fine nel migliore dei modi possibili.

Da tredici anni a questa parte, l’11 novembre si svolge  la “Giornata di San Martino”, iniziativa promossa dalla Federazione Cure Palliative (FCP). Di che si tratta?

Valeria Ascheri: Quest'anno si celebra la XIV Giornata Nazionale delle Cure Palliative: il pallium è il mantello di San Martino che simboleggia le cure palliative che avvolgono tutta la persona e la coprono dal freddo, mettendola al caldo. Il malato grave e terminale non soltanto soffre nel corpo per la sua specifica malattia, ma soffre in tutta la persona – solitudine, depressione, senso di abbandono e di inutilità, disperazione –  e ha bisogno di essere curato da tutti i punti di vista (total pain - total care).

In questa giornata, su tutto il territorio nazionale, si organizzano tantissimi eventi e campagne di informazione e sensibilizzazione, con lo scopo, almeno in questo giorno, di parlare di cure palliative in Italia e di far conoscere le diverse realtà (assistenza in ospedale, hospice, organizzazioni no profit, associazioni onlus, reti di volontari, purtroppo con una forte carenza al Sud rispetto al Centro Nord) e le loro attività. È un giorno molto importante perché, come dice il motto della campagna informativa del Ministero della Salute, lanciata nella scorsa primavera, ma poco nota, con “calore umano e scienza medica” si può essere “non più soli nel dolore”. Purtroppo, non lo si sa ancora abbastanza...

Scegliere San Martino ha un forte valore simbolico, che rimanda sia all’empatia con il sofferente, sia alla dimensione spirituale della morte. Le risultano storie di conversioni avvenute durante il percorso delle cure?

Valeria Ascheri: Sicuramente ci sarebbero moltissime storie da raccontare, rese possibili proprio grazie alle cure palliative, perché il malato è messo in condizione di pensare alla sua vita, affrontando la sofferenza in maniera adeguata. Accompagnato anche spiritualmente e circondato di attenzioni e affetto, molte volte trova Dio poco prima di incontrarlo faccia a faccia. Interessante, a questo riguardo, è la “Guida pratica per la cura spirituale della persona morente”, elaborata dalla Conferenza Episcopale di Inghilterra e Galles nel 2010 e che si può trovare tradotta in italiano nel libro di F. Cancelli, Vivere fino alla fine (2012). Il problema, se così vogliamo dire, è che queste storie sono strettamente personali e appartengono alla sfera spirituale, per cui ben pochi le raccontano, soprattutto al pubblico. Le cure palliative mancano di “testimonial mediatici” e questo fatto, seppur comprensibile, tuttavia va a incidere sull'aspetto comunicativo-divulgativo.

Posso, però, citare due testimonianze, non di conversione alla fede, ma di “storie di fine vita”, che meriterebbero di essere conosciute: si tratta del caso di una giovane donna toscana, Anna Lisa Russo (si può leggere il libro Toglietemi tutto tranne il sorriso, 2012) e del giornalista Gigi Ghirotti (1920-1974), in onore del quale, nel 1975, è stata costituita una fondazione intitolata a suo nome. Sono storie eroiche, molto diverse, ma contraddistinte entrambe dalla forza e dal sorriso che i protagonisti hanno avuto fino alla fine, storie che tutti, in primis i malati e i loro familiari, i medici e gli operatori sanitari, i politici e anche i giornalisti, dovrebbero conoscere, perché aiutano a capire quanto si possa ancora “fare” e “dare” da malati terminali.

Cosa si intende per “diritto a non soffrire” e cosa per “sollievo dal dolore”?

Valeria Ascheri: Ogni malato, seppur dichiarato inguaribile, ha diritto a non soffrire inutilmente, ossia più di quanto sia necessario e inevitabile. Oggi ci sono molte terapie e molti farmaci che aiutano a dare sollievo (la terapia del dolore, appunto) e che lasciano al malato la possibilità di vivere la malattia e gli ultimi mesi o giorni con i propri cari, magari portando avanti qualche 'sogno nel cassetto', come scrivere un libro, incontrare di nuovo un parente o amico lontano o con cui c’era stato un dissapore, pensare a come disporre dei propri beni, decidere di sposarsi (come ha fatto la già citata Anna Lisa Russo), laurearsi o conoscere un personaggio famoso (alcuni malati, ad esempio, esprimono il desiderio di incontrare il papa o un calciatore, un cantante o un attore e, non di rado, ci riescono).

Inoltre, non si può non ricordare che i farmaci e le terapie che alleviano il dolore sono assai meno costosi rispetto a quelli che mirano a guarire una malattia. Ciò è senz'altro un aiuto importante per i malati e le loro famiglie, già così duramente provati, ed è un argomento per sostenere la diffusione delle cure palliative. Per concludere, mi pare molto significativo che lo slogan della Giornata Nazionale di quest'anno sia incentrato proprio su questo aspetto: “Contro la sofferenza inutile della persona inguaribile”.

Com’è cambiato il ricorso alle Cure Palliative negli ultimi tredici anni?

Valeria Ascheri: In Italia c'è stata un'evoluzione certamente molto positiva che ha portato, nel marzo 2010, alla promulgazione della legge 38, in cui vengono sanciti il diritto e la gratuità dell'accesso a queste cure; l'Italia è ora un paese all'avanguardia dal punto di vista legislativo. Esistono due enti preposti a guidare la ricerca e i centri che se occupano: sono la Società Italiana di Cure Palliative (SICP), che pubblica anche la Rivista Italiana di Cure Palliative (RICP), e la Federazione Italiana Cure Palliative (FCP), promotrice della giornata di San Martino. Per merito della legge 38, l'utilizzo delle cure palliative è senz'altro in aumento, assieme all'apertura di nuovi hospice, di nuovi reparti all'interno di ospedali e alla nascita di nuove associazioni. Ciò avviene anche grazie a campagne volte a ottenere finanziamenti attraverso eventi organizzati a sfondo benefico o alla donazione del 5x1000 agli enti di volontariato che si dedicano alle cure palliative. Tuttavia, c'è ancora molto lavoro da fare, anche per ciò che riguarda i decreti attuativi della legge 38 e il riconoscimento della figura dello specialista in “cure palliative”. Infatti, soltanto a partire dal 2010 sono stati attivati corsi di specializzazione e master per “palliativisti” quando, in realtà, migliaia di persone lavorano da anni sul campo, garantendo lo sviluppo delle cure palliative nella fase pionieristica, ossia già prima della legge 38.

Siamo entrati in una nuova fase importante perché, grazie all'approvazione legislativa, oggi le cure palliative sono in condizione di diventare sempre più note, accessibili, e possono rompere quel tabù che ancora “frena” la loro piena diffusione. Si stima che, in Italia, i malati terminali (pazienti oncologici o con patologie neurologiche o vascolari) siano circa 250.000 ogni anno, di cui 11.000 bambini. Purtroppo, soltanto il 40% di questi accede alle cure palliative.

(10 Novembre 2013) © Innovative Media Inc.

Storia della Neuroetica (8), di Alberto Carrara, LC, http://acarrara.blogspot.it/

Lunedì 11 novembre 2013


Continua la Rubrica del lunedì: Storia della Neuroetica.



 Il termine neuroetica appare nella letteratura scientifica anglosassone sin dal 1973. È la professoressa della Scuola di Medicina di Harvard, Anneliese A. Pontius che pubblicò per prima un articolo dal titolo: Neuro-ethics of “walking” in the newborn dove, oltre al titolo, il neologismo neuro-ethics appare alla fine del lavoro, nell’ultimo paragrafo, dove, in conclusione si afferma: «a new and neglected area of ethical concern-neuro-ethics»43. Su quest’aspetto della “narrativa” della neuroetica sto scrivendo un lavoro ringraziando sin d’ora, alcuni manoscritti inediti della stessa professoressa Pontius che mi ha voluto gentilmente offrire e che sostengono la tesi della “nascita” ufficiale del neologismo “neuroethics” al 1973, cioè 40 anni fa. La “neuroetica” compirebbe perciò quest’anno, 2013, 40 anni di vita. Questa tesi dev'essere ben esplicitata in un lavoro scientifico dimostrativo al quale sto lavorando. 


Il termine neuroetica ritorna nella letteratura scientifica nel novembre del 1989 in un contesto prettamente bioetico riguardante le decisioni sul fine vita. È il neurologo R. E. Cranford che in un articolo scientifico sulla rivista nordamericana Neurologic Clinics, utilizza, per la prima volta, l’accezione “neuroeticista” (neuroethicist), sancendo l’ingresso dei neurologi all’interno dei comitati etici ospedalieri; il neurologo, infatti, viene ora considerato come un vero e proprio “assessore etico” e, perciò, a tutti gli effetti, membro dei comitati etici istituzionali. 

Nell’articolo Cranford sostiene che, dato l’aumento delle problematiche etiche concernenti la pratica neurologica, la presenza di neurologi esperti, faciliterebbe la soluzione adeguata delle tematiche più spinose44. Si tratta, molto probabilmente, della prima volta che il termine “neuro” viene ad essere associato a quello di “etica”.

In ambito filosofico, il neologismo entra in scena per la prima volta nella discussione circa le prospettive filosofiche riguardanti il sé (Self) e il suo legame-rapporto col cervello. Due pubblicazioni risultano di estremo interesse per definire le “radici” della Neuroetica: la prima, è a carico della professoressa e filosofa Patricia Smith Churchland che nel 1991 pubblicò un articolo intitolato: Our brains, ourselves: reflections on neuroethical questions45. La Churchland ha “creato” una vera e propria interpretazione della filosofia in chiave neuroscientifica che ha “battezzato”: Neurofilosofia46.

La seconda pubblicazione d’interesse è quella della Pontius, professoressa di Medicina clinica presso l’Harvard Medical School la quale ha per prima coniato il termine “Neuro-Ethics” nel suo articolo del 1973 citato in precedenza; è lei stessa a ricordarlo in una nota ad un articolo pubblicato sul sito della prestigiosa DANA Foundation47. Nel 1993 la Pontius pubblicò un interessante articolo sul Psychilogical Report relativo agli aspetti neurofisiologici e neuropsicologici nello sviluppo ed educazione dei bambini48. La Pontius ha concentrato le sue ricerche sull’Educational Neuro-Ethics49.

Nonostante il concetto neuroetica fosse già ventilato in diversi ambiti del sapere, la “paternità” del neologismo viene attribuita storicamente alla prima definizione “canonica” risalente al maggio 2002. In questa data (13-14 maggio), a San Francisco (USA), si tenne il primo congresso mondiale di esperti intitolato: “Neuroethics: mapping the field”. In tale contesto in cui parteciparono oltre 150 esperti in neuroscienze, bioetica, psichiatria e psicologia, filosofia e diritto, William Safire, politologo del New York Times recentemente scomparso, suggerì la seguente definizione contemporanea di neuroetica definendola: «quella parte della bioetica che si interessa di stabilire ciò che è lecito, cioè, ciò che si può fare, rispetto alla terapia e al miglioramento delle funzioni cerebrali, così come si interessa di valutare le diverse forme di interventi e manipolazioni, spesso preoccupanti, compiuti sul cervello umano»50. I testi delle conferenze esposte in questo congresso, organizzato dalla DANA Foundation, dallo Stanford Center for Biomedical Ethics dell’Università di Stanford e dall’Università della California, sono stati raccolti dall’editore Steve J. Marcus nel libro omonimo: Neuroethics: mapping the fiel.

È perciò il 2002 che si considera l’anno fondativo della neuroetica e gli atti delle conferenze di San Francisco segnano la nascita di questa nuova pseudo-disciplina e ne sono l’emblema e il punto di riferimento privilegiato. L’anno scorso 2012, la neuroetica perciò ha festeggiato i suoi primi 10 anni di vita, almeno restando al 2002 come data simbolica di fondazione.



43 Cf. A. A. Pontius, «Neuro-ethics of “walking” in the newborn», Perceptual and Motor Skills 37 (1), 1973, 235-245; la frase citata è tratta dalla pagina 244; quest’articolo appare nella lista delle pubblicazioni della Pontius consultate al seguente sito: http://hsl.med.nyu.edu/facbib-results/author/pontia01?page=2&src=medical e può essere interamente scaricato in formato PDF al sito: http://www.amsciepub.com/doi/pdf/10.2466/pms.1973.37.1.235.
44 Cf. R.E. Cranford, «The Neurologist as Ethics Consultant and as a Member of the Institutional Ethics Committee. The Neuroethicist», Neurologic Clinics 7 (1989), 697-713.
45 Cf. P.S. Churchland, «Our Brains, Ourselves: Reflections on Neuroethical Questions», in: D.J. Roy – B.E. Winne – R.W. Old (a cura di), Bioscience and Society (Report of the Schering Workshop, Berlin 1990, November 25-30), Wiley and Sons, New York 1991, 77-96.
46 Cf. P.S. Churchland, Neurophilosophy: Toward a Unified Science of the Mind-Brain, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts 1989; Brain-Wise: Studies in Neurophilosophy, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts 2002; Braintrust. What Neuroscience Tells Us about Morality, Princeton University Press, 2011 (tradotto in italiano: Neurobiologia della morale, Raffaello Cortina, Milano 2012).
47 L’articolo firmato da Aalok Mehta del 15 giugno 2009 si intitola: “Neuroeducation” Emerges as Insight into Brain Development, Learning Abilities Grow e si può consultare al sito: http://www.dana.org/news/brainwork/detail.aspx?id=22372 dove, alla fine, si incontrerà la nota della professoressa Pontius.
48 Cf. A. A. Pontius, «Neuro-ethics vs. Neurophysiologically and neuropsychologically uninformed influence in child rearing, education, emerging hunter-gatherers, and artificial intelligence models of the brain», Psychological Reports 72 (2), 1993, 451-458; http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/8488227. Riporto l’abstract in inglese di quest’articolo per la sua rilevanza nella storia della Neuroetica: Potentially negative long-term consequences in four areas are emphasized, if specific neuromaturational, neurophysiological, and neuropsychological facts within a neurodevelopmental and ecological context are neglected in normal functional levels of child development and maturational lag of the frontal lobe system in “Attention Deficit Disorder,” in education (reading/writing and arithmetic), in assessment of cognitive functioning in hunter-gatherer populations, specifically modified in the service of their survival, and in constructing computer models of the brain, neglecting consciousness and intentionality as criticized recently by Searle.
49 Cf. A. A. Pontius, «Educational Neuro-Ethics», Medicine, Health Care and Philosophy 3 (3), 2000, 368;
questa citazione si riferisce ad un abstract all’interno del volume 3° di ottobre 2000 della medesima rivista intitolato: ESPMH Conference, Krakow 2000 – Abstracts (pagine 352-384), consultabile a pagamento al sito: http://link.springer.com/article/10.1023/A%3A1026543725164.


50 Cf. W. Safire, «Visions for a new field of “neuroethics”», in: S. Marcus (ed.), Neuroethics: Mapping the Field. Conference Proceedings, Dana Press, New York 2002, 3-9.

giovedì 7 novembre 2013

L’OMOGENITORIALITÁ OVVERO L’ADOZIONE OMOSESSUALE di Massimo Gandolfini * e Roberto Marchesini** - Newsletter di Scienza & Vita n. 69 di Ottobre 2013



I temi cosiddetti “eticamente sensibili” o della “biopolitica” suscitano, quasi visceralmente, reazioni di schieramento fra ideologie contrapposte, che impediscono che argomenti complessi e delicati vengano affrontati in spirito di ricerca, collaborazione e dialogo, utilizzando lo strumento più “neutro” di cui disponiamo: la ragione, che produce argomentazione razionale. Nella speranza che non sia l’ennesimo buco nell’acqua, proviamo ad affrontare il tema della omogenitorialità, evitando sia argomentazioni ideologiche o confessionali, sia schieramenti precostituiti politici o partitici. Negli ultimi anni, nel dibattito pubblico è stato introdotto il tema della cosiddetta “omogenitorialità”, da cui si vorrebbe derivare il diritto di adottare bambini da parte di coppie gay. Il fatto che le coppie eterosessuali lo possano fare e quelle omosessuali no, viene presentato come un’intollerabile discriminazione. Prescindendo dagli aspetti antropologici e giuridici (che non sono di poco conto), l’argomento “scientifico” che viene opposto è l’affermazione perentoria che esistono evidenze scientifiche che permettono di affermare che le coppie omosessuali sono parimenti idonee a quelle eterosessuali, ai fini dello sviluppo psicofisico e del benessere generale dei bambini. Questa tesi viene, di fatto, a contraddire e rigettare più di centocinquant’anni di studi in ambito di psicologia dell’età evolutiva, da Freud ai nostri giorni. Il presidente dell’Associazione Gay Net Italia, Franco Grillini, ha dichiarato che “… ci sono in Italia centomila bambini che crescono bene in coppie LGBT e, come dimostrano gli studi scientifici in materia, non c’è alcuna apprezzabile differenza nella crescita equilibrata con gli altri bimbi che vivono in coppie eterosessuali”. Del resto, sulla medesima lunghezza d’onda, ben più autorevoli voci si sono alzate; prima fra tutte quella della American Academy of Pediatrics ha dichiarato che: “una considerevole mole di letteratura professionale fornisce la prova che bambini con genitori omosessuali possono avere gli stessi benefici e le stesse aspettative in termini di salute, adattamento e sviluppo dei bambini i cui genitori sono eterosessuali”. La “considerevole mole” a supporto è rappresentata da nove studi, che è doveroso analizzare per farci una visione più ampia e documentata possibile. Il primo lavoro è una ricerca empirica nella quale genitori gay e lesbiche raccontano la loro esperienza personale con il sistema pediatrico americano, che giudicano in modo decisamente favorevole e soddisfacente, pur bisognoso di correggere qualche carenza marginale. Come si vede, viene trattato un aspetto dell’organizzazione sanitaria pediatrica americana che non ha nulla a che fare con il tema dell’omogenitorialità. Il secondo ed il terzo sono due “amicus brief” ad opera dell’American Psychological Association (APA) Per i non addetti ai lavori, un “amicus brief” è un saggio offerto spontaneamente al tribunale da parte di un terzo non parte in causa, inerente l’argomento in discussione. I due lavori citati e riportati, ad opera abbiamo detto dell’APA, riguardano, il primo, una madre lesbica (che aveva già una figlia) alla quale era stato negato l’affidamento ed il secondo un padre gay al quale la moglie voleva impedire le visite del figlio alla presenza del suo nuovo compagno omosessuale. Il quarto è un articolo nel quale gli stessi Autori (Melanie A. Gold, Ellen C. Perrin, Donna Futterman, Stanford B. Friedman) – pur traendo delle conclusioni favorevoli alle adozioni di coppie gay – dichiarano il valore oggettivo e scientifico assai limitato del loro studio, a causa di “campioni di piccole dimensioni, selezione di soggetti non casuale (significa che i soggetti in studio sono stati scelti non a caso – ndr), una gamma ristretta di contesti socioeconomici e razziali e la mancanza di follow-up longitudinali”. Il quinto riferimento bibliografico è rappresentato da una rassegna che l’autrice, dottoressa Fiona Tasker, dedica a due studi inglesi aventi le seguenti caratteristiche: - il primo, mette in comparazione un piccolo numero di 37 bimbi cresciuti con una coppia lesbica, con un gruppo di controllo rappresentato da 27 bimbi cresciuti con una madre sola (non con una coppia eterosessuale). Il metodo d’indagine e valutazione utilizzato dagli Autori è quello della “intervista semistrutturata” a madri e bambini; - il secondo, confronta due piccoli campioni (15 bimbi cresciuti da madri lesbiche e 15 bambini cresciuti da coppie lesbiche) con un gruppo di controllo decisamente “particolare”: 42 bimbi cresciuti con madri eterosessuali sole, 41 bimbi nati da inseminazione artificiale e cresciuti da coppie eterosessuali, 43 coppie eterosessuali con un figlio nato con tecniche di fecondazione artificiale. A completamento, si deve aggiungere che il gruppo delle madri lesbiche e quello delle madri sole erano composti da soggetti che si erano offerti volontari. Anche in questo caso, il metodo seguito è stato quello – assai controverso, perché molto poco oggettivo – dell’intervista semi-strutturata. Concludendo, l’Autrice – affermando l’assenza di differenze fra lo sviluppo dei piccoli appartenenti a tutti i gruppi in esame - deve ammettere che “è emersa una correlazione positiva fra autostima dei bimbi e presenza del padre”. Il sesto studio è una rassegna delle tre ricerche della dottoressa Charlotte Patterson, curata da lei stessa. Una sorta di “autocitazione”. La Dottoressa Patterson è una nota attivista lesbica, convivente con una compagna con la quale ha cresciuto tre figli. La prima ricerca è priva di qualsiasi valore oggettivo. Si tratta di una raccolta di interviste, senza alcun gruppo di controllo, “costruita su un campione non rappresentativo, arruolato attraverso il passaparola”. La seconda passa in rassegna un gruppo di 55 famiglie lesbiche e 25 famiglie eterosessuali che hanno avuto il figlio attraverso la Banca della Sperma della California, quindi attraverso fecondazione eterologa. La terza riporta il resoconto di 44 madri lesbiche conviventi ed un gruppo di controllo di 44 madri in coppie eterosessuali. Oggettivamente, solo a quest’ultimo studio si può attribuire qualche valenza di attendibilità, ma sempre con il grave limite di essere un campione assai – troppo – limitato per poter trarre conclusioni fondate. Ed ecco le conclusioni della dottoressa Patterson: “Che un effetto misurabile dell’orientamento sessuale dei genitori sullo sviluppo sessuale dei bambini sia dimostrato o meno, le principali conclusioni della ricerca condotta fino ad oggi restano chiare: qualunque correlazione possa esistere tra gli esiti sui bambini e l’orientamento sessuale dei genitori, è meno importante di quella fra i risultati dei bambini e la qualità della vita familiare”. E’ certamente un linguaggio criptico, ambiguo rispetto alla chiarezza della risposta che ci si aspettava e, soprattutto che sposta nettamente il fuoco del problema: s’introduce il dato della “qualità della vita familiare” e si passa in second’ordine il dato che ci interessava, cioè l’omogenitorialità, valore od ostacolo nella crescita armonica del bambino. Per completare la citazione della dottoressa Patterson è doveroso aggiungere che nel 1977 il Tribunale della Florida ha stabilito che: “…l’imparzialità della dottoressa Patterson è diventata discutibile quando prima del processo si è rifiutata di consegnare a suoi legali le copie della documentazione da lei utilizzata negli studi. .. La dottoressa Patterson ha testimoniato la sua propria condizione di lesbica e l’imputata ha sostenuto che la sua ricerca era probabilmente viziata dall’utilizzo di amici come soggetti per la ricerca stessa. Tale ipotesi ha acquisito ancor più credito in virtù della sua riluttanza a fornire i documenti ordinati”. Il settimo apporto bibliografico non andrebbe neppure citato per la sua palese insignificanza. Si tratta, infatti, di un libro-raccolta di interviste a genitori omosessuali e a figli di genitori omosessuali, nelle quali ognuno racconta sé stesso. L’ottavo è un studio che passa in rassegna 17 ricerche sulla genitorialità lesbica, e riguarda donne “giovani, bianche, di classe sociale medio-alta, di istruzione elevata, residenti in aree urbane ed aperte circa la loro condotta sessuale”. Si vede bene che non si tratta di un campione rappresentativo della popolazione. Il nono ed ultimo riferimento è un Technical Report dell’American Academy of Pediatrics (AAP), a firma Ellen Perrin. La conclusione non può non lasciare quantomeno perplessi per la sua intrinseca contraddittorietà: “I campioni piccoli e non rappresentativi presi in considerazione e l’età relativamente giovane della maggior parte dei bambini suggeriscono qualche riserva….non vi è alcuna differenza sistematica tra genitori gay e non-gay per salute emotiva, capacità genitoriali e atteggiamenti nei confronti della genitorialità”. I membri del consiglio dell’American College of Pediatricians hanno assunto una posizione molto critica nei confronti dell’ AAP, inviando alla redazione della rivista “Pediatrics” una lettera nella quale contestano le affermazioni a favore dell’omogenitorialità: “Troviamo questa posizione insostenibile e, qualora fosse attuata, gravemente dannosa per i bambini e la famiglia…. Siamo contrari a questa posizione per l’assenza di prove scientifiche a suo sostegno, e le potenziali conseguenze negative sui bambini. Concedere lo status di matrimonio legale alle unioni omosessuali sarebbe un tragico errore di calcolo, che porterà danni irreparabili alla società, alla famiglia e ai bambini”. Come si vede, “la considerevole mole di letteratura professionale” e “gli studi scientifici” invocati a sostegno della cultura LGBT è di indubbia scarsa rappresentatività e qualità scientifica, non fornisce alcuna prova oggettiva e non produce risultati univoci. Il millantato credito autoreferenziale soffoca ogni sforzo onesto di ricerca davvero scientifica, nella direzione del “miglior interesse” e del “miglior bene” possibile per il bimbo adottabile. A questo proposito - cioè che lo sforzo della società, in generale, e del legislatore, in particolare deve avere come scopo primario ed imprescindibile il maggior benessere per il bambino in stato di adattabilità - è utile riferirsi ad uno studio comparso su “Duke Journal of Gender Law & Policy” (volume 18, 2008), autore Richard E. Redding, che riesaminando la letteratura sull’omogenitorialità in prospettiva favorevole alla cultura gender, giunge alle seguenti conclusioni: - la letteratura sull’argomento è influenzata da un pregiudizio favorevole alle posizioni gender ( e ciò avviene in perfetta coerenza sia con l’orientamento “liberal” che caratterizza la psicologia e la psichiatria attuale, sia con il fatto che la maggior parte degli Autori è personalmente implicato in questo tema); - le ricerche indicano che i figli di coppie gay e lesbiche sviluppano un orientamento omosessuale (ma questo non è necessariamente un male); - la popolazione omosessuale ha un’incidenza maggiore di depressione, ansia ed abuso di sostanze , rispetto alla popolazione generale (ma non tutti i gay e le lesbiche soffrono di questi problemi); - la ricerca ha stabilito che una famiglia formata da un padre e da una madre conviventi è la miglior condizione nella quale i figli possano crescere (ma la legge non obbliga ad essere “genitori perfetti”). Quindi, in conclusione: “Al momento non possediamo un numero sufficiente di ricerche che consentano di concludere che crescere in una famiglia gay o lesbica non causa danni psicologici ai bambini. Ma questo è diverso dal concludere che crescere in una famiglia omosessuale è un’esperienza positiva per i bambini come lo è crescere in una famiglia eterosessuale”. Il sociologo Mark Regnerus, dell’Università del Texas, ha pubblicato una ricerca che ha coinvolto 3000 giovani, dai 18 ai 39 anni. Tra questi, 175 erano figli di donne coinvolte in una relazione omosessuale e 73 figli di uomini nella stessa condizione. Questo campione è stato confrontato con un gruppo di controllo formato da figli di genitori sposati conviventi, figli adottivi, figli di separati, figli di genitori risposati, figli di genitori soli. Sono emerse numerose differenze fra le varie categorie, e l’autore ne descrive ben 25. Il pregio di questo studio consiste nel fatto che si tratta di una ricerca unica per ampiezza del campione e per rigore scientifico, che non vuole giungere a conclusioni definitive, ma si limita ad esporre, circostanziandola con dati e numeri, la grande problematicità del tema. Ciononostante, Regnerus ed il suo lavoro sono stati duramente attaccati dalla lobby gay, che non tollera che si alzi anche una sola voce che esponga dubbi e criticità. Due le critiche sollevate: Regnerus è cattolico e lo studio è stato finanziato da due fondazioni di stampo conservatore; sono stati utilizzati figli di genitori coinvolti in una relazione omosessuale, anziché figli cresciuti in coppie omosessuali. Si è anche giunti a denunciare Regnerus di aver falsificato i dati, chiedendo all’Università del Texas di istituire una commissione d’inchiesta. Il responso finale della commissione è stato: “ .. la ricerca è stata gestita in modo coerente ed è in linea con i requisiti normativi federali, che regolano le indagini sulla cattiva condotta nella ricerca”. Contemporaneamente allo studio di Regnerus, sull’Elsevier’s Social Science Research (10.06.2012) veniva pubblicato un lavoro di Loren Marks, ricercatrice dell’Università della Lousiana, in cui veniva smontata l’affermazione dell’APA, secondo la quale “nessuno studio prova che i bambini di genitori gay o lesbiche sono svantaggiati rispetto ai bambini con genitori eterosessuali”. L’autrice ha analizzato rigorosamente la fonte scientifica di riferimento dell’APA, rappresentata da 59 studi. Questi i risultati: - dei 59 lavori, 26 sono descrizioni della vita dei bambini entro coppie gay, senza alcuna analisi comparativa con bambini cresciuti entro coppie eterosessuali; - dei 33 lavori che, invece, questo confronto lo compiono. 13 famiglie classificate come “eterosessuali” sono in realtà o madri single, o ragazze madri, o madri separate/divorziate; - negli ulteriori 20 lavori, non si specifica mai quale tipo di famiglia eterosessuale è in gioco: coppia sposata e convivente, coppia di fatto (stabile o occasionale), coppia proveniente da precedente divorzio, presenza di figli provenienti da precedenti relazioni, ecc… - le coppie omosessuali valutate sono principalmente rappresentate da lesbiche bianche, con alto grado d’istruzione, di classi sociali abbienti; le famiglie eterosessuali valutate sono principalmente monogenitoriali e monoreddito, medio-basso. La conclusione dello studio non ha per nulla i toni dello scontro o della faziosa contrapposizione. Ci si limita a dichiarare che: “E’ vero che gay e lesbiche possono essere buoni genitori … ma una stabile unione matrimoniale fra un padre ed una madre resta la forma sociale migliore per il bambino”. Abbiamo passato in rassegna gli studi più significativi, ma ne abbiamo analizzati numerosi altri, che per ragioni di spazio/tempo, necessariamente ridotti, è impossibile affrontare in dettaglio. Comunque, il “filo rosso” che lega tutti questi studi, può essere individuato in questi elementi: - la ricerca sul tema del rapporto fra omogenitorialità e sviluppo psicofisico del bambino è di pessima qualità sul piano del rigore della ricerca scientifica (è vero che la ricerca “perfetta” non esiste, soprattutto in ambito di scienze umane, ma la ricerca su questo tema è inaccettabilmente lacunosa ed approssimativa) - il pressapochismo dimostrato può essere frutto o di incompetenza o di intenzionalità funzionale: la prima ipotesi non vorremmo neppure prenderla in considerazione, la seconda – certamente palese e documentabile – costituisce proprio l’esatto contrario del paradigma “scientifico”: invece di partire da un’ipotesi di lavoro da convalidare con argomenti sicuri e concreti, fino a giungere ad una tesi documentata, assistiamo all’operazione contraria, per cui partendo dalla tesi (l’omogenitorialità ha il medesimo valore della coppia eterosessuale in ordine allo sviluppo del bambino) si costruiscono campioni che la sostengono, eliminando ogni dato ad essa contradditorio. Nonostante questo grave vulnus (che di per sé invalida qualsiasi ricerca), qualche dato importante possiamo trarlo anche dai lavori citati a favore dell’omogenitorialità. Ad esempio, i figli di genitori con tendenze omosessuali sono più esposti a numerosi rischi, soprattutto in ordine allo sviluppo della propria identità di genere. E’ vero che numerosi ricercatori “gayfriendly” considerano questo dato come un valore positivo, ma – per contro – andrebbe anche ricordato che tutte le statistiche attestano una maggiore incidenza di malattie fisiche o psichiche nella popolazione omosessuale rispetto alla popolazione generale, con la conseguenza di una vita più breve nelle persone gay o lesbiche rispetto alla popolazione generale. Per approfondire e chiarire meglio quest’ultimo aspetto, è necessario percorrere un breve excursus nella storia della psicologia dello viluppo della personalità del bambino, completandolo con le più recenti acquisizioni in ambito neurobiologico, dal ruolo dell’epigenetica al “sistema di rispecchiamento”. Quando si parla di “sviluppo psicologico” dobbiamo intendere una serie di cambiamenti che si verificano nelle funzioni e nella condotta della persona con l’avanzare dell’età. Lo sviluppo è, quindi, il risultato di una modificazione strutturale e funzionale dell’organismo e riguarda, ovviamente, l’intero arco della vita, ma le modificazioni più significative, e più drammatiche, si verificano nel periodo dell’infanzia, della fanciullezza e dell’adolescenza. Le tappe dello sviluppo vengono denominate “fasi” o “età” evolutive. Fino a qualche decennio fa, si era erroneamente creduto che i cambiamenti in campo biologico, nelle fasi iniziali della vita, fossero endogeni ed indipendenti dall’ambiente. Ora, al contrario, siamo consapevoli che l’influenza ambientale gioca un ruolo per nulla marginale nello sviluppo della persona, a partire dai primi mesi della vita intrauterina e, soprattutto, extrauterina. Nel tempo, si sono strutturati tre approcci teorici sul concetto di sviluppo: - approccio comportamentistico, il cui assioma è che l’individuo è una struttura docile e plasmabile, caratterizzata da una capacità illimitata di apprendimento; l’organismo viene modellato dall’ambiente di vita, e lo sviluppo è costituito dal progressivo strutturarsi di risposte del bambino all’ambiente in cui vive; - approccio organismico (Freud e Vigotskij), secondo il quale l’individuo è un organismo attivo, spontaneo, teso a realizzare le proprie potenzialità; il bambino costruisce una immagine di sé e degli altri attraverso un costante interscambio con l’ambiente; - approccio psicoanalitico, che considera l’individuo come organismo capace di dare significato a se tesso ed all’ambiente circostante; il comportamento è il risultato di conflitti interni (amore/odio; serenità/ansia; desiderio/paura) La “personalità” (dal latino “persona”, cioè maschera) si riferisce allo stile di condotta di un individuo, conoscibile dall’esterno. Dal punto di vista scientifico, è assai complicato definire che cosa sia la personalità (lo psicologo americano Gordon Alport enumerò circa diciottomila termini utilizzati per descrivere la personalità, e 50 definizioni di personalità). Lo stesso Autore propose una sua definizione: “la personalità è l’organizzazione dinamica, interna all’individuo, di quei sistemi psicologici che sono all’origine del suo peculiare genere di attaccamento all’ambiente”. Questi “sistemi” non sono elementi fra loro indipendenti; essi interagiscono realizzando una fisionomia unitaria che si evolve e progressivamente matura. Tuttavia, non disponiamo di dati certi che confermino che le varie caratteristiche psicologiche formino complessi unitari. Quindi, affermare che un soggetto ha una personalità di un certo tipo ha solo il valore di un sistema sintetico di descrizione, una sorta di notazione stenografica, che racchiude un gran numero di esperienze ed impressioni che abbiamo costruito sul suo conto, osservandone il comportamento. Non possiamo introdurci in modo dettagliato nell’argomento delle teorie della costruzione della personalità (tipologiche, dei “tratti”, psicodinamiche), ma è comunque necessario soffermarci con qualche attenzione in più sulla “psicologia dell’età evolutiva”. Innanzitutto una precisazione terminologica. La psicologia nasce come scienza autonoma all’inizio del ‘900 e si propone di studiare la psiche dell’uomo; in quanto tale, potrebbe essere definita la scienza della “soggettività”. La psicologia dell’età evolutiva è il ramo della psicologia che studia sia, in generale, le modificazioni del comportamento durante le prime fasi della vita, sia in particolare, le modificazioni dei singoli, nel loro processo di formazione della personalità. Costituisce, quindi, uno strumento che consente di comprendere come avviene lo sviluppo normale, illustra e chiarisce le tappe obbligatorie (“stadi evolutivi”) e variabili dello sviluppo, specificando le differenze individuali. L’età evolutiva si riferisce a quel periodo della vita nel quale si struttura l’accrescimento e la differenziazione delle varie funzioni. Al proprio interno, si distinguono fasi diverse, con limiti cronologici di valore puramente indicativo: prima infanzia (0-3 anni), seconda infanzia (3-6 anni), fanciullezza (6-12 anni) e adolescenza (12- 16/18 anni). Negli ultimi ventanni, grazie all’enorme sviluppo delle conoscenze circa la vita embriofetale ed il rapporto con la madre, la fase prenatale è stata inclusa nell’età evolutiva. Il grande salto di qualità che ci ha concesso lo studio psicologico dell’età evolutiva è rappresentato da un cambio radicale del paradigma di valutazione: siamo passati dal considerare il bambino come una sorta di “adulto in miniatura” (“adulto nano” di Wolff), strutturato quasi esclusivamente in base ai suoi caratteri ereditari, alla consapevolezza che la sua differenza con l’adulto è soprattutto di ordine qualitativo, piuttosto che quantitativo, in cui il dato “biografico” (rapporti genitoriali, familiari, sociali, ambientali) assumono grande importanza, acquisendo sempre più valore “plasmante” e “condizionante” con il passare degli anni e l’allargamento delle figure sociali di riferimento. In questo contesto – descritto necessariamente in modo sintetico, ma rigoroso – assume particolare importanza lo studio del processo di strutturazione della “identità personale”, quella qualità che Erikson (psicoanalista americano, di origine tedesca) definisce “costruzione del senso dell’identità”. Il bambino definisce se stesso cercando una risposta ad una domanda interiore, ancestrale ed inconsapevole: “chi sono io?”, e lo fa utilizzando il “materiale” che ha a disposizione: il proprio “bagaglio genetico/fenotipico” ed il proprio “bagaglio ambientale”, cioè papà, mamma, fratelli, parenti, coetanei, luogo sociale con tutte le sue componenti. Collegata allo sviluppo dell’identità personale vi è la “conoscenza del sé”, che fino ai due/tre anni (prima infanzia) ha come unico riferimento lo stretto ambito famigliare, ma che non si esaurisce nei soli primi tre anni, richiedendo un lavoro di continuo confronto con il mondo esterno (che diviene sempre più allargato) almeno fino alla fanciullezza (6/12 anni). Questa “conoscenza del sé” è strutturale e globale: riguarda il corpo e le sue caratteristiche e funzioni, la cognizione (dall’affettività all’emotivita, dal pensiero al comportamento), la socialità (dal sentimento di difesa e conservazione, all’autostima e alla gestione dell’alterità, fino alla relazione con tutte le sue variabili), strutturando un processo graduale, che diviene sempre più articolato e complesso con il passare del tempo. Questa “conoscenza del sé” fa parte di quelli che Maslow (psicologo americano) definisce “bisogni primari”, che ineriscono il benessere del bimbo: per “sentirsi bene” il bambino non ha bisogno solo di nutrirsi, di dormire, di essere protetto, amato ed aiutato, ma ha necessità di “conoscersi” a 360°, come abbiamo visto, e proprio qui fonda tutta la sua importanza il dato della “differenza sessuale” genitoriale, attraverso la quale il bimbo impara e costruisce la sua propria identità e diversità sessuale. Non è per nulla insignificante o ininfluente se la reazione intrapsichica del bambino alla figura materna è evocata da un soggetto maschio o, viceversa, se quella paterna è gestita da un soggetto femmina: con chi potrà identificare tanto il suo sesso, quanto il suo ruolo, se dinanzi a lui vi è solo una “omogenitorialità”, che esclude uno dei due sessi? L’apprendimento e la gestione del proprio sesso richiede che giunga al bimbo un flusso di informazioni/relazioni bidirezionale: da una parte l’identificazione con il sesso omologo e dall’altra la differenziazione rispetto all’altro sesso, tanto sul piano biologico (fenotipico), quanto sul piano cognitivo (affettivo, emotivo, relazionale). Il bambino avverte il peso della gestione di un simile processo, tutt’altro che semplice ed automatico, trovando soddisfacimento nella presenza rassicurante di entrambe le figure adulte, nelle quali rispecchiarsi per identificarsi, fra similitudine e diversità. La raggiunta piena consapevolezza, favorisce il calo del livello di ansia che questo processo reca con sé e consente al bimbo di trovare la sua propria “collocazione” nel mondo, in quanto maschio o femmina. Ma se nel momento il cui il piccolo esperisce tutti i suoi tentativi di “cognizione sessuale” lo priviamo di una delle sue figure di riferimento (o peggio, gli creiamo condizioni di ambiguità), può instaurarsi in lui un processo di regressione intrapsichica, che non può non interferire negativamente nella organizzazione dei vissuti interni del bambino/fanciullo nella prospettiva del conseguimento di uno sviluppo fisiologico della personalità. La psicologia dell’età evolutiva, dalla sua nascita ad oggi, ha prodotto una quantità enorme di bibliografia in questa direzione e non si è mai alzata una sola voce di dissenso. Le uniche differenze, a seconda di varie scuole psicodinamiche, hanno riguardato la gravità delle conseguenze che un simile vulnus è in grado di produrre, ma mai nessuno ha messo in dubbio che potessero non esistere conseguenze negative. Un ulteriore elemento di chiarezza sul tema, ci giunge dalle moderne “neuroscienze”. Lo studio della neurobiologia delle funzioni cognitive che caratterizzano l’essere umano, ci ha consentito di gettare nuova luce sui processi di sviluppo che stanno alla base della conoscenza di sé e della strutturazione del rapporto con il mondo che ci circonda. Nello sviluppo delle cosiddette “neuroscienze cognitive”, una tappa fondamentale è aver individuato nella “neuroplasticità” una caratteristica strutturale del nostro cervello, in grado di plasmarlo e modificarlo, sotto la spinta della relazione con il proprio corpo, con gli altri e con l’ambiente: da qui, l’emergere della “coscienza” di sé e del mondo circostante. La scoperta che ha rivoluzionato le nostre conoscenze in tema di sviluppo ed apprendimento cognitivo è stata l’esistenza del cosiddetto “sistema di rispecchiamento” la cui struttura cellulare è rappresentata dai “neuroni specchio”(NS) (G. Rizzolatti, 1994). Si tratta di neuroni motori, presenti in varie regioni del nostro cervello, la cui caratteristica peculiare è di essere in grado di attivarsi non solo quando eseguiamo un movimento volontario, ma anche quando osserviamo un movimento o un’azione eseguiti da un’altra persona. E non solo, essi ci consentono anche di comprendere una data azione udendo il rumore che quell’azione provoca (esempio, la sirena di un’ambulanza) senza vedere concretamente l’azione, e di riconoscere addirittura l’intenzione che guida un certo atto motorio, utilizzando piccoli dettagli, quali l’atteggiamento della mano o la smorfia del volto. Si può, quindi, affermare che i NS consentono al cervello di correlare le azioni osservate alle proprie, riconoscendone intenzione e significato. Si comprende facilmente, quanto sia decisivo il sistema di rispecchiamento per la costruzione del bagaglio di esperienza comune che sta all’origine della nostra capacità di agire come soggetti sociali e non solo come individui. Non a torto, molti autori individuano in questo sistema la base della nostra capacità empatica di conoscenza e condivisione dei moti dell’animo altrui che primariamente caratterizza l’essere umano, fino a prevedere che condizioni patologiche riguardanti il rapporto interpersonale (ad esempio, i disturbi della sfera autistica) dipendano proprio dal “cattivo” funzionamento di questo sistema. Tutto ciò traduce in termini neurobiologici quanto la psicologia afferma da decenni: è impossibile pensare ad un “io senza un noi”, essendo la relazione – cioè il legame che ci unisce agli altri – parte costituente imprescindibile dello sviluppo della nostra personalità. Dire “persona” è dire “relazione”, e la nostra personalità è una struttura aperta e dinamica, in cui l’identità del sé trova nella relazione una delle forze modellanti fondamentali. La neuroplasticità ed i NS ci impongono di guardare al nostro cervello come un vero “organo sociale”, mai definitivamente formato e strutturato, sede anzi di un processo dinamico continuamente soggetto a sviluppo e ricomposizioni per l’intero arco della vita, costringendoci a considerare il ruolo dell’ambiente, dell’esperienza, del corpo, per poi ritornare al cervello, in un incessante rapporto bidirezionale fra struttura neurale e vita vissuta. Tutto ciò è vero per l’intero arco vitale, consentendo di rimodellare continuamente la personalità, ma è ancor “più vero” per i primi anni di vita, quando l’ambiente in cui avviene la crescita del bambino agisce su una struttura neurale totalmente vergine e massimamente condizionabile. Le prime relazioni “sociali” il bambino le esperisce, impara ed elabora con i propri genitori, entro il nucleo famigliare, in un legame primigenio di relazione affettivo-emotiva assolutamente unico ed irripetibile. In quest’ottica, appare quantomeno ingenuo e miope credere che – in ordine allo sviluppo della conoscenza di sé e della personalità del bimbo – sia ininfluente che la coppia genitoriale sia costituita da due soggetti dello stesso sesso o di sesso diverso. Il sé corporeo sessuale del bambino richiede il confronto ed il raffronto con il sesso omologo di un genitore ed il sesso eterologo dell’altro, in un interscambio globale in cui entra in gioco una vasta complessità di fattori che non ci sono neppure del tutto noti. Fer-ormoni, sensazioni olfattivegustative e tattili, percezioni visive ed acustiche, stimoli emotivi, affettivi e cognitivi, meccanismi intrapsichici, spingono le reti neurali del bimbo a comporsi e scomporsi, modellarsi e modificarsi, cercando un assetto strutturale, unico e personale, sul quale costruire il proprio sé. 19 Alla nascita, il cervello del neonato è volumetricamente più piccolo di quello dell’adulto, ma è costituito da un numero doppio di neuroni, che andranno incontro a morte (apoptosi) se non riusciranno ad interconnettersi rapidamente con altri, cioè a formare reti sinaptiche (e sappiamo che tra i due e i quattro mesi di vita il cervello del neonato genera, smantella e ricompone mezzo milione di sinapsi al secondo): una vera fucina che non conosce sosta, sotto lo stimolo di continue nuove esperienze. Proprio in questi termini, di razionalità e prudenza scientifica, appaiono inaccettabilmente superficiali le affermazioni di neutralità dell’omogenitorialità rispetto allo sviluppo psicofisico del bambino. La conoscenza del sé, corporeo e psichico, richiede il confronto diretto, costante, stringente e solidale con le figure parentali che “incarnano” la similarità e la differenza sessuale, fisica e cognitiva, del bimbo (padre/maschio – madre/femmina) e attraverso cui “impara” la complementarietà – sessuale e sociale – di tali differenze. Del resto, la letteratura - purtroppo abbondante - della psicopatologia dell’infanzia orfana o abbandonata e/o istituzionalizzata ce ne dà una palese conferma. Certamente, lo schema di organizzazione che caratterizza tutti i sistemi viventi, e l’uomo in modo speciale, è talmente complesso – in una interazione continua fra biologia, ambiente ed eventi stocastici che è impossibile definire rigidamente – che uno spazio aperto all’imprevedibile ed all’ inaspettato deve essere sempre riservato (Einstein affermava che ogni nuova conoscenza produce un aumento del sentimento di ignoranza), ma non per questo siamo autorizzati ad intraprendere strade “ignote e pericolose” o ad esercitare minore prudenza nel garantire le condizioni più sicure possibili. Soprattutto quando in gioco è lo sviluppo e la crescita di un bambino. Con ciò si vuol dire che esistono certamente coppie eterosessuali pessime sul piano genitoriale, e che altresì possono esistere buoni genitori omogenitoriali, ma ciò non può costituire l’occasione o il pretesto per annullare anni ed anni di studi e di riscontri di psicologia dell’età evolutiva. Almeno sul piano del “principio di precauzione” – giuridicamente riconosciuto e stabilito a livello internazionale, proprio nella prospettiva della “salute” della biosfera, di cui l’uomo è figura centrale (Comm. Precautionary Principle, 2 febbraio 2000; European Environmental Agency, 2001) – per tutte le ragioni che abbiamo sopra espresso, è certamente preferibile, per il maggiore benessere possibile del bambino, che questi possa crescere e svilupparsi nel contesto di una coppia stabile eterosessuale. Non è in gioco la libera scelta dell’orientamento sessuale dei genitori, né è invocabile un diritto all’adozione che legittimi, nella forma e nella sostanza, la coppia gay; è in gioco il diritto del bambino abbandonato ad avere una famiglia (art.1, comma 5, legge 184/83) e che questa sia quella che le scienze umane e neurologiche garantiscano come la più idonea, nell’esclusivo interesse del minore, prescindendo da ogni visione morale o confessionale. 

* Primario neurochirurgo e Neuropsichiatra Direttore Dipartimento Neuroscienze Poliambulanza Brescia Vicepresidente nazionale Associazione Scienza & Vita ** Psicologo e psicoterapeuta