domenica 31 agosto 2014

Legge omofobia, le bugie di Scalfarotto di Gianfranco Amato, 31-08-2014, www.lanuovabq.it

In un’intervista pubblicata sul quotidiano online Giornalettismo all’on. Ivan Scalfarotto è stata posta questa domanda: «Chi esprime un’idea contraria al matrimonio omosessuale o alle unioni civili, rischia la galera?». Questa la risposta dell’ineffabile Sottosegretario ai rapporti con il parlamento: «Assolutamente no. E per due motivi fondamentali. Il primo è che qui stiamo parlando dell’estensione della legge Reale-Mancino, che non ha mai colpito le opinioni. Poi c’è la costituzione che protegge la libertà di pensiero eppure, non contenti di questo, ci abbiamo messo l’emendamento Verini che esplicitamente fa salve le opinioni».

Con un’unica risposta Scalfarotto è riuscito a dire due cose non vere. Analizziamole entrambi partendo da quella relativa alle conseguenze della Legge Mancino. Evidentemente i numerosi impegni politici del deputato PD (compresa la sua candidatura alla leadership nazionale del centrosinistra alle elezioni primarie de L'Unione del 2005) lo hanno tenuto lontano dalla cronaca giudiziaria. Basta ricordarne due tra i numerosi casi di applicazione della Legge Mancino, per far capire all’attuale Sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento, qual è l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione sul tema.

Cominciamo dal primo. Nel 2001 l’attuale sindaco di Verona Flavio Tosi - insieme alla moglie Barbara e ai compagni di partito Matteo Bragantini, Enrico Corsi e Maurizio Filippi – viene rinviato a giudizio su accusa del procuratore Guido Papalia per aver violato proprio la legge Mancino, partecipando attivamente alla campagna di protesta, organizzata dalla Lega Nord di Verona contro un campo nomadi abusivo intitolata “No ai campi nomadi. Firma anche tu per mandare via gli zingari dalla nostra città”. Nel 2005 tutti gli imputati vengono condannati a sei mesi di reclusione e a tre anni di interdizione dai pubblici uffici, con la motivazione che gli stessi imputati hanno «diffuso idee fondate sulla superiorità e sull'odio razziale ed etnico e incitato i pubblici amministratori competenti a commettere atti di discriminazione per motivi razziali ed etnici e conseguentemente creato un concreto turbamento alla coesistenza pacifica dei vari gruppi etnici nel contesto sociale al quale il messaggio era indirizzato».

Nel 2007 la Corte di Appello di Venezia confermava, pur riducendo le pene, la condanna per aver organizzato una propaganda di idee fondate sull'odio e sulla superiorità etnica e razziale. La Corte, infatti, riteneva che la petizione promossa dagli imputati fosse di per sé lecita, ma riconosceva che la campagna mediatica promossa diffondesse idee fondate sulla superiorità e sull'odio razziale. Nel 2007 la Corte di Cassazione annullava la sentenza d'appello ritenendola carente sotto il profilo motivazionale, rinviando Tosi e gli altri imputati a nuovo giudizio.

Nel 2008 la Corte d’appello di Venezia ha confermato la condanna di Tosi e degli altri imputati.
Con la sentenza n. 41819 del 10 luglio 2009, la Quarta Sezione della Suprema Corte di Cassazione statuiva che «è configurabile il reato di propaganda di idee discriminatorie, previsto dall'art. 3, comma primo lett. a), della L. n. 654 del 1975, nell'affissione di manifesti sui muri della città del seguente tenore: “No ai campi nomadi. Firma anche tu per mandare via gli zingari”». Interessante è notare il ragionamento dei giudici nella prima sentenza della Cassazione del 2007. In quel provvedimento di annullamento con rinvio, infatti, ai giudici della Corte d’Appello viene espressamente chiesto di stabilire se il pregiudizio razziale mostrato dagli imputati costituisse – tenuto conto delle circostanze temporali ed ambientali nelle quali era stato espresso – un’idea discriminatoria fondata sulla diversità e non sul comportamento. In pratica, i giudici sono stati invitati a discettare sulle singole frasi del manifesto e a scoprire quale "idea" muovesse i promotori della raccolta di firme: essi esprimevano un'idea fondata sulla "diversità" degli zingari o sul loro comportamento discutibile? Ma questo modus operandi è assai pericoloso. Non si può lasciare alla discrezionalità del giudice – e, quindi alla sua personale Weltanschauung – una simile valutazione.

Il ragionamento diventa più evidente se si considera il secondo caso, ovvero quello legato alla vicenda di Emilio Giuliana, consigliere comunale di Trento. In un intervento tenuto in aula dallo stesso consigliere, questi lamentava il fatto che l'asilo strutturato nel campo nomadi non era frequentato dai bambini, mentre la mensa, invece, risultava pienamente utilizzata da tutti gli occupanti del campo, e criticava, conseguentemente, non solo il carico economico gravante sulla collettività per tali servizi, ma anche l’opportunismo di detta comunità. Nella foga del discorso, il consigliere Giuliana si è lasciato, poi, andare ad espressioni poco felici, come il fatto che gli zingari fossero dei delinquenti, molti assassini e comunque animati da pigrizia, furore e vanità.

Denunciato per violazione della Legge Mancino, il Giuliana finisce rinviato a giudizio, ma viene assolto, sia in primo che in secondo grado. Infatti, il Tribunale e la Corte d'appello di Trento hanno ritenuto le frasi del consigliere espressive di avversione, ma non di superiorità ed odio razziale. Inoltre entrambi i giudici avevano escluso che nel caso di specie si potesse parlare di “propaganda”. Per i giudici del Tribunale e della Corte d’Appello di Trento, quindi, non vi erano i presupposti per l’applicazione della Legge Mancino. Non l’ha pensata in questo modo, però, la Prima Sezione della Suprema Corte di Cassazione che, infatti, con la sentenza n. 47894 del 22 novembre 2011 ha condannato il consigliere Giuliana, sul presupposto che «integra il reato di propaganda di idee discriminatrici, previsto dall'art. 3 comma primo lett. a) della l. n. 654 del 1975, l’intervento di un consigliere comunale contenente affermazioni fondate sull'odio e la discriminazione razziale ai danni delle Comunità Rom e Sinti nel corso di una seduta consiliare». La stessa sentenza della Cassazione ha poi escluso che la condotta di "propaganda" sia qualcosa di meno della semplice diffusione: «il reato previsto dalla L. n. 654 del 1975, art. 3, lett. a) non esclude affatto dall'alveo precettivo anche un’isolata manifestazione a connotazione razzista; l'elemento che caratterizza la fattispecie è la propaganda discriminatoria, intesa come diffusione di un’idea di avversione tutt’altro che superficiale, non già indirizzata verso un gruppo di zingari (magari quelli dediti ai furti), ma verso tutti gli zingari».

Per quanto riguarda la propaganda, quindi, secondo la Cassazione nessun ostacolo alla punizione: in sostanza basta pronunciare le frasi in pubblico, ad esempio, come nel caso Giuliana, durante la seduta di un Consiglio comunale. Ad essere state ritenute punibili sono due condotte che rientrano nell'alveo della democrazia: in un caso, l’intervento di un consigliere comunale nell'assemblea cittadina, nell’altro, una raccolta di firme per una petizione, espressione di una democrazia partecipata, accompagnata da riunioni pubbliche. Tali condotte si sono concretizzate nella semplice manifestazione del proprio pensiero: le frasi pronunciate o scritte erano certamente discutibili e censurabili, ma non erano del tutto sganciate dalla realtà concreta. Il solo fatto che le idee fossero state manifestate pubblicamente è stato ritenuto sufficiente per integrare una "propaganda". I giudici, in realtà, hanno analizzato le singole frasi per ricavare l'idea di fondo che muoveva chi le pronunciava. Siamo ancora una volta allo “psicoreato” orwelliano.

Ora, non è difficile neppure per l’onorevole Scalfarotto immaginare quale sarà l’applicazione del citato orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione, qualora la Legge Mancino venisse estesa agli omosessuali e ai transessuali. Ed è facile intuire come essa verrà applicata nei confronti di coloro che, per esempio, invocano pubblicamente (propaganda) il divieto per gli omosessuali di accedere al diritto al matrimonio, all’adozione di minori, alla fecondazione artificiale, o nei confronti di coloro che ritengono l’omosessualità una «grave depravazione», citando le Sacre Scritture (Gn 19,1-29; Rm 1,24-27; 1 Cor 6,9-10; 1 Tm 1,10), o considerano la stessa omosessualità come un insieme di atti «intrinsecamente disordinati», e «contrari alla legge naturale», poiché «precludono all’atto sessuale il dono della vita e non costituiscono il frutto di una vera complementarietà affettiva e sessuale» (art. 2357 del Catechismo della Chiesa Cattolica). Si parlerà di «discriminazione», di «superiorità di un orientamento sessuale su un altro», di «affermazioni offensive», di «incitazione all’odio», secondo lo schema britannico dello ”hate speech”? Dipenderà dal giudice, e, quindi, secondo il noto adagio dei saggi romani «tot capitae, tot sententiae», il principio di legalità penale andrà a farsi benedire. In ogni caso, ci penserà la Suprema Corte di Cassazione a dire l’ultima parola. L’orientamento giurisprudenziale, come si è visto, appare inequivoco e chiarissimo. Purtroppo.

Veniamo ora ad analizzare la questione relativa al cosiddetto emendamento Verini. Scalfarotto si riferisce a quella disposizione del disegno di legge in discussione al Senato – prevista nella prima parte della lett.c) dell’art.1 del DDL S.1052 –, la quale sancisce quanto segue: «Ai sensi della presente legge, non costituiscono discriminazione, né istigazione alla discriminazione, la libera espressione e manifestazione di convincimenti od opinioni riconducibili al pluralismo delle idee, purché non istighino all’odio o alla violenza, né le condotte conformi al diritto vigente».

Ora, che la «libera espressione delle opinioni» non costituisca di per sé «discriminazione», è un fatto oggettivo desumibile in re ipsa. Non occorre neppure scomodare Monsieur de La Pallisse. Sotto il profilo giuridico, poi, a tutelare la «libera espressione delle opinioni» già è posto il baluardo dell’art. 21 della Costituzione. Il fatto è che qui stiamo ragionando in ambito penale, e la questione si fa tremendamente seria. Utilizzare concetti quali «odio», «discriminazione», «pluralismo delle idee», «libera opinione», che non sono definiti dal codice penale (e che vengono quindi rimessi alla libera valutazione del magistrato) è operazione giuridica tanto azzardata, quanto pericolosa sotto il profilo dello stesso art.21 della Costituzione.

Facciamo un esempio per comprendere meglio. Dice la norma che la libera manifestazione delle opinioni è consentita purché non istighi all’odio. Ora, ricordare pubblicamente la dottrina cattolica nel punto in cui si ribadisce che «il peccato dei sodomiti è uno dei quattro peccati mortali che gridano al cielo» (art. 1867 del Catechismo della Chiesa Cattolica), e che destinano gli stessi omosessuali alla dannazione eterna, sarà considerato – come accade in Gran Bretagna – incitazione all’odio? Dipenderà dalla particolare sensibilità del giudice. Sostenere che l’eterosessualità ha una superiorità morale rispetto all’omosessualità, perché questa è una «grave depravazione» (art. 2357 del Catechismo della Chiesa Cattolica) sarà considerato – come accade in Gran Bretagna – incitazione all’odio? Dipenderà dalla particolare sensibilità del giudice. Sostenere che gli omosessuali non possono e non devono accedere ad alcuni diritti, come il diritto al matrimonio e all’adozione di minori, a causa del loro orientamento sessuale, sarà considerato – come accade in Gran Bretagna – «discriminazione» e «incitazione all’odio»? Dipenderà dalla particolare sensibilità del giudice. L’esperienza anglosassone relativa al concetto di “hate speech” rende evidentissimi il rischio di rimettere all’interpretazione concetti non definiti dalla legge. E questo è il punto che Scalfarotto finge di ignorare.

Del resto, la stessa previsione di una “clausola di garanzia”, di una “norma di salvaguardia”, o come la si voglia chiamare, è sintomatica del pericolo percepito dallo stesso ordinamento in ordine al diritto alla libera manifestazione del pensiero (art.21 Cost.) e del diritto alla libertà religiosa (art.19 Cost.). È più che evidente la consapevolezza di addentrarsi in un terreno scivolosissimo e insidioso, tanto da avvertire l’esigenza di adottare, appunto, idonee guarentigie.

Il vizio di origine dell’intervento legislativo per contrastare il fenomeno dell’omofobia, che trae origine dal DDL Scalfarotto, sta proprio nel fatto che non si è deciso di adottare una nuova legge ad hoc sulla materia, ma si è ritenuto di utilizzare uno strumento normativo già esistente, ovvero la Legge Reale Mancino nata, tra l’altro, per combattere il fenomeno dell’antisemitismo e del razzismo. Ora, a prescindere dall’evidente incongruenza logica derivante dal fatto di considerare gli omosessuali e i transessuali una “razza” come i neri, gli ebrei o i rom, sono le conseguenze sanzionatorie che appaiono aberranti. Oggi, ad esempio, chi sostenesse pubblicamente di essere contrario al matrimonio misto tra etnie diverse, o si battesse per introdurre tale divieto per legge, rischierebbe, proprio in virtù delle disposizioni normative della Legge Reale Mancino, la reclusione fino a un massimo di un anno e sei mesi se parlasse a titolo personale, fino ad un massimo di quattro anni se chi fa quell’affermazione partecipa a organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che propugnato tali idee, e fino ad un massimo di sei anni se parlasse in qualità di presidente o dirigente di simili organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi. Una volta estesa la Legge Reale Mancino agli omosessuali e ai transessuali, sono automaticamente estese tutte le relative conseguenze giuridiche.

Sempre dall’intervista di Scalfarotto a Giornalettismo, infine, apprendiamo che lo stesso onorevole ha già di fatto scaricato il sub-emendamento Gitti. Questo il suo epitaffio: «È un emendamento che auspico il Senato voglia eliminare, anche perché dice male ciò che è già contenuto nell’emendamento Verini». Tanto per intenderci, il cosiddetto sub-emendamento Gitti, – previsto nella seconda parte della lettera c) dell’art.1 del DDL S1052 –, è quello secondo cui non costituiscono discriminazione, o istigazione alla discriminazione le opinioni «assunte all’interno di organizzazioni che svolgono un’attività di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione, ovvero di religione o di culto, relative all’attuazione dei principi e dei valori di rilevanza costituzionale che connotano tali organizzazioni». Questa norma sosterrebbe che all’interno di organizzazioni politiche, sindacali, culturali, sanitarie, di istruzione o religiose si posso impunemente esprimere idee omofobe. In pratica, per fare un esempio comprensibile, sarebbe come dire: se una persona ruba da sola, commette un furto e finisce in galera, se invece si associa con altri può tranquillamente rubare senza nessuna conseguenza di carattere penale. L’omofobia individuale sarebbe illecita, mentre quella collettiva sarebbe perfettamente legale. Non occorrono le celebri doti divinatorie di Nostradamus per intuire quanto potrà reggere un simile impianto dinanzi alla Corte costituzione, se si considera che nel nostro sistema penale l’elemento associativo è considerato un’aggravante e mai una scriminante. Non si comprende, poi, perché una persona singolarmente non possa chiedere in divieto per legge del matrimonio gay, ma sia costretta ad associarsi per poterlo fare.

In realtà, che l’on. Scalfarotto non avesse mai visto di buon occhio il sub-emendamento Gitti era cosa risaputa. Ne è prova l’interpretazione autentica da lui data il giorno successivo all’approvazione del disegno di legge alla Camera: «Il sub-emendamento Gitti in realtà è molto meno preoccupante di come sia stato descritto. Basta leggerlo. Vi si dice che non costituiscono atti di discriminazione le condotte delle organizzazioni di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione ovvero di religione o di culto a queste condizioni: a) se sono conformi al diritto vigente; b) se sono assunte all’interno (non all’esterno) della organizzazione; c) se si riferiscono all’attuazione di principi e di valori di rilevanza costituzionale». Tradotto, significa, ad esempio, che i cattolici nel chiuso delle loro sagrestie possono leggersi tranquillamente i passi “omofobi” di San Paolo e il Catechismo della Chiesa cattolica, ma non possono azzardarsi a farlo pubblicamente all’esterno.

Sulla questione relativa all’asserita norma di salvaguardia merita di essere riportato un passo dell’intervento tenuto dal Prof. Ferrando Mantovani, autorità indiscussa del diritto penale italiano, in occasione del convegno svoltosi il 19 gennaio 2014 a Palazzo Vecchio di Firenze, dal titolo: “Proposta di Legge Scalfarotto: quali criticità per la Costituzione, i diritti minorili ed i mass media?”. In quell’occasione, l’insigne ed esimio giurista si è espresso proprio sulla cosiddetta “clausola di garanzia” dell’emendamento Verini-Gitti, sostenendo che essa «oltre che costituire l’espresso riconoscimento, da parte del legislatore, della pericolosità della suddetta normativa, innanzitutto per il diritto di libera manifestazione del pensiero, è clausola: 1) del tutto atipica ed eccentrica, non trovando significativamente alcun analogo precedente nel nostro ordinamento giuridico; 2) non priva di ambiguità, per la genericità ed indeterminatezza della terminologia usata, che si presta alle più diverse interpretazioni del giudice, e di verbosità, perché l’onnicomprensiva locuzione delle «condotte conformi al diritto vigente» è sufficiente per scriminare ogni attività  giuridicamente autorizzata, innanzitutto dalle norme costituzionali sulla libertà di manifestazione del pensiero, sulla libertà religiosa e sulla libertà di educazione dei genitori verso i figli; 3) è inutile, se si limita  a tutelare la libertà di manifestazione del pensiero in materia di orientamenti sessuali, essendo tale libertà garantita a livello costituzionale dall’art. 21 Cost.; 4) è incostituzionale se intende, quale legge ordinaria, limitare la libertà di manifestazione del pensiero o altre libertà riconosciute e garantite a livello costituzionale, riconoscendole soltanto all’interno (e non all’esterno) delle organizzazioni elencate dalla suddetta clausola e non anche ai singoli individui non organizzati». Non c’è null’altro da aggiungere.

Giudici sfascia-famiglia, politica umiliata, 31-08-2014, www.lanuovabq.it

La sentenza del Tribunale per i minori di Roma che ha introdotto l'adozione per coppie dello stesso sesso non solo è sbagliata tecnicamente, ma pone una serie di problemi che toccano i fondamenti della nostra democrazia. I parlamentari eletti dai cittadini per legiferare vedono vanificato il loro ruolo, ma solo quelli del centrodestra insorgono contro quello che è stato definito un golpe istituzionale. Ma denunciare non basta: occorre che chi crede nella famiglia e nella vita si ponga il problema di lavorare più intensamente per promuovere questi princìpi.

Fermare la deriva giudiziaria. Si deve di Alfredo Mantovano, 31-08-2014

Sentenze come quella del Tribunale per i minorenni di Roma (d’ora in avanti TM Roma) sull’adozione di una bambina da parte di due donne conviventi, al di là del merito sul quale intervengono, sono in qualche misura “pilota”: il dibattito che si sviluppa dopo che sono rese note si concentra poco sulla loro effettiva conformità all’ordinamento; si sviluppa di più sulla questione dello sconfinamento degli ambiti di competenza; a polemiche sopite, costituiscono comunque un precedente, piazzano una bandierina che sventola.

Alla fine, ottengono il risultato: se un collegio giudicante stabilisce con dieci fitte pagine di motivazioni che una coppia costituita da persone dello stesso sesso può adottare un figlio, vuol dire che non è una cosa fuori dal mondo; in Parlamento verrà più facile mandare avanti i testi, già esistenti, sulla civil partnership, cioè sul simil matrimonio fra persone dello stesso sesso; altri giudici potranno mutuare le motivazioni per provvedimenti analoghi; alla fine potrebbe avere ragione chi sostiene, come più d’un commentatore sui quotidiani di ieri, che il problema non è far crescere una fanciulla con due genitori dello stesso sesso, bensì che ciò sia stabilito da un tribunale e non dalle Camere: che quindi devono darsi una mossa!

E invece ripartiamo dalla sentenza: anzitutto per verificare se è conforme all’ordinamento italiano. Dal profilo propriamente giurisdizionale si può poi passare a quello in senso lato culturale, per rispondere al quesito del perché oggi sentenze come queste si moltiplicano, e concludere con quello politico/legislativo. Saltare i passaggi significa accontentarsi del lamento e della protesta – giustificati a caldo di fronte all’assurdità di certe pronunce, improduttivi a medio/lungo termine – e in maniera implicita rassegnarsi a che l’aggressione ai fondamenti naturali del sistema sociale e giuridico prosegua senza resistenza e senza contrattacco.

La sentenza del TM Roma n. 299 del 30 giugno di quest’anno è tecnicamente sbagliata. Come è stato spiegato nell’immediatezza, anche ieri su questo giornale, il nocciolo della decisione ruota attorno alla estensione da dare all’articolo 44 della legge sulle adozioni, la n. 184 del 1983, il quale stabilisce le eccezioni alla regola secondo cui i bambini possono essere adottati solo da un uomo e da una donna uniti in matrimonio. In particolare, la lettera d) di tale articolo permette l’adozione “quando vi sia la constatata impossibilità di un affidamento preadottivo”.

La lettera della norma e la sua interpretazione giurisprudenziale, ricordate pure nella sentenza, riferiscono questa “impossibilità” a una condizione di fatto, alla circostanza cioè che per il minore non si sia trovato alcun aspirante all’affidamento. Il Tribunale di Roma ritiene invece che la “impossibilità” possa intendersi anche come “di diritto”: nel caso concreto era “impossibile” l’affidamento preadottivo della bambina perché la legge italiana lo permette solo a coppie coniugate, e quindi non alla convivente della madre biologica. Constatata l’“impossibilità” di diritto all’affidamento preadottivo, i giudici hanno poi ritenuto la “possibilità” dell’adozione da parte della donna. È veramente illogico: se il nostro ordinamento preclude l’affidamento preadottivo a persone non unite in matrimonio, vuol dire che chi non è sposato non è ammesso a svolgere nemmeno un periodo che è solo preparatorio e funzionale all’adozione; come si fa poi a sostenere che può adottare senza problemi, proprio facendo leva sulla preclusione attinente al periodo antecedente?  

Ma non è solo la logica più elementare che contrasta con la sentenza. Quella giurisprudenza che il TM Roma liquida come antiquata è invece recente e autorevole: basta ricordare per tutte una sentenza del 27 settembre 2013 della 1^ sezione civile della Cassazione, la quale ha confermato senza incertezze che la nozione di “impossibilità di affidamento preadottivo” “attiene solo all’ipotesi di mancato reperimento (o rifiuto) di aspiranti all’adozione legittimante, e non a quella del contrasto con l’interesse del minore (che viene ampiamente richiamato nella pronuncia del TM Roma), essendo le fattispecie previste dalla norma tassative e di stretta interpretazione”. Il Parlamento può essere sollecitato a legiferare da tutto: ma che lo strumento per intervenire con una legge sia una sentenza di merito così evidentemente sbagliata e così in contrasto con la logica e con l’interpretazione del giudice di legittimità appare un po’ fuori luogo; immaginando che il pubblico ministero nella procedura, che ha espresso un avviso opposto a quello del TM Roma, impugni la sentenza, si potrebbe per lo meno attendere l’esito dell’appello o della eventuale cassazione.

Il dato culturale. Non sono mancati nel corso dei decenni – soprattutto degli ultimi anni – provvedimenti giudiziari ostili al diritto naturale: dalla disciplina delle convivenze alla manifestazione di volontà per interrompere la propria vita. Spesso alcune sentenze hanno manifestato una evidente connotazione ideologica. Nella stessa direzione e con le medesime spinte, componenti della magistratura associata – per tutte Magistratura democratica – organizzano in sedi istituzionali seminari di approfondimento/ orientamento su queste tematiche. Quel che pare di cogliere nella sentenza del TM Roma, senza ovviamente processare le intenzioni, è più un inserimento in un circuito cultural giudiziario trendy: come in omaggio a tale tendenza, sindaci non del tutto consapevoli istituiscono i registri per trascrivere i matrimoni fra persone omosessuali contratti all’estero… Se talune decisioni giudiziarie hanno anche questo tipo di spinta, è una ragione aggiunta, oltre che per sottoporle a studio e a critica rigorosa, per intensificare il lavoro di trasmissione di una – anche giuridicamente – attrezzata cultura della vita e della famiglia.

Il dato politico. Influenza il dato culturale e contribuisce a formare la tendenza. Passare dalla protesta – veemente ma sempre più rada e frammentata – all’impostazione, da parte di chi ne è convinto, di un’azione politica pro famiglia è oggi più necessario che mai. Il che vuol dire non cedere neanche di un passo rispetto alle leggi devastanti che si vogliono introdurre, dal divorzio sprint alla civil partnership (basta poco per far rovinare il sistema: la sentenza del TM Roma si basa sull’esegesi di un frammento di un comma). Significa convincersi, per esempio, che lo sblocca-Italia sarà coerente col nome che ha se si inizia con l’aiutare la famiglia, quella vera.

sabato 30 agosto 2014

I giudici più avanti di Renzi: alle coppie gay anche l'adozione di Tommaso Scandroglio, 30-08-2014, www.lanuovabq.it

Il Futurismo celebrava il principio delle parole in libertà. Scrivere liberi da vincoli formali, grammaticali, semantici e di senso. Alcuni giudici oggi hanno fatto propria questa ricetta e paiono futuristi in toga che emettono sentenze ed ordinanze le quali si ispirano al principio dei “diritti in libertà”, diritti slegati da ciò che dicono le leggi e dalla verità sull’uomo. Un ultimo esempio di questa pratica d’avanguardia giuridica viene dal Tribunale dei minorenni di Roma che ieri, prima volta in Italia, ha dato in adozione una bambina ad una lei di coppia lesbica. I fatti in sintesi sono questi. Due donne, oggi ormai coppia stabile da dieci anni, si “sposano” all’estero e sempre all’estero ricorrono alla fecondazione eterologa. L’ovocita proviene da una delle due donne e lo spermatozoo da un donatore. Nasce una bambina che agli occhi della legge italiana è ovviamente figlia solo di una delle due donne, perché solo lei è madre biologica. Da qui la richiesta della coppia che l’altra compagna potesse adottare la bambina, che oggi ha cinque anni, affinché anche lei potesse sentirsi chiamare “mamma”. Come è noto in genere l’adozione è possibile solo a favore di coppia coniugata, ma l’art. 44 della legge sull'adozione del 4 maggio 1983, n. 184, come modificata dalla legge 149 del 2001 prevede alcuni casi particolari dove non è necessario che gli adottanti siano coniugati. I giudici hanno fatto riferimento proprio a questo articolo che, ahiloro e ahinoi, però non può essere chiamato in causa perché la fattispecie presente esula da quanto contemplato dall’art. 44. Infatti, tra i molti casi, la richiesta di adozione può venire anche da persona non coniugata che è legata al minore da “preesistente rapporto stabile e duraturo” ma solo quando il minore è orfano sia di padre che di madre. Però la bimba ha di certo vivente almeno la madre (del padre non si può avere notizia). Ma al di là di questa disposizione, tutta la normativa sull’adozione è volta a scegliere per il minore l’adottante migliore e l’ambiente educativo più promettente per la sua crescita. Cosa che nelle coppie omosessuali, ci dicono una montagna di studi, non avviene mai. Questa decisione del foro romano è paradigmatica per più motivi. Innanzitutto suggella la validità del principio del piano inclinato. Il sì all’adozione per coppie gay è l’ultimo tassello che è andato a cadere di molti altri caduti in precedenza. Marzo 2012: la Cassazione afferma che anche le coppie gay hanno un “diritto alla vita familiare” e a “vivere liberamente una condizione di coppia” con la possibilità di un “trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata”. Stesso mese e stesso anno: il Tribunale di Reggio Emilia concede il permesso di soggiorno ad uno straniero che ha “sposato” all’estero un italiano. Gennaio 2013: lui e lei si separano e la figlia viene data in affido alla madre. Questa poi va a convivere con la sua compagna. L’ex marito chiede ai giudici di togliere la figlia da quel contesto sicuramente poco educativo per la piccola. I giudici della Cassazione rispondono picche, qualificando le critiche dell’ex coniuge come un “mero pregiudizio” perché è tutto da provare “che sia dannoso per l'equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale" e l’uomo dà "per scontato ciò che invece è da dimostrare, ossia la dannosità di quel contesto famigliare" (clicca qui). Passano pochi mesi e nel novembre dello stesso anno una bambina di tre anni viene affidata in modo temporaneo ad una coppia omosessuale. (vedi “Affido a coppie gay. La miopia dei cattolici”, “Genitorialità impazzita, pagano i bambini” e “Affido, scorciatoia gay per le adozioni”). Il percorso è netto e graduale: dal fatto che anche la coppia omosessuale è “famiglia”, al riconoscimento di quei diritti che solo la famiglia fondata sul matrimonio potrebbe vantare, tra cui l’adozione. In secondo luogo la decisione dei giudici romani è paradigmatica anche perché per l’ennesima volta abbiamo avuto la conferma che in Italia sono i magistrati che fanno le leggi, non gli onorevoli seduti in Camera e Senato. La tecnocrazia giurisprudenziale non interpreta le leggi, ma le inventa e al Parlamento, fedele cancelliere e vassallo delle toghe, non rimane altro che verbalizzare quanto deciso dai tribunali. A breve inizierà la discussione sul progetto di legge sulle unioni civili, cioè il “matrimonio” omo: nulla di più facile per i parlamentari favorevoli a questa proposta dire che occorre concedere anche l’adozione ai gay nella forma minimale tedesca della stepchild adoption (possibilità di adottare solo il figlio dell’altro/a compagno/a) perché già realtà giurisprudenziale. In questa prospettiva il Tribunale dei minori di Roma in un colpo solo ha messo a segno due centri: accesso delle coppie gay all’adozione e riconoscimento giuridico della convivenza omosessuale che tanto somiglia al “matrimonio” gay perché ordinariamente, come abbiamo accennato, solo le coppie sposate possono adottare. E in questo c’è nascosto un altro colpo di genio dei giudici: mettere il carro davanti ai buoi. Detto in altre parole: non aspettare di avere il “matrimonio” gay per riconoscere ai “coniugi” omosessuali i diritti che discendono da questo vincolo. Ma all’opposto riconoscere da subito i diritti propri del vincolo sponsale per poi legittimare, con più facilità, le “nozze” tra persone dello stesso sesso. Anticipare quindi i diritti del matrimonio all’istituto matrimoniale stesso. In terzo luogo il male giuridico si è così espanso che oramai i temi si saldano tra loro: la fecondazione eterologa sdoganata ad aprile dalla Corte Costituzionale offre la sponda all’adozione, questa offrirà il destro per le “nozze” gay. Il male ha infiniti vasi comunicanti. Naturalmente in tutta questa strategia omo che vede i principi non negoziabili in caduta libera, il figlio è solo carne da macello. Perché sottratto con l’eterologa al padre biologico e perché condannato a crescere in un ambiente per lui dannoso. Verità non riconosciute dalle due donne che hanno vinto la causa dell’adozione e che hanno dichiarato: "Siamo felici, quasi incredule, di questo risultato che era atteso da anni e che rappresenta una vittoria dei bambini". Ma quando i guai verranno a galla e i figli di coppie omo si ribelleranno, si avrà subito pronta la risposta: “Del resto anche in molte coppie etero i bambini sono infelici”. Quindi non preoccupiamoci: la riserva degli eterosessuali – dove noi tutti culturalmente finiremo a breve - non verrà mai soppressa perché utilissima pietra di paragone per tutti i disastri che il mondo omosex produrrà.

venerdì 29 agosto 2014

I “figli ogm” con tre genitori? Esistono già. E nessuno finora si è preoccupato di controllare come stanno, di Benedetta Frigerio, 28 agosto 2014, www.tempi.it

Sarebbero già una trentina nel mondo i “figli di tre genitori”, esseri umani concepiti in laboratorio con il Dna di tre persone, due donne e un uomo. E 17 di questi “bambini ogm” sarebbero stati prodotti in un’unica clinica americana, che solo l’anno scorso si sarebbe decisa a intraprendere un percorso di “follow-up” per controllare lo stato di salute di questi figli della fecondazione assistita, ormai adolescenti. È l’incredibile scoperta del quotidiano britannico The Independent, che dopo l’avvio in Inghilterra dell’iter parlamentare per l’autorizzazione della controversa tecnica medica che permette di creare “embrioni con tre genitori” (tutti i dettagli in questo articolo), si è messo a indagare sulla materia.
LA TECNICA. Secondo quanto riportato dal giornale, il concepimento dei 17 ragazzi sarebbe avvenuto al Saint Barnabas Medical Centre, nel New Jersey, e risalirebbe agli inizi degli anni 2000, prima che il governo americano proibisse la pratica nel 2002. Nota come “trasferimento citoplasmatico”, la tecnica utilizzata (analoga a quella che sta per essere approvata dal Parlamento di Londra per volere del governo) consentirebbe di evitare la trasmissione genetica dalla madre al figlio di patologie potenzialmente letali causate da mitocondri danneggiati: in sostanza, attraverso la fecondazione assistita parte del Dna della donna portatrice di malattie mitocondriali viene rimpiazzato nel suo ovulo attraverso il trasferimento di mitocondri prelevati dall’ovulo di una donatrice sana. L’embrione risultante dalla fecondazione con lo spermatozoo di un uomo deriverà quindi da tre diversi Dna.
FINORA NESSUN CONTROLLO. I risultati dell’”esperimento” avvenuto nel New Jersey però, stando alla ricostruzione dell’Independent, fino ad ora non erano mai stati controllati. Non si conoscono dunque le conseguenze di un simile processo sulla salute dei concepiti nel lungo periodo. I risultati dei nuovi esami avviati dal Saint Barnabas Medical Centre, perciò, potrebbero anche essere di grande importanza tanto per le autorità sanitarie del Regno Unito (visto che secondo l’esecutivo i bambini con tre genitori «potrebbero essere fatti nei laboratori inglesi già il prossimo anno») quanto per quelle degli Stati Uniti (dove il trasferimento citoplasmatico è vietato ma è ancora sotto l’esame della Food and Drug Administration). Ma la clinica si è rifiutata comunicare dettagli e si è rifiutata di rispondere alle domande del quotidiano circa lo stato di avanzamento delle indagini: «Apprezzo il vostro interesse ma non abbiamo intenzione di partecipare a questo articolo», ha risposto al cronista dell’Idependent il direttore marketing del centro, Cindy Lucus. Jacques Cohen, lo scienziato che effettuò materialmente le fecondazioni assistite in questione, oggi dipendente di un’altra struttura, ha invece risposto che «il follow-up è cominciato all’inizio di quest’anno (…) e i risultati saranno messi a disposizione in una rivista medica».
UN SUCCESSO? Quando nel 2001 lo stesso dottor Cohen pubblicò uno studio relativo a due bambini nati con i mitocondri di due madri diverse, parlò del «primo caso di linea germinale umana modificata geneticamente» da cui erano stati ottenuti «bambini con salute normale». Peccato che, come ricorda l’Independent, «in seguito emerse che c’erano state due gravidanze in cui gli embrioni avevano un cromosoma sessuale mancante, nota come sindrome di Turner, una delle quali fallì spontaneamente e l’altra fu interrotta. Ci fu anche un caso in cui uno dei bambini aveva sviluppato un “disturbo pervasivo dello sviluppo” nel primo anno di vita». E secondo il dottor Cohen «non si sa se tali anomalie fossero legate alla procedura. Il fatto è che quei genitori non erano riusciti a concepire da soli né dopo la fecondazione in vitro convenzionale. Anche questo potrebbe essere stato la causa della sindrome». @frigeriobenedet

lunedì 18 agosto 2014

Quando parlare da cristiani è "propagandare odio" di Lorenzo Schoepflin, 18-08-2014, http://www.lanuovabq.it

Essere accusati di «propagandare odio» per aver scritto sul proprio blog un articolo, ripreso da un settimanale poi costretto a scusarsi per la pubblicazione, nel quale si enunciano semplicemente i motivi per i quali un cristiano dovrebbe opporsi al matrimonio omosessuale. Accade in Canada, il settimanale è il Newfoundland Herald, l’autore del contributo incriminato risponde al nome di Matt Barber e gli accusatori sono i soliti attivisti per i diritti Lgbt.

L’articolo di Barber era apparso nell’edizione del 3 agosto del periodico come lettera all’editore, Pam Pardy-Ghent, che nel successivo numero si è dichiarata «veramente dispiaciuta» per il fatto che molte persone si sono sentite offese per quanto pubblicato. Pur affermando che «le opinioni, non importa quanto popolari o controverse, possono essere liberamente espresse in questo paese sia che siano di una minoranza che di una maggioranza», Pam Pardy-Ghent ha ritenuto opportuno presentare le proprie scuse. Scuse prontamente accettate dalla comunità Lgbt canadese, che per voce di Kyle Curlew ha prontamente ritirato la minaccia di adire le vie legali contro il Newfoundland Herald.

Insomma, non è difficile capire che siamo di fronte ad una lezione di censura impartita da chi si fa difensore della libertà. Un monito chiarissimo: guardatevi bene dal criticare tutto ciò che ruota attorno al pianeta Lgbt o incorrerete in guai giudiziari. Quali altri organi di stampa avranno adesso il coraggio di pubblicare opinioni difformi dal mantra dei “diritti” gay?

E’ lo stesso Curlew, molto candidamente, a fornire questa chiave di lettura: «Abbiamo deciso che vogliamo assumere un atteggiamento educativo e di non farne una questione di risarcimento. Pensiamo che sia meraviglioso che si siano scusati». Educare – con la forza – al gay-friendly, questo l’obiettivo di Curlew, che spera che da ora in poi il Newfoundland Herald possa instaurare un bel rapporto con trans, bisessuali e omosessuali.

Ma vediamo quali sarebbero i contenuti offensivi per i quali Matt Barber è stato iscritto nella lista dei nemici dei diritti Lgbt.

Quasi a presagire cosa gli sarebbe accaduto, Barber scriveva: «Con la scusa della “antidiscriminazione”, i cristiani si trovano ad affrontare una discriminazione a livelli senza precedenti». Per poi proseguire: «I cristiani, i veri cristiani […] non possono prendere parte a, approvare, facilitare o incoraggiare certi comportamenti che secondo le Sacre Scritture sono immorali o peccaminosi». Non è questione di odio o di esser bigotti, neppure di sentirsi superiori o di voler imporre il proprio credo, ma semplicemente di «obbedienza a Cristo» e «compassione» per coloro che vivono nell’errore.

Centrale per il Cristianesimo e ribadito sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento è il fatto che ogni atto sessuale vissuto al di fuori del matrimonio tra un uomo e una donna causa una «separazione da Dio». Ciò ovviamente vale anche per persone dello stesso sesso, che agiscano o meno sotto «la nuova nozione del cosiddetto “matrimonio omosessuale”». Barber, nell’articolo, estende l’orizzonte anche ad aborto, incesto, adulterio e ad ogni altro comportamento contrario alla morale cristiana: «Non è tanto che i cristiani, volenti o nolenti, vogliono chiamare l’aborto, il comportamento omosessuale, la fornicazione, l’adulterio, l’incesto o qualsiasi altra disordinata propensione sessuale “peccaminosa”. Piuttosto, dobbiamo. Per il vero cristiano, le verità oggettive di Dio comanderanno sempre sui desideri soggettivi dell’uomo». Ispirandosi ai sempre più frequenti casi di disobbedienza civile verificatisi negli Stati Uniti, dove molti si sono ribellati alle leggi di Obama che limitano la libertà religiosa e di coscienza soprattutto in merito alla riforma sanitaria e al ricorso alla contraccezione e all’aborto, Barber ha ricordato che «per 2000 anni, ogni volta che sono sorti conflitti, i cristiani hanno posto le leggi di Dio al di sopra delle leggi degli uomini».

E’ una responsabilità morale, conclude Barber ricordando una celebre frase di Martin Luther King, obbedire alle leggi giuste e disobbedire a quelle ingiuste. E’ un dovere resistere al male, «anche quando il male è adornato di sigillo e firma presidenziale».

Sfidiamo chiunque a trovare contenuti offensivi o incitamenti all’odio nei confronti delle persone omosessuali. A scanso di equivoci e per una completa informazione, l’articolo di Barber può essere consultato integralmente qui.

Se, leggendo le parole del contributo ospitato sul Newfoundland Herald, è difficile capire in cosa consisterebbe la motivazione di una potenziale azione legale contro Barber, molto semplice è associare quanto accaduto con il caso Barilla verificatosi in Italia. Con una piccola differenza: a scusarsi non è stato l’autore delle presunte offese, ma chi ha deciso di dar voce ad una libera, documentata e pacata espressione delle proprie idee. Barber ha invece rilanciato, con un post dove ha affermato che da adesso la libertà di espressione sembra vietata in Canada: «Infatti, i sedicenti campioni di “tolleranza” e “diversità” dimostrano, più e più volte, di essere i più intolleranti e monolitici in mezzo a noi. La loro versione di “intolleranza” (cioè qualsiasi posizione filosofica che è in conflitto con i rigidi dettami della “correttezza politica”) semplicemente non sarà tollerata».

Una piccola curiosità: Matt Barber, oggi giurista, nella breve biografia di presentazione sul proprio blog, precisa di esser stato un boxer professionista – peso massimo – ritiratosi con nessuna sconfitta al passivo. Come dire: la lobby omosessualista non ha paura di niente e di nessuno.

Sorpresa, i gay sono pochi e in cattiva salute di Tommaso Scandroglio, 18-08-2014, http://www.lanuovabq.it

Le persone con tendenze omosessuali sono poche e in cattiva salute. Questo in sintesi è il dato che emerge da un ricerca condotta dal Centro statunitense per il Controllo e la Prevenzione del Disagio (CDC) - l’istituto di monitoraggio della salute pubblica più rinomato negli USA e non sospetto certo di partigianeria – che ha interessato 34.557 persone di età compresa tra i 18 e i 64 anni. L’indagine è stata condotta nel 2013 e i risultati pubblicati a fine luglio di quest’anno. Ecco i dati salienti.

Solo il 2,3% della popolazione USA si dichiara facente parte del gruppo LGBT. Più in particolare questa indagine, la più approfondita da 57 anni a questa parte, ci informa che il 96,6 % degli intervistati si qualifica come “eterosessuale”, l’1,6% come omosessuale maschio o femmina, lo 0,7 bisessuale e l’1,1% dichiara di essere “qualcosa di differente” o non sa o non vuole rispondere. Da notare questo particolare: sono gli intervistati che si dichiarano “omosessuali”, ma questo non ci dà garanzia che la loro percezione soggettiva corrisponda ad un dato reale. Ad esempio una persona può sentirsi “gay” perché ha avuto rapporti omosessuali, ma questo non comporta di necessità che la persona viva una condizione omosessuale (così dicasi per le persone eterosessuali). E dunque le cifre potrebbero essere ritoccate al ribasso (o al rialzo).

Comunque sia, anche se i dati fossero lo specchio fedele della realtà omosessuale, potremmo concludere che la percentuale di persone omosessuali è bassissima, ben lontana dalla cifra così propagandata dall’ideologia gender del 10% tirata fuori come per magia dal cilindro del Dott. Kinsey nel lontano 1948 (si legga il recente articolo di Rino Cammilleri “L’altro vizietto dei gay: taroccare le statistiche”). Il dato individuato dal CDC poi va a confermare le percentuali presenti in altri studi simili di anni passati e condotti anche in altri paesi, comprovando che in ogni società c’è sempre stato un minimo sindacale di quota omosessuale.

C’è da aggiungere anche questo ulteriore pensierino. Se le persone omosessuali sono l’1,6% quanti saranno i gay? Cioè quanti saranno coloro che fanno dell’omosessualità una bandiera da sventolare nelle piazze di tutto il mondo, nei parlamenti di tutto l’orbe terracqueo e su tutti i media esistenti? Di certo una percentuale ancor minore, vicino allo zero termico. Questo perché molte delle persone omosessuali vivono con disagio la propria condizione e sicuramente prendono le distanze da coloro che politicizzano la loro sofferenza.

Poi vi sono coloro i quali invece tentano di essere “gai” ma non sono così entusiasti da berciare dai tetti delle case che “gay è bello”. Infatti la persona omosessuale in genere vuole vivere la propria condizione in totale privacy, non perché tema fantomatiche discriminazioni ma perché considera il proprio orientamento un affare privato. E dunque mai si “sposerebbe”, mai metterebbe su “famiglia”, mai chiederebbe per sé un pupo da crescere, per il semplice motivo che non vuole vincoli formali o sociali, ma cerca solo l’opportunità di vivere la propria sessualità in piena libertà, tenendosi ben lontano da rivendicazioni politiche.

Questa operazione di scrematura di quell’esiguo 1% e poco più, ci porta a dire che davvero le richieste delle lobby omosessualiste non hanno ragion d’essere perché prive di fondamento numerico. Se dovessimo usare la stessa misura per altre categorie di minoranza sfoceremmo nel ridicolo. Che dire infatti degli apicoltori? Sono meno dell’1% della popolazione italiana ma ne hanno di problemi: l’inquinamento che falcidia le api insieme ai prodotti chimici che i contadini usano per le proprie piantagioni, le malattie che provengono da madre natura, le bizze del tempo, la concorrenza sleale di chi produce miele per hobby ma non rispetta le regole, la crisi che incalza, i balzelli statali, uno Stato che non riconosce il loro lavoro e li ghettizza, una mancanza di rappresentatività nei settori alti della politica, un regolamento di medicina veterinaria del 1954 che va bene per buoi e cavalli ma non per questi insetti, la mancanza di selezione del prodotto e delle specie.

Eppure non riescono ad avere un loro Scalfarotto in Parlamento che appoggi le ronzanti rivendicazioni del settore, non hanno un Ape-pride, non denunciano la Piaggio per aver abusato del termine “Ape” senza loro permesso, non chiedono quote giallo-nere nelle aziende, almeno quelle agricole, non vanno a pungere – è proprio il caso di dire -   giornalisti apofobi che non parlano di loro o ne parlano male. Tommaso D’Aquino scriveva che la legge dovrebbe disciplinare ciò che accade tra i più – dunque dovrebbe disciplinare anche i diritti fondamentali che riguardano tutti, persone omosessuali comprese - e non fenomeni marginali.

Ritornando all’indagine, questa ci fornisce un altro dato assai interessante: relativamente “alle condizioni di salute (ad esempio asma, diabete, disturbi cardiovascolari, disabilità varie) e comportamenti che possono incidere sulla salute come il fumo e l’acolismo […] le minoranze sessuali [leggi ‘LGBT’] tendono a vivere una condizione peggiore rispetto ai loro omologhi che non appartengono alle minoranze sessuali [leggi ‘eterosessuali’]”.

Da ciò una conclusione che il CDC non si sogna nemmeno di fare ma che noi invece azzardiamo ad ipotizzare: vuoi vedere che c’è un nesso tra condotte omosessuali e stato di salute psicofisico? Detto in soldoni: vuoi vedere che l’omosessualità fa male al corpo e allo spirito? L’ipotesi diventa certezza scientifica se andiamo a spulciare qualche ricerca sul tema che comprova che la salute delle persone omosessuali risente del loro stile di vita (E. Rothblum, Depression Among Lesbians, «Journal of Gay & Lesbians Psycoterapy», 1, 3 [1990], p. 76; S. Welch, Lesbians in New Zealand, «N.Z.J. Psychiatry», 34 [2000], pp. 256-263; T. Sandfort, Same-Sex Sexual Behaviours and Psychiatric Disorders, «Archives of General Psychiatry», 58 [2001], pp. 85-91;). Tanto che il tasso di suicidi è superiore della media così come i comportamenti violenti (P. Cameron, Errors by the American Psychiatric Association, «Psycological Reports», 79 (1996), pp. 383-404) Insomma l’omosessualità non fa bene a nessuno, tantomeno e prima di tutto ai diretti interessati.

È un film già visto. Dove non si rispettano le regole etiche, anche quelle che governano la nostra salute saltano, perché la realtà morale e quella fisica sono un tutt’uno nell’uomo. Vedi l’aborto con la sindrome post abortiva che colpisce le donne; vedi la fecondazione artificiale che sforna bebè con tare genetiche e genera infelicità nelle coppie, sia che abbiano o non abbiano avuto il tanto desiderato figlio; vedi la contraccezione che regala effetti collaterali a piene mani alle donne, intorbidisce la fiducia nella coppia e, nel caso del preservativo, espone comunque a rischi di contagio per malattie veneree; vedi divorzio che provoca veri drammi esistenziali a tutti i soggetti coinvolti; vedi infine l’eutanasia che lascia nella psiche dei parenti sopravvissuti che hanno dato il loro benestare a staccare la spina un’angoscia così profonda che li seguirà fino alla tomba.

giovedì 14 agosto 2014

Mamma e papà, per i bimbi non sono la stessa cosa di Simona Martini, 14-08-2014, http://www.lanuovabq.it

La famiglia: mamma, papà e figli
Quando osservo, da psicologa, l'attuale dibattito relativo alle diverse tipologie possibili di famiglia, che secondo alcuni dovrebbero comprendere anche famiglie “arcobaleno”, dove coppie dello stesso sesso allevano uno o più bambini, e lo metto in relazione con l'individualismo ed il relativismo che dominano la nostra epoca, mi sorge spontanea una domanda: è davvero indifferente crescere in contesti così diversificati? Non sta invece accadendo che, dietro fiumi di parole atti a giustificare situazioni difformi dal contesto in cui ordinariamente un bambino dovrebbe vivere si cela una realtà diversa, in cui i figli diventano più oggetto di desideri e di capricci di persone adulte, ma poco mature, piuttosto che soggetti i cui diritti sono da tutelare offrendo loro le migliori opportunità di sviluppo possibili?

Tale interrogativo si può porre in diversi ambiti: separazioni/divorzi, famiglie allargate, “famiglie” omogenitoriali, cioè appunto con due “genitori” dello stesso sesso, e così via, ma, in questa sede, mi occuperò in particolare di queste ultime. Analizzando la letteratura sulla psicologia dello sviluppo appare impossibile adottare una prospettiva relativistica e individualistica. Innanzitutto, infatti, una volta appurata l'importanza dei fattori ambientali, che agiscono fin dalla vita intrauterina, nella formazione della personalità di un individuo, le teorie psicologiche si sono concentrate sull'importanza delle figure d’attaccamento, cioè di quelle persone che più di altre gravitano attorno al mondo del bambino, fornendogli cure e affetto. Si sa, infatti, che il bambino sviluppa un legame d’attaccamento tanto più forte a chi più prontamente risponde alle sue richieste, non tanto e non solo a quelle relative alla soddisfazione dei bisogni primari (in particolare, fornirgli il cibo necessario), quanto a quelle inerenti la socialità e l'amore. Va da sé che, nell'ordinarietà, tale ruolo è svolto dai genitori, i quali sono maggiormente motivati all'accudimento della propria prole, investendo notevoli energie, sia da un punto di vista emotivo/affettivo, sia da un punto di vista fisico, per non parlare del punto di vista economico. Grande importanza rivestono certamente anche figure che possono vicariare quelle genitoriali – per esempio i nonni –, ma che sono comunque secondarie, soprattutto se viste dalla prospettiva del bambino.

La psicologia dello sviluppo ha messo in evidenza, in particolare, i diversi ruoli che i genitori ricoprono nella crescita e nell'educazione dei propri figli, mostrando che padri e madri hanno funzioni complementari. Laddove le madri sono maggiormente orientate all'accudimento attraverso cure, coccole, accoglienza incondizionata, i padri tendono a rendere maggiormente emancipati i figli, anche attraverso un ruolo più normativo, favorendo così sia il normale processo di separazione del figlio dalla madre, con la quale nella primissima infanzia ha un rapporto quasi simbiotico, sia l'inizio e il mantenimento delle prime relazioni sociali. Il sano sviluppo di ogni individuo, inoltre, passa attraverso il rapporto con l'alterità, che permette l'acquisizione di nuove conoscenze e modalità relazionali. Numerosi studi, infatti, mettono in luce l'importanza della presenza di entrambe le figure genitoriali, mostrando che, per esempio, l'assenza del padre crea non pochi problemi nella vita del bambino.

Si potrà obiettare che esistono famiglie decisamente “anomale” da questo punto di vista (sia in seguito a separazioni, sia in seguito a lutti, o altro), i cui figli non risentono di problemi. Certo: ma questo richiede da parte delle figure di riferimento grandi sforzi e capacità, che non sempre si riescono a mettere in gioco. Dette situazioni “anomale”, dunque, costituiscono sempre fattori di rischio rispetto alla salute del figlio. Da un punto di vista anatomico, poi, il cervello dell'uomo e quello della donna differiscono significativamente, con inevitabili conseguenze anche sotto l'aspetto relazionale e comportamentale. Per non fare che un esempio, il corpo calloso del cervello femminile, cioè quella struttura costituita da fasci di fibre che collegano i due emisferi, è più grosso nelle donne, con la conseguenza di una maggior comunicazione tra i due emisferi cerebrali: le femmine, perciò, subiscono maggiormente l'influenza dell'emisfero destro rispetto ai maschi. Segue da ciò che la donna, nelle sue interazioni, appare più emotiva, mentre l'uomo è più razionale. Il modo di ragionare è diverso: l'emisfero sinistro, dominante, esegue processi in modo sequenziale, mentre quello destro li esegue in parallelo. Perciò la donna, maggiormente influenzata dalle capacità dell'emisfero destro, appare più dotata di intuito.

Donne e uomini non sono uguali. Per crescere in modo equilibrato, il bambino ha bisogno di un padre e di una madre. Tornando appunto al bambino, si sa che il lungo processo di costruzione della propria personalità inizia a partire dall'osservazione delle proprie figure d’attaccamento, e in particolare dei propri genitori. Da tale osservazione scaturisce una forma di apprendimento molto potente, che permetterà di affrontare il mondo prendendo esempio dai comportamenti e dai vissuti genitoriali. Un figlio, però, non si limita a osservare le proprie figure d’attaccamento: interagisce con esse, imparando così a relazionarsi con la diversità insita negli atteggiamenti, nei pensieri e nelle emozioni dell'uno e dell'altro genitore, diversità dovuta sia alle differenze che caratterizzano ogni singolo individuo, in quanto unico, sia alla complementarietà dell'universo maschile e femminile.

Si capisce dunque, da quanto ho appena spiegato, l'importanza della complementarietà del sesso dei genitori, proprio in relazione alle maggiori opportunità comportamentali e relazionali offerte al figlio. Qualora invece le figure d'attaccamento di un bambino fossero dello stesso sesso, questi sarebbe privato, o quantomeno limitato, in modo immotivato e gratuito della possibilità di apprendere a relazionarsi, fin dalle primissime fasi dello sviluppo, con la complementarietà del mondo maschile e femminile. E non si può certo escludere a priori che tale privazione rappresenti anche un potenziale motivo di sofferenza per chi maggiormente deve essere tutelato.

*Psicologa e psicoterapeuta

domenica 10 agosto 2014

Tre regole per affrontare insieme quell'ultimo miglio di Tommaso Scandroglio, 10-08-2014, http://www.lanuovabq.it

Come assistere i malati incurabili?
É nota a tutti l’equazione “senilità”: una vita più lunga corrisponde un aumento delle cure mediche. L’Istat ci informa che la vita media è passata dai 46 anni degli anni Cinquanta ai 66 nel periodo 2000-2005. Gli ultra ottantenni sono oggi il 5,8% e tra 30 anni saranno intorno al 13%. Viene dunque da concludere che non è la vita ad allungarsi, bensì la vecchiaia. Ma, come accennato prima, l’ultimo scorcio di vita è sempre più passato in compagnia dei camici bianchi. Il ministero della Salute ci dice che su 8 milioni di ricoveri annuali il 5% riguarda insufficienze croniche. Questi ricoveri pesano sulle casse dello Stato il 5% di tutta la spesa sanitaria, il 4,1% del Pil e in futuro, manco a dirlo, l’aggravio economico crescerà. Naturale che gli accoliti della “dolce morte” trovino in queste cifre una sponda efficace per far quadrare i conti a spese del nonno moribondo.

Lo studio multicentrico europeo Senti Melc sul tema poi ci fornisce qualche dato in più. Gli ultimi tre mesi di vita vengono passati in ospedale, spesso in modo inutile. Solo in un caso su dieci il paziente viene seguito a domicilio e solo in un caso su dieci si sceglie un ricovero in un hospice. Le insufficienze croniche portano spesso a esiti letali (un rischio da 2 a 4 volte maggiore rispetto ad altri quadri clinici) e i ricoveri in terapia intensiva non di rado non apportano reali benefici.

Da qui una domanda che si pongono gli specialisti che seguono questi pazienti: quali criteri seguire per la cura di questi malati secondo il principio di proporzionalità? Dato che la parabola naturale della loro esistenza sta arrivando a compimento e soluzioni salvavita spesso non ne esistono, diviene prioritario accompagnare il paziente nel suo ultimo miglio su questa Terra cercando il più possibile di alleviare il suo dolore fisico e la sua sofferenza psicologica.

Il percorso del morente nella medicina è un percorso che interessa trasversalmente più categorie di professionisti. Ecco allora che dieci società scientifiche mediche (intensivisti, palliativisti, cardiologi, pneumologi, neurologi, nefrologi, gastroenterologi, medici di urgenza e di medicina generale, infermieri) hanno pubblicato un documento sulla rivista “Recenti progressi in medicina” per scegliere, insieme a bioeticisti e giuristi, il miglior percorso palliativo o intensivo per le insufficienze croniche.

I punti salienti di questo documento potrebbero essere i seguenti. In primo luogo occorre condividere con il malato e i familiari il percorso di cura adeguato che bilanci effetti positivi sperati e costi sopportati in termini di sofferenza psico-fisica e di esborsi economici per la famiglia. In secondo luogo la cura intensiva in genere non è più efficace nella fase terminale della malattia (6-12 mesi dal decesso) e quindi risulta essere sproporzionata. Occorre però valutare caso per caso. Infine, il documento ricorda che le cure palliative non significano abbandonare il paziente e i familiari, ma rendere meno gravoso ad entrambi i soggetti l’ultimo tratto di vita del paziente stesso.

Ora i principi qui espressi sono condivisibili sul piano morale. Ma i principi, per quanto ottimi, scritti sulla carta e non incarnati in virtù e cultura possono essere stravolti a piacimento. Per dirla in breve, il pericolo potrebbe essere quello che il malato con insufficienza cronica venga automaticamente derubricato a caso disperato e abbandonato a se stesso. Le dieci società scientifiche hanno fatto bene a individuare la rotta da seguire in queste strettoie cliniche, ma non vorremmo che, a causa dei venti eutanasici che spirano sempre più sui letti dei moribondi, queste indicazioni restassero lettera morta o peggio offrissero il destro a qualche zelante camice bianco per spingere nella fossa anzitempo chi ha invece buone prospettive di vita. Perché anche questo, qualcuno potrebbe sostenere, è prendersi cura del malato terminale.

lunedì 4 agosto 2014

Sull'aborto l'Onu tortura l'Irlanda di Tommaso Scandroglio, 04-08-2014, http://www.lanuovabq.it


Giusto un anno fa l’Irlanda varava una nuova legge sull’aborto, The Protection of Life During Pregnancy Act, legge che ampliava i casi in cui si poteva ricorrere all’aborto. Non più solo se la vita della madre era in pericolo, ma anche nel caso in cui la donna dichiarava che si sarebbe uccisa non potendo sopportare l’onere di crescere un figlio. Come avevamo già appuntato l’anno scorso , il caso dell’annunciato “suicidio” sarebbe diventato facile pretesto per chiedere l’aborto sempre e comunque. Una rivoltella caricata a salve da puntare contro i medici per ottenere l’aborto.

L’Irlanda aveva dovuto cambiare la propria legislazione perché, manco a dirlo, la solita Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ci aveva messo lo zampino. Sotto i ferri dei giudici, infatti, nel 2010 era finito un caso – chiamato A, B, C contro Irlanda – che aveva offerto il destro alla Corte per mettere all’angolo il Parlamento irlandese: questi avrebbe dovuto specificare meglio le circostanze riferite al «pericolo per la vita per la donna». Da qui la nuova previsione normativa che inseriva anche il caso di pericolo di suicidio come condizione legittimante l’aborto. Rimaneva fuori e rimane fuori tuttora dalla legislazione irlandese la possibilità di abortire se in pericolo non c’è la vita della madre, ma solo la sua salute psico-fisica. Così come altre condizioni quali la previsione di anomalie fetali e la gravidanza a seguito di stupro o incesto.

Ma laddove non può la Cedu forse potrà l’Onu. Infatti, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite lo scorso 15 luglio ha chiamato alla sbarra il ministro della Giustizia irlandese, Frances Fitzgerald. Il relatore del Consiglio sul “caso Irlanda”, il dott. Yuval Shany così si è espresso: «Sebbene la legge del 2013 abbia rappresentato un miglioramento rispetto alla situazione precedente, tale normativa non ha ancora risolto molte delle preoccupazioni del Consiglio per i Diritti Umani e ha lasciato posto alla criminalizzazione dell’aborto, anche in circostanze nelle quali noi Stati (membri) riteniamo debba esserci l’obbligo di consentire l’aborto sicuro e legale».

Ma quali sono le accuse specifiche? L’Irlanda non starebbe rispettando l’accordo di carattere sovranazionale denominato International Covenant on Civil and Political Rights. Tale patto, secondo Shany, tra le altre cose prevedrebbe il “diritto” all’aborto. Siamo andati naturalmente a spulciare questo documento, ma tra i suoi 53 articoli di “diritto all’aborto” manco l’ombra. Nemmeno figurano quelle espressioni care al lessico internazionale che edulcorano la pratica dell’omicidio prenatale con perifrasi quali “diritto alla salute sessuale e riproduttiva”, “tutela della salute della donna in gravidanza”, “libero accesso alle cure per le gestanti”. Nulla di tutto questo. Ci viene in soccorso lo stesso Shany che nella sua requisitoria ai danni della delegazione irlandese guidata dal ministro della Giustizia così chiede con tono vibrante e risentito: «Può la delegazione spiegare come concilia le sue leggi vigenti in materia di aborto con i suoi obblighi ai sensi dell'articolo 6 e in particolare dell'articolo 7 del Patto che è, per quanto io possa ricordare, un diritto assoluto? ».

Dunque l’articolo 6 riguarda il diritto alla vita. Ovvio che Shany non pensasse al nascituro quando ha citato questo articolo a sostegno del “diritto all’aborto”, perché l’art. 6 dovrebbe essere usato per vietare tale pratica più che per legittimarla. Naturalmente il relatore Onu aveva in mente la madre, ma la legislazione irlandese come abbiamo visto permette di abortire se è in pericolo di vita o se minaccia di togliersi la vita e dunque l’art. 6 è rispettato. Il mistero dunque rimane. L’art. 7 riguarda invece la tortura. Siamo alle solite. Qualche tempo fa l’Onu aveva fatto le pulci alla Santa Sede perché la sua posizione critica in relazione alle pratiche abortive avrebbe significato costringere le donne a tenersi il bambino e quindi sottoporle ad una vera e propria tortura. Impedire di ammazzare equivale a torturare. Come avevamo già chiarito, la Santa Sede riuscì a rispedire al mittente tutte queste accuse e ne uscì indenne.

Ma ora si vede che il binomio tortura-aborto deve essere proprio un must presso l’Onu, un chiodo fisso per crocifiggere quei Paesi che non si allineano alla cultura pro-choice. E dunque l’Irlanda torturerebbe quelle donne che vogliono abortire per motivi legati alla loro salute o a quella del nascituro e non possono farlo perché la legge in questi casi ad oggi non prevede l’accesso all’aborto. Non solo. La tortura si verificherebbe anche per quelle madri che già oggi possono legittimamente abortire se in pericolo di vita o se minacciano il suicidio. Infatti, prima di abortire, secondo la legge irlandese, la donna dovrebbe sottoporsi all’esame di tre medici per verificare se davvero c’è questo pericolo oppure se è solo pretestuoso. Shany chiede come questa visita medica possa essere mai «coerente con l’obbligo di proteggere la donna contro la tortura mentale». Sì avete capito bene: l’esame diagnostico da parte dei medici configura una tortura mentale. Che la donna vada ad abortire senza verifica alcuna delle motivazioni addotte (così come accade da noi in Italia per gli aborti fino al 90° giorno).

Mary Jackson, funzionario irlandese presso il Dipartimento della Salute, ha risposto alle accuse dicendo che secondo l’art. 25 del Patto la legge sull’aborto è espressione dell’autodeterminazione democratica dei cittadini e dunque che l’Onu non metta becco negli affari interni di una nazione. La santa inquisizione laica delle Nazioni Unite si è dunque ritirata per decidere al fine di emettere la quinta serie di osservazioni conclusive. Fino a quando l’Irlanda reggerà ai questi ripetuti colpi di ariete? Fino a quando, lei sì, riuscirà a resistere a questa tortura?

Eterologa, quel che può fare un ministro di Francesco Agnoli, 04-08-2014, http://www.lanuovabq.it

Sulle implicazioni e sulle azioni possibili dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha parificato la fecondazione eterologa a quella omologa, facendo saltare uno dei pilastri della Legge 40, il dibattito è sempre vivo nel mondo pro-life. Molti sono stati gli interventi - anche di segno diverso - pubblicati su La Nuova BQ. Oggi ospitiamo l'intervento di Francesco Agnoli, che spezza una lancia a favore dell'azione del ministro Lorenzin e ricorda il compito urgente dei cattolici.

Il 24 febbraio 2004 la Gazzetta ufficiale pubblicava la famosa Legge 40 sulla fecondazione artificiale (FIV), o Pma. Quella legge arrivava dopo anni e anni di discussione, e un vero far west procreativo che forse pochi oggi ricordano, e che allora veniva negato soprattutto dai radicali e da buona parte della sinistra (Veltroni e D’Alema in testa). In assenza di legge, infatti, tutto era perfettamente lecito. E nel nostro Paese succedeva proprio di tutto. Soprattutto grazie al fatto che alcune cliniche private procedevano a spron battuto nel promettere figli, e figli sani, a centinaia di coppie disperate e ingenue, disposte a pagare qualsiasi cifra.

Prima del 2004 è tutto un proliferare di laboratori più o meno improvvisati, perché, a differenza che per qualsiasi altra specialità medica, non era richiesto alcun permesso nè alcuna specializzazione: un dentista di Firenze, la sera, deposto il trapano, trasformava il suo studio in un centro di Fiv; altri dottori, poco attrezzati e poco esperti, improvvisano improbabili tecniche o si limitano a spillare quattrini, senza alcun risultato. «Chi operava nel privato», scrive Giulia Valentini, nel suo libro contro la legge 40, intitolato La fecondazione proibita, «non aveva regole specifiche da rispettare… Non c’era alcun obbligo di far verificare la scientificità e la sicurezza dei propri metodi agli ispettori del ministero. Non c’erano limiti alle tariffe e non esisteva neanche un registro nazionale dei centri con iscrizione obbligatoria, come in molti altri Paesi».

In quegli anni, prima della legge, abbiamo nel nostro Paese bambini nati da “due mamme”, cioè dalla fusione di due ovuli femminili; bambini “ospitati” in uteri di donne extracomunitarie, utilizzate come contenitori (i primi uteri in affitto); venditori di seme che arrivavano a mettere sul mercato anche 1000 dosi dello stesso donatore; parti plurigemmellari, dovuti all’impianto di innumerevoli embrioni (svariati i casi di mamme con 5-6-8 figli, destinati ovviamente in parte alla morte naturale o all’aborto procurato, in parte, quelli nati, a una esistenza segnata da malattie e problemi di ogni genere); abbiamo fecondazioni eterologhe (su richiesta o a insaputa dei genitori); fecondazione eterologhe di single e di lesbiche (l’Arcilesbica diffondeva kit per l’auto-inseminazione); centri di Fiv in cui si praticavano diagnosi pre-impianto a prezzi esorbitanti (con relativa distruzione di embrioni), per coppie non sterili; mamme-nonne come la celebre Rosanna Della Corte, di 63 anni; nonne che portavano in grembo il figlio della figlia; donne iperstimolate per produrre decine e decine di ovuli (con cui poi praticare la Fiv, ma anche esperimenti di clonazione…); esperimenti per la produzione di ibridi e chimere; consensi informati totalmente fasulli e senza controlli…

Tutte cosette che la fecondazione artificiale porta purtroppo inevitabilmente con sé. Ricordo che allora il mondo cattolico perse buona parte del sostegno che aveva invece ricevuto anni prima da componenti del mondo femminista (in parte avverso a tecniche che utilizzano le donne come cavie) e del mondo dei verdi e degli ecologisti, che in un passato recente avevano messo in guardia dalle manipolazioni dell’umano. La battaglia fu condotta da molti in nome di alcuni principi di diritto naturale: la vita non si può mettere in vendita; la fecondazione artificiale separa l’atto d’amore dalla procreazione, scindendo ciò che in natura é unito; la fecondazione artificiale uccide 9 embrioni su 10, determinando danni molto spesso gravi alle donne (causa l’iperstimolazione ovarica) e “producendo” bambini, come tutte le ricerche continuano a dimostrare, con un tasso molto più alto di patologie rispetto a quelle presenti nei nati da concepimento naturale. In verità il fronte pro life fu in parte funestato, in quel periodo, da dissidi interni: da una parte chi lavorò subito ad una legge di compromesso, come appunto la legge 40, dall’altra chi disse che questo modus procedendi (iniziare dal compromesso) era sbagliato.

Personalmente mi schierai con i secondi, convinto che una battaglia di bandiera, in Parlamento, dovesse essere fatta. Infatti, un piccolo gruppo di deputati, fra cui qualche amico, avevano proposto un disegno di legge molto semplice: la fecondazione artificiale è proibita, in quanto pratica disumana. Una simile posizione, era ovvio, non aveva neppure con il Parlamento di allora (molto migliore di quello di oggi), alcuna possibilità di riuscita. Sarebbe stata dibattuta e archiviata in breve. Ma avrebbe quantomeno lanciato un segnale politico, che avrebbe poi dovuto essere valorizzato a livello culturale. Invece qualcuno insistette perché quella posizione non fosse manifestata, neppure per lo spazio di un mattino, non solo in Parlamento, ma poi neppure sui media amici. Generando così un grosso equivoco. La legge 40, infatti, fu forse in quelle circostanze quanto di meglio (dettaglio più, dettaglio meno, ma siamo nell’opinabile) si potesse ottenere: in un Parlamento moderno le leggi, anche quelle sui principi che non sarebbero negoziabili, le fanno le maggioranze.

Ma una cosa è fare una battaglia per portare a casa il massimo risultato possibile (divieto di eterologa, di utero in affitto, di mamme-nonne, di ibridi e chimere, di fecondazione ai single…), spiegando bene a tutti che il massimo risultato, in certe circostanze, non coincide con una vittoria; un’altra dire che l’aver guadagnato alcuni metri nella guerra di trincea significa aver vinto la guerra. Mi spiego meglio: credo, personalmente, che la legge 40 abbia significato un miglioramento della situazione esistente pre-legge (contribuendo anche a mantenere viva quantomeno una certa idea di famiglia come unione di uomo-donna e figli), e che abbia anche permesso al nostro Paese di essere, per un po’ di anni, un po’ meno nichilista degli altri Paesi europei.

Ma la difesa di tale legge, una volta che essa venne approvata da una maggioranza parlamentare trasversale (difesa che poi si fece tutti insieme boicottando il referendum, e dimostrando così che in certe circostanze ci si mobilita anima e cuore anche non per un bene, ma per impedire un male maggiore), avrebbe dovuto essere più chiara e comprensibile, evitando quello slittamento pericoloso che invece vi fu: si iniziò spesso a dire che si difendeva la legge 40 non come il massimo bene possibile in un dato momento, per limitare una realtà ancora peggiore, ma come un bene in se stesso. Lasciando così credere che la Fiv omologa, tra coniugi, è buona, mentre l’eterologa no. E omettendo di continuare a ricordare, ad esempio durante il referendum e anche dopo, l’immoralità e la pericolosità intrinseca di ogni procedimento di fecondazione artificiale.

Questa incapacità di qualcuno di distinguere i piani (quello politico, in cui vince la maggioranza), da quello culturale (in cui in ogni caso si deve e si può dire tutta la verità), mi sembra oggi presente, in altro modo, nel dibattito sulla fecondazione eterologa. Vediamo di paragonare il 2004 al 2014. Nel 2004 si fece una legge per diminuire le follie di fatto, permesse dalla mancanza di una legge. In simile situazione il dibattito sulla liceità o meno di un intervento legislativo deve tenere conto di vari fattori complicati: la legge in questione rappresenta davvero un miglioramento? É lecito, di fronte ad un male di fatto, ma non di diritto, normare detto male, al fine di renderlo meno grave?

Nel 2014 la situazione è molto più semplice: la Corte costituzionale ha stabilito che l’eterologa è costituzionale; che è come l’omologa; che è un diritto. Questo ha permesso ai vari Rodotà, ai radicali, a molti deputati di sinistra, ai centri di Fiv, a magistrati come Amedeo Santosuosso, di chiedere l’immediata applicabilità della sentenza, senza alcuna “intromissione” del potere politico. Lo slogan di costoro è chiaro: “il ministro non intervenga, basta la sentenza della Corte”. Oggi come nel 2004 i nemici della vita e della famiglia non vogliono alcun intervento del legislatore. Sperano di andare avanti a colpi di magistratura e di libero mercato della vita umana. Così Repubblica del 24 luglio, nel titolo e nel sottotitolo: “Fecondazione eterologa, giuristi contro il ministero della Salute”: «Cerca di ritardare il via libera a una tecnica che dopo la sentenza della Consulta è immediatamente legale: non c'è bisogno di passaggi al Parlamento». E lanciano un manifesto e una raccolta di firme.

Quanto al contenuto dell’articolo, bastino le prime righe: «Non esiste vuoto normativo sull'eterologa, la sentenza della Consulta è immediatamente applicabile e i centri italiani possono subito riprendere le tecniche di fecondazione con donazione di gameti. Lo afferma il Manifesto di giuristi, lanciato in rete e che si può firmare sul sito dell'associazione Coscioni che lo ha promosso. Elaborato dal presidente Filomena Gallo e dal giurista Stefano Rodotà, è stato sottoscritto da decine di uomini di legge, docenti di biodiritto come Gianni Baldini e tra gli altri Andrea Pugiotto, Ordinario di Diritto costituzionale, e Paolo Veronesi, professore associato di Diritto Costituzionale. Nell'appello si accusano il ministero della Salute e alcune lobby culturali del Paese di tentare con ingiustificati deterrenti di ritardare l'applicazione del dispositivo costituzionale».

Perché questa avversione preventiva a qualunque intervento legislativo? Per impedire qualsiasi regolamentazione che metta anche un poco in difficoltà l’assoluta libertà, garantita dalla sentenza della Corte, dei centri di Fiv (in particolare quelli privati). Se così fosse avremmo in un attimo lo scatenarsi del cosiddetto baby business: banche degli ovuli e del seme, senza limiti di “donazioni” (con il ritorno a potenziali padri e madri di decine e decine di figli genetici sparsi per il paese); possibilità per gli acquirenti di comperare ovuli e seme in appositi cataloghi, a seconda dei soldi disponibili e dei desideri eugenetici; facilità per coppie gay di ricorrere di fatto alla Fiv… Si pensi solo a questo fatto. Dati recenti dicono che negli Usa, dove le cliniche private che fanno Fiv crescono ogni giorno di numero e di ricchezza, gli ovuli di prima qualità costano mediamente 4500 dollari, ma possono arrivare sino a 50.000, mentre il seme maschile viene venduto a prezzi che variano da 300 a 3000 dollari. Questo è il mercato dell’umano che la Corte, e chi ne esalta l’operato, vuole permettere anche da noi.

Il ministro Beatrice Lorenzin, invece, ha deciso di intervenire. Nonostante Rodotà, i radicali, i centri di Fiv (leggermente sospetti di conflitto di interessi). Il suo intervento, coraggioso visti gli inviti pesanti e insistenti a stare ferma, non può essere giudicato a monte: non è infatti in discussione l’eterologa (la Corte ha già deciso!), ma come regolarne il ricorso. Vietando o limitando l’anonimato (che tutela i venditori di seme e di ovuli, ma non i bambini che nasceranno), imponendo la gratuità, cercando di sottrarre in parte l’eterologa al mercato, impedendo la possibilità dei compratori di scegliere il donatore in base a principi di eugenetica, razziali o altro ecc., il ministro sta rimettendo in campo un po’ di quel buon senso cui la Corte ha volutamente abdicato. Può muoversi solo entro precisi paletti che le sono imposti da fuori (sentenza della Corte, coerenza con il trattamento riservato all’omologa…). Mi sembra giusto, da un punto di vista politico, riconoscerglielo. Da un punto di vista culturale, invece, il lavoro è sempre quello: mostrare e rimostrare con i dati, con ricerche, facendo appello al buon senso, che omologa ed eterologa sono contro l’uomo.

venerdì 1 agosto 2014

Veronesi & C gli apostoli della necro-ideologia di Tommaso Scandroglio, 01-08-2014, http://www.lanuovabq.it

Fare pressing. É questa una delle strategie vincenti che mette in campo il fronte pro-choice sui principi non negoziabili. Beppino Englaro ottenne il permesso di far morire di fame e di sete sua figlia da un giudice, dopo che sei suoi colleghi gli dissero di no. I Radicali, il giorno seguente  alla mazzata ricevuta dal referendum perso sulla legge 40, iniziarono a bussare alle porte dei tribunali di mezza Italia per vedere abrogata questa legge manu iudicis e ci sono riusciti. Poi un esempio fresco fresco. La Consulta apre all’eterologa e i sostenitori del figlio in provetta non si danno ai pazzi festeggiamenti ma si dicono: “Non basta. Ora vogliamo l’eterologa senza confini e guai se il Parlamento o il Governo vogliono mettere dei paletti”. Altro che strategia cattolica. Vi ricordate la famosa intervista rilasciata da un altissimo prelato all’indomani della vittoria referendaria sulla legge 40? Diceva più o meno così: abbiamo vinto sulla provetta ma non ci passa nemmeno per l’anticamera del cervello mettere in discussione la legge 194 sull’aborto.

Fare pressing dunque, stare con il fiato sul collo dell’avversario. Un saggio di questa tattica ci viene da un articolo a firma di Umberto Veronesi sulla Stampa pubblicato qualche giorno fa che tocca temi quali il caso stamina, la fecondazione eterologa e l’eutanasia. Facciamo opera di carotaggio. L’illustre oncologo butta nell’inceneritore qualche quintalata di leggi e di tradizione giuridica quando dichiara dopo poche righe: “Io penso che non è con le leggi che si possono guarire le persone o tutelare la loro salute”. Affermazione scolpita nel marmo della scienza che fa un po’ a pugni ad esempio con le normative che riguardano i protocolli clinici, il consenso informato, la responsabilità civile e penale del medico, i controlli sui farmaci ad opera dell’Aifa che è ente pubblico e sugli alimenti e su chi confeziona o vende gli stessi, i trattamenti sanitari obbligatori, i fenomeni di epidemia e pandemia e relativi vaccini, gli standard di sicurezza sui luoghi di lavoro e nella circolazione stradale e quelli attinenti alla costruzione di edifici (compresi gli stessi ospedali), i criteri per accedere alla professione medica, la tutela della salubrità dell’ambiente. E ci fermiamo qui per non ammorbare l’attenzione del lettore.

Dunque per Veronesi le leggi si devono astenere dal disciplinare la materia “salute e cure”. E a cosa servono allora le norme dello Stato per uno come lui che fa il medico? “E’ con le leggi che si dovrebbe garantire la libertà di scelta – tiene a precisare il nostro – hanno sbagliato i legislatori a vietare la fecondazione eterologa ed ora sbaglia il Ministero della Salute a frenarla con le briglie delle mancate linee guida. […] Obbligare e proibire è inutile se nessun provvedimento tutela la libertà del medico di agire secondo scienza e coscienza da un lato e la libertà del cittadino di curarsi o non curarsi, dall’altro”. Insomma in ambito clinico la suprema lex dovrebbe essere quella del “vietato vietare” caro ai sessantottini. L’unica norma legittima sarebbe quella che dicesse a medico e paziente: “fate come credete”. Ergo de-legittimazione totale, deregulation senza se e senza ma, libertà no limits.

E’ quello a cui puntavano i Radicali nel referendum del 1981 in merito alla legge 194 che volevano venisse completamente abrogata. E’ in fondo lo spirito che anima l’art. 4 della stessa legge che entro il 90° giorno permette di abortire sempre e comunque.Veronesi in fondo vuole una regola per non avere regole. Poi il frontman del diritto a morire tira in ballo la proposta di iniziativa popolare sull’eutanasia lamentandosi che è ormai quasi un anno che è stata depositata: “Il Parlamento ignora la questioni che riguardano il diritto di decidere”. Aggiunge infine che la parola “eutanasia” è stata equivocata ed è quindi meglio sostituirla con “libera scelta”: “la parola ‘scelta’ è un punto cruciale perché mette il diritto di morire sullo stesso piano degli altri diritti delle persona universalmente riconosciuti”. Peccato che per il nostro ordinamento la vita è un bene indisponibile e che abbia già da parecchi decenni legiferato sul tema e dunque non abbia per nulla ignorato la materia (vedasi tra gli altri gli artt. 575, 579, 580 cp e 5 cc).

Dunque lo Stato italiano ha già fatto la sua scelta ed ha scelto la vita. Per questo motivo il “diritto” a morire nel Bel Paese non esiste proprio e anzi l’effetto morte è considerato un reato se procurato da terzi con o senza il consenso della futura salma. E in merito alla scelta e al diritto di decidere, unico aspetto secondo Veronesi che la legge dovrebbe tutelare in campo medico, spesso si evoca l’art. 32 della Costituzione che al secondo comma così recita: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Ma al di là delle interpretazioni fuorvianti che la giurisprudenza ha prodotto su questo articolo nelle ultime decadi, l’art. 32 non dice: “Hai il diritto di rifiutare le cure anche quelle salvavita”, bensì impone allo Stato di non mettere le mani sulle persone senza loro consenso. E’ uno stop imposto al medico, non un via libera per il cittadino all’eutanasia. Pare che sia la stessa cosa, ma così non è. Nella Costituzione sono elencati alcuni ben individuati principi valoriali positivi: diritto alla vita, alle cure, all’educazione, al lavoro, etc. Di certo non ci può essere il diritto alle cure ed anche il diritto al rifiuto delle cure. Il diritto alla vita e il “diritto” alla morte o alla malattia.

La Costituzione ha fatto una scelta tra i beni da tutelare giuridicamente e non ci può essere tutto e il contrario di tutto. L’art. 32, nato come gli altri articoli all’indomani delle barbarie della Seconda Guerra Mondiale tra cui le sperimentazioni sugli ebrei, cristiani, zingari, persone omosessuali e malati psichici, dice semplicemente che non si può sottoporre ad esperimenti chi non vuole. Ma queste argomentazioni per i fan della necro-ideologia sono presto ridotte a meri sofismi sotto lo schiacciasassi del pressing a tutto campo.