martedì 30 settembre 2014

Fecondazione e utero in affitto: la lezione di Scola di Angelo Scola e Christoph Schönborn, 30-09-2014, www.lanuovabq.it

   Questo il testo dell'articolo scritto a quattro mani dai cardinali di Milano e Vienna, Angelo Scola e Christoph Schönborn e pubblicato dal quotidiano francese Le Figaro. E' una sorta di appello a tutti gli europei: nel loro articolo i due cardinali elogiano il movimento Manif piur tous che il 5 ottobre manifesterà contro il progetto di legge per introdurre tecniche per la «fabbricazione di bambini senza genitori». Cento anni fa, il nostro Continente si impantanava nella guerra, trascinando il mondo in un conflitto di cui non abbiamo ancora finito di calcolare le conseguenze. La guerra del 1914-1918 poneva, in un modo tragico e nuovo, la questione del valore della vita umana: quanti uomini e donne avrebbero dovuto per quella guerra pagare il prezzo di sangue? Quante famiglie piansero un figlio, un padre, un fratello, un amico che non è più tornato? Quanti genitori senza figli e quanti bambini senza genitori? Tutta l’intera famiglia europea era in lutto. Oggi nuovi pericoli minacciano il nostro Continente. Essi pongono la stessa domanda sul valore della vita umana, sia pure in termini diversi. Nella nostra economia di libero mercato, il mercato non può essere il criterio ultimo, il bisogno materiale non è l'unica bussola e l’uomo non deve trasformarsi in una variabile tra domanda e offerta. In vari Paesi europei, le leggi e i regolamenti ora permettono la maternità surrogata. Assistiamo a un doppio attentato alla dignità umana, contro i bambini da una parte, condannati «a essere di fatto orfani di genitori vivi», come ha detto Giovanni Paolo II nella sua lettera alle famiglie, e contro le madri, i cui corpi vengono cosificato, sfruttati, affittati. Se si è preoccupati per la recente decisione della Corte europea dei Diritti dell'uomo che ha dato via libera alla fecondazione artificiale, diamo il benvenuto alla reazione tonica, giovane, creativo e duratura della Francia. La Francia ha avuto il coraggio di dire no. Il Presidente della Repubblica francese si è impegnata contro l’utero in affitto. Manif pour tous, oggi conosciuta in tutta Europa, aveva previsto che cambiando la natura del matrimonio si sarebbe passati ad altre rivendicazioni che snaturano l’adozione e organizzano la fabbricazione di esseri umani. Nella maternità surrogata, ci sono in germe tutte le condizioni di una schiavitù moderna dove il bambino è concepito come un prodotto, un commercio in cui i più ricchi sfruttano i più poveri, mentre si accelera l’eugenetica occidentale. Visto dai nostri Paesi, è indubbio che è il movimento francese di Manif è sicuramente formato da molti cattolici, di credenti di altre religioni e di non credenti. Non è quindi una voce ecclesiale, ma una voce francese che è sentita, a livello europeo e internazionale. Questa espressione popolare e dovrebbe ispirare le nazioni occidentali e spingere la Convenzione europea dei diritti dell'uomo a elaborare un dispositivo di legge che protegga i diritti dei bambini. E questa non sarebbe una logica estensione della Dichiarazione universale dei diritti umani? Dobbiamo garantire i diritti dei bambini a conoscere le proprie origini, a crescere con il padre e la madre, a escludere ogni forma di contratto, economico o di altra natura, che li privi di uno o di entrambi i genitori. Come espresso dai nostri fratelli vescovi in Francia, se l'accesso per la procreazione medicalmente assistita e la maternità surrogata vengono liberalizzati, tutta la filiazione resta disorientata e una generazione di bambini sarà privata intenzionalmente di uno dei loro genitori Papa Francesco ci invita costantemente ad uscire da noi stessi e andare verso la periferia: non è una questione di geografia, ma di innanzitutto di vita. Le periferie della nostra umanità sono l’estrema fragilità, piccolezza e povertà: quella della vecchiaia e quella dell'infanzia. La nostra attenzione a queste periferie è il cuore della nostra civiltà. Noi non solo vogliamo ringraziare i francesi per il loro risveglio inaspettato, stimolare il loro impegno che sarà molto utile quando arriva il momento, nel nostro Paese, ma chiediamo soprattutto di restare fedeli alla loro storia. Non è solo questione di radici, ma di rami, germogli e frutti. Insomma, c’è in gioco il futuro dell’Europa.

sabato 27 settembre 2014

L’aborto e il cancro al seno: nuove prove scientifiche li collegano, 27 settembre 2014, www. notizieprovita.it

L’aborto motiplica i rischi di sviluppare il cancro al seno. Ne abbiamo già parlato in altre occasioni, su questo sito e sulla rivista mensile Notizie Pro Vita. Ovviamente la notizia è censurata dai media, dalla cultura della morte, e anche dalla comunità scientifica politicamente corretta. Anche da quelli che blaterano ogni tre per due di “diritto alla salute”, soprattutto delle donne. Da ultimo, si sono aggiunti 12 studi scientifici provenienti dall’India, a confermare il “Link ABC” (legame tra Aborto e Breast Cancer, cancro al seno). Secondo questi, considerando che una donna di per sé può essere più o meno predisposta al tumore, un aborto volontario aumenta di 5 volte le possibilità che il tumore si sviluppi.
Noi continuiamo a ripetere: chi veramente fosse “femminista” dovrebbe essere contrario all’aborto. Non stiamo parlando del diritto a vivere del bambino – che pure, ovviamente, va rispettato – ma stiamo considerando la questione solo nell’ottica della tutela della donna, che è madre – volente o nolente – quando resta incinta; e che se abortisce deve quanto meno essere avvisata delle possibili gravi conseguenze, psichiche e anche fisiche, a cui il suo gesto la espone. Invece, da quasi 40 anni, la 194 e la cultura mortifera che l’ha prodotta e che la sostiene, non ha fatto altro che banalizzare l’aborto: a discapito non solo dei bambini, ma anche delle madri. Francesca Romana Poleggi

venerdì 26 settembre 2014

Pazze, pazze, pazze Regioni. I costi, le donazioni, l’anonimato. Ora come la mettiamo con l’eterologa?, Settembre 26, 2014 Redazione, http://www.tempi.it/


fecondazione-eterologaLa Conferenza delle Regioni fissa l’importo del ticket: dai 400 ai 600 euro a coppia. Ma lo Stato dovrà mettercene altri 14.000. Ma limitarsi al solo aspetto economico lascia nel limbo dell’incertezza (e del business) altre questioni.
Due articoli apparsi in questi giorni sulla stampa meritano di essere segnalati per la loro lucidità. Il primo è apparso oggi sulle pagine di Avvenire con la firma di Francesco Ognibene, il secondo ieri sul Corriere della sera e l’autore è Giovanni Belardelli. Il tema è il medesimo: la fecondazione eterologa, di cui si parla molto dopo la sentenza della Corte Costituzionale e l’iniziativa delle Regioni che, eccezion fatta per la Lombardia che non l’ha previsto, faranno pagare un ticket tra i 400 e i 600 euro.
Ieri la Conferenza delle Regioni ha raggiunto un accordo sul ticket che, come ha detto il presidente Sergio Chiamparino, si pagherà «per gli esami necessari ad accedere a queste prestazioni, secondo modalità con cui viene già erogata la fecondazione omologa». Cioè, appunto, una spesa che varia tra i 400 e i 600 euro. L’accordo è “politico” e non giuridico che significa che chi, come la Lombardia, ha deciso di non emettere il ticket, ma di far pagare per intero l’eterologa alle coppie che la richiedono, non incorre in alcuna sanzione. Da notare che tale accordo riguarda solo l’aspetto economico e non si è entrati nel merito di come andranno gestite le donazioni, l’anonimato, il “costo” dei gameti. Ognuno farà come vuole (già, come?) fino a che non interverrà una nuova legge dello Stato.

I COSTI. Ognibene su Avvenire svela la prima ipocrisia dell’accordo che è stato, appunto, quello di limitarsi al “costo” del figlio, senza entrare nel merito di una materia che è «un ginepraio di monumentali interrogativi tra biologia, diritto e psicologia», lasciando tutto «nel limbo dell’incertezza».
Ma anche per quel che riguarda il “costo” del figlio, a voler guardare bene, i problemi ci sono. Infatti le Regioni hanno riconosciuto che per tali pratiche la spesa da sostenere è esorbitante. Per l’eterologa con seme da donatore in vitro si parla di 3.500 euro e per quella con ovociti provenienti da donatrici di 4.000 euro. «La tecnica delle fecondazione in provetta con gameti di altre persone garantisce una media approssimata del 25 per cento di successi, ovvero quattro cicli per ottenere un figlio. C’è chi sostiene che gli esiti positivi sarebbero di più, ma già così il calcolo pare in realtà generoso: per la fecondazione omologa – dati 2012 – il rapporto è di 93.634 tentativi e 11.974 “figli in braccio”, cioè un tasso di successi pari al 12,8 per cento. Ma pure assumendo per l’eterologa il rapporto di uno a quattro, il “costo” di un bambino è di circa 16 mila euro, nel caso – il più frequente – di ricorso a ovociti donati. A questa cifra va sottratto il ticket, tra 400 e 600 euro, secondo l’accordo di ieri: dunque una media di 2.000 euro per il totale di tutti e quattro i tentativi necessari per una riuscita (è chiaro che alcune coppie centreranno l’obiettivo subito, altre purtroppo mai)».
Scrive il giornalista di Avvenire: così facendo, per evitare la discriminazione «tra “sterili” e “fecondi” se ne introduce una molto più vistosa. La sterilità è infatti oggi solo una delle cause che impediscono agli italiani di procreare, e l’eterologa solo una delle soluzioni».
Ma se lo Stato ci deve mettere 14 mila euro per garantire un figlio ad ogni coppia, non sarebbe quindi giusto utilizzare quella stessa cifra per aiutare le coppie che volgiono avere figli ma non posso per motivi di origine economica? «Alle prime coppie sì e alle altre no? Non è forse questo diverso trattamento una forma di discriminazione tra tutti coloro che nutrono il medesimo desiderio di mettere al mondo un bambino, e hanno – per dirla con la Corte Costituzionale – lo stesso diritto “incoercibile” di avere figli?». E visto che l’eterologa è un percorso alternativo all’adozione «risulta platealmente iniquo il diverso trattamento delle coppie che davanti all’identica diagnosi scelgono la provetta con gameti donati (potendo contare sui suddetti 14 mila euro) e chi invece si inoltra nell’avventura dell’adozione senza un centesimo di sostegno pubblico e, anzi, dovendo dar fondo ai risparmi per spese di decine di migliaia di euro».

LA DONAZIONE. Il commento di Belardelli mette in rilievo un altro aspetto della questione: la cosiddetta «donazione». Che tale non è, come ci testimonia la stessa realtà che ci racconta che i cosiddetti donatori non esistono. La ragione è semplice: per “donare” i gameti occorre sottoporsi a stimolazioni ormonali, due iniezioni sottocutanee al giorno per dodici giorni, cinque ecografie, prelievi del sangue, anestesia generale e ricovero in day hospital. Ora, potrà anche accadere che qualcuno con un atto di generosità estremo di sottoponga a tutto ciò per “fare un regalo” a chi è sterile, ma come è facile intuire e come ci dice l’esperienza dei paesi esteri in cui c’è l’eterologa, sarà molto più diffusa la donazione “a pagamento” (con tutto ciò che comporta…).
«Il termine donazione – scrive Belardelli – è un espediente lessicale che utilizziamo per sfuggire alla contraddizione che, nell’uso di un gamete femminile estraneo alla coppia (per gli uomini, come è ovvio, le cose sono diverse), si produce tra due principi fondamentali della nostra cultura: da una parte la libertà individuale di chi cerca di avere un figlio, dall’altra il divieto di sfruttare un altro essere umano. Quest’ultimo non è altro che il divieto contenuto nell’imperativo kantiano “agisci in modo di trattare l’umanità, nella tua come nell’altrui persona, sempre come fine mai come mezzo”».

L’ANONIMATO. E che dire poi dell’anonimato del donatore? Qui, il problema è insolubile. Nelle linee guida delle Regioni si dice che «il nato non potrà conoscere l’identità del donatore». E si capisce perché: nessun donatore vuole in futuro avere a che fare – sia per ragioni psicologiche, sia per ragioni legali ed economiche – coi figli nati dai suoi gameti. Se non garantisci l’anonimato, la banale conseguenza sarà di non avere donatori. Solo che tale decisione confligge con il diritto del nato a sapere chi è il suo genitore biologico. «Non a caso – prosegue Belardelli – in altri Paesi quel divieto non esiste o – come in Gran Bretagna nel 2005 – è stato abolito (e alcuni esponenti del Pd hanno già presentato una proposta di legge in tal senso). La difficoltà di avere donatori e la questione dell’anonimato segnalano il fatto che la fecondazione eterologa è qualcosa di sostanzialmente diverso, e non soltanto una variante “tecnicamente differente”, rispetto alla fecondazione omologa. Ma di tutto questo poco si parla, anche per la difficoltà a sviluppare una discussione che superi le tradizionali divisioni tra destra e sinistra e tra laici e cattolici. Una discussione che sia in grado di affrontare anzitutto la questione fondamentale di fronte alla quale la fecondazione eterologa ci pone: tutto ciò che è tecnicamente possibile deve anche essere fatto? Dobbiamo lasciare che sia la tecnoscienza e non più l’etica a dirci ciò che è lecito e ciò che non lo è? Proprio il grande sviluppo, presente e futuro, delle biotecnologie è destinato a rendere questi interrogativi sempre più rilevanti e ineludibili».

martedì 23 settembre 2014

Trentino, dietro la finta emergenza sull'omofobia di Alfredo Mantovano, 23-09-2014, http://www.lanuovabq.it

Approvando una propria legge anti-omofobia la Provincia di Trento gioca d’anticipo. Un po’, cambiando quel che c’è da cambiare, come fa in queste ore il sindaco di Bologna col registro delle trascrizioni dei matrimoni fra persone dello stesso sesso contratti fuori dall’Italia, o come ha provato a fare tre mesi fa il presidente della Regione Lazio con misure limitative all’obiezione del medico all’aborto. Questi provvedimenti sono legati dall’impazienza per le determinazioni del Parlamento: il legislatore nazionale va posto di fronte al fatto compiuto. Dunque, perché attendere i comodi del Senato sul disegno di legge “Scalfarotto” quando da subito si possono piantare degli efficaci paletti?

Emergono due interrogativi. Il primo: la pur ampia autonomia della Provincia ha confini così estesi da permettere che si vari una legge in questa materia? Il secondo è distinto, ma non separato: quale emergenza sociale esiste nel Trentino per far approvare tale legge provinciale? Ve ne è la reale necessità? Non si corre il rischio – al di là delle intenzioni – che le nuove norme diventino essere stesse discriminatorie? La lettura del testo unificato all’esame dell’assemblea provinciale fa capire che i proponenti si sono posti la prima questione: si coglie lo sforzo perché il testo non invada la sfera di competenze dello Stato. È però innegabile che in più d’un passaggio si proceda lungo il confine: lo si oltrepassa? Sì, a mio modesto avviso. L’art. 9, per es., prescrive che, «per la salvaguardia del diritto di ogni persona alla libera espressione e manifestazione del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere, la Provincia (…) adotta modalità linguistiche e comportamentali ispirate alla considerazione e al rispetto dei principi di questa legge»; e aggiunge che «le sanzioni disciplinari previste dai contratti collettivi» sono aggravate «se le violazioni evidenziano una discriminazione fondata in particolare sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere e sull'intersessualità». Evocando «modalità linguistiche», è evidente che il riferimento non è al bilinguismo, bensì a una sorta di neo-lingua “gendericamente corretta” cui tutti, in primis i dipendenti della Provincia, sarebbero chiamati ad attenersi, pena l’aggravamento delle sanzioni disciplinari. Chiedo: quando si stabiliscono criteri di carattere generale per colpire disciplinarmente si è ancora nella sfera della competenza di una Provincia autonoma?

Per restare sullo stesso articolo – ma il testo ne contiene altri, altrettanto discutibili –, e passando al merito: quali sarebbero i parametri del rispetto di «modalità linguistiche» non discriminatorie, e chi ne sarebbe l’arbitro? Se Caio ingiuria Tizio o lo diffama è sanzionato dalle norme del codice penale; se ne lede nella dignità in quanto omosessuale la pena è aggravata dal medesimo codice, che punisce in modo più pesante chi agisce per motivi abietti o futili, o profittando di una minore difesa. Sul presupposto dell’accertamento penale, Caio non sfuggirà poi alla sanzione disciplinare. Questa è la legge in vigore, nel Trentino come nel resto d’Italia; quale è allora il senso di stabilire «modalità linguistiche» vincolanti a pena di sanzione disciplinare? Sarà punito chi sosterrà che la famiglia è quella costituita da un uomo e da un donna uniti in matrimonio, o – peggio ancora – che la famiglia in tal senso intesa ha una utilità sociale superiore a quella di altre unioni?

Non è un quesito privo di senso; basta guardare quanto accade in ordinamenti con norme simili a queste. In Canada – pure questo è un es. fra i tanti – agli studenti di un prestigioso campus di Vancouver, la Trinity West University, viene chiesto di sottoscrivere all’ingresso l’impegno a non accedere a siti pornografici utilizzando il wi-fi dell’università, a non assumere alcool nel campus, e ad astenersi «da forme di intimità sessuale che violino la sacralità del matrimonio tra un uomo e una donna». La Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Legge canadesi ha avviato un procedimento amministrativo contro l’università e ha chiesto agli Ordini degli Avvocati di non ammettere alla pratica forense i laureati di quell’ateneo perché “omofobi”. In quel codice di comportamento l’omofobia sta nel riferimento alla «sacralità del matrimonio tra un uomo e una donna» e al fatto che sia menzionato solo questo matrimonio, e non quello fra omosessuali. È il caso di rischiare assurdità del genere anche dalle nostre parti?      

Da ultimo. Pur essendo meridionale, conosco le strade e i sentieri del Trentino fin da bambino. Nel corso dei decenni ho sempre apprezzato, con le bellezze della natura, la cortesia e l’ospitalità degli abitanti. Non sono mai stato sfiorato dal pensiero che una terra e delle persone tanto benedette da Dio fossero animate da impulsi omofobi, sì da non potersi attendere le decisioni del Parlamento nazionale, e da dover intervenire con una legge provinciale. Esiste veramente un’emergenza del genere?

domenica 21 settembre 2014

Sentenza choc in Olanda sulla pedofilia Via libera al club che la promuove, 03/04/2013, http://www.lastampa

Secondo la Corte d’appello non va vietata la fondazione che propone la liberalizzazione del sesso coi minori, 

La pedofilia è «un comportamento aberrante». Ma non può essere negato il diritto di fare campagne per promuoverla. È il senso della sentenza shock di una corte d’appello olandese che ieri, ribaltando la decisione di primo grado, ha stabilito come non debba essere vietata l’attività di una fondazione che da oltre trenta anni promuove la pedofilia.
Lo scorso anno il tribunale civile di Assen aveva ingiunto lo scioglimento del gruppo `Sticthing Martijn´ rilevando che le sue proposte per legalizzare i contatti sessuali tra adulti e bambini erano contrarie alle norme ed ai valori della società olandese.

Ieri la corte d’appello di Leeuwarden ha affermato che i testi e le foto presenti sul sito web della fondazione non contravvenivano la legge. Aggiungendo che il fatto stesso che alcuni dei suoi membri siano stati condannati per reati sessuali, non andava connesso al lavoro della fondazione stessa.
La Corte d’appello ha anche rilevato che le proposte per la liberalizzazione della pedofilia sono «una seria contravvenzione di alcuni principi del sistema penale olandese», in particolare per quanto concerne la minimizzazione dei «pericoli dei contatti sessuali con giovani». Ma i giudici hanno sentenziato che la società olandese è sufficientemente «resistente» per affrontare «le dichiarazioni indesiderabili ed il comportamento aberrante» promosso dal gruppo fondato nel 1982 e sciolto lo scorso anno in seguito alla sentenza di primo grado. Un suo ex presidente, Martijn Uittenbogaard, ha affermato che i 60 soci non si riuniranno per decidere i prossimi passi, mentre l’ufficio del procuratore sta valutando l’ipotesi di un ricorso in terzo grado. Una portavoce della pubblica accusa ha definito la sentenza «deludente».

Nel corso degli anni l’attività della lobby pro-pedofilia è stata al centro di una serie di proteste. Ma il colpo più duro lo subì nel 2007, dopo aver pubblicato sul suo sito le foto della principessa Amalia, figlia del principe ereditario Guglielmo Alessandro (che il prossimo 30 aprile sarà incoronato re al posto della madre, la regine Beatrice). Il futuro re fece causa, chiedendo la rimozione immediata delle foto ed il pagamento di una multa. Richieste accolte dal tribunale.

Tre anni dopo l’abitazione del presidente dell’epoca, Ad van den Berg, fu perquisita, portando alla scoperta di ingenti quantità di materiale pedopornografico e all’arresto dello stesso van den Berg. Ma l’associazione ha continuato il suo «lavoro», forte del parere emesso dal ministero per la sicurezza e la giustizia che nel giugno 2011 aveva stabilito che per la legge olandese la sua attività non era illegale. Ciò nonostante il 27 giugno 2012 il tribunale di Assen ne aveva decretato la chiusura. Annullata oggi nel nome della libertà di associazione. 

martedì 16 settembre 2014

Mamma è femminile, papà è maschile. Perché è così di Roberto Marchesini 16-09-2014, http://www.lanuovabq.it

L'ideologia di genere ha avuto, tra i pochi, il merito di focalizzare l'attenzione di alcuni osservatori sulla figura del padre e della madre, sul ruolo paterno e materno, e sulla loro importanza nella formazione dell'identità di genere. È importante, si osserva, che ci siano entrambi i genitori, il padre e la madre; ma è ancora più importante che, nei confronti del bambino, siano presenti il ruolo paterno e materno, al di là di chi li riveste: non è necessario che il ruolo paterno sia esercitato dal padre e quello materno dalla madre; un ruolo paterno può essere esercitato anche da altri uomini (uno zio, un nonno, un prete...) e addirittura da una donna (dalla madre, ad esempio nel caso della vedovanza). Questa affermazione è di solito corroborata da casi in cui un bambino orfano di padre è cresciuto senza alcun problema di identità di genere; oppure di ottime famiglie nelle quali il ruolo tradizionalmente paterno è stato svolto dalla madre e viceversa. Personalmente, credo che la questione sia semplicemente una riproposizione del dibattito sul genere. Si discute, infatti, del sesso dei genitori (padre e madre) e del loro ruolo di genere (ruolo paterno o materno). L'ideologia di genere sostiene che non esista alcun legame tra sesso e genere; e che il genere, essendo una pura costruzione sociale, deve (per qualche motivo mai chiarito) essere decostruito. Nel nostro caso abbiamo padri (di sesso maschile) che cambiano i pannolini (ruolo di genere materno) e madri (di sesso femminile) che hanno un ruolo normativo (ruolo di genere paterno); bambini che crescono senza qualcuno che svolga un ruolo paterno (necessario solo, dunque, per convenzione sociale); e casi in cui i ruoli genitoriali di genere sono state stravolte e i bambini non ne hanno avuto alcun danno (e che dovrebbero dimostrare come sia possibile decostruire tali ruoli). Proviamo dunque ad affrontare le domande poste dall'ideologia di genere, per poi applicarle alla relazione tra sesso dei genitori e i loro ruoli genitoriali di genere. Molti ritengono che le questioni relative al genere possano essere affrontate dal punto di vista scientifico. È senz'altro vero che la scienza (cioè l'utilizzo della misurazione come metodo di conoscenza) è un valido strumento per conoscere la realtà, ma non tutta la realtà può essere misurata (quindi conosciuta attraverso la scienza): l'uomo, ad esempio, nella sua profonda identità, non può essere misurato. Lo strumento che fino alla metà dell'Ottocento (cioè fino al Positivismo) è stato utilizzato con successo per conoscere l'uomo è la filosofia, in particolare l'antropologia. L'antropologia può aiutarci a dipanare le questioni poste dall'ideologia di genere? Personalmente credo di sì; credo, in particolare, che alcuni strumenti antropologici della filosofia aristotelico-tomista possano essere particolarmente utili per affrontare tali interrogativi. Nel IX libro della Metafisica, Aristotele sostiene che il movimento, il divenire, il mutamento consiste nel passaggio dallo stato di “potenza” a quello di “atto”. La potenza è la capacità di un ente di essere ciò che ancora non è; l'atto è, invece, la realizzazione di ciò che precedentemente era solamente in potenza. La “natura” è il principio, insito negli enti, che guida il divenire dallo stato di potenza a quello di atto. Il termine “natura”, dunque, non indica semplicemente ciò che esiste, la realtà; né può indicare generalmente ciò che fanno gli animali o i vegetali, semplicemente perché ogni specie ha una propria natura, ossia un proprio progetto, diverso da quello di altre specie. In termini correnti potremmo definire la natura come il “progetto” che guida lo sviluppo di ciò che esiste, la sua realizzazione. In che modo la dottrina del movimento di Aristotele riguarda l'ideologia di genere? Mentre l'identità sessuale (cioè l'essere maschio o femmina) è definita sin dal concepimento – il momento dal quale ogni cellula del corpo umano è caratterizzata dai cromosomi XX nella femmina e XY nel maschio -; l'identità di genere (cioè l'essere uomo o donna), invece, si acquista con lo sviluppo. Parafrasando la Bibbia si potrebbe dire che “maschio e femmina li creò” (Gn 1, 27), ma uomo e donna si diventa. Potremmo quindi descrivere il sesso e il genere in termini aristotelici, definendo il sesso come “potenza” e il genere come “atto”, cioè la realizzazione di un progetto (la “natura”) presente fin dal concepimento ma che si realizza nel corso della vita. Il compimento della propria identità sessuale consiste quindi nell'acquisire pienamente l'identità di genere, ossia nel diventare pienamente uomini (se maschi) e donne (se femmine). Sorge spontanea, a questo punto, un'obiezione: esistono situazioni nelle quali le persone nascono maschi o femmine, ma non raggiungono la piena identità di uomini e di donne. Questo significa che queste persone non hanno un progetto che li conduce a diventare uomini e donne se concepiti maschi e femmine? Affrontiamo questa difficoltà con un esempio. Se noi andassimo al mercato e comprassimo una piantina di limone, lo faremmo perché fiduciosi che quella piantina darà dei limoni, ossia confideremmo nel fatto che la piantina di limone abbia una natura, un progetto che prevede la produzione di frutti, e nemmeno frutti qualsiasi (ad esempio angurie o ciliegie) ma proprio dei limoni. Può tuttavia accadere che, giunto il periodo appropriato, la piantina non fruttifichi: forse non ha ricevuto abbastanza acqua o luce, forse è stata assalita dai parassiti, forse era in una posizione non adeguata. Ciò non significa, ovviamente, che la natura della pianta non prevedesse la presenza di frutti, bensì che l'ambiente ha ostacolato lo sviluppo della piantina secondo la sua natura. Questo è, infatti, secondo la filosofia aristotelica, il ruolo dell'ambiente; quello di permettere od ostacolare lo sviluppo della natura delle cose. Tornando all'uomo, questo significa che esiste una natura che guida la realizzazione del progetto della persona; e che se una persona non riesce a sviluppare pienamente le sue potenzialità non significa che non ne avesse, ma solamente che l'ambiente e le esperienze che ha vissuto (la cultura) non glielo hanno permesso. Tutto ciò non deve far pensare che la cultura abbia solamente un ruolo negativo nello sviluppo dell'identità, come sosteneva Rousseau. È vero piuttosto il contrario: le relazioni sono lo strumento essenziale per la propria realizzazione, e l'uomo non può vivere senza relazioni. Aristotele, nel primo libro de La politica, definiva infatti l'uomo zòon politikòn, animale sociale; e san Tommaso, ne La politica dei principi cristiani, ribadisce che «agli uomini è necessario vivere in società». La necessità delle relazioni per la vita umana è testimoniata anche da un esperimento condotto da Federico II di Svevia e riportato nelle Cronache di fra Salimbene da Parma. Volendo l'imperatore scoprire quale fosse la lingua orginaria dell'uomo, fece rinchiudere dei neonati in una torre, ordinando che fossero nutriti e lavati, senza tuttavia parlargli, cullarli o cantare loro canzoni, ossia privandoli di alcun tipo di relazione; i bambini morirono tutti. Torniamo all'ideologia di genere. Essa sostiene l'assoluta indipendenza della parte biologica della sessualità (il sesso) da quella non-biologica (il genere). Per l'antropologia artistotelico-tomista ogni cosa esistente è un “sinolo” - ossia una unione – di materia e forma; nel caso dell'uomo la materia è il corpo e la forma è l'anima. L'anima e il corpo sono inscindibili, tanto che la separazione dell'anima dal corpo comporta la morte dell'uomo; e il loro rapporto non è una “somma”, quanto piuttosto un “prodotto”. Che differenza c'è tra la somma di anima e corpo e la loro unione? Più o meno la differenza che passa tra gli ingredienti per fare una torta e la torta. Quando noi abbiamo la somma degli ingredienti per fare una torta – ad esempio ammucchiati in un sacchetto per la spesa – essi sono separabili l'uno dall'altro, e ognuno mantiene le sue caratteristiche: le uova sono fragili, la farina svolazza se soffiata, il cioccolato si scioglie al calore. Una volta che noi abbiamo impastato e cotto la torta (ne abbiamo fatto dunque un sinolo) non ci è più possibile separare gli ingredienti, o togliere dalla torta la farina o le uova; e la torta ha caratteristiche diverse dalle caratteristiche dei singoli ingredienti che la compongono: non è fragile, non svolazza e non si scioglie. Questo è, secondo l'antropologia aristotelico-tomista, la relazione che lega anima e corpo nell'uomo: esse sono unite indissolubilmente. Per questo motivo è lecito, ed anche utile distinguere la componente biologica della sessualità da quella psicologica e relazionale; ma esse sono le due facce della stessa medaglia, inscindibili se non al prezzo di annientare l'uomo. Spero che quanto scritto finora abbia convinto il lettore che l'antropologia aristotelico-tomista può fornire gli strumenti che permettono non solo di capire con semplicità e lucidità l'ideologia di genere, ma anche di dare ad essa una risposta convincente ed efficace. Detto questo, come possiamo affrontare il dilemma iniziale? È necessario che il padre eserciti un ruolo paterno e la madre uno materno? Eppure talvolta accade, coma mai? Perché alcuni bambini non sono cresciuti in questa situazione e non hanno riportato dei problemi nello sviluppo dell'identità di genere? Diciamo (senza ripetere tutto) che essere padre è la potenza, esercitare un ruolo paterno l'atto, che la natura (il progetto) di un padre è quello di esercitare il ruolo paterno. La realizzazione del progetto è potenziale, non obbligatoria; quindi può accadere che un padre non eserciti un ruolo paterno, e che qualcun altro (uomo o donna) si sostituisca a lui in questo ruolo. Ciò non toglie che l'esercitare un ruolo paterno è legato all'essere padre, ne è lo sviluppo, ne costituisce la natura. Consideriamo adesso il bambino. Anch'esso ha una natura, cioè un progetto. Il fatto che una persona diversa dal padre abbia svolto per lui un ruolo paterno può essere un ostacolo alla realizzazione del suo progetto (sicuramente non è un vantaggio); ma può trovare nell'ambiente sociale altre risorse (cioè altre persone che, bene o male, ricoprano tale ruolo) che lo aiutino nella propria realizzazione. Riassumendo: essere padre ed esercitare un ruolo paterno non sono due cose avulse, ma la seconda è il compimento della prima; compimento potenziale, in quanto può darsi che un padre non possa o non riesca ad esercitare il suo ruolo naturale. In questo caso, il bambino può trovare un ruolo paterno in figure vicarie (che, per questo, sono sostituti della figura paterna, naturale interprete del ruolo educativo paterno.

sabato 13 settembre 2014

Norlevo, la pillola "potrebbe" essere abortiva di Gianfranco Amato, 13-09-2014, http://www.lanuovabq.it

Il 29 maggio 2014 la Sezione Terza-quater del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, con l’ordinanza n. 2407/2014, ha respinto la richiesta di sospensione degli effetti del provvedimento dell’Aifa sul farmaco Norlevo, la cosiddetta “pillola del giorno dopo”, affermando che «non sussistono, sotto il profilo del fumus, i presupposti per l’accoglimento della proposta istanza cautelare avuto presente, in linea con quanto evidenziato dalle resistenti amministrazioni, che recenti studi hanno dimostrato che il farmaco Norlevo non è causa di interruzione della gravidanza». Questo era il giudizio tranchant e lapidario dei giudici amministrativi di primo grado. I Giuristi per la Vita e l’associazione Pro Vita Onlus hanno deciso di impugnare quell’ordinanza avanti il Consiglio di Stato. Ieri, 11 settembre, a Palazzo Spada si è tenuta l’udienza di discussione. I giudici di secondo grado hanno emesso l’ordinanza n.4057/2014, dimostrando una maggior capacità riflessiva rispetto ai colleghi del TAR. Per comprenderlo basta leggere il seguente passo del provvedimento: «Considerato che la questione coinvolge aspetti complessi anche sul piano tecnico, che non possono essere adeguatamente approfonditi in una fase cautelare e che in particolare devono necessariamente essere chiariti in sede di merito le seguenti questioni: - se l’affermazione contestata dalle appellanti (“Non può impedire l’impianto nell’utero di un ovulo fecondato”) nel foglio illustrativo per gli utenti sia coerente con i risultati degli studi sottostanti da riportare nel riassunto delle caratteristiche del prodotto, strumenti di primaria rilevanza per l’informazione del medico; - se il documento impugnato derivi da una modifica di autorizzazione all’immissione in commercio di un medicinale correttamente rilasciata secondo la procedura di reciproco riconoscimento che coinvolge le valutazioni di più autorità sanitarie nazionali in ambito comunitario; - se in tal caso sussistano le fondate ragioni di tutela della salute pubblica – richieste dalla direttiva CE 2001/83 (CE – per rifiutare quanto deciso a livello comunitario); - se deve attribuirsi rilevanza al recente comunicato del 24 luglio dell’Agenzia europea dei medicinali secondo il quale i medicinali a base di“levonorgestrel” agiscono bloccando e/o ritardando l’ovulazione, senza fare alcun riferimento a effetti sull’impianto nell’utero dell’ovulo fecondato». Nulla di scontato, quindi, sul piano scientifico, come pareva invece ai giudici di primo grado. Se è vero che il Consiglio di Stato ha respinto la richiesta di sospensiva del provvedimento poiché la complessità della vicenda non consente una decisione nella fase cautelare, è altrettanto vero che l’ordinanza di ieri, in realtà, riapre i giochi e rimette in discussioni le granitiche certezze scientifiche dei magistrati del TAR Lazio. L’Aifa non potrà più trincerarsi dietro l’apodittica affermazione secondo cui «il farmaco Norlevo non è causa di interruzione della gravidanza», assunto sbrigativamente fatto proprio dai giudici amministrativi romani. Almeno su questo punto il Consiglio di Stato pare inequivocabilmente chiaro.

giovedì 4 settembre 2014

Atea pro-life presenta una potente argomentazione laica contro l'aborto, 9 agosto 2014, di Kristine Kruszelnicki, http://www.aleteia.org/


L'argomentazione è forte e convincente, e può essere il modo migliore per raggiungere un certo tipo di pubblico

di Kristine Kruszelnicki


“Esiste davvero un ateo pro-life?”, ha chiesto Marco Rosaire Rossi nell'edizione di settembre/ottobre di The Humanist. “Cosa verrà dopo, gli agnostici del disegno intelligente? O i laici per la sharia?”.

Gli atei possono non avere un papa, ma agli occhi di molti c'è ancora un dogma a cui tutti loro devono aderire. Essere un ateo vuol dire sostenere l'aborto. Non fatelo e verrete denunciati come “segretamente religiosi”. Quando mi sono unita a un agnostico e a un ateo di Secular Pro-Life per un panel informativo alla Convenzione Atea Americana del 2012, un popolare blogger ateo ci ha accusati di aver “mentito sul fatto di essere atei”.

C'è un'ovvia riluttanza ad accettare che esistano pro-life non religiosi. Ma esistiamo. Differiamo un po' a livello di approcci e filosofie, ma includiamo pensatori atei come Robert Price, autore di “The Case Against the Case for Christ”, lo scrittore ultraliberale Nat Hentoff, i filosofi Arif Ahmed e Don Marquis e l'attivista liberale pacifista Mary Meehan, solo per fare qualche nome.

Quando in un dibattito del gennaio 2008 con Jay Wesley Richards gli venne chiesto se si opponeva all'aborto ed era un membro del movimento pro-life, il defunto autore ateo Christopher Hitchens rispose:

“Ho avuto molti contrasti con alcuni dei miei colleghi materialisti e laici su questo punto, ma penso che se il concetto di 'bambino' significa qualcosa, si può dire che anche il concetto di 'bambino concepito' significhi qualcosa. Tutte le scoperte dell'embriologia – molto considerevoli nel corso dell'ultima generazione – sembrano confermare questa opinione, che penso dovrebbe essere innata in ciascuno. È innata nel giuramento di Ippocrate, è istintiva in chiunque abbia mai guardato un sonogramma. Per questo la mia risposta alla domanda è 'sì'”.

Tra i pro-life laici ci sono atei e agnostici consumati, ex cristiani, conservatori, liberali, vegani, gay e lesbiche e perfino pro-life di fede, che comprendono la forza delle argomentazioni laiche di fronte a pubblici laici. La seguente argomentazione contro l'aborto è una prospettiva, e non rappresenta alcuna organizzazione specifica.

Aborto, questione complessa?

L'aborto è una questione emotivamente complessa, piena di circostanze dolorose che suscitano la nostra simpatia e compassione, ma non moralmente complessa: se i concepiti non sono esseri umani ugualmente meritevoli della nostra compassione e del nostro sostegno, non è richiesta alcuna giustificazione per l'aborto. Le donne dovrebbero mantenere la piena autonomia sul proprio corpo e prendere le proprie decisioni sulla loro gravidanza. Se i concepiti sono esseri umani, però, nessuna giustificazione dell'aborto è moralmente adeguata, se una ragione di questo tipo non può giustificare il fatto di porre fine alla vita di un bambino in circostanze simili.

Uccideremmo un bambino di due anni il cui padre abbandona improvvisamente la madre disoccupata per alleggerire il budget della madre o evitare che il bambino cresca in povertà? Uccideremmo una bambina dell'asilo se ci fossero indicazioni del fatto che potrebbe crescere in una casa violenta? Se i concepiti sono davvero esseri umani, abbiamo il dovere morale di trovare modi misericordiosi per sostenere le donne, che non richiedano la morte di una persona per risolvere i problemi dell'altra.

Scienza contro pseudoscienza

Se alcuni sostenitori dell'aborto hanno accusato i pro-life di usare una “pseudoscienza”, nei fatti le prove scientifiche sostengono fortemente le dichiarazioni pro-life secondo le quali l'embrione e il feto umani sono membri biologici della specie umana. Il libro “The Developing Human: Clinically Oriented Embryology”, del dottor Keith L. Moore, usato nelle scuole di medicina di tutto il mondo, è solo una delle risorse scientifiche che confermano questo fatto. In esso si legge:

“Lo sviluppo umano inizia con la fecondazione, il processo durante il quale un gamete maschile o sperma (sviluppo dello spermatozoo) si unisce a un gamete femminile o ovocita (ovum) per formare una singola cellula chiamata zigote. Questa cellula altamente specializzata ha caratterizzato l'inizio di ciascuno di noi come individuo unico”.

A differenza di altre cellule che contengono DNA umano – sperma, ovulo e cellule della pelle, ad esempio –, l'embrione appena fecondato ha la totale capacità di avanzare attraverso tutti gli stadi dello sviluppo umano. Al contrario, sperma e ovulo sono parti differenziate di altri organismi umani, ciascuno con la propria funzione. Fondendosi, entrambi smettono di esistere nel loro stato attuale, e il risultato è una nuova entità con un carattere unico verso la maturità umana. In modo simile, le cellule della pelle contengono informazioni genetiche che possono essere inserite in un ovum enucleato e stimolate a creare un embrione, ma solo l'embrione possiede questa capacità intrinseca autodiretta verso tutto lo sviluppo umano.

Definire l'essere persona 

La questione dell'essere persona lascia il regno della scienza per quello della filosofia e dell'etica morale. La scienza definisce cosa sia il concepito, ma non può definire i nostri doveri nei suoi confronti. Dopo tutto, il concepito è un'entità umana molto diversa da quelle che vediamo intorno a noi. Un essere più piccolo, meno sviluppato, situato diversamente e dipendente dovrebbe avere i diritti dell'essere persona e la vita?

Forse la domanda più significativa è: queste differenze sono moralmente rilevanti? Se il fattore è irrilevante per l'essere persona di altri esseri umani, non dovrebbe essere importante neanche quando si parla del concepito. Le persone piccole sono meno importante di quelle più grandi o più alte? Un adolescente che si può riprodurre è più degno di vivere di un bambino che non sa ancora nemmeno camminare? Se questi fattori non sono rilevanti per garantire o aumentare la personalità di chiunque sia già nato, non dovrebbe esserlo neanche per il concepito.

Si potrebbe giustamente affermare che garantiamo maggiori diritti in base ad abilità ed età. Ad ogni modo, il diritto di vivere e di non essere ucciso è diverso dai permessi sociali garantiti sulla base delle abilità e della maturità acquisite, come il diritto di guidare o quello di votare. Non ci viene permesso di guidare prima dei 16 anni; non siamo uccisi e non ci viene evitato di poter mai raggiungere quel livello di maturità.

Allo stesso modo, la coscienza e la consapevolezza di sé, spesso proposte come giusti indicatori della personalità, si limitano a identificare livelli dello sviluppo umano. La coscienza non esiste in un vacuum. Esiste solo come parte della grande totalità di un'entità vivente. Dire che un'entità non ha ancora la coscienza è tuttavia parlare di quell'entità nella quale risiede la capacità inerente di coscienza, e senza la quale la coscienza non potrebbe mai svilupparsi.

Come sottolinea l'ateo Nat Henthoff,

“Dire che lo sterminio può avere luogo perché il cervello ancora non funziona o perché quella cosa non è ancora una 'persona' manca un punto fondamentale. Indipendentemente dal fatto che vita venga eliminata alla quarta settimana o alla quattordicesima, la vittima è uno della nostra specie, e lo è stato fin dall'inizio”

L'intrinseca capacità di tutte le funzioni umane risiede nell'embrione perché è un'entità umana completa. Come non si butterebbero via le banane verdi insieme a quelle marce anche se entrambe non possono essere al momento usate come cibo, non si può eliminare un feto che non ha ancora raggiunto una funzione accanto a una persona cerebralmente morta che ha perso permanentemente quella funzione. Eliminare un feto perché non ha ancora raggiunto un livello di sviluppo specifico significa ignorare il fatto che un essere umano a quello stadio dello sviluppo umano funziona come un essere umano di quell'età.


Localizzazione e dipendenza

Ricordando la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo a sostegno della sua posizione per cui “gli esseri umani come persone sono nati”, Rossi ha dichiarato: “Il fatto è che la nascita ci trasforma. Ci rende simultaneamente individui e membri di un gruppo, e inserisce in noi protezioni che comportano diritti”.

Questa affermazione è ampiamente fallace. In primo luogo, ciò che è non rappresenta necessariamente ciò che dovrebbe essere. Il fatto che le convenzioni sociali della personalità trascurino il concepito non sorprende, ed è la vera questione al centro del dibattito. In secondo luogo, la nascita non possiede poteri magici di trasformazione. Alla nascita, un essere umano in fase di sviluppo cambia localizzazione, inizia ad assumere ossigeno e nutrienti in un modo nuovo e a interagire con un maggior numero di altri esseri umani, ma un semplice viaggio nel canale del parto non cambia la natura essenziale dell'entità in questione.

Il bioeticista Peter Singer concorda con il pro-life su questo punto. Afferma infatti:

“I gruppo pro-life avevano ragione su un fatto: la localizzazione di un bambino dentro o fuori il grembo non può fare grande differenza morale. Non possiamo dire con coerenza che è giusto uccidere un feto una settimana prima della nascita ma appena il bambino nasce bisogna fare di tutto per mantenerlo in vita”

(Singer poi continua osservando che visto che non c'è alcuna differenza significativa tra un feto che sta per nascere e un neonato, allora l'infanticidio è giustificato). La nascita è indubbiamente un momento significativo nella nostra vita, ma non è il nostro primo momento.

Cosa dire della dipendenza? Sicuramente, un feto è significativamente più dipendente da sua madre che in qualsiasi altro momento della sua vita. Ma gli esseri umani dipendenti non sono pienamente umani? La dipendenza di un gemello siamese dal cuore o dai polmoni del fratello o della sorella gli toglie personalità? Possiamo uccidere adulti fortemente dipendenti o un bambino che non riesce nemmeno ad alzare la testa?

Se la questione è quella che Rossi definisce “l'assoluta dipendenza dalle nostre madri”, si può porre un'altra domanda: perché la dipendenza da una singola persona significa che una persona non è preziosa o degna di vita e protezione? Se un bambino difficile dovesse salire sullo yacht di un estraneo venendo scoperto il giorno dopo in mare, sarebbe temporaneamente dipendente solo dalle risorse del marinaio. Quest'ultimo sarebbe giustificato a gettarlo dalla barca in acque infestate dagli squali?

È inoltre segno di un popolo civilizzato che quanto più vulnerabile e dipendente è un essere umano, più possiamo giustificare la sua morte?

Violenza e autonomia del corpo

Niente aggiunge più emozione al già emotivo dibattito sull'aborto della questione dello stupro. È ad ogni modo fondamentale che non si confonda l'abominio dello stupro e il desiderio di confortare la vittima con la domanda fondamentale relativa al fatto che le difficoltà giustifichino l'omicidio. Se il concepito è un essere umano, le circostanze del concepimento di una persona non hanno rilevanza sul suo diritto di non essere sterminato.

“Unplugging the Violinist” di Judith Jarvis Thompson (in cui una persona viene rapita dagli amici di un violinista morente che ha bisogno di un rene e costretta a rimanere collegata a lui per nove mesi per salvargli la vita) illustra il dilemma dell'autonomia del corpo, suggerendo l'aborto in casi di stupro.

La Thomson, tuttavia, non riconosce che il rapporto tra un concepito e la madre è diverso dall'unione artificiale di una persona a un estraneo. Il feto non è un intruso. È nella “casa” appropriata per un essere umano della sua età e con il suo stadio di sviluppo. A differenza dei reni, che esistono per il corpo della donna, l'utero esiste e ogni mese si prepara ad accogliere il corpo di qualcun altro. Una donna ha il diritto al proprio corpo, ma un feto ha il diritto all'utero che è la sua “casa” biologica.

Riconoscendo le responsabilità biologiche con cui siamo evoluti come specie, capiamo che se una persona non è sempre obbligata nei confronti di un estraneo, si è invece obbligati a fornire sostentamento e protezione di base al proprio figlio biologico. Una madre che allatta non può reclamare “l'autonomia del corpo” e abbandonare il proprio figlio mentre viaggia, né una madre incinta può abbandonare la propria responsabilità nei confronti del bambino. Se la vittima di stupro non ha scelto quella situazione ed è messa ingiustamente in quella condizione, il suo dovere fondamentale nei confronti del figlio non è meno reale di quello del marinaio nei confronti di un clandestino indesiderato.

L'aborto non consiste semplicemente nello “staccare la spina a un estraneo morente”. L'aborto smembra e uccide quello che altrimenti sarebbe un essere umano sano che è in un'unione appropriata per la sua età e naturalmente dipendente da sua madre. Rebecca Kiessling, concepita in occasione di uno stupro, afferma: “Può essere che quando avevo quattro anni o quattro giorni non fossi uguale a come ero quando mi trovavo ancora nel grembo di mia madre, ma ero innegabilmente me e sarei stata uccisa [per il crimine di mio padre]”.

L'aborto non elimina lo stupro di una donna né la aiuta a guarire. Puniamo lo stupratore, non suo figlio.

Personalmente pro-life – ma la legge non cambia?

Alcuni risponderanno al peso della scienza e della ragione ammettendo di essere “personalmente pro-life” ma di volere che l'aborto resti legale perché possa rimanere sicuro. Senza addentrarsi nelle statistiche sugli aborti legali contro quelli illegali, sui numeri degli aborti effettuati illegalmente nelle cliniche o sul ruolo giocati dagli antibiotici nel rendere l'aborto più sicuro anche prima della Roe vs. Wade, la domanda è sempre quella: sicuro per chi?

Se una persona si oppone personalmente perché crede che l'aborto ponga fine a una vita umana, non ha senso dire che la fine della vita umana dovrebbe rimanere legale per salvare delle vite. Legale o illegale, tutti gli aborti uccidono. A volte la madre, ma sempre il figlio o la figlia.

Conclusione
L'autrice Frederica Matthews-Green ha sottolineato una volta che “nessuna donna vuole un aborto come vuole un gelato o una Porsche. Vuole un aborto come un animale preso in trappola vuole strappare la propria gamba”. La sfida per la nostra società in continua evoluzione è questa: daremo alla donna una sega e l'aiuteremo ad amputare la propria gamba? O siamo abbastanza saggi e capaci da trovare modi creativi per rimuovere la trappola senza distruggere la gamba nel processo – soprattutto quando quella “gamba” è un altro essere umano?

La società può continuare a opporre le donne ai propri figli o possiamo iniziare a parlare di vere scelte, vere soluzioni e vera misericordia – come quelle suggerite da gruppi come Feminists for Life. La filosofia pro-life secolare significa includere i membri più piccoli e più deboli della nostra specie e non escludere i dipendenti e vulnerabili dai diritti di personalità e di vita. Siamo evoluti come specie in una comunità complessa e interdipendente che sta eliminando gradualmente pregiudizi come il razzismo, il sessismo e la discriminazione nei confronti dei disabili.

Bandiamo ora la discriminazione letale dell'età.

Con le parole della Pro-Life Alliance of Gays and Lesbians, “nessuno di noi è veramente libero fino a che tutti non siamo liberi, con tutti i nostri diritti intatti e garantiti, incluso il diritto fondamentale di vivere senza minacce o vessazioni”.

Possiamo fare meglio dell'aborto.


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Kristine Kruszelnicki è direttore esecutivo di Pro-Life Humanists e scrittrice freelance. Risiede a Ottawa (Canda).


[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]


mercoledì 3 settembre 2014

La «maldestra» sentenza di Roma che ha aperto all’adozione per i gay. Un esperimento rischioso, Settembre 3, 2014 Benedetta Frigerio, www.tempi.it

adozioni gay
Giancarlo Cerrelli spiega perché l’interpretazione del Tribunale per i Minorenni «è del tutto fantasiosa». «Non siamo di fronte solo a un problema di interpretazione della legge, ma di abuso della norma»
adozioni gayAnche l’Italia ha avuto le sua prima coppia omosessuale a cui è stato riconosciuto il diritto ad adottare un bambino con la formula della “step child”, permessa prima ancora che la norma, annunciata dal governo Renzi, sia approdata in Parlamento. Tutto grazie alla «sentenza creativa», di un giudice del tribunale di Roma. Così almeno la definisce Giancarlo Cerrelli, vicepresidente nazionale dell’Unione giuristi cattolici italiani e segretario nazionale del comitato “Sì alla famiglia”, per cui non siamo solo di fronte «ad un’interpretazione estensiva della legge, come fa credere il magistrato, ma a un abuso circa l’interpretazione della norma in quanto tale».
Il giudice nella sentenza ammette l’adozione da parte di coppie omosessuali «nell’interesse superiore del minore», per cui «la domanda di adozione può essere proposta anche da persona singola» (articolo 44, lettera d, della legge 184/83). Ma questo articolo, come per altro ha ricordato il pm, non riguarda solo il caso di stato di abbandono del minore?
Questa sentenza è maldestra. L’interpretazione che ha dato il Tribunale per i Minorenni di Roma è del tutto fantasiosa. Infatti, la lettera d, dell’articolo 44, della legge 184/83, prevede l’adozione anche da parte di coppie non sposate o di single, ma solo nel caso in cui si riscontri l’impossibilità di affidamento preadottivo. Il requisito di tale fattispecie è lo stato di abbandono del minore in situazioni difficili, ad esempio quando sia gravemente handicappato. In questi casi, per favorire l’adozione, nell’interesse superiore del minore, si evita la procedura normale che prevede un periodo di affido precedente all’adozione. Presupposti della fattispecie qui prevista sono due: la dichiarazione di adottabilità e la mancanza di una idonea coppia di coniugi disposta all’accoglimento del minore. Tuttavia, nel caso analizzato non ci sono questi presupposti. Come ha notato anche il Pm, qui non siamo di fronte a uno stato di abbandono, questa bambina la madre ce l’ha e, fino a prova contraria, ha anche un padre. La legge sull’adozione è rigorosissima nel tutelare i minori.
Il giudice ritiene «preminente interesse del minore» l’affetto fra le due donne. Si legge che il bambino sta bene perché ha una casa, una scuola e l’attenzione della madre e della compagna. Insomma, quello che per l’avvocato Cerrelli è contro il bambino per il giudice romano rappresenta il suo bene. Come se ne esce?
Innanzitutto in questo caso non siamo di fronte solo a un problema di interpretazione della legge, ma di abuso della norma. Ripeto, l’affetto è stato giustamente considerato nell’applicazione della legge sull’adozione per i bambini in stato di abbandono in casi gravi, ma qui manca proprio lo stato di abbandono. Certamente poi questo abuso è favorito dal fatto che oggi stiamo assistendo a un pressing relativista, che nega i dati oggettivi e pone il sentimento alla base dell’ordinamento giuridico. Questo non era mai accaduto; usare tale criterio significa destabilizzare l’ordinamento stesso: l’affetto, infatti, può mutare, o finire e quando ciò accade può riservare un grave nocumento al minore. Ritengo che porre come  base principale dell’adozione l’affetto, o il desiderio di diventare a tutti i costi genitore sia pericoloso; ciò che invece l’adozione deve  primariamente garantire, oltre ad una base di amore accogliente, è l’interesse del minore in stato di abbandono a poter avere un padre e una madre che le circostanze della vita gli hanno negato, i quali possano donare al minore un’educazione e una formazione fondati sulla complementarietà e sulla differenza sessuale, così come la natura richiede. Serve tornare ai fondamenti del diritto e trovare un minimo comune denominatore intorno alle evidenze elementari. Altrimenti ci va di mezzo la società intera.
«Nel caso di specie non si tratta di concedere un diritto ex novo, creando una situazione inesistente, ma di garantire la copertura giuridica di una situazione di fatto», dice ancora la sentenza. Così, in nome della non discriminazione e solo per il fatto di esserci, una situazione di fatto viene supportata. E se domani si trattasse della poligamia o dell’incesto?
Questo è l’altro grande dramma contemporaneo che si diffonde grazie al relativismo: basta desiderare una cosa affinché sia riconosciuta come un diritto. Ecco che l’idea del più forte, in questo caso delle due donne omosessuali, vince sulla realtà naturale da cui proviene il bambino, un uomo e una donna. Se la giurisprudenza accantona come irrilevante il dato naturale, prevale la volontà del più forte e può accadere che si imponga, come in questo caso, un’idea di famiglia che non ha nulla a che vedere con la realtà.
Lei aveva già scritto su tempi.it che la sentenza sull’affido a una coppia omosessuale concesso dal Tribunale per i Minorenni di Bologna, insieme a una sentenza della Cassazione dell’11 gennaio 2013, n. 601 e  a una sentenza della Cedu (19 febbraio 2013), avrebbero rappresentato dei precedenti pericolosi. In effetti, il giudice di Roma ha citato proprio questi  pronunciamenti.
Avevo facilmente preconizzato che quelle sentenze da lei citate, avrebbero aperto un vulnus nel nostro ordinamento giuridico a favore delle adozioni  per coppie omosessuali. Queste sentenze sono state, infatti, usate dal tribunale romano per i minorenni come il grimaldello per interpretare in modo soggettivo la legge sull’adozione, con la pretesa di sostituire totalmente la “genitorialità” naturale, secondo una delle forme più totalizzanti del giuspostivismo, per cui è la legge a determinare la realtà. Tanto che, come dice la sentenza, i giudici pensano che «il benessere psicosociale dei membri dei gruppi familiari non sia tanto legato alla forma che il gruppo assume, quanto alla qualità dei processi e delle dinamiche relazionali (…). In altri termini non sono né il numero né il genere a garantire di per sé le condizioni di sviluppo migliori per i bambini». Ed ecco qui che basta una norma a far diventare qualcuno genitore, per cui non conta nemmeno il numero, il sesso, l’età delle madri o dei padri in questione. Ecco qui che, sconfessata in un attimo la modalità naturale con cui il bambino viene al mondo con cui si riconosce chi sono il padre e la madre, si apre la porta anche all’accettazione della poligamia.
Il giudice tiene poi conto del registro delle unioni civili a cui le due ricorrenti sono iscritte, senza che sia riconosciuto dalla legge. Può la corte considerarlo come un fattore rilevante?
È evidente che si ripetono casi in cui i giudici non applicano la legge e usano strumenti propagandistici come questo non riconosciuti dal nostro ordinamento giuridico. Molti giudici manifestano nelle loro sentenze una evidente connotazione ideologica; altri, invece, seguono supinamente il trend della cultura e della giurisprudenza ormai dominante. La tendenza è sempre più spesso quella che ci vede incamminati verso una frattura dei legami genitoriali naturali a favore della creazione di rapporti legali artificiali, che non tiene conto del vero interesse del minore ad avere genitori complementari e sessualmente differenti. Tale processo giuridico porterà a depotenziare la genitorialità naturale, a favore di simulacri di genitorialità, con grave danno per la nostra società.
Il giudice parla però di «mancanza di certezze scientifiche», per cui non bisognerebbe permettere l’adozione a una coppia omosessuale.
Appunto, se anche volessimo negare l’evidenza che un bambino nascendo da un papà e una mamma per svilupparsi integralmente deve essere cresciuto da loro, come possiamo accettare, in mancanza di prove, di fare un esperimento su di lui? Si potrebbe obiettare che questo già accade, in caso di morte o abbandono al bambino da parte del padre o della madre, ma un conto è riparare a un incidente e un altro è provocarlo senza sapere che effetti avrà su un bimbo indifeso e innocente.
I giudici obiettano che se il minore avrà problemi di crescita, la colpa sarà «della società» e dei suoi «pregiudizi». Si può esprimere un’opinione preventivamente al verificarsi di un fatto e senza prove?
Mi pare che i giudici vogliano mettere le mani avanti, proprio perché sentono, come ciascuno di noi che ci pensi, che quanto stanno facendo è proprio un esperimento e che come tale è rischioso: siamo davanti al caso di una bambina venuta al mondo per soddisfare il desiderio di una madre che pur di averla l’ha privata della figura maschile sostituendola con una femminile: come fare a non ipotizzare che questa bimba non possa avere un domani dei problemi o che possa sentire qualche mancanza? Come non ipotizzare che parta svantaggiata? Non si gioca sulla pelle di esseri indifesi e innocenti per il proprio egoismo.
Si può rimediare a una sentenza simile?
Spero che il pm impugni la sentenza, come accadde per l’affidamento del tribunale di Bologna alla coppia dello stesso sesso. Altrimenti, se dovesse prevalere la linea romana, diventerà davvero tutto lecito, dalla poligamia, fino all’incesto. Ecco perché, ripeto, è urgente un momento di profonda riflessione che permetta di prendere atto delle evidenze comuni a cui tutti possiamo giungere insieme e, così, riconoscere che esistono cose evidentemente buone e altre cattive. È necessaria una battaglia culturale e politica pro famiglia. Non si può non prendere atto che forti lobby culturali e politiche mirano a distruggere la famiglia naturale, favorendo una molteplicità di simil-famiglie; sarà, pertanto, necessario far sentire la nostra voce di uomini e donne di buona volontà nell’agone sociale e politico. Nessuno può disinteressarsi, ne va del futuro dei nostri figli e della nostra società.

martedì 2 settembre 2014

Così il governo seppellisce il matrimonio di Alfredo Mantovano, 02-09-2014, http://www.lanuovabq.it

E due! Per il divorzio il governo Renzi segue il “metodo-droga”. Fra marzo e maggio, cogliendo l’occasione di una sentenza della Consulta e mentre l’attenzione relativa ai temi eticamente sensibili era concentrata sul “d.d.l. Scalfarotto”, esso varò un decreto legge che, come su questo giornale abbiamo ripetutamente documentato, fa tornare indietro di trent’anni, depenalizzando di fatto la detenzione e lo spaccio di strada: i tempi ristretti di conversione del decreto hanno impedito l’approfondimento che sarebbe stato indispensabile; il doppio voto di fiducia in entrambi i rami del Parlamento hanno precluso il confronto sull’essenziale. Ci risiamo sul divorzio: il Consiglio dei ministri di venerdì scorso ha licenziato un decreto legge e sei disegni di legge in materia di giustizia. Il decreto legge, non ancora uscito sulla Gazzetta Ufficiale, le cui norme avranno vigore dal momento dalla pubblicazione, è stato enfaticamente denominato “taglia-liti” e punta a snellire i ruoli dei giudici civili, introducendo forme alternative – non del tutto nuove – di risoluzione delle controversie. Il meccanismo prevede che, prima di avviare una causa davanti al giudice, le parti, con l’aiuto dei propri avvocati, tentino la soluzione amichevole della lite con un accordo denominato “convenzione di negoziazione assistita”; il tentativo di accordo è obbligatorio per alcune controversie, come i danni da circolazione stradale, facoltativo per altre, ed è invece vietato quando il contenzioso riguardi “diritti indisponibili”. L’articolo 6 del decreto estende questa procedura anche ai “coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale”, di divorzio, “di modifica della condizioni di separazione o di divorzio”, purché non vi siano figli minori o figli di maggiore età non autosufficienti. Per cogliere la portata della modifica va ricordato che la legge ancora in vigore prevede quale presupposto più diffuso per il divorzio la pronuncia di una sentenza definitiva di separazione fra i coniugi, o di omologa della consensuale; prevede altresì che siano trascorsi almeno tre anni dalla comparizione di marito e moglie davanti al presidente del tribunale per l’udienza di separazione. La separazione precede il divorzio e il tempo fissato dalla legge ha lo scopo di favorire ripensamenti o ricomposizioni: il giudizio di separazione è l’occasione per prendere le distanze da una situazione di difficile convivenza/coabitazione, lasciando aperta la prospettiva di un ritorno alla vita comune insieme (poco probabile, ma non impossibile), derivante da una congrua esperienza di vita per conto proprio. La legge stabilisce poi che il giudice che incontra la coppia ai fini della separazione e del divorzio è il presidente del tribunale, o un suo delegato: quasi a caricare di significato – in virtù della maggiore autorevolezza del magistrato – la verifica della effettiva volontà e possibilità di mantenere il rapporto matrimoniale. E fa in modo che l’udienza davanti a tale giudice ci sia realmente; così il comma 7 dell’articolo 4 della legge sul divorzio: “I coniugi devono comparire davanti al presidente del tribunale personalmente, salvo gravi e comprovati motivi, e con l'assistenza di un difensore. Se il ricorrente non si presenta o rinuncia, la domanda non ha effetto. Se non si presenta il coniuge convenuto, il presidente può fissare un nuovo giorno per la comparizione, ordinando che la notificazione del ricorso e del decreto gli sia rinnovata. All'udienza di comparizione, il presidente deve sentire i coniugi prima separatamente poi congiuntamente, tentando di conciliarli.” La ragione di tutto ciò è evidente: pur disciplinando il divorzio, la legge non trascura che il matrimonio è il fondamento naturale della famiglia; e poiché la famiglia ha rilievo pubblico e ha peso per l’intero ordinamento, il magistrato più elevato dell’ufficio giudiziario, colui che lo presiede, ha il compito, per quel che gli è possibile, di evitare la frattura, con un iter che di per sé richiama alla serietà e alla gravità di quanto accade. Per completezza di quadro, l’articolo 12 del decreto-legge prevede una modalità concorrente per giungere al medesimo risultato: l’accordo di separazione personale o di divorzio – con le stesse limitazioni riguardanti i figli – può raggiungersi senza avvocati se i coniugi lo concludono andando in Comune davanti all’ufficiale dello stato civile, anche in un Comune diverso da quello nel quale si sono sposati. Le modifiche introdotte dal decreto “taglia-liti” non sono un semplice snellimento della procedura. Sono un’altra cosa: con due brevi articoli istituiscono un regime diverso. Si arriva alla separazione o al divorzio (lo si ripete: purché non ci siano minori o figli non autosufficienti) senza passare dal giudice, con la mera assistenza di un avvocato o di un impiegato del municipio. Il che vuol dire più cose contemporaneamente: a. privatizzazione del matrimonio e del suo vigore. L’avvocato non è né diventa un pubblico ufficiale, e ancor meno un sostituto del giudice. La sua assistenza è finalizzata in via esclusiva a conferire veloce efficacia a una manifestazione di volontà delle parti. Che questa procedura non sia ammissibile in presenza di figli minorenni (fino a quando?) conferma che questi ultimi rappresentano il residuo del profilo pubblicistico del matrimonio: l’assunzione di reciproci doveri e impegni fra i coniugi perde invece questo tratto; b. eliminazione del tentativo di comporre le divergenze fra i coniugi. Non si può replicare che se un coniuge arriva a chiedere il divorzio non ha nessuna volontà di giungere a una conciliazione: sia perché non è vero in assoluto, sia perché togliere di mezzo il giudice – e il giudice formalmente più autorevole, il presidente del tribunale – è conseguenza logica della cancellazione della rilevanza sociale e pubblica del matrimonio; c. dichiarare che tutto ciò che riguarda il matrimonio è “diritto disponibile”. È l’effetto della contemporanea previsione della “convenzione di negoziazione assistita” per separazione e divorzio e della preclusione della convenzione medesima quando sono in discussione “diritti indisponibili”: sarà interessante sapere quale sarà la qualifica del diritto agli alimenti… Quando queste nuove disposizioni verranno affiancate da quelle del “divorzio sprint” all’esame del Senato, lo scioglimento del vincolo matrimoniale avverrà sgommando: le norme passate quasi alla unanimità alla Camera riducono fino a sei mesi il tempo necessario per pervenire al divorzio, facendo decorrere il termine dalla notifica del ricorso per separazione. Il che vuol dire divorzio assicurato in meno di otto mesi dall’istanza di separazione, dal momento che la “convenzione di negoziazione assistita” deve completarsi in un tempo non inferiore a un mese. Fra qualche settimana, quindi, una volta approvati il decreto legge e il “divorzio sprint”, il nuovo “matrimonio all’italiana” sarà un contratto privatistico, rescindibile con una velocità maggiore rispetto a quella necessaria per interrompere la somministrazione dell’elettricità o per cambiare gestore telefonico; i giuristi si diletteranno nel definire l’aspetto prevalente del nuovo patto fra i coniugi, ma la riduzione del peso di esso per l’ordinamento sarà nella lettera delle nuove norme. Intendiamoci. La discussione in Parlamento deve ancora iniziare, e i voti – in Commissione e in Aula – non sono ancora stati espressi. L’esperienza del decreto droga non conforta: se il governo porrà la fiducia, o comunque insisterà per l’approvazione del testo così come è, tutti i deputati e i senatori che ne compongono la maggioranza si allineeranno anche stavolta?