venerdì 18 settembre 2015

«Come abbiamo bloccato il suicidio assistito? Facendo parlare i malati come me e mostrando i dati», settembre 18, 2015, Benedetta Frigerio, http://www.tempi.it/

jane-campbellDopo quattro tentativi ripetuti negli ultimi nove anni, con cui i fautori della legge sul suicidio assistito hanno cercato di legalizzare la morte procurata in Gran Bretagna, a sorpresa il fronte pro life ha vinto ancora. Venerdì 11 settembre, la Camera dei Comuni a grande maggioranza ha votato contro il disegno di legge: 330 i voti contrari, 118 i favorevoli. Fra le voci fondamentali che hanno contribuito al buon esito della battaglia c’è quella della baronessa Jane Campbell, membro indipendente della Camera dei Lord e affetta da atrofia muscolare. Già nel 2009 Campbell convinse il parlamento inglese a respingere il ddl che avrebbe permesso di aiutare i malati a viaggiare verso paesi dove l’eutanasia è legale.

Baronessa, com’è possibile che la legge, già approvata in prima lettura il 24 giugno scorso, sia stata respinta a grande maggioranza?
È incredibile, sinceramente non ce lo aspettavamo. Pensavamo a un numero di favorevoli pari a quello di chi si è invece opposto alla norma.

Cosa è accaduto? Come spiega la vostra vittoria?
La cosa fondamentale è stata la voce di circa venti disabili fra cui persone che, come me, sono affette da malattie degenerative. Siamo intervenuti nel dibattito smentendo i luoghi comuni che ci dipingono come gente disperata. Abbiamo poi presentato tutti i rischi della legislazione mostrando come norme estere simili a quella introdotta al parlamento inglese spingano i malati a sentirsi di peso e a chiedere l’eutanasia come via d’uscita normale al dolore e a una società che li rifiuta. Tutto ciò ha fatto crescere la consapevolezza dei parlamentari che, messi di fronte alle cifre delle morti procurate laddove il suicidio assistito è legale, e a persone come me, non si sono sentite di votare a favore di un provvedimento simile: «Se approvate la norma – abbiamo ripetuto – metterete in pericolo mortale tutta la società e, invece che aiutare le persone in difficoltà, le spingerete alla disperazione».

Lei che argomentazioni ha portato?
Ho raccontato la mia storia e il mio amore alla vita. E, come gli altri malati intervenuti, ho spiegato che viviamo vite ordinarie e che tutto dipende dal sostegno e dall’amore che riceviamo. Questo è vero per tutti, la vita è degna e bella se c’è chi ci ama, ma per un malato è più evidente. Al contrario, chiunque è indotto alla disperazione se lo Stato o la famiglia mettono in dubbio che la sua vita sia sempre degna di essere vissuta. La tragedia si consuma quando le persone non credono in noi. Ecco, credo che la voce della nostra esperienza abbia cambiato tutto il dibattito. Le persone in buona fede o confuse hanno capito.

La norma è stata scritta sul modello di quella approvata in Oregon nel 1997, per cui il richiedente deve essere maggiorenne, mentalmente abile e malato terminale. Come li avete convinti che si sarebbe passati all’omicidio di disabili, anziani o bambini?
Abbiamo spiegato ai parlamentari che tutte le leggi sulla morte procurata inizialmente contemplata per i soli terminali sono arrivate a coinvolgere le categorie di persone che lei cita. Non c’è un freno quando si decide che la vita è disponibile. Inoltre, ha aiutato il fatto che l’Associazione dei medici britannici, il Royal College dei medici, il Royal College dei medici di famiglia, l’Associazione per le cure palliative e la società geriatrica britannica si siano espresse tutte contro il ddl. Anche fra le associazioni di pazienti affetti dal cancro l’opposizione è stata unanime: tutte hanno dichiarato che la norma era pericolosa.

Si aspetta un’altra proposta di legge simile?
Sì, ma non credo si presenteranno prima di qualche anno. Tutto dipenderà da quanto disabili e malati saranno aiutati e sostenuti.

Sono noti gli scandali relativi alle persone incapaci di esprimersi uccise dal personale ospedaliero all’insaputa dei parenti e nonostante l’eutanasia sia illegale. Il problema del paese, dunque, è più morale o legale?
Lo scandalo delle morti procurate senza consenso ha contribuito a destare le coscienze. Quando poi abbiamo spiegato in aula che, anziché combattere per l’omicidio, bisogna far sì che un paziente sia amato e sostenuto, i parlamentari si sono smossi fino al rifiuto della legge: «Fate il possibile affinché la legge e il sistema assicurino l’aiuto ai malati e vedrete che sarà molto più difficile sentire invocare la morte». Ci hanno ascoltato.

@frigeriobenedet

Quella pillola contraccettiva uccide le donne, di Renzo Puccetti, 18-09-2015, http://www.lanuovabq.it/

La pillola abortiva YasmineMentre il cardinale Kasper si agita per ribaltare nel Sinodo sulla famiglia la dottrina di duemila anni della Chiesa sulla contraccezione, nella sua Germania, precisamente nella cittadina di Waldshut, il Tribunale regionale dovrà dirimere la causa di risarcimento danni intentata contro il colosso farmaceutico Bayer da Felicitas Roher, studentessa di veterinaria che nel 2009, a soli 25 anni, rischiò di morire a seguito di una grave embolia polmonare occorsa dopo avere iniziato ad assumere la pillola contraccettiva Yasmine, contenente drospirenone come componente progestinica. 

Secondo il rapporto annuale della casa farmaceutica tedesca, solo negli Stati Uniti al 31 gennaio 2015 la Bayer ha raggiunto accordi senza ammissione di colpa con 9.500 donne che hanno lamentato danni derivanti dai prodotti contraccettivi contenenti drospirenone (Yasmine/Yaz) per un totale di 1,9 miliardi di dollari in risarcimenti già sborsati. Altri migliaia di casi sono pendenti o in corso di valutazione. Le pillole contenenti drospirenone, per il basso contenuto estrogenico e per le proprietà di contrasto alla ritenzione idrica e all'acne, sono state molto pubblicizzate e prescritte alle fasce di età più giovani, tra le quali, molto semplicisticamente sono state percepite come le pillole "leggere" e come tali innocue, o quanto meno meno nocive.

Le maggiori agenzie del farmaco si sono occupate ripetutamente della questione. Tra il 2011 e il 2012 l'americana Food and Drug Administration (Fda) ha condotto una revisione della letteratura anche con uno studio in proprio per giungere alla conclusione che «le donne dovrebbero parlare col loro medico circa il loro rischio trombotico prima di decidere quale metodo di controllo delle nascite usare. I sanitari dovrebbero considerare i rischi e benefici delle pillole contenenti drospirenone e il rischio della donna di sviluppare trombosi prima di prescrivere questi farmaci». Secondo un grafico della Fda la probabilità annuale per una donna di sviluppare trombosi/embolia è pari a 1-5 casi ogni diecimila, ma l'assunzione delle pillole estroprogestiniche fa crescere il rischio a 3-9 casi. Il rischio trombotico con le pillole contenenti drospirenone risulta più elevato rispetto al rischio connesso alle pillole contenenti come progestinico il levonorgestrel con differenze da studio a studio che vanno dal 50% (studio Fda) fino a raddoppiare in altri studi (Stegeman, British Medical Journal 2013). 

Secondo l'Agenzia Europea del Farmaco (Ema) il rischio di trombosi venosa passa da 2 casi ogni 10.000 per le donne che non assumono pillola a 5-7/diecimila per quelle che assumono le pillole di seconda generazione e arrivare a 9-12/diecimila per le utilizzatrici di pillole al drospirenone. Nonostante questo anche l'Ema ha concluso che «i benefici dei contraccettivi ormonali combinati nel prevenire le gravidanze indesiderate continuano a superare i rischi». Questo si deve al fatto che il rischio trombotico durante la gravidanza si situa a 5-20 casi ogni diecimila utilizzatrici e raggiunge i 40-65/diecimila nei tre mesi dopo il parto. 

Queste analisi ovviamente non tendono a considerare alcuni fattori come il fumo (il rischio trombotico aumenta associando pillola e fumo) e le donne in gravidanza e dopo il parto tendono a cessare di fumare. E non tengono neppure in considerazione l'effetto esercitato dalla contraccezione nello “slatentizzare” comportamenti sessualmente attivi (effetto noto come compensazione del rischio). Nell'aprile 2014 la prestigiosa rivista PLOSone ha condotto un'analisi dei casi stimabili di tromboembolia in Francia concludendo per 2.497 casi di tromboembolia ogni anno attribuibili all'uso dei contraccettivi ormonali di cui 1.831 (circa il 73%) legati alle pillole di terza e quarta generazione, categoria di cui le pillole della Bayer fanno parte. È invece pari a 19 il numero di donne morte stimato ogni anno di cui 14 connesse all'assunzione di pillole di III-IV generazione. Se consideriamo che il numero di utilizzatrici di pillola in Italia è meno della metà rispetto alle Francia, i numeri dovrebbero essere almeno dimezzati per il nostro Paese. 

Certo, in termini assoluti si può dire che si tratta di piccoli numeri, ma quando un evento del genere ti colpisce personalmente allora finisce che la legge della statistica conta come il pollo di Trilussa. Recentemente mi è capitato di visitare una ragazza che ha rischiato la vita per un'embolia polmonare massiva. La ginecologa le aveva prescritto la pillola senza effettuare lo screening per la trombofilia (condizione che si caratterizza per un più alto rischio trombotico a seguito di mutazioni genetiche che alterano la bilancia emostatica). Secondo il documento di consenso CeVEAS/ISS del 2008 «non si raccomanda, né prima di prescrivere un contraccettivo estroprogestinico, né durante l'uso, l'esecuzione routinaria di esami ematochimici generici, test generici di coagulazione, test specifici per trombofilia (compresi i test genetici)». 

Tuttavia, questa ragazza ad oggi soffre di una riduzione della capacità respiratoria, deve assumere ogni giorno anticoagulanti orali che le incrementano il rischio di sanguinamento, e psicofarmaci per lenire il disturbo post-traumatico che ha fatto seguito al trovarsi ad un passo dalla morte a meno di vent'anni. A qualche cardinale tardo sessantottino magari gli insegnanti dei metodi naturali di controllo della fertilità fanno storcere la bocca, ma se questa giovane donna avesse avuto la possibilità di conoscere e approcciarsi a questa possibilità, la sua vita sarebbe oggi diversa, e sicuramente migliore.

giovedì 10 settembre 2015

«Io obietto» Il caso Davis e le nostre leggi di Giorgio Carbone, 10-09-2015, http://www.lanuovabq.it/

La libertà di religione deve essere garantita dall'obiezione di coscienza
La libertà di religione deve essere garantita dall'obiezione di coscienzaL’eccellenza richiede sempre scienza e coscienza: se voglio compiere un’azione eccellente, dovrò agire con scienza e coscienza. Detto in altri termini, perché io possa mettere in atto un’azione virtuosa è necessario che io abbia conoscenza di quanto sto facendo e che io giudichi rettamente non solo le circostanze, ma anche la sostanza del mio atto e i miei obiettivi. L’azione virtuosa, qualsiasi sia la virtù implicata, richiede che io compia questa azione con la mia personale partecipazione. E quanto più tale partecipazione è completa e integrale, intelligente e volontaria, tanto maggiore sarà il progresso virtuoso e tanto più eccellente il risultato finale e il merito conseguente. Visto che ognuno di noi è chiamato a vivere virtuosamente, sarà giocoforza comportarsi con scienza e coscienza sempre, e non solo in alcune circostanze aspre dell’esistenza  e non solo nell’esercizio di alcune professioni.

Questo universale principio etico di agire secondo scienza e coscienza è strettamente connesso con il diritto-dovere di ricerca, di studio, di informazione, con il diritto-dovere di formazione di un personale giudizio circa le azioni da compiersi e con il principio etico di responsabilità personale. Proprio dall’universale principio etico di agire secondo scienza e coscienza deriva la cosiddetta clausola di coscienza o obiezione di coscienza: invocare la clausola di coscienza o fare obiezione di coscienza – che sono la stessa cosa – significa rifiutare di compiere un’azione prescritta dall’autorità, motivando tale rifiuto con la personale coerenza a principi fondamentali. Quindi, perché l’obiezione di coscienza sia eticamente lecita, si richiede che il rifiuto non sia espressione di un capriccio o di un arbitrio, ma sia manifestazione ragionevole di una fedeltà interiore a beni di capitale importanza. 

Se io non mi rifiutassi e quindi se io compissi l’atto prescritto dall’autorità questo bene fondamentale sarebbe leso. Proprio per non partecipare alla lesione di questo bene fondamentale, obietto e invoco la clausola di coscienza. L’obiettore non è né un ribelle, né un disobbediente. È piuttosto un testimone dell’eccellenza del bene che altrimenti sarebbe leso, esprime l’incondizionata fedeltà a un bene non-negoziabile. Ad esempio il medico, ginecologo o anestesista, che obietta davanti alla proposta o all’ordine di partecipare a un aborto, testimonia con fedeltà che è in gioco un bene fondamentale, la vita di un essere umano di età embrionale o fetale. Il medico di famiglia e il farmacista che invocano l’obiezione di coscienza per non prescrivere e non vendere prodotti chimici contraccettivi affermano indirettamente l’eccellenza del bene della salute della donna – visto che nessun contraccettivo chimico è esente da controindicazioni e effetti collaterali –, e la serietà dell’atto coniugale – visto che l’atto coniugale per essere autentico amore richiede la donazione totale e senza riserve di un coniuge all’altro.

Dal punto di vista giuridico l’obiezione di coscienza è il risvolto negativo della libertà di espressione del pensiero e della libertà religiosa. Ad esempio, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, votata dalle Nazioni Unite il 10/12/1948, all’art. 18 sancisce: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione». L’obiezione di coscienza trova sempre maggiori ambiti di applicazione negli Stati democratici e liberali. Lo Stato ha la potestà di imporre, mediante leggi e in forza di queste mediante organi amministrativi e giudiziari, determinati comportamenti ai cittadini: si tratta degli obblighi giuridici. Una volta si riteneva che il fondamento di questi obblighi giuridici fosse la volontà sovrana del re o dello Stato. Oggi questi obblighi giuridici sono visti come strumenti di salvaguardia e di protezione dei diritti inviolabili dell’uomo o se si preferisce dei beni non-negoziabili. In passato ciò che contava era il potere di imperio dello Stato, mentre il cittadino era un mero suddito rispetto alle disposizioni dell’autorità. 

Oggi, invece, al centro c’è il singolo uomo, che è il titolare di diritti fondamentali non-negoziabili, cioè non soggetti a deroga o a eccezione. E, quindi, nell’attuale sistema l’insieme degli obblighi e dei divieti giuridici è funzionale alla reale fruizione dei diritti umani. In questo sistema giuridico liberale l’obiezione di coscienza è una facoltà che lo Stato riconosce ai cittadini: determinati precetti e obblighi giuridici, che oggettivamente compromettono beni fondamentali, non sono vincolanti quando il cittadino invoca la clausola di coscienza proprio al fine di non partecipare e non essere coinvolto nella lesione di un bene fondamentale. Con chiarezza la Corte costituzionale (sentenza n. 467/1991) afferma che: «La protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 Cost. [... È] un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili».

La storia della salvezza ci presenta vari casi di obiezione di coscienza. Si pensi alle levatrici egiziane, Sifra e Pua, che non danno seguito all’ordine del faraone di uccidere i neonati delle donne ebree (Esodo 1,15-21). Oppure agli apostoli Pietro e Giovanni: l’autorità locale, il sinedrio dà loro un ordine e loro non ottemperano. I membri del sinedrio dicono: «“Perché non si divulghi maggiormente tra il popolo [la notizia della guarigione compiuta nel nome di Gesù], proibiamo loro con minacce di parlare ancora ad alcuno in quel nome”. Li richiamarono e ordinarono loro di non parlare in alcun modo né di insegnare nel nome di Gesù. Ma Pietro e Giovanni replicarono: “Se sia giusto dinnanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato”» (Atti 4,17-20).

La cronaca dei nostri giorni ci presenta molti casi di fedeltà ai beni umani non-negoziabili. Ad esempio la vicenda di Kim Davis, cancelliera della Contea rurale di Rowan, Kentucky, che è finita in galera per non aver firmato le licenze di matrimonio per quattro coppie, due delle quali formate da omosessuali. Ha invocato la libertà di coscienza proprio per non esser complice nello stravolgimento dell’istituto del matrimonio. Ed è arduo negare che il matrimonio non sia un bene di capitale importanza per la pacifica convivenza civile e il futuro delle generazioni umane. Inoltre è paradossale che ciò accada negli Stati Uniti d’America che si staccarono dal Regno Unito proprio per difendere e promuovere la libertà di coscienza e di religione. La libertà di coscienza e la facoltà di usare la clausola di coscienza sono l’espressione pratico-pratica della libertà di pensiero e di religione. Un parlamento può varare decine e decine di leggi sulla libertà di pensiero e di religione, ma perché queste non rimangano solo a livello teorico e meramente intellettuale, dovrà prevedere in concreto delle fattispecie in cui è riconosciuta l’obiezione di coscienza. 

Se, poi, questi beni fondamentali dell’uomo (cioè la libertà di coscienza, la libertà religiosa e l’obiezione di coscienza) sono violati a norma di legge e a suon di sentenze – come accade nel caso di Kim Davis –, allora lo Stato cessa di essere democratico e liberale, e si presenta come illiberale e totalitario: sotto le eleganti vesti della democrazia politicamente ineccepibile si cela l’imposizione tirannica del pensiero unico. Basta con strane convinzioni sulla realtà del matrimonio, la Corte suprema ha stabilito cosa è il matrimonio, tutti si uniformino come bravi soldatini. Perciò, la libertà di coscienza e l’obiezione di coscienza sono un efficace baluardo a non esser ridotti a bravi soldatini dello Stato o ciechi burattini del pensiero unico, ma a vivere da attivi e ragionevoli cittadini.

mercoledì 9 settembre 2015

Aborto. Così la Cgil porta in Europa la sua guerra (ingiusta) alle coscienze dei lavoratori settembre 9, 2015 Redazione, http://www.tempi.it/


Lunedì 7 settembre a Strasburgo è arrivata (di nuovo) davanti al Comitato europeo dei diritti sociali, organo del Consiglio d’Europa, l’infinita disputa italiana in merito all’applicazione della legge 194, che secondo i fautori dell’aborto come “diritto” sarebbe messa a repentaglio da un molto presunto eccesso di medici obiettori. La particolarità di questo “nuovo” attacco alle coscienze dei lavoratori della sanità è che a presentare il reclamo è stata la Cgil.

L’ACCUSA. L’accusa del sindacato, contestata dal governo italiano all’udienza pubblica andata in scena l’altroieri, è la solita: nel nostro paese ci sono troppi medici obiettori (il 69,6 per cento dei ginecologi secondo i dati ufficiali), il loro rifiuto di praticare aborti rappresenta un ostacolo alla fornitura del “servizio” e genera un intollerabile sovraccarico di lavoro per i colleghi non obiettori, ragion per cui occorre limitare l’esercizio della libertà di coscienza. Per la cronaca, la denuncia della Cgil, che risale al 2013, ricalca un reclamo precedente presentato (con successo) dall’International Planned Parenthood Federation European Network, il movimento internazionale per la “pianificazione familiare” legato all’omonimo colosso americano delle cliniche abortive.

COME PLANNED PARENTHOOD. La disputa comunque è solo all’inizio e per adesso è in discussione solo l’ammissibilità o meno del reclamo che sta molto a cuore al segretario Susanna Camusso. E in ogni caso il Comitato europeo dei diritti sociali non è un organo decisionale né giudiziario, ma una commissione chiamata a valutare l’effettiva applicazione da parte degli Stati della “Carta europea dei diritti sociali”, sottoscritta dall’Italia nel 1996 e ratificata nel 1999. Già una volta il nostro paese è stato “condannato” da questo organismo per la presunta «violazione dei diritti delle donne» causata «dall’elevato e crescente numero dei medici obiettori di coscienza» rispetto alla 194: è successo l’anno scorso, proprio in merito al caso aperto da Planned Parenthood, e guarda caso la notizia della “bocciatura” è iniziata a circolare sui giornali l’8 marzo, quando non c’era ancora nulla di ufficiale.

NESSUN PROVVEDIMENTO. Sarebbe toccato al Consiglio dei ministri dell’Unione Europea dare un seguito concreto alle conclusioni raggiunte in quella occasione dal Comitato, adottando risoluzioni generali o addirittura prescrittive nei confronti dell’Italia. Tuttavia, dopo un’audizione del governo, Bruxelles si è limitata a pretendere da Roma una periodica relazione sullo stato delle cose, scelta di per sé già indicativa dell’alto tasso di pretestuosità e di ideologia che sta alla base del reclamo della Cgil.
Lunedì infatti il governo italiano in sostanza ha ribadito i dati contenuti nell’ultima relazione annuale sull’interruzione volontaria di gravidanza presentata nell’ottobre scorso dal ministero della Salute al Parlamento, strumento che, per inciso, rappresenta la più capillare raccolta di dati disponibile sul tema, frutto del lavoro della task force istituita da Beatrice Lorenzin proprio in conseguenza dell’ennesima polemica intorno ai medici obiettori.

I DATI. Premesso che il tema dell’organizzazione del lavoro dei medici attiene alle Regioni, e che il ministero interviene solo in caso di specifiche denunce, secondo il governo le criticità denunciate dalla Cgil non sussistono. L’interruzione volontaria di gravidanza, infatti, si effettua «nel 64 per cento delle strutture disponibili», e in sintesi sono tre i parametri che dimostrano che a livello nazionale l’offerta del “servizio” non è affatto in pericolo: 1) in quanto ai numeri, mentre gli aborti sono pari al 20 per cento delle nascite, i “punti Ivg” in Italia sono pari al 74 per cento dei “punti nascita”; 2) confrontando i dati rispetto alla popolazione femminile in età fertile, ogni 3 strutture in cui si pratica l’aborto, ce ne sono 4 in cui si partorisce; 3) riguardo al carico di lavoro dei medici abortisti, su 44 settimane lavorative annuali, in Italia ogni non obiettore effettua 1,4 aborti a settimana, valore che rappresenta la media tra il minimo registrato in Valle d’Aosta (0,4) al massimo del Lazio (4,2).
A Strasburgo la Cgil ha portato anche testimonianze di presunte azioni di mobbing esercitate in ospedali italiani nei confronti del personale non obiettore. Al ministero però – è la difesa del governo – non sono pervenute denunce circostanziate di disservizi o di altre irregolarità.

Foto Ansa