venerdì 13 novembre 2015

Ecco fin dove può arrivare la furia laicista: vietare Chagall e Van Gogh perché turbano i “non cattolici” di Alfredo Mantovano, 13-11-2015, http://www.lanuovabq.it/

La Crocifissione bianca di Marc Chagall e la Pietà di Van Gogh
Lo si può anche liquidare come sublime esempio di stupidità, spinto fino al disprezzo del ridicolo. Però è successo, e non è una novità nel suo genere. Ai bambini della terza elementare della scuola Matteotti di Firenze viene impedito, nel giro programmato alla città, di visitare le opere della mostra Divina Bellezza allestita nel capoluogo toscano: fra esse, la Crocifissione bianca di Chagall, ammirato da Papa Francesco qualche giorno fa a margine del convegno ecclesiale, la Pietà di Van Gogh, la Crocifissione di Guttuso, l'Angelus di Millet e numerose altre opere. Per quale ragione? É spiegato nel verbale del consiglio interclasse, che si è tenuto lo scorso 9 novembre (riportato da QN-La Nazione): «la visita è stata annullata», così è stato messo per iscritto, «per tutte le terze per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche visto il tema religioso della mostra»; la mostra ha infatti come filo conduttore il rapporto tra arte e sacro.

Quando accade un fatto del genere, più che ripetersi «signora mia, a che punto siamo giunti», è lecito chiedersi perché si è giunti a questo. Perché, cioè, anche in Italia il rispetto della libertà religiosa, che è qualcosa in sé positivo, viene declinato, e da tempo, nei termini dell’abolizione di ogni simbolo che richiami la confessione religiosa, e perché questo accada soprattutto quando la confessione è quella cristiana. In nome della laicità, i Crocifissi nei luoghi pubblici sono diventati merce rara, in tante scuole il ricordo del Natale è sostituito dalle feste più improbabili e più disancorate dalla realtà, e l’abitudine di segnarsi prima di cena o prima di prendere un volo viene guardato con un misto di sospetto e di commiserazione.

Perché? Ci sono almeno due ragioni. La prima chiama in causa ciascuno di noi, in quanto italiani; la seconda la fascia di coloro che si riconoscono cristiani. Sfugge in modo sempre più diffuso che il cristianesimo è indissolubilmente correlato alla nostra storia, al nostro modo di pensare, alla nostra vita “laica” quotidiana; al punto che se l’opzione della scuola Matteotti di Firenze fosse portata alle sue logiche conseguenze la vita diventerebbe veramente complicata. Per restare alla patria di Dante, gli scuolabus dovrebbero rigorosamente evitare i percorsi che incrociano chiese, o lambire solo gli edifici sacri realizzati più di recente: somigliando più a fabbriche o a discoteche, non generano turbamento; un automezzo che transiti davanti a Santa Maria Novella rischia seriamente di collidere non con altri veicoli, ma con la «sensibilità delle famiglie non cattoliche». 

A scuola si dovrebbe rifiutare l’iscrizione degli alunni il cui nome richiama con maggiore evidenza figure cardine della nostra fede: Maria, Giuseppe, Francesco, financo Matteo; la semplice pronuncia in classe di quei nomi durante l’appello, col richiamo al motivo per cui sono stati scelti, è causa di sicuro turbamento. Perché poi far coincidere il giorno di riposo a scuola con la domenica, il cui stesso nome costituisce “reato”, richiamando quel Dominus che non si vuole in alcun modo nobiscum? Che dire poi della toponomastica? Via, il prima possibile, i nomi delle strade dedicati ai Santi o che richiamino simboli religiosi… Per concludere che se una persona vuole mostrarsi veramente di buon senso, anche se non crede, non può immaginare che siano cancellati duemila anni di una storia al cui interno - piaccia o non piaccia - la fede ha avuto un ruolo centrale.

Per il cristiano la riflessione è ancora più rapida: quanto c’è di nostra inerzia e indifferenza nel mancato rispetto dei simboli della nostra confessione? La prima volta - ormai molti anni fa - in cui in una scuola elementare la recita della Nascita di Gesù è stata sostituita dalla rappresentazione di Cappuccetto rosso abbiamo pensato che fosse una stranezza, ma comunque qualcosa cui non conferire tanto peso. Ogni qual volta abbiamo visto immagini sacre dileggiate e oltraggiate in manifestazioni pubbliche siamo stati propensi a rubricarle come folklore. L’abitudine a non considerare il patrimonio delle nostra religione come un tesoro prezioso, da tutelare - è il minimo sindacale -, da valorizzare e da rilanciare, come fa a Firenze la mostra Divina Bellezza e come ci esorta a fare il Magistero dei Pontefici, un bel giorno concorre a generare il divieto rivolto ai bambini a stupirsi di fronte allo splendore dell’arte, e dell’arte fondata sulla fede. 

Non è sufficiente meravigliarsi della stupidità laicista e gridare allo scandalo; per cominciare, per non restare nel generico e per rimanere al caso dal quale si è partiti, perché non organizzare una visita alla mostra di Firenze per gli sfortunati bambini delle terze classi della scuola Matteotti e per i rispettivi genitori?

giovedì 12 novembre 2015

La Corte Costituzionale legalizza l’eugenetica, novembre 12, 2015 Aldo Vitale, http://www.tempi.it/

Con la sentenza 229/2015 la Corte Costituzionale ha eliminato il divieto di selezione degli embrioni e della relativa sanzione penale sanciti, rispettivamente, dalla lettera b del comma 3 e dal comma 4 della legge 40/2004 disciplinante le tecniche di procreazione medicalmente assistita (da ora Pma).
Ciò causa numerose perplessità di carattere biogiuridico.
In primo luogo: focalizzando l’attenzione sul dispositivo della suddetta sentenza, si ha l’impressione che la Corte Costituzionale non ha letto le norme in questione, che se le ha lette non le ha comprese, e che se le ha comprese le ha dolosamente disattese.
In secondo luogo: dall’impianto generale della sentenza, sembra che la Corte Costituzionale si sia soltanto pigramente adagiata, recependone il senso all’interno del nostro ordinamento, sulla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 28 agosto 2012 riguardante il caso “Costa e Pavan c. Italia” con cui è stato dichiarato illegittimo il divieto della legge 40/2004 circa la diagnosi genetica preimpianto (da ora Dgp) specialmente in relazione alla normativa italiana in tema di interruzione volontaria di gravidanza (da ora Ivg) cristallizzata dalla legge 194/1978.
In terzo luogo: con la medesima sentenza, in barba ad ogni principio di non-contraddizione, la Corte Costituzionale ha, tuttavia, disposto che non è illegittimo il divieto posto dalla legge 40/2004 circa la soppressione dell’embrione in quanto, sempre secondo la Corte, «l’embrione, infatti, quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico».
Scendendo più in profondità, ma pur sempre evitando eccessivi tecnicismi etici e giuridici, occorre evidenziare che la suddetta sentenza della Corte Costituzionale non ha colpito semplicemente il divieto di Dgp, ma il divieto di selezione eugenetica in quanto tale.
Occorre però procedere con ordine su tre piani diversi: quello della coordinazione normativa; quello dei principi; quello degli effetti.
Sotto il primo profilo, cioè quello strettamente normativo, la decisione della Corte Costituzionale è fallace in quanto fondata sull’equivoco (il medesimo in cui è incorsa la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per una scadente conoscenza dell’ordinamento italiano e a causa della mancanza di una interpretazione sistematica del medesimo) che il divieto di Dgp della legge 40/2004 sia in contrasto con la normativa in tema di Ivg.
Detto in poche parole, ecco il succo del ragionamento della Corte Europea prima e della Corte Costituzionale adesso: che senso ha il divieto di Dgp che impedisce di selezionare gli embrioni insani per impiantarli se poi si può ricorrere alla interruzione volontaria di gravidanza per le malformazioni del feto?
Una simile impostazione dimostra di non aver colto la lettera e lo spirito di entrambe le leggi.
Per sciogliere il bandolo della matassa occorre tenere sempre ben presente ciò che la Corte Costituzionale incredibilmente sembra ignorare (si spera in buona fede), cioè la distinzione tra aborto eugenetico ed aborto terapeutico.
L’aborto eugenetico è quello posto in essere secondo un’ottica strettamente eugenetica, cioè per scartare gli embrioni o i feti considerati non idonei a causa delle loro eventuali patologie.
L’aborto terapeutico, invece, è quello posto in essere soltanto qualora le eventuali patologie del feto possano arrecare un pregiudizio alla integrità psico-fisica della donna, così come recita la lettera b del comma 1 dell’articolo 6 della legge 164/1978 che la Corte Costituzionale sembra non letto o compreso.
Insomma, per essere terapeutico e non eugenetico l’aborto, occorre che esista un nesso di causalità tra le patologie del feto e le lesioni all’integrità psico-fisica della donna; in caso contrario non sarà terapeutico, ma eugenetico e come tale universalmente riconosciuto come illecito nel nostro ordinamento, stante, appunto, il riconoscimento giurisprudenziale sul punto come dimostrano la sentenza della Corte di Cassazione 14488/2004 per la quale «non esiste nel nostro ordinamento l’aborto eugenetico», e la sentenza 151/2009 della stessa Corte Costituzionale ai sensi della quale l’embrione non è “cestinabile” come una qualunque res difettosa.
Sotto il livello dei principi, la suddetta sentenza della Corte Costituzionale sembra non tener conto che la terapeuticità dell’aborto terapeutico è in relazione alla madre e non all’embrione o al feto. La Dgp, invece, è sempre in relazione all’embrione e il divieto che era previsto dalla legge 40/2004 serviva proprio ad evitare che l’embrione fosse reificato e cassato come un qualunque prodotto difettoso.
Il divieto contemplato dalla legge 40/2004 che la Corte Costituzionale ha spazzato via con incresciosa insipienza giuridica era una norma di presidio della civiltà giuridica, di preservazione della natura del diritto e di espressione del diritto di natura.
Sotto il profilo degli effetti, non si può fare a meno di considerare che il divieto di Dgp testé archiviato evitava che si sviluppasse e diffondesse la disumana e antigiuridica prassi eugenetica nel nostro ordinamento.
La mera diagnosi osservazionale dell’embrione, infatti, è già consentita dalla stessa legge 40/2004 come si evince dal comma 2 dello stesso articolo 13 che così infatti sancisce: «La ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative».
Caduto un simile divieto per mano della sciatteria giuridica della Corte Costituzionale si è spalancata la porta verso la prassi eugenetica che per nulla riguarda la salute della donna, ma la dignità umana in quanto tale.
Oltre il diritto al figlio, dunque, potrà adesso essere reclamato anche il diritto al figlio sano, sebbene la Corte Costituzionale non sembra essersi posta il dilemma di cosa è sano e cosa invece no; si tratta solo di patologie degenerative e ingravescenti o anche con cui si può convivere, di patologie ereditarie e comuni o soltanto di quelle rare?
Chi decide e come si decide il limite? Se per una coppia avere un figlio diabetico può essere un problema, per un’altra coppia potrebbe essere un problema che sia femmina e non maschio, o castano piuttosto che biondo; chi conterrà gli eccessi e gli orrori?
In conclusione, sembrano riecheggiare proprio le parole di uno dei padri della fecondazione artificiale, cioè Jacques Testart il quale, in una intervista nel 2004, ha giustamente ravvisato ciò che la Corte Costituzionale sembra, ahinoi, avere ignorato del tutto: «Più si va avanti e più sarà difficile sbarrare la strada a un progetto di eugenetica […]. Ma non c’è dubbio che, se la medicina si mette al servizio della selezione, creando categorie di inclusi, reclusi ed esclusi, la vita umana sarà tassativamente governata dall’ideologia della competizione, contro la quale per salvare la civiltà è stato necessario inventare i diritti dell’uomo».

Se la Consulta riconosce il diritto all'eugenetica di Giacomo Rocchi, 12 novembre 2015, http://www.lanuovabq.it/


La nuova sentenza della Corte Costituzionale sulla legge 40 del 2004 depositata ieri contiene due decisioni di segno diverso, entrambe assai interessanti. 

FecondazioneIl Tribunale penale di Napoli, che stava giudicando due professionisti della fecondazione in vitro, accusati di avere selezionato, tra gli embrioni prodotti in soprannumero, quelli affetti da malattie genetiche e di averli soppressi, ha sospettato che la legge sia incostituzionale nel porre due divieti assoluti: di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e di soppressione degli embrioni prodotti. Secondo il Tribunale, entrambe le condotte dovrebbero essere permesse ai danni degli embrioni malati, alla luce del diritto della donna a rifiutarne il trasferimento nel proprio corpo, avendo ella in ogni caso il diritto di abortirli. 

Come si vede, si tratta della concretizzazione giuridica della "cultura dello scarto" di cui ha spesso parlato Papa Francesco: se gli embrioni sono malati possiamo rifiutarli e, siccome non servono a niente, è meglio ucciderli. 

I criteri indicati per sollevare il dubbio di costituzionalità sono ben conosciuti: il diritto alla salute della donna – che è ormai una parola vuota, che corrisponde al riconoscimento della sua totale autodeterminazione – e l'Europa: viene così richiamata la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che aveva, appunto, affermato il diritto delle coppie di procedere alla diagnosi genetica preimpianto sugli embrioni prodotti e di rifiutare quelli malati. 

La Corte Costituzionale ha risposto in maniera affermativa alla questione della selezione, dichiarando l'illegittimità costituzionale della legge «nella parte in cui contempla come ipotesi di reato la condotta di selezione degli embrioni anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili». 

La decisione viene presentata come inevitabile conseguenza di quella di pochi mesi fa che aveva eliminato il divieto di accesso alle tecniche di fecondazione artificiale per le coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili: la Corte osserva, infatti, che l'accesso di queste coppie alle tecniche presuppone l'esecuzione della diagnosi genetica e la selezione, perché esse non servono più a superare la sterilità, ma a conseguire gravidanze di bambini non malati. Quindi, dice la Corte, ciò che è diventato lecito per effetto di quella pronuncia «non può dunque – per il principio di non contraddizione – essere più attratto nella sfera del penalmente rilevante». 

In realtà quella piccola breccia aperta per gli aspiranti genitori consapevoli di essere portatori di malattie genetiche si è rapidamente trasformata nel crollo dell'intera diga: ora – in forza della nuova pronuncia della Corte Costituzionale – la diagnosi genetica preimpianto e la selezione degli embrioni è espressamente consentita per tutte le coppie. La Corte finge di credere che ciò avverrà al solo scopo di evitare il trasferimento degli embrioni malati, ma, di fatto, viene espressamente autorizzata la prassi usata dagli "specialisti" della fecondazione in vitro: produzione di quanti più embrioni possibili, diagnosi genetica su tutti gli embrioni prodotti, selezione discrezionale di alcuni di essi dipendente dalle finalità che la coppia o i tecnici si prefiggevano. 

Si deve sottolineare che questa pronuncia contiene un elemento davvero sorprendente – ma anche terribile - di chiarezza: la Corte, infatti, ha autorizzato (sia pure in qualche caso) la selezione eugenetica degli embrioni! Sì: questa parola terribile – eugenetica – che richiama pratiche orribili contro la vita e la dignità dell'uomo e tempi oscuri è stata "sdoganata"; sì, la Corte Suprema di una nazione civile ha statuito che, in certi casi, la selezione a scopo eugenetico è permessa. 

Nonostante l'enormità di questo evento giuridico, non possiamo stupirci: sappiamo benissimo, infatti, che la produzione artificiale dell'uomo è inevitabilmente eugenetica, perché l'embrione è un "prodotto" (la legge 40 parla di "produzione degli embrioni") realizzato su richiesta da clienti paganti, che lo vogliono perfetto. 

Possiamo consolarci osservando che ora, almeno, ogni velo sulla natura di queste pratiche è caduto; nessuno può dire di non sapere; nessuno – soprattutto se afferma di far parte di un mondo che difende la vita e respinge la cultura dello scarto – può continuare a sporcarsi le mani (e a guadagnare denaro) con pratiche così abiette.  

La decisione della Consulta in merito al secondo quesito sorprende nel senso opposto. La Corte afferma che gli embrioni malati possono essere, sì, selezionati e non trasferiti nel corpo della madre, ma non possono essere soppressi; e tale decisione è presa con parole non banali. Conviene leggere un passo, anche se un po' impegnativo: «deve escludersi che risulti (…) censurabile la scelta del legislatore del 2004 di vietare e sanzionare penalmente la condotta di «soppressione di embrioni», ove pur riferita (…) agli embrioni che, in esito a diagnosi preimpianto, risultino affetti da grave malattia genetica. Anche con riguardo a detti embrioni, la cui malformazione non ne giustifica, sol per questo, un trattamento deteriore rispetto a quello degli embrioni sani (…), si prospetta, infatti, l’esigenza di tutelare la dignità dell’embrione, alla quale non può parimenti darsi, allo stato, altra risposta che quella della procedura di crioconservazione. L’embrione, infatti, quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico. Con la sentenza n. 151 del 2009, questa Corte ha già, del resto, riconosciuto il fondamento costituzionale della tutela dell’embrione, riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.; e l’ha bensì ritenuta suscettibile di «affievolimento» (al pari della tutela del concepito: sentenza n. 27 del 1975), ma solo in caso di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in temine di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti. Nella fattispecie in esame, il vulnus alla tutela della dignità dell’embrione (ancorché) malato, quale deriverebbe dalla sua soppressione tamquam res, non trova però giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela di altro interesse antagonista». 

Insomma: la Corte sa – e lo ribadisce pubblicamente – che l'embrione prodotto non è "mero materiale biologico" e non può essere trattato come se fosse una cosa ("tamquam res"); quindi i suoi interessi possono cedere solo di fronte «ad altri interessi di pari rilievo costituzionale». L'embrione soprannumerario malato, quindi, non può essere soppresso – e resta reato farlo – e, per evitare che muoia, non può che essere crioconservato. 



Una mezza vittoria per i prolife? Purtroppo i timori sono legittimi. 
Colpisce, in primo luogo, che la Corte non abbia avuto il coraggio di usare le parole "uccidere" e "vita": in effetti, la "soppressione" dell'embrione in vitro, più che ledere la sua "dignità", ne viola il diritto alla vita. L'embrione "soppresso" viene ucciso volontariamente; prima era un essere umano vivo – anche se ingiustamente congelato – e dopo è un essere umano morto.

E poi: quali sono gli altri interessi "di pari rilievo costituzionale" rispetto ai quali quelli degli embrioni "affievoliscono", per usare l'eufemismo della Corte Costituzionale? Fino ad oggi – nella finzione creata con la sentenza n. 27 del 1975 che consentì la liberalizzazione dell'aborto volontario – vi era un unico interesse prevalente: quello alla vita e alla salute della madre la cui tutela, formalmente, ha permesso l'approvazione della legge 194 del 1978 sull'aborto. Non a caso, quella risalente pronuncia della Corte è sempre stata richiamata per "smantellare" progressivamente i "paletti" della legge 40. 

Ora scopriamo che potrebbero esistere altri interessi prevalenti; e subito viene in mente la questione che ancora pende davanti alla Corte: quella della possibilità di destinare gli embrioni soprannumerari alla ricerca scientifica che – come è noto – è tutelata dalla Costituzione. In quella causa – che sarà discussa all'udienza pubblica del 22/3/2016 - i Giuristi per la Vita avevano chiesto al Presidente della Corte di nominare un curatore speciale per gli embrioni, visto il loro conflitto di interessi con i genitori, che vogliono destinarli, appunto, alla sperimentazione e alla conseguente soppressione. 

Il fatto è che la produzione in vitro dell'uomo – non dimentichiamolo: una pratica creata nell'ambito della zootecnia – lo rende, come dice la Corte, "tamquam res", come se fosse una cosa; e quali diritti si possono attribuire alle cose?

martedì 10 novembre 2015

Perché il gender uccide il corpo e annienta la realtà, di Chiara Atzori, 10-11-2015, http://www.lanuovabq.it/

Il gender elimina il corpo nella sua realtà
Il gender elimina il corpo nella sua realtàPassato il momentaccio, la Chiesa forse dovrà ringraziare Krzysztof Charamsa, il sacerdote che con un atto plateale ha dichiarato la sua omosessualità. A prescindere dal ben calcolato esito di clamore mediatico sul Sinodo, forse grazie al “monsignore gay” si potrà ricominciare a parlare di omosessualità, che nella sua versione di deriva ideologica e politica (omosessualismo) è uno dei pilastri della visione gender. Perché il tema della inclinazione omosessuale è il “non detto” che aleggia in tante sessioni, incontri e dibattiti sulla famiglia e sulla “teoria gender” in cui si affrontano le tematiche della relazione uomo donna, senza avere più chiari fondamenti antropologici di base. La persona umana non è un’astrazione teorica né un contenitore neutro di “preferenze” affettive o erotiche. 

Love is love (l’amore è amore) è uno slogan mediaticamente vincente perché facile da ripetere e affettivamente rassicurante ma anche pericolosamente ambivalente per la sua capacità di incerottare e mummificare la riflessione vera sulle “buone” ed affettivamente “amabili” modalità di relazione tra gli esseri umani. Perché quello slogan semplicemente non tiene conto o meglio volutamente oscura le tante declinazioni non equivalenti che la parola amore può assumere: affetto, amicizia, eros e agape.Tutte espressioni dell’amore collegate all’umano, ma, appunto, non equivalenti né autorizzabili in tal senso come “amabili” in ogni tipo di relazione: banalmente l’espressione “love is amore”, ad esempio, può valere per normalizzare e rendere accettabili le relazioni erotiche tra adulti e bambini? Di quale amore stiamo parlando?

Tra lo slogan di parola e l’agire reale esiste un ponte che non è semplicemente un mezzo, ma siamo proprio noi, la nostra corporeità. Il corpo è una realtà che per la cultura neognostica odierna (talvolta anche intraecclesiale) rappresenta un “fastidioso mediatore sessuato” del quale si vorrebbe fare a meno. Ma l’amore per la verità e per il principio di realtà ci deve sostenere e dobbiamo continuare a percorrere il drammatico crinale che collega le pretese intellettuali di certa filosofia astratta e la deriva materialista e biologista di stampo gender che riduce il corpo a materiale disponibile e modificabile secondo le proprie preferenze, o lo subordina a presunta supremazia della “relazione” a prescindere dalla corporeità della persona stessa, come fa certa teologia.

Ogni essere umano è unitarietà bio-psicoculturale, sostanza individuale sessuata di natura razionale e relazionale, cioè creatura in grado di collegare cervello-cuore e area genitale sotto-ombelicale in una armonica comprensione di chi è. Una creatura, maschio o femmina che per sua natura non è obbligata, ma dotata della possibilità di collaborare a questa sintesi, nella libertà. Le preferenze (orientamenti) affettivi ed erotici, invece, non sono ontologici, sono situazioni, esiti, stati adattativi, cioè rappresentano per ciascuno l’inedito risultato di complesse interazioni tra la parte biologica (genetica, epigenetica, forma del corpo, interazione del corpo con l’ambiente), psicologica (internalizzazione e integrazione di esperienze sensoriali connotate da piacere o dolore, che necessariamente mediano ogni esperienza sensoriale e con quella coloritura “affettiva” vengono archiviate e ripescate dalla memoria), e culturale (effetti educativi, etnico-linguistici, simbolici, storicamente contrassegnati dai codici geografici e temporali in cui ciascuno vive).

Gli orientamenti (inclinazioni) non esauriscono la totalità della persona, che è e rimane ontologicamente differenziata solo in quanto uomo e donna. La sessualità inscritta nel corpo manifesta la traccia visibile del mistero della alterità nel modo più radicale, e nel contempo anche la vocazione alla generatività .Gesù in persona ci ha indicato la amabile “canalizzazione” (non la castrazione) della potenza inscritta nella differenza sessuale sia attraverso possibilità della verginità consacrata (maschile che femminile) sia attraverso il matrimonio, alleanza sponsale e luogo sacro e inviolabile per la trasmissione della vita. Gesù ci ha indicato il progetto di Dio sulla sessualità, «per questo l’uomo la donna lasceranno il padre e la madre e i due saranno una sola carne», non ci ha parlato di omosessualità. Gli eunuchi che nascono così (gli stati intersessuali?) o che tali diventano non hanno nulla a che fare con gli «eunuchi per il regno», e certamente nulla hanno da spartire con la richiesta di una normalizzazione dell’esercizio di una sessualità omoerotica, con buona pace dei gruppi che pretendono una benedizione sulle loro unioni tra persone dello stesso sesso.  

Il buon senso oggi sembra smarrito anche laddove avrebbe dovuto crescere ìgrazie alle opportunità di approfonditi studi filosofici e teologici. O forse proprio a causa di “troppo” studio si è persa l’esperienza del reale e ci si è smarriti nei labirinti di un’emotività infantile ipertrofica, probabile argine riparativo per il permanere prolungato in una astrattezza troppo a lungo alienata da una sana relazione con il proprio e l’altrui corpo. Nessuno nasce gay, come purtroppo ancora anche qualche eminenza sembra credere e incautamente dichiara in pubblico. Gli esseri umani esistono come creature sessuate, cioè dotate di una differenza sostanziale, ontologica, che li vede maschi e femmine. Il corpo è il primo “segno” di questa unidualità misteriosa, un richiamo alla dimensione relazionale, necessità dell’altro per esistere, che rimanda al Mistero dell’Alterità radicale, della dipendenza da chi ci dona l’essere.

Ma senza filosofare troppo, vi è un “appoggio” necessario della parte psichica di cui si diventa gradualmente consapevoli, lo stesso pensiero è reso possibile solo e grazie ad un soma (corpo) che lo precede e lo struttura.E il soma (corpo) non è androgino, ma sessuato e strutturato differentemente come confini corporei (forma) e come cervello nel maschio e nella femmina. É impregnato differentemente in senso ormonale nei due sessi, è soggetto a una modulazione chimica differenziata su ogni cellula sia essa della periferia corporea piuttosto che costitutiva dell’organo più caratterizzante il profilo umano per eccellenza, il suo cervello. Un uomo, fosse pure monsignore o cardinale o re, che non ha integrato e armonizzato la differenza sessuale (inscritta nel corpo ed esemplificata nella differenza genitale) nella sua identità , non diventa per tale motivo “omosessuale” o “gay” ma semplicemente rimane un essere umano con una identità ferita dalla tendenza omosessuale. 

Una persona che sta codificando il suo e l’altrui “corpo erotico” prescindendo (si spera inconsapevolmente) dalla realtà naturale oggettiva perché buchi e sporgenze del corpo hanno certamente un significato anche simbolico, ma rimangono tenacemente dotati di una loro realtà fattuale, organica e morfologica con cui bisogna fare i conti, prima o poi.Un ano o una bocca non sono vagine e peni, non sono genitali, e neppure “oggetti” a disposizione. Non si toglie valore alla persona con tendenza omosessuale, ma si deve poter dire che questa non ha ancora “integrato” il primato genitale nel suo processo di sessuazione psichica. Uomini e donne con tendenza omosessuale non sono giudicabili in quanto feriti e in realtà tutti lo siamo, in quanto creature umane, ma tutti dobbiamo assumerci la nostra responsabilità personale nel decidere a chi affidare la chiave di “lettura” della nostra identità sia pure “ferita”. 

La chiamata “vocazionale” radicale, per ogni creatura umana è, infatti, decidere se collaborare a far fiorire ciò che si è ricevuto in dono come “essere”: uomini se maschi, donne se femmine. Tutto questo con il dovuto rispetto e delicatezza nei confronti di quegli individui che portano la drammatica e difficile prova delle patologie chiamate stati intersessuali, e che rappresentano un ambito totalmente distinto. La tendenza omosessuale non è, infatti, una malattia in senso biologico o organico, e neppure un “destino” o un innatismo. La fatica di crescere e di accettare di non essersi “dati” un corpo, ma di esistere in e in forza di un limite, il proprio corpo sessuato può essere affrontata con fiducia anche a fronte di percorsi relazionali e personali accidentati, se ci si affida al Signore, quello stesso Signore che nella Genesi ha detto, contemplando l’uomo e la donna da Lui creati, che erano «cosa molto buona». 

Accettare la relazione uomo donna come unico luogo “santo” per l’esercizio della sessualità genitale, luogo santo di custodia dell’origine della vita, realtà voluta da Dio, indiscutibilmente è una posizione da creatura ragionevole, che ri-conosce di esistere come prezioso e misterioso dono, elargito come “bene-dizione” nel momento dell’incontro tra i “limiti” rappresentati dalla corporeità del corpo sessuato maschile e femminile.