venerdì 29 gennaio 2016

Francia. Approvata «l’eutanasia mascherata»: si chiama sedazione terminale, 28 gennaio 2016, www.tempi.it di Leone Grotti

Dopo un lungo processo e accese discussioni cominciati nel 2012, la Francia ieri si è dotata di una nuova legge sul fine vita, che supera la precedente “loi Leonetti”. Come ricordato da diversi parlamentari al Palazzo di Lussemburgo, viene introdotta «un’eutanasia mascherata» sotto le mentite spoglie della sedazione terminale.

eutanasia-malato-ospedale-terminale-shutterstockSEDAZIONE PROFONDA E CONTINUA. Il testo introduce un «diritto alla sedazione profonda e continua» fino al decesso per i malati in fase terminale. Quando un paziente è «affetto da una malattia grave e incurabile», e la sua «sofferenza è refrattaria alle cure» e si è davanti a una «prospettiva di vita» molto breve, allora può essere addormentato e tutti i sostegni vitali, come alimentazione e idratazione, possono essere interrotti.
ACCANIMENTO TERAPEUTICO. È bene precisare che questa pratica, esclusa l’interruzione dei sostegni vitali tranne rarissimi casi, viene già usata negli ospedali francesi quando un paziente soffre ed è immediatamente prossimo alla morte. La sedazione terminale serve infatti ad evitare l’accanimento terapeutico, che è vietato in Francia.
DIFFERENZA SUBDOLA. Che cosa introduce di nuovo la legge allora? La differenza è enorme, anche se subdola. Oggi negli ospedali francesi si usa la sedazione terminale per accompagnare il paziente negli ultimi momenti della sua vita cercando di non farlo soffrire. È una decisione difficile da prendere e gravida di conseguenze, visto che così si toglie al paziente la possibilità di essere cosciente negli ultimi momenti della sua vita.
«VIOLENZA INAUDITA». Introdurre il diritto alla sedazione invece, con la possibilità di interrompere alimentazione e idratazione, è un modo per «provocare deliberatamente la morte», come spiegato da Tugdual Derville, del movimento Soulager mais pas tuer (Alleviare ma non uccidere). «Il criterio dell’intenzione qui è determinante. Sovrapporre alla sedazione l’arresto di alimentazione e idratazione è un modo molto pericoloso di dissimulare l’eutanasia. Questa morte lenta e che sopraggiunge mentre dormiamo, che la legge ci garantisce, si rivela di una violenza inaudita». È significativo in questo senso che i parlamentari si siano rifiutati di inserire nel testo di legge una frase per specificare che «l’intenzione della sedazione non deve essere quella di provocare la morte».
SUICIDIO ASSISTITO. All’articolo 3, inoltre, è stata introdotta una dicitura molto ambigua. Un paziente cioè potrà richiedere la sedazione profonda non solo quand’è in uno stato di fine vita, ma anche quando l’interruzione dei trattamenti richiesta per qualsiasi motivo «sia suscettibile di provocare una sofferenza insopportabile». Questa formulazione ambigua, che usa il criterio soggettivo della “sofferenza insopportabile”, secondo gli esperti farà da anticamera all’introduzione del suicidio assistito. Basterà che qualcuno si rivolga ai giudici chiedendo di specificare meglio i diritti garantiti da questo articolo.

Belgio, eutanasia: nuovo record nel 2015. I casi superano quota 2.000, tempi.it, gennaio 29, 2016 di Leone Grotti

Nel 2015 almeno 2.021 persone in Belgio sono morte con l’eutanasia, legalizzata nel 2002. Il rapporto annuale pubblicato mercoledì dal governo indica un nuovo aumento di casi rispetto al 2014, quando erano morti in 1.924, e al 2013 (1.816). Il trend sembra inarrestabile: se per la prima volta nel 2011 era stata superata quota mille morti (1.133), appena quattro anni dopo anche la soglia dei duemila decessi è valicata.

grafico-eutanasia-belgio-2015«MOLTI CASI NON COMUNICATI». Secondo il presidente della Commissione di controllo dell’eutanasia, Wim Distelmans, non bisogna parlare di banalizzazione della morte perché «dobbiamo ricordare che posso esserci dei casi in cui l’eutanasia viene praticata senza che venga comunicato [alla Commissione]».

SCENARI INQUIETANTI. L’affermazione non è di poco conto, visto che la comunicazione alla Commissione di controllo è obbligatoria. Diversi studi hanno dimostrato negli ultimi anni che la norma del 2002 viene aggirata almeno nel 20 per cento dei casi. Ora è lo stesso capo della Commissione di controllo ad ammettere, aprendo a scenari inquietanti, che la legge viene abusata e che in molti casi l’eutanasia viene praticata senza che nessuno sappia se i requisiti previsti dal legislatore sono rispettati o no.
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OLTRE IL 5% DELLE MORTI. Nel 2013, secondo un rapporto del New England Journal of Medicine pubblicato l’anno scorso, il 5,1 per cento di tutte le morti nelle Fiandre era dovuto all’eutanasia (attiva e passiva). Inoltre, in un ulteriore 1,7 per cento dei casi la morte era stata accelerata e procurata dal medico senza esplicita richiesta del paziente.

NESSUN BAMBINO? Ormai sono le stesse persone che dovrebbero controllare che la legge non venga abusata ad ammettere che la legge viene abusata. Eppure a nessuno nel governo belga viene in mente di modificare il testo che dal 2014 permette di uccidere con l’eutanasia anche i bambini. Secondo il rapporto, a questo proposito, nessun bambino è morto con l’eutanasia né nel 2014, né nel 2015. Ma non si può esserne certi visto che i numeri sono stati dichiarati non affidabili dalle stesse persone che li hanno stilati.

@LeoneGrotti
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giovedì 28 gennaio 2016

Unioni civili, ma quali diritti mancano? di admin @CostanzaMBlog, 27 gennaio 2016

Ecco i diritti di cui godono in Italia i conviventi (senza distinzione di sesso). Luciano Moia, su Avvenire, ne ha fornito il preciso inventario:

ANAGRAFE – Il regolamento anagrafico in vigore dal 30 maggio 1989 stabilisce che “l’anagrafe è costituita di schede individuali, di famiglia e di convivenza”, senza bisogno in quest’ultimo caso di ulteriori registri.

bilanciaASSISTENZA SANITARIA – La legge n. 91 del 1 aprile 1999 prescrive che i medici devono fornire informazioni sulle cure tanto “al coniuge non separato” quanto “al convivente more uxorio“(nel 2012 la Corte d’Appello di Milano ha sancito che nella nozione legale di ‘conviventi more uxorio‘ rientrano anche le coppie omosessuali, per le quali vale “il diritto a un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata”).

PERMESSI RETRIBUITI – La legge n. 8 del 2000 riconosce il permesso retribuito di tre giorni all’anno al lavoratore e alla lavoratrice anche in caso di documentata grave infermità del convivente.

CONSULTORI FAMILIARI – La legge n. 405 del 1975 assicura assistenza psicologica e sociale per i problemi della coppia e della famiglia anche ai componenti di una convivenza.

ASSISTENZA AI DETENUTI – Le norme sull’ordinamento penitenziario in applicazione della legge n. 354 del 1975 prevedono possibilità di colloqui e corrispondenza telefonica al “convivente detenuto” alle stesse condizioni stabilite per il coniuge.

FIGLI – Nessuna differenza sul piano legislativo tra genitori regolarmente sposati e conviventi. Addirittura la legge n. 6 del 2004, nell’elencare chi dev’essere preferito come amministratore di sostegno di una persona priva di autonomia, colloca “la persona stabilmente convivente” subito dopo il coniuge e prima del padre, della madre, dei figli, dei fratelli.

LOCAZIONI – La corte costituzionale, con la sentenza n. 404 del 1988, ha riconosciuto al convivente more uxorio il diritto di succedere nel contratto di locazione in caso di morte del partner, anche quando sono presenti eredi legittimi.

VITTIME DI MAFIA O TERRORISMO – La legge n. 302 del 1990 ha esteso anche ai conviventi more uxorio le provvidenze che lo Stato accorda alle vittime.

VITTIME DI ESTORSIONE E USURA – La legge n. 44 del 1999 comprende tra i beneficiari delle provvidenze anche i conviventi delle vittime.

ALTRE TUTELE – Oltre ai benefici fin qui elencati, vi sono garanzie per i conviventi anche per quanto riguarda l’assegnazione degli alloggi popolari, l’impresa a carattere familiare, il risarcimento dei danni patrimoniali, la protezione dei collaboratori e testimoni di giustizia.

Che cosa vorrebbero allora in più i fautori della nuova legge? I due benefici che finora spettano soltanto alle coppie sposate: la reversibilità della pensione  e la possibilità di adottare dei figli.

martedì 26 gennaio 2016

La Costituzione e i tre inganni delle unioni civili, di Giorgio Carbone, 26-01-2016, http://www.lanuovabq.it/


Inizio con due avvertenze. 1) Do per scontato che tu abbia chiaro che già oggi in Italia le persone conviventi dello stesso sesso hanno i diritti che invocano (clicca qui). 2) Tenteremo di procedere secondo il metodo razionale, senza cedere al pathos emotivo, alle urla ideologiche o autoritari diktat.

La Costituzione prevede solo il matrimonio tra uomo e donnaCosa è il matrimonio? La domanda non è retorica o banale. Si impone dati i tempi che viviamo: le piazze si stanno riempiendo, c’è il rischio di contrapposizioni tanto violente quanto sterili, molti hanno smarrito l’elementare senso comune, è sempre più difficile ascoltare argomenti razionali e oggettivi, piuttosto che slogan emotivi. Se volessi fare un discorso di tipo confessionale, cioè per i credenti, farei riferimento alla sacra Scrittura, alla tradizione apostolica e al magistero della Chiesa. Ma non è questo il mio obiettivo. Tenterò di argomentare in modo laico, cioè senza appellarmi a principi di autorità, ma alla ragione umana e ad alcuni dati, come la Costituzione della Repubblica, che dovrebbero essere pacificamente condivisi dai cittadini italiani.

Proprio la Costituzione dice: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare» (art. 29). Leggendo gli Atti dell’Assemblea Costituente e in particolare le sedute del 30 ottobre 1946 e del 17 aprile 1947, veniamo a sapere che i Padri costituenti non hanno preteso di dare una definizione del matrimonio, ma semplicemente avevano la chiara consapevolezza che il matrimonio e la famiglia sono realtà che preesistono allo Stato. L’espressione «famiglia come società naturale» non deve far pensare a un rinvio a quella particolare corrente di pensiero che si chiama diritto naturale, ma significa solo che la famiglia e il matrimonio, che la fonda, sono realtà umane che precedono la Costituzione, il diritto positivo, e qualsiasi forma di organizzazione dello Stato, repubblica o monarchia che sia. 

Dire, poi, che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» ha anche un altro scopo: lo Stato riconosce non solo la preesistenza della famiglia e del matrimonio, ma si impegna anche a rispettarne l’autonomia e l’ordine interno. I Padri costituenti hanno voluto così reagire all’esperienza e alla tentazione ricorrente dei regimi totalitari: questi regimi totalitari, infatti, intervengono sulla famiglia, anche con atti legislativi e burocratici, con un eccesso di autoritarismo e minano la libertà dei singoli.

Il matrimonio fondante la famiglia, di cui parlano l’art. 29 della Costituzione e gli Atti della Costituente, non è definito né dalla Costituzione né dal Codice Civile. È una realtà che precede e preesiste. Questo modo di agire del legislatore e il fatto che la Costituzione usi l’espressione «La Repubblica riconosce» stanno a significare che lo Stato prende atto anche dei presupposti che fondano il matrimonio. E se il matrimonio è una realtà umana che precede lo Stato, precederanno lo Stato anche i presupposti del matrimonio. Tali presupposti saranno quindi pre-giuridici, saranno dei presupposti antropologici, cioè conseguenti all’identità della persona umana. Quali sono tali presupposti pre-giuridici del matrimonio?

Leggendo la tradizione giuridica classica romana, di epoca repubblicana e imperiale, e gli Atti della Costituente balzano all’evidenza alcuni presupposti pre-giuridici: la dualità della differenza sessuale – cioè l’essere maschio il marito e l’essere femmina la moglie –; la complementarietà – si parla di società, di consortium omnis vitae (Digesto XXIII,2) –; e l’uguaglianza nella differenza. Oggi stiamo smarrendo l’evidenza circa questi presupposti pre-giuridici. Nota, poi, che si tratta di dati oggettivi che si impongono a tutti, l’identità sessuale, essere maschio o essere femmina, così come l’età anagrafica, sono dati oggettivi. Sono pre-giuridici, cioè valgono sempre qualsiasi sia l’ordinamento giuridico nel quale uno si trova a vivere, sono dati che attengono alla persona umana in quanto tale. Proprio questi dati oggettivi, in particolare quelli della dualità sessuale – essere maschio e essere femmina – e della rispettiva complementarietà fondano il matrimonio.

Il disegno di legge della senatrice Cirinnà propone una precisa operazione descritta in questi articoli che riporto. «Art. 1 Finalità. Le disposizioni del presente Capo istituiscono l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale». Per costituire l’unione civile è sufficiente una dichiarazione all’ufficiale di stato civile: «Art. 2 Costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. 1. Due persone maggiorenni dello stesso sesso costituiscono un'unione civile mediante dichiarazione di fronte all'ufficiale di stato civile e alla presenza di due testimoni». Circa i diritti e i doveri leggi l’Art. 3 «Diritti e doveri derivanti dall'unione civile tra persone dello stesso sesso. 1. Con la costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall'unione civile deriva l'obbligo reciproco alla fedeltà, all'assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni. 2. Le parti concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l'indirizzo concordato». Queste parole ti ricordano qualcosa? Quelle che vengono lette al termine delle nozze. Sono le stesse.

Se non fosse ancora chiara l’operazione prodotta dal disegno di legge, leggi ancora l’Art. 4 «Le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso». L’operazione di fatto realizzata dal disegno di legge è estendere la disciplina del matrimonio alle unioni tra persone dello stesso sesso. Se il disegno di legge entrasse in vigore, ciò che oggi l’ordinamento giuridico prevede per il matrimonio si applicherebbe alle unioni tra persone dello stesso sesso, producendo alcune conseguenze.

1. L’ingiustizia da legge ordinaria. Matrimonio e unioni tra persone dello stesso sesso sarebbero messe sullo stesso piano, cioè sarebbero omologate, trattate allo stesso modo. Ciò è una violazione palese del principio di uguaglianza. L’uguaglianza, che tutti desideriamo, prevista dalla Costituzione all’art. 3, così come interpretata costantemente dalla Corte costituzionale, non significa né trattare tutti allo stesso modo né omologare. Ma significa dare un trattamento uguale a fenomeni uguali e un trattamento diverso a fenomeni diversi, per il semplice fatto che trattare in modo identico situazioni diverse è iniquo. 

2. La contraffazione linguistica. Con una semplice legge ordinaria sarebbe di fatto modificata la Costituzione della Repubblica. Il che viola la procedura speciale di revisione della Costituzione. E poi, la parola matrimonio all’art. 29 della Costituzione, così come si evince dagli Atti della Costituente, significa la società tra marito e moglie, che si fonda su un dato oggettivo pre-giuridico della differenza dell’identità sessuata. Estendendo la disciplina del matrimonio all’unione tra persone dello stesso sesso di fatto il legislatore ordinario altera radicalmente il significato di quella parola.

3. La rivoluzione antropologica e civile. Estendendo la disciplina del matrimonio alle persone dello stesso sesso la Repubblica abbandona i presupposti pre-giuridici oggettivi che fondano il matrimonio, cioè la dualità dell’identità sessuata e la complementarietà. E così l’ordinamento giuridico del nostro Paese si non si fonderebbe più sul dato oggettivo, primario della differenza sessuale tra maschio e femmina, ma sull’orientamento o sulla preferenza sessuale. Ora, usare gli orientamenti e/o le preferenze, indipendentemente dal fatto che siano di tipo sessuale o non sessuale, come categorie di identificazione sociale e giuridica è un’operazione: a) riduttiva, perché nessuno di noi esaurisce sé nell’orientamento o nelle preferenze; b) soggettiva, perché orientamento e preferenza non fanno riferimento a caratteristiche evidenti come l’identità sessuale, la razza o una condizione di invalidità; c) aleatoria: se un Paese dà diritto di cittadinanza a un orientamento, in ragione del principio di uguaglianza dovrà ammettere anche la legittimità degli altri orientamenti, senza sindacarne il contenuto (per questi temi rinvio a Giorgio Carbone, Gender. L’anello mancante? Edizioni Studio Domenicano).

«Che male fanno agli altri, si vogliono bene e chiedono solo diritti per loro». È un mantra oggi ricorrente. È uno slogan che porta il discorso sul terreno dei sentimenti. Non lasciamoci trascinare dal pathos emotivo. Restiamo agli argomenti razionali e oggettivi. Non giudichiamo gli affetti e le singole situazioni anche dolorose. Ma consideriamo seriamente i tre effetti iniqui, falsificatori e rivoluzionari prodotti dal disegno di legge Cirinnà.

venerdì 13 novembre 2015

Ecco fin dove può arrivare la furia laicista: vietare Chagall e Van Gogh perché turbano i “non cattolici” di Alfredo Mantovano, 13-11-2015, http://www.lanuovabq.it/

La Crocifissione bianca di Marc Chagall e la Pietà di Van Gogh
Lo si può anche liquidare come sublime esempio di stupidità, spinto fino al disprezzo del ridicolo. Però è successo, e non è una novità nel suo genere. Ai bambini della terza elementare della scuola Matteotti di Firenze viene impedito, nel giro programmato alla città, di visitare le opere della mostra Divina Bellezza allestita nel capoluogo toscano: fra esse, la Crocifissione bianca di Chagall, ammirato da Papa Francesco qualche giorno fa a margine del convegno ecclesiale, la Pietà di Van Gogh, la Crocifissione di Guttuso, l'Angelus di Millet e numerose altre opere. Per quale ragione? É spiegato nel verbale del consiglio interclasse, che si è tenuto lo scorso 9 novembre (riportato da QN-La Nazione): «la visita è stata annullata», così è stato messo per iscritto, «per tutte le terze per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche visto il tema religioso della mostra»; la mostra ha infatti come filo conduttore il rapporto tra arte e sacro.

Quando accade un fatto del genere, più che ripetersi «signora mia, a che punto siamo giunti», è lecito chiedersi perché si è giunti a questo. Perché, cioè, anche in Italia il rispetto della libertà religiosa, che è qualcosa in sé positivo, viene declinato, e da tempo, nei termini dell’abolizione di ogni simbolo che richiami la confessione religiosa, e perché questo accada soprattutto quando la confessione è quella cristiana. In nome della laicità, i Crocifissi nei luoghi pubblici sono diventati merce rara, in tante scuole il ricordo del Natale è sostituito dalle feste più improbabili e più disancorate dalla realtà, e l’abitudine di segnarsi prima di cena o prima di prendere un volo viene guardato con un misto di sospetto e di commiserazione.

Perché? Ci sono almeno due ragioni. La prima chiama in causa ciascuno di noi, in quanto italiani; la seconda la fascia di coloro che si riconoscono cristiani. Sfugge in modo sempre più diffuso che il cristianesimo è indissolubilmente correlato alla nostra storia, al nostro modo di pensare, alla nostra vita “laica” quotidiana; al punto che se l’opzione della scuola Matteotti di Firenze fosse portata alle sue logiche conseguenze la vita diventerebbe veramente complicata. Per restare alla patria di Dante, gli scuolabus dovrebbero rigorosamente evitare i percorsi che incrociano chiese, o lambire solo gli edifici sacri realizzati più di recente: somigliando più a fabbriche o a discoteche, non generano turbamento; un automezzo che transiti davanti a Santa Maria Novella rischia seriamente di collidere non con altri veicoli, ma con la «sensibilità delle famiglie non cattoliche». 

A scuola si dovrebbe rifiutare l’iscrizione degli alunni il cui nome richiama con maggiore evidenza figure cardine della nostra fede: Maria, Giuseppe, Francesco, financo Matteo; la semplice pronuncia in classe di quei nomi durante l’appello, col richiamo al motivo per cui sono stati scelti, è causa di sicuro turbamento. Perché poi far coincidere il giorno di riposo a scuola con la domenica, il cui stesso nome costituisce “reato”, richiamando quel Dominus che non si vuole in alcun modo nobiscum? Che dire poi della toponomastica? Via, il prima possibile, i nomi delle strade dedicati ai Santi o che richiamino simboli religiosi… Per concludere che se una persona vuole mostrarsi veramente di buon senso, anche se non crede, non può immaginare che siano cancellati duemila anni di una storia al cui interno - piaccia o non piaccia - la fede ha avuto un ruolo centrale.

Per il cristiano la riflessione è ancora più rapida: quanto c’è di nostra inerzia e indifferenza nel mancato rispetto dei simboli della nostra confessione? La prima volta - ormai molti anni fa - in cui in una scuola elementare la recita della Nascita di Gesù è stata sostituita dalla rappresentazione di Cappuccetto rosso abbiamo pensato che fosse una stranezza, ma comunque qualcosa cui non conferire tanto peso. Ogni qual volta abbiamo visto immagini sacre dileggiate e oltraggiate in manifestazioni pubbliche siamo stati propensi a rubricarle come folklore. L’abitudine a non considerare il patrimonio delle nostra religione come un tesoro prezioso, da tutelare - è il minimo sindacale -, da valorizzare e da rilanciare, come fa a Firenze la mostra Divina Bellezza e come ci esorta a fare il Magistero dei Pontefici, un bel giorno concorre a generare il divieto rivolto ai bambini a stupirsi di fronte allo splendore dell’arte, e dell’arte fondata sulla fede. 

Non è sufficiente meravigliarsi della stupidità laicista e gridare allo scandalo; per cominciare, per non restare nel generico e per rimanere al caso dal quale si è partiti, perché non organizzare una visita alla mostra di Firenze per gli sfortunati bambini delle terze classi della scuola Matteotti e per i rispettivi genitori?

giovedì 12 novembre 2015

La Corte Costituzionale legalizza l’eugenetica, novembre 12, 2015 Aldo Vitale, http://www.tempi.it/

Con la sentenza 229/2015 la Corte Costituzionale ha eliminato il divieto di selezione degli embrioni e della relativa sanzione penale sanciti, rispettivamente, dalla lettera b del comma 3 e dal comma 4 della legge 40/2004 disciplinante le tecniche di procreazione medicalmente assistita (da ora Pma).
Ciò causa numerose perplessità di carattere biogiuridico.
In primo luogo: focalizzando l’attenzione sul dispositivo della suddetta sentenza, si ha l’impressione che la Corte Costituzionale non ha letto le norme in questione, che se le ha lette non le ha comprese, e che se le ha comprese le ha dolosamente disattese.
In secondo luogo: dall’impianto generale della sentenza, sembra che la Corte Costituzionale si sia soltanto pigramente adagiata, recependone il senso all’interno del nostro ordinamento, sulla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 28 agosto 2012 riguardante il caso “Costa e Pavan c. Italia” con cui è stato dichiarato illegittimo il divieto della legge 40/2004 circa la diagnosi genetica preimpianto (da ora Dgp) specialmente in relazione alla normativa italiana in tema di interruzione volontaria di gravidanza (da ora Ivg) cristallizzata dalla legge 194/1978.
In terzo luogo: con la medesima sentenza, in barba ad ogni principio di non-contraddizione, la Corte Costituzionale ha, tuttavia, disposto che non è illegittimo il divieto posto dalla legge 40/2004 circa la soppressione dell’embrione in quanto, sempre secondo la Corte, «l’embrione, infatti, quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico».
Scendendo più in profondità, ma pur sempre evitando eccessivi tecnicismi etici e giuridici, occorre evidenziare che la suddetta sentenza della Corte Costituzionale non ha colpito semplicemente il divieto di Dgp, ma il divieto di selezione eugenetica in quanto tale.
Occorre però procedere con ordine su tre piani diversi: quello della coordinazione normativa; quello dei principi; quello degli effetti.
Sotto il primo profilo, cioè quello strettamente normativo, la decisione della Corte Costituzionale è fallace in quanto fondata sull’equivoco (il medesimo in cui è incorsa la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per una scadente conoscenza dell’ordinamento italiano e a causa della mancanza di una interpretazione sistematica del medesimo) che il divieto di Dgp della legge 40/2004 sia in contrasto con la normativa in tema di Ivg.
Detto in poche parole, ecco il succo del ragionamento della Corte Europea prima e della Corte Costituzionale adesso: che senso ha il divieto di Dgp che impedisce di selezionare gli embrioni insani per impiantarli se poi si può ricorrere alla interruzione volontaria di gravidanza per le malformazioni del feto?
Una simile impostazione dimostra di non aver colto la lettera e lo spirito di entrambe le leggi.
Per sciogliere il bandolo della matassa occorre tenere sempre ben presente ciò che la Corte Costituzionale incredibilmente sembra ignorare (si spera in buona fede), cioè la distinzione tra aborto eugenetico ed aborto terapeutico.
L’aborto eugenetico è quello posto in essere secondo un’ottica strettamente eugenetica, cioè per scartare gli embrioni o i feti considerati non idonei a causa delle loro eventuali patologie.
L’aborto terapeutico, invece, è quello posto in essere soltanto qualora le eventuali patologie del feto possano arrecare un pregiudizio alla integrità psico-fisica della donna, così come recita la lettera b del comma 1 dell’articolo 6 della legge 164/1978 che la Corte Costituzionale sembra non letto o compreso.
Insomma, per essere terapeutico e non eugenetico l’aborto, occorre che esista un nesso di causalità tra le patologie del feto e le lesioni all’integrità psico-fisica della donna; in caso contrario non sarà terapeutico, ma eugenetico e come tale universalmente riconosciuto come illecito nel nostro ordinamento, stante, appunto, il riconoscimento giurisprudenziale sul punto come dimostrano la sentenza della Corte di Cassazione 14488/2004 per la quale «non esiste nel nostro ordinamento l’aborto eugenetico», e la sentenza 151/2009 della stessa Corte Costituzionale ai sensi della quale l’embrione non è “cestinabile” come una qualunque res difettosa.
Sotto il livello dei principi, la suddetta sentenza della Corte Costituzionale sembra non tener conto che la terapeuticità dell’aborto terapeutico è in relazione alla madre e non all’embrione o al feto. La Dgp, invece, è sempre in relazione all’embrione e il divieto che era previsto dalla legge 40/2004 serviva proprio ad evitare che l’embrione fosse reificato e cassato come un qualunque prodotto difettoso.
Il divieto contemplato dalla legge 40/2004 che la Corte Costituzionale ha spazzato via con incresciosa insipienza giuridica era una norma di presidio della civiltà giuridica, di preservazione della natura del diritto e di espressione del diritto di natura.
Sotto il profilo degli effetti, non si può fare a meno di considerare che il divieto di Dgp testé archiviato evitava che si sviluppasse e diffondesse la disumana e antigiuridica prassi eugenetica nel nostro ordinamento.
La mera diagnosi osservazionale dell’embrione, infatti, è già consentita dalla stessa legge 40/2004 come si evince dal comma 2 dello stesso articolo 13 che così infatti sancisce: «La ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative».
Caduto un simile divieto per mano della sciatteria giuridica della Corte Costituzionale si è spalancata la porta verso la prassi eugenetica che per nulla riguarda la salute della donna, ma la dignità umana in quanto tale.
Oltre il diritto al figlio, dunque, potrà adesso essere reclamato anche il diritto al figlio sano, sebbene la Corte Costituzionale non sembra essersi posta il dilemma di cosa è sano e cosa invece no; si tratta solo di patologie degenerative e ingravescenti o anche con cui si può convivere, di patologie ereditarie e comuni o soltanto di quelle rare?
Chi decide e come si decide il limite? Se per una coppia avere un figlio diabetico può essere un problema, per un’altra coppia potrebbe essere un problema che sia femmina e non maschio, o castano piuttosto che biondo; chi conterrà gli eccessi e gli orrori?
In conclusione, sembrano riecheggiare proprio le parole di uno dei padri della fecondazione artificiale, cioè Jacques Testart il quale, in una intervista nel 2004, ha giustamente ravvisato ciò che la Corte Costituzionale sembra, ahinoi, avere ignorato del tutto: «Più si va avanti e più sarà difficile sbarrare la strada a un progetto di eugenetica […]. Ma non c’è dubbio che, se la medicina si mette al servizio della selezione, creando categorie di inclusi, reclusi ed esclusi, la vita umana sarà tassativamente governata dall’ideologia della competizione, contro la quale per salvare la civiltà è stato necessario inventare i diritti dell’uomo».