lunedì 31 gennaio 2011

28 Gennaio 2011, Quel silenzio assordante sulle vittime della provetta, Comunicato Stampa N. 96

“Avvenire” e l’ecatombe degli embrioni da fecondazione artificiale:

Il 26 gennaio Avvenire, quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, ha riportato la notizia del numero "ufficiale" dei bambini nati, dal 2005 ad oggi, mediante le tecniche di fecondazione artificiale: 31.791. Si intende che questi numeri si riferiscono all'applicazione della legge 40, approvata in Italia nel 2004.

Il quotidiano della Conferenza episcopale, però, tace il numero delle vittime di quelle tecniche, cioè di tutti gli embrioni concepiti-per-forza e destinati consapevolmente a un'altissima probabilità di morte. Quanti sono? Sappiamo bene che, come dà atto Dignitas Personae (n. 14 “ Fecondazione in vitro ed eliminazione volontaria di embrioni ”) – il documento redatto dalla congregazione per la Dottrina della Fede nel 2008 - " il numero di embrioni sacrificati è altissimo ".

Anche ammettendo che tutti i "paletti" della legge 40 siano stati rispettati ( e si tratta di una finzione, perché nessun controllo viene svolto su quello che avviene effettivamente nei laboratori), una stima realistica indica che le vittime sono circa 550.000 (cinquecentocinquantamila!), il 94% degli embrioni concepiti. Ma di questi numeri, o almeno di stime analoghe, nell'articolo di Avvenire non c'è alcuna traccia. Un lettore ignorante o distratto potrebbe pensare: “Che bella cosa, la fecondazione artificiale! Fa nascere tanti bei bambini, nel rispetto della legge 40!”

Verità e Vita non può che manifestare il suo sconcerto di fronte a questo silenzio, che sfiora l'omertà, da parte di un organo di informazione tradizionalmente attento al diritto alla vita. Eppure, come scrive un autore sullo stesso quotidiano (anch'egli tacendo, tuttavia, il dato degli embrioni sacrificati), "la libertà deve stare insieme alla verità, quindi alla responsabilità e ai diritti degli altri".

Fornire il numero dei nati da fecondazione extracorporea, senza riportare contemporaneamente che dietro a quei “bambini in braccio” vi è una vera e propria ecatombe di innocenti significa fare del cattivo giornalismo. E significa tradire la verità tutta intera.
L’AIDS E IL PRESERVATIVO di mons. Michel Schooyans (ZENIT.org)

ROMA, domenica, 23 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Certamente molte persone sono state contagiate con il virus dell’AIDS senza avere la minima responsabilità morale personale, attraverso le trasfusioni di sangue, gli errori medici o i contatti accidentali. Anche il personale infermieristico rischia il contagio, prendendosi cura dei pazienti sieropositivi.

Non tratteremo tali casi in questa sede. Esamineremo invece le dichiarazioni esternate negli ultimi anni da diverse personalità di alto profilo del mondo accademico ed ecclesiastico, soprattutto moralisti e pastori. Li chiameremo dignitari, evitando di citarne i nomi per non personalizzare il dibattito e per concentrare l’attenzione sull’argomentazione morale [1].

Disordine e confusione

Poiché queste dichiarazioni riguardano l’uso del preservativo al fine di non contrarre l’AIDS, esse producono spesso profonda confusione nell’opinione pubblica e nella Chiesa. Esse sono spesso accompagnate da sorprendenti commenti sulla persona del Papa e sulla sua funzione, e sull’autorità della Chiesa. In tale contesto vengono anche reiterate le consuete lamentele sulla morale sessuale, sul celibato, l’omosessualità, l’ordinazione delle donne, la Comunione ai divorziati e agli abortisti, ecc. Un'occasione da sfruttare per dare risonanza globale a queste tematiche.

Questi dignitari si esprimono, in modo piuttosto compiaciuto, attraverso i mezzi di comunicazione sociale. Si dichiarano favorevoli all’uso del condom per evitare il rischio di contrarre l’AIDS. Secondo loro, la Chiesa dovrebbe mutare la propria posizione in materia.

Queste dichiarazioni provocano grande confusione nella mente della gente. Confondono i fedeli, dividono i preti, indispettiscono l’episcopato, screditano il collegio cardinalizio, incrinano il Magistero della Chiesa e puntano frontalmente al Santo Padre. Altri dignitari, ora in pensione o deceduti, avevano già guidato questo tipo di movimento. Oggi, queste osservazioni provocano spesso costernazione, perché la gente si aspetta maggiore prudenza e rigore morale, teologico e comportamentale da parte di questi dignitari che – influenzati da idee di moda in certi ambienti – fanno di tutto per “giustificare” l’uso del preservativo mettendo insieme i soliti trucchetti del “danno minore” o del “doppio effetto” con tono da venditori.

Uno di questi dignitari è arrivato al punto di considerare l’uso del condom come un obbligo morale in base al quinto comandamento. In questo senso si sostiene che se le persone infette dal virus si rifiutano di praticare l’astinenza, dovranno proteggere il loro partner e che l’unico modo per farlo, in questo caso, sia attraverso il preservativo.

Questo tipo di osservazioni sono sufficienti per lasciare la gente perplessa e rivelano una conoscenza incompleta e tendenziosa della morale più naturale e in particolare della morale cristiana. Il modo di presentare le cose è quanto meno sorprendente.

Un problema di morale naturale

Alcune considerazioni rassicuranti ma false
Le argomentazioni di questi dignitari, relative all’uso del condom, sono sorprendentemente superficiali. Queste persone dovrebbero piuttosto attingere agli autorevoli studi scientifici e clinici, evitando di rilanciare e dare credito a chiacchiere da tempo confutate in qualunque rivista di consumatori.

Come si può non aver preso atto che l’effetto di contenimento che il condom dovrebbe esercitare è in realtà ampiamente illusorio? È così in quanto il preservativo è meccanicamente fragile, incoraggia e aumenta il numero dei partner e la varietà delle esperienze sessuali. Per questi motivi esso aumenta i rischi anziché ridurli.

L’unica efficace forma di prevenzione risulta essere quella della rinuncia ai comportamenti rischiosi e quella della fedeltà.

Da questo punto di vista, la qualificazione morale dell’uso del preservativo è un problema di onestà scientifica e di morale naturale. La Chiesa ha non solo il diritto, ma anche il dovere di pronunciarsi su questo argomento.

Inefficacia a cui consegue la morte
Le esternazioni di questi dignitari mancano di citare recenti studi di innegabile valore scientifico, come quello del dottor Jacques Suaudeau[2]. Seppure ignorassero questi studi recenti, potrebbero almeno tenere a mente i moniti precedenti, espressi dalle più elevate autorità scientifiche. Per esempio, nel 1996, si leggeva in un rapporto del professor Henri Lestradet, dell’Accademia nazionale della medicina (Parigi) [3]:

“È opportuno [...] sottolineare che il condom è stato inizialmente considerato come un mezzo di contraccezione. Tuttavia [...] il tasso di ‘fallimento’ è generalmente collocato tra il 5% e il 12%, per coppia, per anno di utilizzo.”

“A priori [...] con il virus dell’HIV che è 500 volte più piccolo dello sperma, è difficile pensare ad un tasso inferiore di fallimento. In ogni caso c’è un’enorme differenza tra queste due situazioni. Se il condom non è totalmente efficace come mezzo contraccettivo, la conseguenza di tale fallimento è lo sviluppo della vita, mentre in caso di contrazione dell’HIV è la morte in ogni caso”. [4]

Poi, considerando il caso dei sieropositivi, lo stesso rapporto osserva che: “L’unico comportamento responsabile di un uomo sieropositivo è l’effettiva astensione dai rapporti sessuali, sia quelli protetti che quelli non. [...] Se una coppia prevede di instaurare una relazione stabile, dovrebbe seguire queste raccomandazioni: che ciascuno si sottoponga ad analisi cliniche, ripetendole dopo tre mesi, praticando in questo periodo l’astinenza da ogni rapporto sessuale (con o senza condom), per poi impegnarsi nella fedeltà reciproca. [5]

I dignitari, che sono gli autori delle considerazioni oggetto del nostro esame, dovrebbero tenere conto della drammatica conclusione che si trae dallo studio che stiamo citando:

“L’asserzione – proclamata centinaia di volte da operatori sanitari, dal Conseil supérieur per l’AIDS, e da associazioni per la lotta all’AIDS – della piena sicurezza assicurata in ogni circostanza dall’uso del preservativo, è senza alcun dubbio alla base di molte infezioni di cui ancora oggi ci si rifiuta di ricercare le cause”. [6]

Alcune campagne internazionali vengono attuate in società “esposte”, inondandole di preservativi. Le autorità religiose vengono invitate a dare il loro patrocinio. Ebbene, nonostante queste campagne, e probabilmente a causa di queste campagne, si osserva regolarmente una progressione della pandemia.

Nel luglio del 2004, una delle più eminenti autorità mondiali sull’AIDS, il dottore belga Jean-Louis Lamboray, ha lasciato l’UNAIDS (Il programma delle Nazioni Unite contro l’AIDS). Come motivo del suo abbandono ha indicato “il fallimento delle politiche nel porre un freno alla diffusione di questa malattia”. Queste politiche hanno fallito perché “l’UNAIDS ha dimenticato che le vere misure preventive vengono decise nelle case della gente e non negli uffici degli esperti”. [7]

Prima di emanare dichiarazioni perentorie, i dignitari dovrebbero ricordare ciò che un altro dottore ha detto; uno a cui i mezzi di comunicazione hanno dato ampia risonanza e che certamente non può essere sospettato di simpatia verso le posizioni della Chiesa. Ecco ciò che il defunto professor Leon Schwartzenberg ha scritto nel 1989:

“Sono certamente soprattutto i giovani a diffondere l’AIDS; sono completamente ignari della tragedia dell’AIDS, che è per loro una malattia delle persone anziane. Questa convinzione è rafforzata dall’atteggiamento della classe politica, molto più anziana di loro, che è responsabile di tale propaganda: la pubblicità ufficiale del preservativo sembra essere creata da chi non lo usa mai, per chi non vuole usarlo”. [8]

Gli ascoltatori, i lettori e chi guarda la televisione, quindi, non possono prendere per buone le considerazioni imprudenti di questi dignitari, senza rischiare – come loro – di vedersi accusati presto o tardi di essere “alla radice di molte infezioni”.
[La seconda parte dell'articolo verrà pubblicata domenica 30 gennaio]


1) Questo testo è un estratto di Le terrorisme à visage humain, di Michel Schooyans et Anne-Marie Libert, seconda edizione, Parigi, F.-X. de Guibert Publisher, 2008, pp. 173-179.
2) Dr Jacques SUAUDEAU, articolo “Sexo seguro” in Lexicon, Madrid, Ed. Palabra, 2004; pp.1041-1061. L’edizione italiana è stata pubblicata a Bologna, Ed. EDB, 2003.
3) Henri LESTRADET., AIDS, Propagation and Prevention. Rapporti della Commission V11 della National Academy of Medicine, con commenti, Parigi, Editions de Paris, 1996.
4) ibid, p.42.
5) ibid, p.46.
6) ibid, pp.46 e ss.
7) ACI comunicato del 6 luglio 2004.
8) Léon Schwartzenberg, Interview in La Libre Belgique (Brussels), 13 marzo 1989, p.2.

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*Mons. Michel Schooyans, filosofo e teologo, è membro della Pontificia Accademia delle scienze sociali e della Pontificia Accademia per la vita, consultore del Pontificio Consiglio per la famiglia e membro dell’Accademia messicana di bioetica. Dopo aver insegnato per dieci anni all’Università cattolica di San Paolo, in Brasile, è andato in pensione come professore di filosofia politica ed etica dei problemi demografici presso l’Università cattolica di Louvain, in Belgio. È autore di circa trenta libri.


L'AIDS E IL PRESERVATIVO (PARTE II) di mons. Michel Schooyans

ROMA, domenica, 30 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la seconda parte dell'articolo “L'Aids e il preservativo”. La prima parte è stata pubblicata domenica 23 gennaio.
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Un problema di morale cristiana

Inoltre, è specioso asserire che la Chiesa non abbia un insegnamento ufficiale sul problema dell’AIDS e sul preservativo. Sebbene il Papa sistematicamente evita di chiamarlo per nome, i problemi morali posti dal condom sono affrontati in tutti i grandi insegnamenti riguardanti i rapporti coniugali e le finalità del matrimonio.

Quando si considera l’AIDS e il condom alla luce della morale cristiana occorre tenere a mente alcuni punti essenziali: l’atto carnale dovrebbe aver luogo all’interno di un matrimonio monogamo tra un uomo e una donna; la fedeltà coniugale è il miglior rimedio contro le malattie sessualmente trasmesse come l’AIDS; l’unione coniugale dovrebbe essere aperta alla vita, a cui si deve aggiungere il rispetto della vita degli altri.

Sposi o partner?
Ne consegue che la Chiesa non predica una morale sessuale dei “partner”.
Essa propone invece una morale coniugale e familiare. Essa si rivolge agli “sposi”, coppie unite sacramentalmente in un matrimonio che è monogamo e eterosessuale. Considerazioni sulla questione del condom ventilate dai dignitari riguardano i “partner”, sia che essi intrattengano rapporti pre o extra matrimoniali, intermittenti o persistenti, eterosessuali, omosessuali, lesbici, sodomitici, ecc. Non si vede perché la Chiesa, e tanto meno i dignitari titolari del Magistero, debbano – a costo di rischiare lo scandalo – andare in soccorso del vagabondaggio sessuale e rendersi responsabili del peccato di chi, in molti casi, non si interessa minimamente, né in pratica, né spesso in teoria, della morale cristiana.
“Peccate, miei fratelli, ma in sicurezza!” Dopo il “sesso sicuro”, abbiamo ora il “peccato sicuro”!

La Chiesa e i suoi dignitari, quindi, non hanno titolo a spiegare cosa fare per peccare agiatamente. Abuserebbero della loro autorità se si adoperassero per fornire prodighi consigli su come arrivare al divorzio, poiché la Chiesa considera il divorzio come un male. Sarebbe come confermare il peccatore nel suo peccato, mostrandogli come andare avanti evitando le conseguenze indesiderate.

Da qui la domanda: è ammissibile che i dignitari, che dovrebbero essere i custodi della dottrina, oscurino le esigenze della morale naturale e della morale evangelica, e non lancino l’appello alla conversione dei comportamenti?

È inammissibile e irresponsabile che i dignitari diano il loro avallo all’idea del “sesso sicuro”, usata per rassicurare gli utilizzatori del condom, quando è noto che questa espressione è una bugia e porta alla rovina. Questi illustri dignitari dovrebbero quindi chiedersi se non stanno solo incitando le persone a schernire il sesto comandamento di Dio, ma anche a farsi beffe del quinto comandamento “non uccidere”. Il falso senso di sicurezza offerto dal condom, lungi dal ridurre i rischi di contagio, li aumenta. L’accusa di non rispettare il quinto comandamento si ritorce contro i partner che non fanno uso del condom.

L’argomentazione usata nel tentativo di “giustificare” l’uso “profilattico” del condom quindi si riduce a nulla, sia in relazione alla morale naturale, che alla morale cristiana.

Sarebbe forse più semplice dire che, se gli sposi si amano veramente e se uno di loro si prende il colera, la peste bubbonica o la tubercolosi polmonare, questi dovrebbero astenersi dai contatti tra loro per evitare il contagio.

Lo scopo: un grande rovesciamento

Un errore di metodo

All’inizio di quest’analisi abbiamo indicato che i dignitari favorevoli al condom spesso legano la loro arringa difensiva a cause diverse da quella di “partner” sessuali lungimiranti e organizzati. Infatti, si cavalca questo argomento per poi discutere sull’intero insegnamento della Chiesa:
sulla sessualità umana, sul matrimonio, la famiglia, la società e sulla Chiesa stessa.

Questo spiega in parte la quasi totale carenza di interesse di questi dignitari nelle conclusioni scientifiche e nelle idee fondamentali della morale naturale. E sono proprio queste conclusioni e idee fondamentali che questi dignitari dovrebbero tenere conto anzitutto nelle loro considerazioni sulla morale cristiana.

A causa di questo errore metodologico – sia esso volontario o meno – i dignitari aprono la via ad un rovesciamento della morale cristiana. Essi puntano persino a rovesciare il dogma cristiano, in quanto si riservano il diritto, nelle loro opinioni, di fare appello all’intera istituzione della Chiesa per una riforma che avalli la loro morale e il loro dogma. Essi intendono quindi partecipare, al loro livello, a questa nuova rivoluzione culturale.

Ciò nonostante, poiché questi dignitari hanno commesso, sin dall’inizio, un errore metodologico, trascurando le idee fondamentali ed essenziali del problema, inevitabilmente camminano su un terreno scivoloso. Se si parte da premesse erronee, si può solo giungere a conclusioni errate. È facile vedere dove le idee errate stanno conducendo questi dignitari. Il loro approdo può essere sintetizzato in tre sofismi, che possono essere demoliti da qualunque scolaretto.

Tre sofismi
Primo sofisma:
Maggiore : Non usare il condom favorisce l’AIDS.
Minore : Favorire l’AIDS significa favorire la morte.
Conclusione : Non usare il condom significa quindi favorire la morte.
Questo ragionamento distorto si basa sull’idea che per proteggersi occorre usare il preservativo. I partner possono essere molteplici. La fedeltà non è neanche presa in considerazione. L’impulso sessuale è considerato irresistibile e la fedeltà coniugale impossibile. L’unico modo per non contrarre l’AIDS diventa quindi quello di usare il condom.

Secondo sofisma:
Maggiore : Il condom è l’unica protezione contro l’AIDS.
Minore : La Chiesa è contraria al condom.
Conclusione : La Chiesa quindi favorisce l’AIDS.
Questo pseudo sillogismo si basa sull’errata asserzione della premessa maggiore, che il condom sia l’unica protezione possibile contro l’AIDS. Si dà per scontata l’affermazione che si vuole dimostrare; siamo in presenza di una petitio principii: un ragionamento fallace, nel quale le premesse sono presentate come indiscutibili e a cui conseguono logiche conclusioni.
Si assume come vero ciò che si vuole dimostrare, ovvero che il condom costituisce l’unica protezione contro l’AIDS.

Un caso di polisillogismo
Ecco infine un esempio di pseudo sillogismo, un sofisticato sillogismo di cui i dignitari dovrebbero rendersi conto.
Maggiore : La Chiesa è contraria al condom; Minore : Il condom previene gravidanze indesiderate; Conclusione/Premessa maggiore : La Chiesa quindi favorisce le gravidanze indesiderate; Minore : Le gravidanze indesiderate portano all’aborto; Conclusione : La Chiesa quindi favorisce l’aborto.

In definitiva, il risveglio della morale e dell’ecclesiologia cristiana non può aspettarsi nulla dal perfido sfruttamento dei malati e della loro morte.

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* Monsignor Michel Schooyans, filosofo e teologo, è membro della Pontificia Accademia delle scienze sociali e della Pontificia Accademia per la vita, consultore del Pontificio Consiglio per la famiglia e membro dell’Accademia messicana di bioetica. Dopo aver insegnato per dieci anni all’Università cattolica di San Paolo, in Brasile, è andato in pensione come professore di filosofia politica e etica dei problemi demografici presso l’Università cattolica di Louvain, in Belgio. È autore di circa trenta libri.
J'ACCUSE/ Quel terrorismo mediatico che ci vuole tutti in coma di Carlo Bellieni, lunedì 31 gennaio 2011, il sussidiario.net

Al dilagare dell’arcinoto testamento biologico tra i titoli di giornali, mi viene da consigliare la lettura di un testo appena tradotto in italiano, di uno dei consiglieri giuridici di Barack Obama: “Il diritto della paura” (Ed Il Mulino). L’autore è Cass R Sunstein e sostiene una tesi ben nota agli economisti: l’essere umano è un essere colmo di paure, ma così colmo che se il vento dei giornali porta da una parte, se ne frega delle probabilità reali che un avvenimento avvenga e si getta in un’impari lotta per evitarlo.

E’ un concetto ben conosciuto agli economisti, sul quale si basa la tendenza individuale al rischio, e la paura verso la perdita. Cosa c’entra un libro di sociologia con il testamento biologico? Semplice: l’evidenza che siamo dominati da un terrorismo mediatico per il quale anche un evento rarissimo a verificarsi - come il restare in coma incoscienti e intubati - determina una corsa affannosa ai ripari.

Il libro suddetto ci mostra come non dalla razionalità, ma dall’ansia siamo determinati nelle scelte etiche e che quest’ansia può essere manovrata. Ad esempio col fenomeno del “probability neglect”, secondo il quale il cittadino medio si disinteressa delle statistiche, quando i titoli dei giornali sono abbastanza grossi da mettere abbastanza paura. Ben sanno gli economisti che un cittadino, davanti alla possibilità di guadagnare 100 o di perdere 100, spende 10 per cercare il guadagno, ma spende 50 per garantirsi dalla perdita… pur essendo la somma (che si perderebbe o che si guadagnerebbe) sempre la stessa: 100.

“Trascurare il livello di probabilità è un problema serio, perché induce a individuare priorità mal riposte”, spiega Sunstein. E affonda l’attacco spiegando che sottovalutare o sovrastimare i rischi è contagioso: dipende con chi si parla e cosa si legge.

E fa un esempio che sembra parlare proprio del nostro testamento biologico: “Quando il ricordo di un particolare incidente è a portata di mano, nel senso che ci balza alla mente, la gente tende a preoccuparsi molto più di quanto dovrebbe. Può così accadere che le precauzioni più stringenti vengano prese nei confronti dei rischi più a portata di mano”. E quanto sono “a portata di mano”, cioè ripetute e martellanti le immagini dell’eutanasia, ripetute e commentate e magnificate sui media, tanto da far pensare che l’unico problema della vita è di non farsela prolungare?

E c’è gente seriamente in ansia per questo! Tanto da correre a fare testamenti, disposizioni anticipate, richieste notarili di non rianimazione; certi, evidentemente, che o gli eredi o i medici li vogliano fregare quando non potranno più sentire e agire. Come se, oltretutto, sia davvero alta la possibilità di finire in coma e che arrivi un pazzo che vi prolunga la vita all’infinito: non si vede allora perché non fare tutti un’assicurazione conto i danni della grandine sul nostro motorino o contro la possibilità di essere sbranati da un cane, dato che le possibilità sono numericamente simili a quelle di finire in coma.

Un po’ di realismo e meno terrorismo ci farebbe piacere. Non possono continuare a far gioco sulle nostre paure e punti deboli, che invece di migliorare si incancreniscono e generano comportamenti paradossali quali la corsa ai ripari da rischi inesistenti, patetica figlia di una cultura che non genera speranza.
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domenica 30 gennaio 2011

 La legge sul Testamento biologico rischia di introdurre l'eutanasia - La legge è in calendario alla Camera a inizio febbraio. E' già stata approvata dal Senato. La legge si allarga fino a comprendere non solo i malati in stato di coma ma anche quelli terminali (ricordiamo che Eluana Englaro non era una malata terminale). Il fiduciario, poi, ha un ruolo sproporzionato che può portare se non all'eutanasia attiva, sicuramente a quella per omissione di cure di Benedetta Frigerio, 29 Gen 2011, da http://www.tempi.it

In un film del 1965, La decima vittima, il protagonista, un giovanissimo Marcello Mastroianni, è costretto a tenere nascosti i suoi genitori. Questo perché nella pellicola fantascientifica gli anziani vanno consegnati ai “centri raccolta per vecchi” gestiti dallo Stato. La storia, tra l'ironico e il grottesco, prospettava un futuro così. La donna che cerca di rapire i genitori davanti all'opposizione del protagonista gli chiede: «Ma che se ne fa dei suoi genitori? Perché non li consegna allo Stato?». Lui risponde che «in Italia li teniamo ancora nascosti». Lei si stupisce, trovando «incredibile un senso filiale tanto vivo». E chiede stranita all'attore se «ama davvero tanto i suoi genitori?».

Il film non sarà così lontano dalla realtà, se la legge in calendario alla Camera a inizio febbraio, e già approvata dal Senato sul Testamento biologico, dovesse passare. Inoltre, se già il vecchio ddl passato al Senato era poco realistico, nonostante la buona fede, ora con i nuovi emendamenti approvati la norma si fa grave. Innanzitutto, si è allargata la legge dai malati in stato di coma a tutti quelli terminali. Il fiduciario, poi, ha un ruolo sproporzionato che può portare se non all'eutanasia attiva, sicuramente a quella per omissione di cure.

Vediamo gli articoli più controversi. Innanzittutto, l'articolo 5 ai commi 6 e 7 prevede che «il tutore possa decidere per l'interdetto, il curatore per l'inabilitato, l'amministratore di sostegno per l'assistito, i genitori per i figli minori». Ciò significa che quello che è capitato ad Eluana potrà capitare a molti altri. Per i medici infatti è «vietato somministrare terapie» in mancanza di consenso, tanto che se manca si dovranno riferire ai giudici. I rappresentanti possono rifiutare anche terapie salvavita: l'articolo 2,3 dice che questi soggetti possono «rinunciare ad ogni o alcune forme di trattamento sanitario in quanto da essi (i tutori, ndr) ritenute di carattere straordinario».

Con i due articoli si potranno includere nella legge anche neonati, prematuri e persone incapaci di esprimersi, affidate a tutori che potranno disporre di loro a proprio piacimento. L'articolo 1,1 vieta invece al medico «trattamenti sanitari non proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati». Sarebbe un giusto divieto d'accanimento se la legge riguardasse solo casi di morte imminente.

Ma il ddl si rivolge anche ai malati di tumore o a tutti i pazienti la cui vita probabilmente si spegnerà nel giro di qualche mese, giorno o anno. Più avanti, poi, si parla genericamente del divieto a «trattamenti sproporzionati rispetto agli obbiettivi». Che significa? Questa norma potrebbe aprire parecchi contenziosi. Ad esempio, un genitore come Beppino Englaro, che giudicasse sproporzionate certe cure, potrebbe denunciare i medici e anche gli ospedali, per «obiettivi» di spesa.

Il testo parla poi di una «compiuta e puntuale informazione medico-clinica». Ma come è possibile stabilirla prima di ammalarsi? E chi garantirà che chi firma abbia il senno sufficiente per farlo? Chi tutelerà, poi, i soggetti soli? Inoltre l'articolo 7,2 dice che «in caso di controversia tra il fiduciario ed il medico curante, la questione viene sottoposta alla valutazione di un collegio di medici... Tale collegio dovrà sentire il medico curante. Il parere espresso dal collegio medico è vincolante per il medico curante il quale non è comunque tenuto a porre in essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico e deontologico». Questo nuovo comma fa sì che se anche la proposta di legge vieta di cagionare la morte al paziente, il medico potrà arrecarla attraverso l'omissione.

Allargando inoltre la normativa ai malati di cancro o a chi è incosciente si è dovuto aggiungere che alimentazione e idratazione sono obbligatorie, ma «a eccezione del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo». Si capisce quanto il giudizio in merito sia opinabile e come possa far comodo agli sponsor dell'eutanasia, e ai loro tribunali, che potrebbero interpretare la norma a proprio piacimento.

Perciò, facciamo nostre le parole di Medicina & Persona e di moltissime altre associazioni di medici che si stanno scagliando contro la norma: «Regolamentare la vita e la morte “patteggiandole” significa averne già accettata la relativizzazione... Certo fa specie che sia un Parlamento a dover dissertare di temi che esulano totalmente dalla sua competenza, come quando si discute di quale assistenza sia dovuta a un uomo malato, alla fine della sua vita. Chi cura e assiste i malati sa bene che solo la condizione clinica di ciascun paziente può determinare la scelta del medico che lo assiste. Dopo l’approvazione della norma di legge l’agire del medico sarà inevitabilmente condizionato da essa, da un foglio di carta o dal parere di “fiduciari”, presi a sicuri interpreti della volontà del malato. Il testo di legge attuale è inevitabilmente a rischio di legittimazione dell’abbandono terapeutico (cioè di eutanasia passiva) nei punti in cui prevede la loro sospensione in caso di assistenza a un “malato terminale”(oggi non c’è in letteratura una definizione univoca su chi è malato terminale, Eluana non lo era eppure è stata diagnosticata tale) e nei casi in cui il medico dissente dalle volontà anticipate del paziente, venendo così sostituito da una commissione di “esperti”. Accadrebbe per legge quello che si è verificato nei giorni scorsi a Firenze (Biotestamento, sì del Tribunale - Il Corriere della Sera 13/01/2011)...».

sabato 29 gennaio 2011

Avvenire.it, 29 gennaio 2011 - Illegali forzature eutanasiche - Spot mortali. Si lascia fare? Di Francesco D'Agostino

I radicali sostengono di amare la dignità dell’uomo. I radicali sostengono di difendere i diritti umani. I radicali affermano di venerare la nostra Costituzione e si indignano tutte le volte che la vedono umiliata e calpestata. Ciò non di meno i radicali continuano da settimane e settimane a far trasmettere da diverse televisioni locali (ma sono anche riusciti a introdursi in una rete nazionale) uno spot sull’eutanasia: uno spot che offende la dignità dell’uomo e che quindi non può che essere definito indegno. Uno spot che ci indigna, perché va contro un diritto umano fondamentale, e di rango costituzionale, quale quello alla vita. Uno spot che introduce, in un dibattito delicatissimo come quello sulla fine della vita umana, una dimensione mediatico-pubblicitaria, assolutamente indebita, pensata evidentemente per orientare (non però attraverso l’argomentazione, ma attraverso l’emozione) le decisioni dei parlamentari che saranno presto chiamati a votare in via conclusiva sul disegno di legge sul fine vita.

Sono esagerate queste affermazioni? No. Anzi esse dovrebbero essere ancora più aspre, perché l’offesa che lo spot arreca al dignità umana è particolarmente subdola. La dignità umana, infatti, è offesa non solo quando viene sadicamente umiliata, ma anche, paradossalmente, quando viene ideologicamente esaltata. Nello spot i fautori dell’eutanasia volontaria costruiscono un’immagine irreale e quindi ideologica dell’ uomo, un’immagine nella quale il malato che "sceglie" la morte e chiede di essere ascoltato dal "governo" appare sereno, lucido, consapevole, coraggioso e quindi esemplarmente ammirevole: ma in tal modo (chissà se se ne rendono conto i radicali) essi sottraggono dignità, umiliandoli, a tutti i malati terminali che vivono la loro esperienza nella debolezza, nella solitudine, nella paura, nella fragilità e spesso nella disperazione, meritano paradossalmente il biasimo che va riservato ai pavidi, a chi non avendo il coraggio di chiedere l’eutanasia…

Intervenire su di un dibattito così tragico e sottile come quello sul fine vita ricorrendo, anziché ad argomentazioni esplicite, articolate e sofferte, a uno spot umilia la democrazia, prima ancora che l’etica. Sappiamo infatti che esistono visioni del mondo che banalizzano il dono della vita o che non riescono più a percepirne il senso quando la malattia si impadronisce ineluttabilmente del corpo. È doveroso però che queste visioni del mondo, quando entrano nel dibattito etico, politico e sociale rispettino fino in fondo i valori non solo formali, ma sostanziali della legalità. Legalità significa in primo luogo rispetto sincero e onesto delle leggi vigenti (anche di quelle che non si condividono!) e nel nostro Paese è tuttora vigente una legislazione (per di più penale) esplicitamente orientata alla difesa della vita e di quella terminale in particolare. Legalità significa correttezza nell’informazione data al pubblico: i radicali non possono non sapere che le indicazioni statistiche che essi forniscono in chiusura dello spot (e cioè che il 67% degli italiani sarebbe favorevole all’eutanasia) sono inattendibili, fino a che il termine non sia rigorosamente precisato nel suo significato. Legalità significa soprattutto rinuncia a forme indebite di propaganda mediatica, soprattutto quando la posta in gioco verte su temi etici fondamentali. Uno spot mediaticamente efficace attiva una sorta di corto-circuito mentale, induce cioè a comportamenti fondati non su convinzioni autentiche e su scelte meditate, ma su emozioni, su sentimenti o peggio ancora su sottili e occulte forme di condizionamento psicologico. Lo spot sull’eutanasia sembra paradossalmente pensato per confermare l’accusa alla televisione di essere una "cattiva maestra".

È davvero stupefacente che nessuna autorità istituzionale – e ce ne sono diverse che possiedono e dovrebbero riconoscersi e onorare una competenza in questo campo – abbia preso posizione in merito, malgrado le tante esplicite sollecitazioni ricevute.
I matrimoni omosessuali e i pacs nel mondo -scheda- Legali in 10 paesi, in Italia non c'è ancora una legislazione, da http://www.portaledibioetica.it

Roma, 28 gen. (TMNews) - Un quadro delle differenti legislazioni sui matrimoni omosessuali nel mondo, dopo che la Corte costituzionale francese ha dichiarato conforme alla Costituzione il divieto delle nozze gay, legali in dieci paesi.
- Paesi Bassi: dopo aver creato nel 1998 una partnership aperta agli omosessuali, l'Olanda è stato il primo paese, nell'aprile 2001, ad aprire ai matrimoni civili per le coppie dello stesso sesso. Obblighi e diritti dei congiunti sono identici a quelli delle coppie eterosessuali, tra cui quello di adozione.
- Belgio: i matrimoni tra omosessuali sono legali dal giugno 2003. Le coppie gay hanno gli stessi diritti di quelle etero, ad eccezione delle leggi sui figli. Hanno tuttavia ottenuto nel 2006 il diritto di adottare dei bambini.
- Spagna: il governo ha legalizzato nel luglio 2005 le nozze tra omosessuali ed è possibile per queste coppie, sposate o meno, di adottare dei bambini.
- Canada: matrimonio e diritto di adozione per le coppie gay è legge dal luglio 2005. In precedenza la maggioranza delle province canadesi concedeva già le unioni tra persone dello stesso sesso.
- Sudafrica: nel novembre 2006 il Sudafrica è divenuto il primo paese africano a legalizzare le unioni tra due persone dello stesso sesso tramite "nozze" o "partenariato civile".
- Norvegia: una legge del gennaio 2009 mette sullo stesso piano le coppie omosessuali ed eterosessuali, sia in merito alle nozze che all'adozione di bambini e ai benefici legati alla fecondazione assistita. Dal 1993 esisteva la possibilità di stipulare un patto civile.
- Svezia: pioniera in materia di diritto all'adozione, la Svezia concede dal 2009 alle coppie gay di sposarsi civilmente o tramite rito religioso. Dal 1995 erano autorizzate le unioni di fatto.
- Portogallo: Una legge del primo giugno 2010 modifica la definizione di matrimonio, cassando il riferimento "tra sessi diversi", ma per le coppie gay è escluso il diritto all'adozione.
- Islanda: il primo ministro Johanna Sigurdardottir ha sposato la sua compagna il 27 giugno 2010, giorno in cui è entrata in vigore la legge che legalizza le nozze gay. In precedenza gli omosessuali potevano stipulare delle unioni, diverse tuttavia dai matrimoni.
- Argentina: il 15 luglio 2010, l'Argentina è diventato il primo paese a autorizzare i matrimoni omosessuali in Sudamerica, la più grande regione cattolica del pianeta. Le coppie gay possono adottare e hanno gli stessi diritti degli eterosessuali.
Ci sono poi paesi che autorizzano le nozze omosessuali su buona parte del loro territorio, come Stati Uniti (negli Stati di Iowa, Connecticut, Massachusetts, Vermont, New Hampshire e la capitale Washington), e Messico (nella capitale federale).
Altri paesi hanno adottato una legislazione sulle unioni civili che concedono dei diritti più o meno estesi agli omosessuali, tra cui la Danimarca, che ha aperto la strada nel 1989 creando un "registro di partenariato", la Francia che ha creato i Pacs (Pacte civil de solidarité, 1999), la Germania (2001), la Finlandia (2002), la Nuova Zelanda (2004), il Regno Unito (2005), la Repubblica Ceca (2006), la Svizzera (2007), l'Uruguay e la Colombia.
L'Italia non ha attualmente una legislazione effettiva nè per i matrimoni gay, nè per le unioni civili. Alcune regioni italiane hanno tuttavia approvato degli statuti favorevoli ad una legge sulle unioni civili, anche omosessuali, tra cui la Calabria, la Toscana, l'Umbria e l'Emilia-Romagna.

Fonte: http://notizie.virgilio.it


Francia, niente matrimoni gay
Lo ha stabilito il consiglio costituzionale francese.

Il Consiglio costituzionale francese ha dichiarato quest’oggi che l’interdizione dell’unione tra due omosessuali è conforme alla Costituzione. Secondo l’ultima istanza giudiziaria francese, per la legge un matrimonio è valido solo se coinvolge un uomo e una donna. I saggi hanno preso posizione dopo che una coppia lesbica legata da un patto civile (PACS), si era rivolta alla corte per ottenere una maggiore sicurezza giuridica per i loro quattro figli. Il Consiglio ha nel contempo dichiarato che in futuro spetterà ai politici statuire su un eventuale cambiamento della legislazione in materia.

28 gen 2011 - 11:25

Fonte: http://www.ticinolibero.ch/


EST - Francia, il Consiglio costituzionale legittima il no alle nozze gay
La sentenza non esclude che il legislatore modifichi le norme in vigore

Roma, 28 gen (Il Velino) - Secondo la legge francese il matrimonio è l’unione tra un uomo e una donna. Questa la motivazione con cui il Consiglio costituzionale ha dichiarato conformi alla Costituzione gli articoli del codice civile francese che non permettono il matrimonio tra persone dello stesso sesso. L’alto organo costituzionale ha validato l’annullamento decretato dalla Cassazione di un matrimonio gay celebrato a Begles nel 2004. Il Consiglio, tuttavia, non preclude a priori la strada alla celebrazione di nozze omosessuali. Ricordando che “il legislatore ha valutato che la diversa situazione tra coppie dello stesso sesso e coppie di sesso diverso può giustificare un differente trattamento quanto alle regole del diritto di famiglia”, il Consiglio osserva anche che non è nelle proprie competenze “sostituire la propria valutazione con quella del legislatore”. Al quale di conseguenza spetta l’ultima parola in materia.
Alla sentenza del Consiglio si è giunti dopo che Corinne Cestino e Sophie Hasslauer, due donne conviventi da 14 anni e madri di quattro figli - tre dei quali ottenuti con l’inseminazione artificiale in Belgio – hanno adito le vie legali dopo che il sindaco della loro città sei anni fa rifiutò di sposarle. Legate dal Patto civile di solidarietà (Pacs) da dieci anni, Corinne e Sophie non si accontentano di una tutela che ritengono incompleta e dopo il no del sindaco si sono rivolte al Tribunale di Reims, prima e alla Cassazione poi. L’Alta corte ha infine sollevato il caso davanti al Consiglio costituzionale.

(dam) 28 gen 2011 10:39

venerdì 28 gennaio 2011

Embrioni «orfani», Francia divisa - Ok in commissione all’impianto dopo la morte del padre dei concepiti in provetta. Ma l’Aula dovrebbe votare no - DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ, Avvenire, 28 gennaio 2011

In vista dell’apertura del dibattito in aula il pros­simo 8 febbraio, all’Assemblée nationale avanza­no i lavori nella commis­sione parlamentare specia­le per la modifica della leg­ge francese sulla bioetica.

La commissione ha appena approvato la possibilità d’innesto in utero di un embrione congelato entro i 6 mesi successivi alla mor­te del padre, se c’è il con­senso scritto di quest’ulti­mo e in assenza di proce­dure di divorzio in corso. Questo termine riguarda la decisione della donna sul primo innesto ed è esteso a un periodo di 18 mesi per gli eventuali tentativi suc­cessivi.

Si tratta di una decisione che contraddice la volontà del governo, che si è invece chiaramente opposto alla prospettiva di «far nascere un bambino orfano». Non si escludono dunque colpi di scena come quelli già vi­sti nei giorni scorsi in Se­nato, dove un progetto di legge sull’eutanasia votato in commissione era poi sta­to bocciato in aula su im­pulso dell’esecutivo. Fra coloro che si sono astenu­ti in commissione figura pure il deputato neogolli­sta Jean Leonetti, respon­sabile della maggioranza parlamentare per le que­stioni di bioetica e coordi­natore di tutto il progetto di revisione della legge. U­scendo dai lavori, Leonetti ha manifestato motivi di scetticismo verso la misu­ra appena adottata: «Il dispositivo non è ancora totalmente sicuro. Occorre che la misura sia possibile a titolo davvero eccezionale». La stessa commissione ha invece bocciato la possibi­lità di fecondazione in vi­tro a partire dai gameti di un padre deceduto.

Un via libera provvisorio è stato dato poi alla possibilità di donare ovociti per le donne maggiorenni non ancora madri. Si tratta di una misura anch’essa molto controversa e che è stata giustificata dai suoi difensori con l’argomento della 'disponibilità limitata' di gameti femminili destinati alla fecondazione in vitro. Su questi e altri punti, il di­battito parlamentare si annuncia acceso.
Con 12mila bebé in meno, il 2010 è l’anno nero della nascite in Italia - Se il figlio “costa” il posto - Una ricerca rivela: le donne precarie? - Rinunciano alla gravidanza per paura, di Antonella Mariani, Avvenire, 28 gennaio 2011

E vissero precarie e... scontente. Non è certo una bella favola, quello che accade a un numero crescente di giova­ni donne: precarie nel lavoro, precarie nella vita, con maternità rimandate di anno in anno a ogni scadenza del con­tratto, in attesa di quello definitivo. Lo vediamo intorno a noi, ora ce lo dice anche chi per mestiere studia le tendenze socio-economiche della società. In Italia il precariato fem­minile incide sulle cifre della maternità, peral­tro già bassissime: nel 2009 il numero medio di figli per donna era 1,41, nel 2010 è sceso a 1,4, con 12.200 nascite in meno. Dunque, in Italia si fan­no sempre meno figli e un ruolo (al ribasso) lo gioca anche la precarietà femminile. Francesca Modena e Fabio Sabatini, rispettivamente dell’Università di Trento e di Siena, nei giorni scor­si hanno pubblicato u­no studio in cui, incro­ciando i dati statistici in loro possesso e corredandoli con una ricerca qualitativa su un campione di coppie in cui le donne sono disoccupate o occupate con contratti a tempo indeterminato oppure 'ati­pici'. Ebbene, i due stu­diosi dimostrano che «le coppie in cui la don­na è precaria hanno il 3% di probabilità in meno di pianificare una gravidanza» rispetto a quelle in cui la donna ha un contratto a tempo indeterminato, a parità di altre con­dizioni come l’età e l’istruzione. La precarietà è un deterrente pesante, nonostante anche i contratti a tempo, quelli a progetto o co.co.co. prevedano forme di tutela della maternità, tra cui il congedo obbligatorio e un’inden­nità economica. Ma non, ovviamente, la ga­ranzia di un rinnovo del contratto. «La precarietà femminile – notano i due ricercatori nel loro studio, pubblicato dal forum internet neodemos.it – è associata a una forte in­certezza relativa ai redditi futuri e al fondato timore che la scelta di diventare madre pos­sa compromettere ogni possibilità di realiz­zazione nel mondo del lavoro». Una gravi­danza può costare il posto, così come com­promettere la possibilità di reinserimento pro­fessionale dopo un periodo trascorso a casa accanto al figlio. Proprio ieri su Repubblica u­na lettrice, Ilaria Riggio, «34 anni, una laurea, un master», raccontava che dopo anni il suo contratto a progetto stava per essere trasfor­mato in contratto a tempo determinato, ma quando lei ha scoperto di attendere un figlio l’azienda improvvisa­mente si è «dimentica­ta » della promessa. «Io ora sono incinta e an­che disoccupata. Così facendo le aziende co­stringono le donne a mentire o a rinunciare, con il ricatto della non assunzione, alla mater­nità », conclude amara­mente.

«Al corso pre-parto – racconta ad Avvenire una neomamma milanese 33enne – eravamo quasi tutte precarie, qualcuna a tempo de­terminato, altre co.co.co. Io ero la più giovane, alcune sfiora­vano i 40 anni. Aveva­no aspettato, anno do­po anno, sperando in un contratto stabile. Poi si sono arrese all’orolo­gio biologico. E adesso incrociano le dita». Dunque, che fare? Se u­no degli scenari più preoccupanti per l’Italia è quello dell’inverno de­mografico, bisogna tro­vare una via d’uscita perché la flessibilità del lavoro non sia per le giovani donne sinoni­mo (solo) di instabilità, bassi stipendi e scarsa tutela. Ed ecco, allora, i suggerimenti dei due economisti Modena e Sabatini: le misure di sostegno alla fecondità finora si sono concentrate sulla coppia con figli, «dimenticando colpevolmente le donne che sono sta­te costrette a rimandare o rinunciare. È indispensabile combattere alla radice le cause del declino della fecondità, adottando serie politiche del lavoro che riducano la precarietà, soprattutto quella femminile». Come, è tutta un’altra storia. 
Fine vita, la legge va in Aula - Di Virgilio: «Meglio tornare a dichiarazioni non vincolanti» - «Ma nel resto – puntualizza – la proposta che sarà discussa alla Camera dal 21 febbraio è migliore», di Pierluigi Fornari, Avvenire, 28 gennaio 2011

La proposta di legge sul fine vita approderà nell’aula della Camera il 21 febbraio. Lo ha annunciato ieri Giuseppe Palumbo (Pdl), presidente della com­missione Affari sociali di Montecitorio, che ha esaminato e approvato il testo. «La prossima settimana o al massimo all’inizio di quella successiva – ha preci­sato – arriveranno i pareri delle commissioni Giustizia e Affari costituzionali. Ma l’importante è aver ottenuto il via libera della commissione Bilancio». Que­st’ultimo pronunciamento è arrivato una settimana fa. Se resteranno i piedi le modifiche apportate in commissione rispetto alla versione del Senato, il testo dovrà tornate a Palazzo Madama per una loro ratifica. Gli adempimenti che re­stano da espletare in commissione sono l’esame degli ultimi pareri ed il man­dato al relatore. Il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, ha ribadito in­tanto che il governo auspica che si arrivi nel più breve tempo possibile alla leg­ge, non escludendo però cambiamenti rispetto al testo uscito dalla Affari so­ciali. «Il testo è di iniziativa parlamentare e già sono state fatte alcune correzioni in commissione – ha ricordato il sottosegretario con delega alle materie bioe­tiche –. Non è escluso che possano essercene delle altre in aula». Peraltro, «al Se­nato almeno in un paio di casi il governo è stato smentito dalla sua stessa mag­gioranza, e proprio nel senso di maggiori garanzie in difesa della vita».


Di fronte alle spinte eutanasiche di un’ideologia relativista e di economie di­sumane, la legge sul fine vita che dal 21 febbraio approda nell’aula della Camera «sal­vaguarda la professionalità del medico orienta­ta alla salute e alla vita del paziente, rispettan­done la dignità e tenendo conto delle sue indi­cazioni come previsto dalla Convenzione di O­viedo e dall’articolo 32 della Costituzione». Ne è convinto il relatore Domenico Di Virgilio, per­ché «l’unico modo vero per attuare questi prin­cipi è l’alleanza terapeutica, che nella legge ha un ruolo prioritario». E proprio in base ad essa, il parlamentare vicepresidente del gruppo del Pdl trae alcune conseguenze sulla attuale for­mulazione della proposta: «Dopo aver a lungo riflettuto e letto, per quanto riguarda l’articolo 7, ritengo più giusto tornare al testo approvato dal Senato e cioè che il parere del collegio a cui si fa ricorso in caso di controversia tra fiducia­rio e medico curante non sia vincolante. È un mio parere personale ricavato dalla esperienza di primario ospedaliero e non a titolo di relato­re. L’aula della Camera è sovrana, ma ritengo che vadano rispettate le convinzioni di caratte­re scientifico e deontologico».

Perché è importante la non vincolatività?

Il medico deve poter tenere conto del pro­gresso della scienza che si è verificato dopo la redazione delle dichiarazioni anticipate, cosa che non sarebbe possibile con la vincolatività.

A parte l’articolo 7 cosa pensa del testo che arriva in aula?

Ritengo che la commissione Affari socia­li della Camera l’abbia migliorato rispet­to alla formulazione del Senato. Ad e­sempio all’articolo 1 è stato specificato che è vietata in modo assoluto qualsiasi forma di eutanasia. Nel secondo si pun­tualizza che le decisioni relative al sog­getto incapace devono essere adottate a­vendo come scopo non solo la sua salute ma anche la sua vita.

Ma è stato modificato anche l’articolo 3

relativo al divieto di sospendere alimen­tazione e idratazione...

Si ribadisce che queste forme di sostenta­mento vitale non possono fare oggetto di di­chiarazioni anticipate, non essendo tratta­mento medico. Ma, sulla base della mia e­sperienza di medico, ho fatto approvare co­me relatore una norma la quale prevede che nel caso in cui non risultino più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali ne­cessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo, possano essere sospese. Ci sono dei casi evidenti infatti in cui continuare ad idra­tare può essere nocivo provocando ad esem­pio uno scompenso acuto. È solo in questi ca­si che tali cure essenziali possono essere so­spese.

Non c’è il rischio di una formulazione vaga di accanimento terapeutico?

L’articolo 1 afferma chiaramente che il medi­co deve astenersi da trattamenti straordinari non proporzionati, non ef­ficaci o tecnicamente ade­guati rispetto alle condi­zioni cliniche del paziente o agli obiettivi di cura. An­che il magistero ha sottoli­neato che la rinuncia a trat­tamenti sproporzionati, i­nutili o dannosi non equi­vale al suicidio o all’euta­nasia, ma esprime «piutto­sto l’accettazione della condizione umana di fron­te alla morte».

A chi è indirizzata la legge?

La legge uscita dal Senato riguardava uni­camente i soggetti in stato vegetativo, con l’approvazione di un mio emendamento in­vece il testo che ora va in discussione nel­l’aula della Camera estende la platea a tut­ti i soggetti che si possono trovare in modo permamente in una condizione di incapa­cità di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e di assumere le de­cisioni che lo riguardano.

Altre modifiche importanti?

La previsione che l’assistenza ai soggetti in stato vegetativo rientra nei livelli essenzia­li di assistenza e deve essere assicurata attra­verso prestazioni ospedaliere, residenziali e domiciliari.