venerdì 13 novembre 2015

Ecco fin dove può arrivare la furia laicista: vietare Chagall e Van Gogh perché turbano i “non cattolici” di Alfredo Mantovano, 13-11-2015, http://www.lanuovabq.it/

La Crocifissione bianca di Marc Chagall e la Pietà di Van Gogh
Lo si può anche liquidare come sublime esempio di stupidità, spinto fino al disprezzo del ridicolo. Però è successo, e non è una novità nel suo genere. Ai bambini della terza elementare della scuola Matteotti di Firenze viene impedito, nel giro programmato alla città, di visitare le opere della mostra Divina Bellezza allestita nel capoluogo toscano: fra esse, la Crocifissione bianca di Chagall, ammirato da Papa Francesco qualche giorno fa a margine del convegno ecclesiale, la Pietà di Van Gogh, la Crocifissione di Guttuso, l'Angelus di Millet e numerose altre opere. Per quale ragione? É spiegato nel verbale del consiglio interclasse, che si è tenuto lo scorso 9 novembre (riportato da QN-La Nazione): «la visita è stata annullata», così è stato messo per iscritto, «per tutte le terze per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche visto il tema religioso della mostra»; la mostra ha infatti come filo conduttore il rapporto tra arte e sacro.

Quando accade un fatto del genere, più che ripetersi «signora mia, a che punto siamo giunti», è lecito chiedersi perché si è giunti a questo. Perché, cioè, anche in Italia il rispetto della libertà religiosa, che è qualcosa in sé positivo, viene declinato, e da tempo, nei termini dell’abolizione di ogni simbolo che richiami la confessione religiosa, e perché questo accada soprattutto quando la confessione è quella cristiana. In nome della laicità, i Crocifissi nei luoghi pubblici sono diventati merce rara, in tante scuole il ricordo del Natale è sostituito dalle feste più improbabili e più disancorate dalla realtà, e l’abitudine di segnarsi prima di cena o prima di prendere un volo viene guardato con un misto di sospetto e di commiserazione.

Perché? Ci sono almeno due ragioni. La prima chiama in causa ciascuno di noi, in quanto italiani; la seconda la fascia di coloro che si riconoscono cristiani. Sfugge in modo sempre più diffuso che il cristianesimo è indissolubilmente correlato alla nostra storia, al nostro modo di pensare, alla nostra vita “laica” quotidiana; al punto che se l’opzione della scuola Matteotti di Firenze fosse portata alle sue logiche conseguenze la vita diventerebbe veramente complicata. Per restare alla patria di Dante, gli scuolabus dovrebbero rigorosamente evitare i percorsi che incrociano chiese, o lambire solo gli edifici sacri realizzati più di recente: somigliando più a fabbriche o a discoteche, non generano turbamento; un automezzo che transiti davanti a Santa Maria Novella rischia seriamente di collidere non con altri veicoli, ma con la «sensibilità delle famiglie non cattoliche». 

A scuola si dovrebbe rifiutare l’iscrizione degli alunni il cui nome richiama con maggiore evidenza figure cardine della nostra fede: Maria, Giuseppe, Francesco, financo Matteo; la semplice pronuncia in classe di quei nomi durante l’appello, col richiamo al motivo per cui sono stati scelti, è causa di sicuro turbamento. Perché poi far coincidere il giorno di riposo a scuola con la domenica, il cui stesso nome costituisce “reato”, richiamando quel Dominus che non si vuole in alcun modo nobiscum? Che dire poi della toponomastica? Via, il prima possibile, i nomi delle strade dedicati ai Santi o che richiamino simboli religiosi… Per concludere che se una persona vuole mostrarsi veramente di buon senso, anche se non crede, non può immaginare che siano cancellati duemila anni di una storia al cui interno - piaccia o non piaccia - la fede ha avuto un ruolo centrale.

Per il cristiano la riflessione è ancora più rapida: quanto c’è di nostra inerzia e indifferenza nel mancato rispetto dei simboli della nostra confessione? La prima volta - ormai molti anni fa - in cui in una scuola elementare la recita della Nascita di Gesù è stata sostituita dalla rappresentazione di Cappuccetto rosso abbiamo pensato che fosse una stranezza, ma comunque qualcosa cui non conferire tanto peso. Ogni qual volta abbiamo visto immagini sacre dileggiate e oltraggiate in manifestazioni pubbliche siamo stati propensi a rubricarle come folklore. L’abitudine a non considerare il patrimonio delle nostra religione come un tesoro prezioso, da tutelare - è il minimo sindacale -, da valorizzare e da rilanciare, come fa a Firenze la mostra Divina Bellezza e come ci esorta a fare il Magistero dei Pontefici, un bel giorno concorre a generare il divieto rivolto ai bambini a stupirsi di fronte allo splendore dell’arte, e dell’arte fondata sulla fede. 

Non è sufficiente meravigliarsi della stupidità laicista e gridare allo scandalo; per cominciare, per non restare nel generico e per rimanere al caso dal quale si è partiti, perché non organizzare una visita alla mostra di Firenze per gli sfortunati bambini delle terze classi della scuola Matteotti e per i rispettivi genitori?

giovedì 12 novembre 2015

La Corte Costituzionale legalizza l’eugenetica, novembre 12, 2015 Aldo Vitale, http://www.tempi.it/

Con la sentenza 229/2015 la Corte Costituzionale ha eliminato il divieto di selezione degli embrioni e della relativa sanzione penale sanciti, rispettivamente, dalla lettera b del comma 3 e dal comma 4 della legge 40/2004 disciplinante le tecniche di procreazione medicalmente assistita (da ora Pma).
Ciò causa numerose perplessità di carattere biogiuridico.
In primo luogo: focalizzando l’attenzione sul dispositivo della suddetta sentenza, si ha l’impressione che la Corte Costituzionale non ha letto le norme in questione, che se le ha lette non le ha comprese, e che se le ha comprese le ha dolosamente disattese.
In secondo luogo: dall’impianto generale della sentenza, sembra che la Corte Costituzionale si sia soltanto pigramente adagiata, recependone il senso all’interno del nostro ordinamento, sulla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 28 agosto 2012 riguardante il caso “Costa e Pavan c. Italia” con cui è stato dichiarato illegittimo il divieto della legge 40/2004 circa la diagnosi genetica preimpianto (da ora Dgp) specialmente in relazione alla normativa italiana in tema di interruzione volontaria di gravidanza (da ora Ivg) cristallizzata dalla legge 194/1978.
In terzo luogo: con la medesima sentenza, in barba ad ogni principio di non-contraddizione, la Corte Costituzionale ha, tuttavia, disposto che non è illegittimo il divieto posto dalla legge 40/2004 circa la soppressione dell’embrione in quanto, sempre secondo la Corte, «l’embrione, infatti, quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico».
Scendendo più in profondità, ma pur sempre evitando eccessivi tecnicismi etici e giuridici, occorre evidenziare che la suddetta sentenza della Corte Costituzionale non ha colpito semplicemente il divieto di Dgp, ma il divieto di selezione eugenetica in quanto tale.
Occorre però procedere con ordine su tre piani diversi: quello della coordinazione normativa; quello dei principi; quello degli effetti.
Sotto il primo profilo, cioè quello strettamente normativo, la decisione della Corte Costituzionale è fallace in quanto fondata sull’equivoco (il medesimo in cui è incorsa la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per una scadente conoscenza dell’ordinamento italiano e a causa della mancanza di una interpretazione sistematica del medesimo) che il divieto di Dgp della legge 40/2004 sia in contrasto con la normativa in tema di Ivg.
Detto in poche parole, ecco il succo del ragionamento della Corte Europea prima e della Corte Costituzionale adesso: che senso ha il divieto di Dgp che impedisce di selezionare gli embrioni insani per impiantarli se poi si può ricorrere alla interruzione volontaria di gravidanza per le malformazioni del feto?
Una simile impostazione dimostra di non aver colto la lettera e lo spirito di entrambe le leggi.
Per sciogliere il bandolo della matassa occorre tenere sempre ben presente ciò che la Corte Costituzionale incredibilmente sembra ignorare (si spera in buona fede), cioè la distinzione tra aborto eugenetico ed aborto terapeutico.
L’aborto eugenetico è quello posto in essere secondo un’ottica strettamente eugenetica, cioè per scartare gli embrioni o i feti considerati non idonei a causa delle loro eventuali patologie.
L’aborto terapeutico, invece, è quello posto in essere soltanto qualora le eventuali patologie del feto possano arrecare un pregiudizio alla integrità psico-fisica della donna, così come recita la lettera b del comma 1 dell’articolo 6 della legge 164/1978 che la Corte Costituzionale sembra non letto o compreso.
Insomma, per essere terapeutico e non eugenetico l’aborto, occorre che esista un nesso di causalità tra le patologie del feto e le lesioni all’integrità psico-fisica della donna; in caso contrario non sarà terapeutico, ma eugenetico e come tale universalmente riconosciuto come illecito nel nostro ordinamento, stante, appunto, il riconoscimento giurisprudenziale sul punto come dimostrano la sentenza della Corte di Cassazione 14488/2004 per la quale «non esiste nel nostro ordinamento l’aborto eugenetico», e la sentenza 151/2009 della stessa Corte Costituzionale ai sensi della quale l’embrione non è “cestinabile” come una qualunque res difettosa.
Sotto il livello dei principi, la suddetta sentenza della Corte Costituzionale sembra non tener conto che la terapeuticità dell’aborto terapeutico è in relazione alla madre e non all’embrione o al feto. La Dgp, invece, è sempre in relazione all’embrione e il divieto che era previsto dalla legge 40/2004 serviva proprio ad evitare che l’embrione fosse reificato e cassato come un qualunque prodotto difettoso.
Il divieto contemplato dalla legge 40/2004 che la Corte Costituzionale ha spazzato via con incresciosa insipienza giuridica era una norma di presidio della civiltà giuridica, di preservazione della natura del diritto e di espressione del diritto di natura.
Sotto il profilo degli effetti, non si può fare a meno di considerare che il divieto di Dgp testé archiviato evitava che si sviluppasse e diffondesse la disumana e antigiuridica prassi eugenetica nel nostro ordinamento.
La mera diagnosi osservazionale dell’embrione, infatti, è già consentita dalla stessa legge 40/2004 come si evince dal comma 2 dello stesso articolo 13 che così infatti sancisce: «La ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative».
Caduto un simile divieto per mano della sciatteria giuridica della Corte Costituzionale si è spalancata la porta verso la prassi eugenetica che per nulla riguarda la salute della donna, ma la dignità umana in quanto tale.
Oltre il diritto al figlio, dunque, potrà adesso essere reclamato anche il diritto al figlio sano, sebbene la Corte Costituzionale non sembra essersi posta il dilemma di cosa è sano e cosa invece no; si tratta solo di patologie degenerative e ingravescenti o anche con cui si può convivere, di patologie ereditarie e comuni o soltanto di quelle rare?
Chi decide e come si decide il limite? Se per una coppia avere un figlio diabetico può essere un problema, per un’altra coppia potrebbe essere un problema che sia femmina e non maschio, o castano piuttosto che biondo; chi conterrà gli eccessi e gli orrori?
In conclusione, sembrano riecheggiare proprio le parole di uno dei padri della fecondazione artificiale, cioè Jacques Testart il quale, in una intervista nel 2004, ha giustamente ravvisato ciò che la Corte Costituzionale sembra, ahinoi, avere ignorato del tutto: «Più si va avanti e più sarà difficile sbarrare la strada a un progetto di eugenetica […]. Ma non c’è dubbio che, se la medicina si mette al servizio della selezione, creando categorie di inclusi, reclusi ed esclusi, la vita umana sarà tassativamente governata dall’ideologia della competizione, contro la quale per salvare la civiltà è stato necessario inventare i diritti dell’uomo».

Se la Consulta riconosce il diritto all'eugenetica di Giacomo Rocchi, 12 novembre 2015, http://www.lanuovabq.it/


La nuova sentenza della Corte Costituzionale sulla legge 40 del 2004 depositata ieri contiene due decisioni di segno diverso, entrambe assai interessanti. 

FecondazioneIl Tribunale penale di Napoli, che stava giudicando due professionisti della fecondazione in vitro, accusati di avere selezionato, tra gli embrioni prodotti in soprannumero, quelli affetti da malattie genetiche e di averli soppressi, ha sospettato che la legge sia incostituzionale nel porre due divieti assoluti: di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e di soppressione degli embrioni prodotti. Secondo il Tribunale, entrambe le condotte dovrebbero essere permesse ai danni degli embrioni malati, alla luce del diritto della donna a rifiutarne il trasferimento nel proprio corpo, avendo ella in ogni caso il diritto di abortirli. 

Come si vede, si tratta della concretizzazione giuridica della "cultura dello scarto" di cui ha spesso parlato Papa Francesco: se gli embrioni sono malati possiamo rifiutarli e, siccome non servono a niente, è meglio ucciderli. 

I criteri indicati per sollevare il dubbio di costituzionalità sono ben conosciuti: il diritto alla salute della donna – che è ormai una parola vuota, che corrisponde al riconoscimento della sua totale autodeterminazione – e l'Europa: viene così richiamata la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che aveva, appunto, affermato il diritto delle coppie di procedere alla diagnosi genetica preimpianto sugli embrioni prodotti e di rifiutare quelli malati. 

La Corte Costituzionale ha risposto in maniera affermativa alla questione della selezione, dichiarando l'illegittimità costituzionale della legge «nella parte in cui contempla come ipotesi di reato la condotta di selezione degli embrioni anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili». 

La decisione viene presentata come inevitabile conseguenza di quella di pochi mesi fa che aveva eliminato il divieto di accesso alle tecniche di fecondazione artificiale per le coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili: la Corte osserva, infatti, che l'accesso di queste coppie alle tecniche presuppone l'esecuzione della diagnosi genetica e la selezione, perché esse non servono più a superare la sterilità, ma a conseguire gravidanze di bambini non malati. Quindi, dice la Corte, ciò che è diventato lecito per effetto di quella pronuncia «non può dunque – per il principio di non contraddizione – essere più attratto nella sfera del penalmente rilevante». 

In realtà quella piccola breccia aperta per gli aspiranti genitori consapevoli di essere portatori di malattie genetiche si è rapidamente trasformata nel crollo dell'intera diga: ora – in forza della nuova pronuncia della Corte Costituzionale – la diagnosi genetica preimpianto e la selezione degli embrioni è espressamente consentita per tutte le coppie. La Corte finge di credere che ciò avverrà al solo scopo di evitare il trasferimento degli embrioni malati, ma, di fatto, viene espressamente autorizzata la prassi usata dagli "specialisti" della fecondazione in vitro: produzione di quanti più embrioni possibili, diagnosi genetica su tutti gli embrioni prodotti, selezione discrezionale di alcuni di essi dipendente dalle finalità che la coppia o i tecnici si prefiggevano. 

Si deve sottolineare che questa pronuncia contiene un elemento davvero sorprendente – ma anche terribile - di chiarezza: la Corte, infatti, ha autorizzato (sia pure in qualche caso) la selezione eugenetica degli embrioni! Sì: questa parola terribile – eugenetica – che richiama pratiche orribili contro la vita e la dignità dell'uomo e tempi oscuri è stata "sdoganata"; sì, la Corte Suprema di una nazione civile ha statuito che, in certi casi, la selezione a scopo eugenetico è permessa. 

Nonostante l'enormità di questo evento giuridico, non possiamo stupirci: sappiamo benissimo, infatti, che la produzione artificiale dell'uomo è inevitabilmente eugenetica, perché l'embrione è un "prodotto" (la legge 40 parla di "produzione degli embrioni") realizzato su richiesta da clienti paganti, che lo vogliono perfetto. 

Possiamo consolarci osservando che ora, almeno, ogni velo sulla natura di queste pratiche è caduto; nessuno può dire di non sapere; nessuno – soprattutto se afferma di far parte di un mondo che difende la vita e respinge la cultura dello scarto – può continuare a sporcarsi le mani (e a guadagnare denaro) con pratiche così abiette.  

La decisione della Consulta in merito al secondo quesito sorprende nel senso opposto. La Corte afferma che gli embrioni malati possono essere, sì, selezionati e non trasferiti nel corpo della madre, ma non possono essere soppressi; e tale decisione è presa con parole non banali. Conviene leggere un passo, anche se un po' impegnativo: «deve escludersi che risulti (…) censurabile la scelta del legislatore del 2004 di vietare e sanzionare penalmente la condotta di «soppressione di embrioni», ove pur riferita (…) agli embrioni che, in esito a diagnosi preimpianto, risultino affetti da grave malattia genetica. Anche con riguardo a detti embrioni, la cui malformazione non ne giustifica, sol per questo, un trattamento deteriore rispetto a quello degli embrioni sani (…), si prospetta, infatti, l’esigenza di tutelare la dignità dell’embrione, alla quale non può parimenti darsi, allo stato, altra risposta che quella della procedura di crioconservazione. L’embrione, infatti, quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico. Con la sentenza n. 151 del 2009, questa Corte ha già, del resto, riconosciuto il fondamento costituzionale della tutela dell’embrione, riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.; e l’ha bensì ritenuta suscettibile di «affievolimento» (al pari della tutela del concepito: sentenza n. 27 del 1975), ma solo in caso di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in temine di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti. Nella fattispecie in esame, il vulnus alla tutela della dignità dell’embrione (ancorché) malato, quale deriverebbe dalla sua soppressione tamquam res, non trova però giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela di altro interesse antagonista». 

Insomma: la Corte sa – e lo ribadisce pubblicamente – che l'embrione prodotto non è "mero materiale biologico" e non può essere trattato come se fosse una cosa ("tamquam res"); quindi i suoi interessi possono cedere solo di fronte «ad altri interessi di pari rilievo costituzionale». L'embrione soprannumerario malato, quindi, non può essere soppresso – e resta reato farlo – e, per evitare che muoia, non può che essere crioconservato. 



Una mezza vittoria per i prolife? Purtroppo i timori sono legittimi. 
Colpisce, in primo luogo, che la Corte non abbia avuto il coraggio di usare le parole "uccidere" e "vita": in effetti, la "soppressione" dell'embrione in vitro, più che ledere la sua "dignità", ne viola il diritto alla vita. L'embrione "soppresso" viene ucciso volontariamente; prima era un essere umano vivo – anche se ingiustamente congelato – e dopo è un essere umano morto.

E poi: quali sono gli altri interessi "di pari rilievo costituzionale" rispetto ai quali quelli degli embrioni "affievoliscono", per usare l'eufemismo della Corte Costituzionale? Fino ad oggi – nella finzione creata con la sentenza n. 27 del 1975 che consentì la liberalizzazione dell'aborto volontario – vi era un unico interesse prevalente: quello alla vita e alla salute della madre la cui tutela, formalmente, ha permesso l'approvazione della legge 194 del 1978 sull'aborto. Non a caso, quella risalente pronuncia della Corte è sempre stata richiamata per "smantellare" progressivamente i "paletti" della legge 40. 

Ora scopriamo che potrebbero esistere altri interessi prevalenti; e subito viene in mente la questione che ancora pende davanti alla Corte: quella della possibilità di destinare gli embrioni soprannumerari alla ricerca scientifica che – come è noto – è tutelata dalla Costituzione. In quella causa – che sarà discussa all'udienza pubblica del 22/3/2016 - i Giuristi per la Vita avevano chiesto al Presidente della Corte di nominare un curatore speciale per gli embrioni, visto il loro conflitto di interessi con i genitori, che vogliono destinarli, appunto, alla sperimentazione e alla conseguente soppressione. 

Il fatto è che la produzione in vitro dell'uomo – non dimentichiamolo: una pratica creata nell'ambito della zootecnia – lo rende, come dice la Corte, "tamquam res", come se fosse una cosa; e quali diritti si possono attribuire alle cose?

martedì 10 novembre 2015

Perché il gender uccide il corpo e annienta la realtà, di Chiara Atzori, 10-11-2015, http://www.lanuovabq.it/

Il gender elimina il corpo nella sua realtà
Il gender elimina il corpo nella sua realtàPassato il momentaccio, la Chiesa forse dovrà ringraziare Krzysztof Charamsa, il sacerdote che con un atto plateale ha dichiarato la sua omosessualità. A prescindere dal ben calcolato esito di clamore mediatico sul Sinodo, forse grazie al “monsignore gay” si potrà ricominciare a parlare di omosessualità, che nella sua versione di deriva ideologica e politica (omosessualismo) è uno dei pilastri della visione gender. Perché il tema della inclinazione omosessuale è il “non detto” che aleggia in tante sessioni, incontri e dibattiti sulla famiglia e sulla “teoria gender” in cui si affrontano le tematiche della relazione uomo donna, senza avere più chiari fondamenti antropologici di base. La persona umana non è un’astrazione teorica né un contenitore neutro di “preferenze” affettive o erotiche. 

Love is love (l’amore è amore) è uno slogan mediaticamente vincente perché facile da ripetere e affettivamente rassicurante ma anche pericolosamente ambivalente per la sua capacità di incerottare e mummificare la riflessione vera sulle “buone” ed affettivamente “amabili” modalità di relazione tra gli esseri umani. Perché quello slogan semplicemente non tiene conto o meglio volutamente oscura le tante declinazioni non equivalenti che la parola amore può assumere: affetto, amicizia, eros e agape.Tutte espressioni dell’amore collegate all’umano, ma, appunto, non equivalenti né autorizzabili in tal senso come “amabili” in ogni tipo di relazione: banalmente l’espressione “love is amore”, ad esempio, può valere per normalizzare e rendere accettabili le relazioni erotiche tra adulti e bambini? Di quale amore stiamo parlando?

Tra lo slogan di parola e l’agire reale esiste un ponte che non è semplicemente un mezzo, ma siamo proprio noi, la nostra corporeità. Il corpo è una realtà che per la cultura neognostica odierna (talvolta anche intraecclesiale) rappresenta un “fastidioso mediatore sessuato” del quale si vorrebbe fare a meno. Ma l’amore per la verità e per il principio di realtà ci deve sostenere e dobbiamo continuare a percorrere il drammatico crinale che collega le pretese intellettuali di certa filosofia astratta e la deriva materialista e biologista di stampo gender che riduce il corpo a materiale disponibile e modificabile secondo le proprie preferenze, o lo subordina a presunta supremazia della “relazione” a prescindere dalla corporeità della persona stessa, come fa certa teologia.

Ogni essere umano è unitarietà bio-psicoculturale, sostanza individuale sessuata di natura razionale e relazionale, cioè creatura in grado di collegare cervello-cuore e area genitale sotto-ombelicale in una armonica comprensione di chi è. Una creatura, maschio o femmina che per sua natura non è obbligata, ma dotata della possibilità di collaborare a questa sintesi, nella libertà. Le preferenze (orientamenti) affettivi ed erotici, invece, non sono ontologici, sono situazioni, esiti, stati adattativi, cioè rappresentano per ciascuno l’inedito risultato di complesse interazioni tra la parte biologica (genetica, epigenetica, forma del corpo, interazione del corpo con l’ambiente), psicologica (internalizzazione e integrazione di esperienze sensoriali connotate da piacere o dolore, che necessariamente mediano ogni esperienza sensoriale e con quella coloritura “affettiva” vengono archiviate e ripescate dalla memoria), e culturale (effetti educativi, etnico-linguistici, simbolici, storicamente contrassegnati dai codici geografici e temporali in cui ciascuno vive).

Gli orientamenti (inclinazioni) non esauriscono la totalità della persona, che è e rimane ontologicamente differenziata solo in quanto uomo e donna. La sessualità inscritta nel corpo manifesta la traccia visibile del mistero della alterità nel modo più radicale, e nel contempo anche la vocazione alla generatività .Gesù in persona ci ha indicato la amabile “canalizzazione” (non la castrazione) della potenza inscritta nella differenza sessuale sia attraverso possibilità della verginità consacrata (maschile che femminile) sia attraverso il matrimonio, alleanza sponsale e luogo sacro e inviolabile per la trasmissione della vita. Gesù ci ha indicato il progetto di Dio sulla sessualità, «per questo l’uomo la donna lasceranno il padre e la madre e i due saranno una sola carne», non ci ha parlato di omosessualità. Gli eunuchi che nascono così (gli stati intersessuali?) o che tali diventano non hanno nulla a che fare con gli «eunuchi per il regno», e certamente nulla hanno da spartire con la richiesta di una normalizzazione dell’esercizio di una sessualità omoerotica, con buona pace dei gruppi che pretendono una benedizione sulle loro unioni tra persone dello stesso sesso.  

Il buon senso oggi sembra smarrito anche laddove avrebbe dovuto crescere ìgrazie alle opportunità di approfonditi studi filosofici e teologici. O forse proprio a causa di “troppo” studio si è persa l’esperienza del reale e ci si è smarriti nei labirinti di un’emotività infantile ipertrofica, probabile argine riparativo per il permanere prolungato in una astrattezza troppo a lungo alienata da una sana relazione con il proprio e l’altrui corpo. Nessuno nasce gay, come purtroppo ancora anche qualche eminenza sembra credere e incautamente dichiara in pubblico. Gli esseri umani esistono come creature sessuate, cioè dotate di una differenza sostanziale, ontologica, che li vede maschi e femmine. Il corpo è il primo “segno” di questa unidualità misteriosa, un richiamo alla dimensione relazionale, necessità dell’altro per esistere, che rimanda al Mistero dell’Alterità radicale, della dipendenza da chi ci dona l’essere.

Ma senza filosofare troppo, vi è un “appoggio” necessario della parte psichica di cui si diventa gradualmente consapevoli, lo stesso pensiero è reso possibile solo e grazie ad un soma (corpo) che lo precede e lo struttura.E il soma (corpo) non è androgino, ma sessuato e strutturato differentemente come confini corporei (forma) e come cervello nel maschio e nella femmina. É impregnato differentemente in senso ormonale nei due sessi, è soggetto a una modulazione chimica differenziata su ogni cellula sia essa della periferia corporea piuttosto che costitutiva dell’organo più caratterizzante il profilo umano per eccellenza, il suo cervello. Un uomo, fosse pure monsignore o cardinale o re, che non ha integrato e armonizzato la differenza sessuale (inscritta nel corpo ed esemplificata nella differenza genitale) nella sua identità , non diventa per tale motivo “omosessuale” o “gay” ma semplicemente rimane un essere umano con una identità ferita dalla tendenza omosessuale. 

Una persona che sta codificando il suo e l’altrui “corpo erotico” prescindendo (si spera inconsapevolmente) dalla realtà naturale oggettiva perché buchi e sporgenze del corpo hanno certamente un significato anche simbolico, ma rimangono tenacemente dotati di una loro realtà fattuale, organica e morfologica con cui bisogna fare i conti, prima o poi.Un ano o una bocca non sono vagine e peni, non sono genitali, e neppure “oggetti” a disposizione. Non si toglie valore alla persona con tendenza omosessuale, ma si deve poter dire che questa non ha ancora “integrato” il primato genitale nel suo processo di sessuazione psichica. Uomini e donne con tendenza omosessuale non sono giudicabili in quanto feriti e in realtà tutti lo siamo, in quanto creature umane, ma tutti dobbiamo assumerci la nostra responsabilità personale nel decidere a chi affidare la chiave di “lettura” della nostra identità sia pure “ferita”. 

La chiamata “vocazionale” radicale, per ogni creatura umana è, infatti, decidere se collaborare a far fiorire ciò che si è ricevuto in dono come “essere”: uomini se maschi, donne se femmine. Tutto questo con il dovuto rispetto e delicatezza nei confronti di quegli individui che portano la drammatica e difficile prova delle patologie chiamate stati intersessuali, e che rappresentano un ambito totalmente distinto. La tendenza omosessuale non è, infatti, una malattia in senso biologico o organico, e neppure un “destino” o un innatismo. La fatica di crescere e di accettare di non essersi “dati” un corpo, ma di esistere in e in forza di un limite, il proprio corpo sessuato può essere affrontata con fiducia anche a fronte di percorsi relazionali e personali accidentati, se ci si affida al Signore, quello stesso Signore che nella Genesi ha detto, contemplando l’uomo e la donna da Lui creati, che erano «cosa molto buona». 

Accettare la relazione uomo donna come unico luogo “santo” per l’esercizio della sessualità genitale, luogo santo di custodia dell’origine della vita, realtà voluta da Dio, indiscutibilmente è una posizione da creatura ragionevole, che ri-conosce di esistere come prezioso e misterioso dono, elargito come “bene-dizione” nel momento dell’incontro tra i “limiti” rappresentati dalla corporeità del corpo sessuato maschile e femminile.  

martedì 13 ottobre 2015

Eutanasia in Olanda: più di 14 morti al giorno, 5.306 solo nel 2014, ottobre 13, 2015 Leone Grotti, http://www.tempi.it/

eutanasia-olanda-2014-dati
In Olanda nel 2014 sono morte a causa dell’eutanasia (attiva e passiva) 5.306 persone. È quanto riportato nel rapporto annuale della Commissione olandese di controllo dell’eutanasia. Rispetto al 2013, quando era stata verificata la morte di almeno 4.829 persone, c’è stato un aumento del 10 per cento; rispetto al 2002, anno di introduzione dell’eutanasia nel paese, del 182 per cento.

CANCRO, DEMENZA E VECCHIAIA. La maggior parte dei pazienti ha ricevuto l’iniezione letale in casa. In 3.888 casi su 5.306, l’eutanasia è stata richiesta da persone affette da cancro, in altri 247 casi il motivo è stato la presenza di una malattia cardiovascolare. Preoccupanti i casi di quanti hanno richiesto e ottenuto la “buona morte” nonostante non si trattasse di malati terminali: 41 persone avevano disturbi psichiatrici, 81 erano affette dai primi stadi della demenza, mentre ben 257 hanno chiesto di essere uccise per problemi legati alla vecchiaia.

NUMERI NON UFFICIALI. È improbabile che i numeri ufficiali siano anche quelli reali. La Commissione, infatti, specifica che i casi riportati sono solamente quelli denunciati dai medici. Secondo attivisti e studiosi della legge sull’eutanasia, però, il 20-23 per cento di tutti i casi non viene riportato per diversi motivi. Se così fosse, le vittime sarebbero circa 6.360.

14,5 MORTI AL GIORNO. Ad ogni modo, stando alle stime ufficiali, in Olanda muoiono 14,5 persone al giorno (domeniche e feste comprese) a causa dell’eutanasia. Una morte ogni 25 nel paese è dovuta all’iniezione letale. Non stupiscono perciò le parole di un portavoce della Commissione di controllo, riportate dai quotidiani olandesi, secondo cui «l’aumento dimostra che l’eutanasia è sempre più socialmente accettata. Anche l’esistenza delle cliniche di fine vita contribuisce alla crescita».


SCUOLA DI EUTANASIA. Per la prima volta quest’anno la Nvve, che ha aperto diverse cliniche dove è possibile ricevere l’iniezione letale e che dispone di squadre di medici che portano la “buona morte” comodamente a domicilio, ha anche creato un corso scolastico dal titolo “Eutanasia – morte normale” che viene portato in tutte le classi.
Il direttore di Nvve, Robert Schurink, ha esultato così alla notizia dell’aumento delle iniezioni letali: «Finalmente l’autodeterminazione prevale sul fato. I pazienti vogliono avere il controllo sulle proprie vite finché sono coscienti».

@LeoneGrotti

venerdì 18 settembre 2015

«Come abbiamo bloccato il suicidio assistito? Facendo parlare i malati come me e mostrando i dati», settembre 18, 2015, Benedetta Frigerio, http://www.tempi.it/

jane-campbellDopo quattro tentativi ripetuti negli ultimi nove anni, con cui i fautori della legge sul suicidio assistito hanno cercato di legalizzare la morte procurata in Gran Bretagna, a sorpresa il fronte pro life ha vinto ancora. Venerdì 11 settembre, la Camera dei Comuni a grande maggioranza ha votato contro il disegno di legge: 330 i voti contrari, 118 i favorevoli. Fra le voci fondamentali che hanno contribuito al buon esito della battaglia c’è quella della baronessa Jane Campbell, membro indipendente della Camera dei Lord e affetta da atrofia muscolare. Già nel 2009 Campbell convinse il parlamento inglese a respingere il ddl che avrebbe permesso di aiutare i malati a viaggiare verso paesi dove l’eutanasia è legale.

Baronessa, com’è possibile che la legge, già approvata in prima lettura il 24 giugno scorso, sia stata respinta a grande maggioranza?
È incredibile, sinceramente non ce lo aspettavamo. Pensavamo a un numero di favorevoli pari a quello di chi si è invece opposto alla norma.

Cosa è accaduto? Come spiega la vostra vittoria?
La cosa fondamentale è stata la voce di circa venti disabili fra cui persone che, come me, sono affette da malattie degenerative. Siamo intervenuti nel dibattito smentendo i luoghi comuni che ci dipingono come gente disperata. Abbiamo poi presentato tutti i rischi della legislazione mostrando come norme estere simili a quella introdotta al parlamento inglese spingano i malati a sentirsi di peso e a chiedere l’eutanasia come via d’uscita normale al dolore e a una società che li rifiuta. Tutto ciò ha fatto crescere la consapevolezza dei parlamentari che, messi di fronte alle cifre delle morti procurate laddove il suicidio assistito è legale, e a persone come me, non si sono sentite di votare a favore di un provvedimento simile: «Se approvate la norma – abbiamo ripetuto – metterete in pericolo mortale tutta la società e, invece che aiutare le persone in difficoltà, le spingerete alla disperazione».

Lei che argomentazioni ha portato?
Ho raccontato la mia storia e il mio amore alla vita. E, come gli altri malati intervenuti, ho spiegato che viviamo vite ordinarie e che tutto dipende dal sostegno e dall’amore che riceviamo. Questo è vero per tutti, la vita è degna e bella se c’è chi ci ama, ma per un malato è più evidente. Al contrario, chiunque è indotto alla disperazione se lo Stato o la famiglia mettono in dubbio che la sua vita sia sempre degna di essere vissuta. La tragedia si consuma quando le persone non credono in noi. Ecco, credo che la voce della nostra esperienza abbia cambiato tutto il dibattito. Le persone in buona fede o confuse hanno capito.

La norma è stata scritta sul modello di quella approvata in Oregon nel 1997, per cui il richiedente deve essere maggiorenne, mentalmente abile e malato terminale. Come li avete convinti che si sarebbe passati all’omicidio di disabili, anziani o bambini?
Abbiamo spiegato ai parlamentari che tutte le leggi sulla morte procurata inizialmente contemplata per i soli terminali sono arrivate a coinvolgere le categorie di persone che lei cita. Non c’è un freno quando si decide che la vita è disponibile. Inoltre, ha aiutato il fatto che l’Associazione dei medici britannici, il Royal College dei medici, il Royal College dei medici di famiglia, l’Associazione per le cure palliative e la società geriatrica britannica si siano espresse tutte contro il ddl. Anche fra le associazioni di pazienti affetti dal cancro l’opposizione è stata unanime: tutte hanno dichiarato che la norma era pericolosa.

Si aspetta un’altra proposta di legge simile?
Sì, ma non credo si presenteranno prima di qualche anno. Tutto dipenderà da quanto disabili e malati saranno aiutati e sostenuti.

Sono noti gli scandali relativi alle persone incapaci di esprimersi uccise dal personale ospedaliero all’insaputa dei parenti e nonostante l’eutanasia sia illegale. Il problema del paese, dunque, è più morale o legale?
Lo scandalo delle morti procurate senza consenso ha contribuito a destare le coscienze. Quando poi abbiamo spiegato in aula che, anziché combattere per l’omicidio, bisogna far sì che un paziente sia amato e sostenuto, i parlamentari si sono smossi fino al rifiuto della legge: «Fate il possibile affinché la legge e il sistema assicurino l’aiuto ai malati e vedrete che sarà molto più difficile sentire invocare la morte». Ci hanno ascoltato.

@frigeriobenedet

Quella pillola contraccettiva uccide le donne, di Renzo Puccetti, 18-09-2015, http://www.lanuovabq.it/

La pillola abortiva YasmineMentre il cardinale Kasper si agita per ribaltare nel Sinodo sulla famiglia la dottrina di duemila anni della Chiesa sulla contraccezione, nella sua Germania, precisamente nella cittadina di Waldshut, il Tribunale regionale dovrà dirimere la causa di risarcimento danni intentata contro il colosso farmaceutico Bayer da Felicitas Roher, studentessa di veterinaria che nel 2009, a soli 25 anni, rischiò di morire a seguito di una grave embolia polmonare occorsa dopo avere iniziato ad assumere la pillola contraccettiva Yasmine, contenente drospirenone come componente progestinica. 

Secondo il rapporto annuale della casa farmaceutica tedesca, solo negli Stati Uniti al 31 gennaio 2015 la Bayer ha raggiunto accordi senza ammissione di colpa con 9.500 donne che hanno lamentato danni derivanti dai prodotti contraccettivi contenenti drospirenone (Yasmine/Yaz) per un totale di 1,9 miliardi di dollari in risarcimenti già sborsati. Altri migliaia di casi sono pendenti o in corso di valutazione. Le pillole contenenti drospirenone, per il basso contenuto estrogenico e per le proprietà di contrasto alla ritenzione idrica e all'acne, sono state molto pubblicizzate e prescritte alle fasce di età più giovani, tra le quali, molto semplicisticamente sono state percepite come le pillole "leggere" e come tali innocue, o quanto meno meno nocive.

Le maggiori agenzie del farmaco si sono occupate ripetutamente della questione. Tra il 2011 e il 2012 l'americana Food and Drug Administration (Fda) ha condotto una revisione della letteratura anche con uno studio in proprio per giungere alla conclusione che «le donne dovrebbero parlare col loro medico circa il loro rischio trombotico prima di decidere quale metodo di controllo delle nascite usare. I sanitari dovrebbero considerare i rischi e benefici delle pillole contenenti drospirenone e il rischio della donna di sviluppare trombosi prima di prescrivere questi farmaci». Secondo un grafico della Fda la probabilità annuale per una donna di sviluppare trombosi/embolia è pari a 1-5 casi ogni diecimila, ma l'assunzione delle pillole estroprogestiniche fa crescere il rischio a 3-9 casi. Il rischio trombotico con le pillole contenenti drospirenone risulta più elevato rispetto al rischio connesso alle pillole contenenti come progestinico il levonorgestrel con differenze da studio a studio che vanno dal 50% (studio Fda) fino a raddoppiare in altri studi (Stegeman, British Medical Journal 2013). 

Secondo l'Agenzia Europea del Farmaco (Ema) il rischio di trombosi venosa passa da 2 casi ogni 10.000 per le donne che non assumono pillola a 5-7/diecimila per quelle che assumono le pillole di seconda generazione e arrivare a 9-12/diecimila per le utilizzatrici di pillole al drospirenone. Nonostante questo anche l'Ema ha concluso che «i benefici dei contraccettivi ormonali combinati nel prevenire le gravidanze indesiderate continuano a superare i rischi». Questo si deve al fatto che il rischio trombotico durante la gravidanza si situa a 5-20 casi ogni diecimila utilizzatrici e raggiunge i 40-65/diecimila nei tre mesi dopo il parto. 

Queste analisi ovviamente non tendono a considerare alcuni fattori come il fumo (il rischio trombotico aumenta associando pillola e fumo) e le donne in gravidanza e dopo il parto tendono a cessare di fumare. E non tengono neppure in considerazione l'effetto esercitato dalla contraccezione nello “slatentizzare” comportamenti sessualmente attivi (effetto noto come compensazione del rischio). Nell'aprile 2014 la prestigiosa rivista PLOSone ha condotto un'analisi dei casi stimabili di tromboembolia in Francia concludendo per 2.497 casi di tromboembolia ogni anno attribuibili all'uso dei contraccettivi ormonali di cui 1.831 (circa il 73%) legati alle pillole di terza e quarta generazione, categoria di cui le pillole della Bayer fanno parte. È invece pari a 19 il numero di donne morte stimato ogni anno di cui 14 connesse all'assunzione di pillole di III-IV generazione. Se consideriamo che il numero di utilizzatrici di pillola in Italia è meno della metà rispetto alle Francia, i numeri dovrebbero essere almeno dimezzati per il nostro Paese. 

Certo, in termini assoluti si può dire che si tratta di piccoli numeri, ma quando un evento del genere ti colpisce personalmente allora finisce che la legge della statistica conta come il pollo di Trilussa. Recentemente mi è capitato di visitare una ragazza che ha rischiato la vita per un'embolia polmonare massiva. La ginecologa le aveva prescritto la pillola senza effettuare lo screening per la trombofilia (condizione che si caratterizza per un più alto rischio trombotico a seguito di mutazioni genetiche che alterano la bilancia emostatica). Secondo il documento di consenso CeVEAS/ISS del 2008 «non si raccomanda, né prima di prescrivere un contraccettivo estroprogestinico, né durante l'uso, l'esecuzione routinaria di esami ematochimici generici, test generici di coagulazione, test specifici per trombofilia (compresi i test genetici)». 

Tuttavia, questa ragazza ad oggi soffre di una riduzione della capacità respiratoria, deve assumere ogni giorno anticoagulanti orali che le incrementano il rischio di sanguinamento, e psicofarmaci per lenire il disturbo post-traumatico che ha fatto seguito al trovarsi ad un passo dalla morte a meno di vent'anni. A qualche cardinale tardo sessantottino magari gli insegnanti dei metodi naturali di controllo della fertilità fanno storcere la bocca, ma se questa giovane donna avesse avuto la possibilità di conoscere e approcciarsi a questa possibilità, la sua vita sarebbe oggi diversa, e sicuramente migliore.

giovedì 10 settembre 2015

«Io obietto» Il caso Davis e le nostre leggi di Giorgio Carbone, 10-09-2015, http://www.lanuovabq.it/

La libertà di religione deve essere garantita dall'obiezione di coscienza
La libertà di religione deve essere garantita dall'obiezione di coscienzaL’eccellenza richiede sempre scienza e coscienza: se voglio compiere un’azione eccellente, dovrò agire con scienza e coscienza. Detto in altri termini, perché io possa mettere in atto un’azione virtuosa è necessario che io abbia conoscenza di quanto sto facendo e che io giudichi rettamente non solo le circostanze, ma anche la sostanza del mio atto e i miei obiettivi. L’azione virtuosa, qualsiasi sia la virtù implicata, richiede che io compia questa azione con la mia personale partecipazione. E quanto più tale partecipazione è completa e integrale, intelligente e volontaria, tanto maggiore sarà il progresso virtuoso e tanto più eccellente il risultato finale e il merito conseguente. Visto che ognuno di noi è chiamato a vivere virtuosamente, sarà giocoforza comportarsi con scienza e coscienza sempre, e non solo in alcune circostanze aspre dell’esistenza  e non solo nell’esercizio di alcune professioni.

Questo universale principio etico di agire secondo scienza e coscienza è strettamente connesso con il diritto-dovere di ricerca, di studio, di informazione, con il diritto-dovere di formazione di un personale giudizio circa le azioni da compiersi e con il principio etico di responsabilità personale. Proprio dall’universale principio etico di agire secondo scienza e coscienza deriva la cosiddetta clausola di coscienza o obiezione di coscienza: invocare la clausola di coscienza o fare obiezione di coscienza – che sono la stessa cosa – significa rifiutare di compiere un’azione prescritta dall’autorità, motivando tale rifiuto con la personale coerenza a principi fondamentali. Quindi, perché l’obiezione di coscienza sia eticamente lecita, si richiede che il rifiuto non sia espressione di un capriccio o di un arbitrio, ma sia manifestazione ragionevole di una fedeltà interiore a beni di capitale importanza. 

Se io non mi rifiutassi e quindi se io compissi l’atto prescritto dall’autorità questo bene fondamentale sarebbe leso. Proprio per non partecipare alla lesione di questo bene fondamentale, obietto e invoco la clausola di coscienza. L’obiettore non è né un ribelle, né un disobbediente. È piuttosto un testimone dell’eccellenza del bene che altrimenti sarebbe leso, esprime l’incondizionata fedeltà a un bene non-negoziabile. Ad esempio il medico, ginecologo o anestesista, che obietta davanti alla proposta o all’ordine di partecipare a un aborto, testimonia con fedeltà che è in gioco un bene fondamentale, la vita di un essere umano di età embrionale o fetale. Il medico di famiglia e il farmacista che invocano l’obiezione di coscienza per non prescrivere e non vendere prodotti chimici contraccettivi affermano indirettamente l’eccellenza del bene della salute della donna – visto che nessun contraccettivo chimico è esente da controindicazioni e effetti collaterali –, e la serietà dell’atto coniugale – visto che l’atto coniugale per essere autentico amore richiede la donazione totale e senza riserve di un coniuge all’altro.

Dal punto di vista giuridico l’obiezione di coscienza è il risvolto negativo della libertà di espressione del pensiero e della libertà religiosa. Ad esempio, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, votata dalle Nazioni Unite il 10/12/1948, all’art. 18 sancisce: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione». L’obiezione di coscienza trova sempre maggiori ambiti di applicazione negli Stati democratici e liberali. Lo Stato ha la potestà di imporre, mediante leggi e in forza di queste mediante organi amministrativi e giudiziari, determinati comportamenti ai cittadini: si tratta degli obblighi giuridici. Una volta si riteneva che il fondamento di questi obblighi giuridici fosse la volontà sovrana del re o dello Stato. Oggi questi obblighi giuridici sono visti come strumenti di salvaguardia e di protezione dei diritti inviolabili dell’uomo o se si preferisce dei beni non-negoziabili. In passato ciò che contava era il potere di imperio dello Stato, mentre il cittadino era un mero suddito rispetto alle disposizioni dell’autorità. 

Oggi, invece, al centro c’è il singolo uomo, che è il titolare di diritti fondamentali non-negoziabili, cioè non soggetti a deroga o a eccezione. E, quindi, nell’attuale sistema l’insieme degli obblighi e dei divieti giuridici è funzionale alla reale fruizione dei diritti umani. In questo sistema giuridico liberale l’obiezione di coscienza è una facoltà che lo Stato riconosce ai cittadini: determinati precetti e obblighi giuridici, che oggettivamente compromettono beni fondamentali, non sono vincolanti quando il cittadino invoca la clausola di coscienza proprio al fine di non partecipare e non essere coinvolto nella lesione di un bene fondamentale. Con chiarezza la Corte costituzionale (sentenza n. 467/1991) afferma che: «La protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 Cost. [... È] un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili».

La storia della salvezza ci presenta vari casi di obiezione di coscienza. Si pensi alle levatrici egiziane, Sifra e Pua, che non danno seguito all’ordine del faraone di uccidere i neonati delle donne ebree (Esodo 1,15-21). Oppure agli apostoli Pietro e Giovanni: l’autorità locale, il sinedrio dà loro un ordine e loro non ottemperano. I membri del sinedrio dicono: «“Perché non si divulghi maggiormente tra il popolo [la notizia della guarigione compiuta nel nome di Gesù], proibiamo loro con minacce di parlare ancora ad alcuno in quel nome”. Li richiamarono e ordinarono loro di non parlare in alcun modo né di insegnare nel nome di Gesù. Ma Pietro e Giovanni replicarono: “Se sia giusto dinnanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato”» (Atti 4,17-20).

La cronaca dei nostri giorni ci presenta molti casi di fedeltà ai beni umani non-negoziabili. Ad esempio la vicenda di Kim Davis, cancelliera della Contea rurale di Rowan, Kentucky, che è finita in galera per non aver firmato le licenze di matrimonio per quattro coppie, due delle quali formate da omosessuali. Ha invocato la libertà di coscienza proprio per non esser complice nello stravolgimento dell’istituto del matrimonio. Ed è arduo negare che il matrimonio non sia un bene di capitale importanza per la pacifica convivenza civile e il futuro delle generazioni umane. Inoltre è paradossale che ciò accada negli Stati Uniti d’America che si staccarono dal Regno Unito proprio per difendere e promuovere la libertà di coscienza e di religione. La libertà di coscienza e la facoltà di usare la clausola di coscienza sono l’espressione pratico-pratica della libertà di pensiero e di religione. Un parlamento può varare decine e decine di leggi sulla libertà di pensiero e di religione, ma perché queste non rimangano solo a livello teorico e meramente intellettuale, dovrà prevedere in concreto delle fattispecie in cui è riconosciuta l’obiezione di coscienza. 

Se, poi, questi beni fondamentali dell’uomo (cioè la libertà di coscienza, la libertà religiosa e l’obiezione di coscienza) sono violati a norma di legge e a suon di sentenze – come accade nel caso di Kim Davis –, allora lo Stato cessa di essere democratico e liberale, e si presenta come illiberale e totalitario: sotto le eleganti vesti della democrazia politicamente ineccepibile si cela l’imposizione tirannica del pensiero unico. Basta con strane convinzioni sulla realtà del matrimonio, la Corte suprema ha stabilito cosa è il matrimonio, tutti si uniformino come bravi soldatini. Perciò, la libertà di coscienza e l’obiezione di coscienza sono un efficace baluardo a non esser ridotti a bravi soldatini dello Stato o ciechi burattini del pensiero unico, ma a vivere da attivi e ragionevoli cittadini.

mercoledì 9 settembre 2015

Aborto. Così la Cgil porta in Europa la sua guerra (ingiusta) alle coscienze dei lavoratori settembre 9, 2015 Redazione, http://www.tempi.it/


Lunedì 7 settembre a Strasburgo è arrivata (di nuovo) davanti al Comitato europeo dei diritti sociali, organo del Consiglio d’Europa, l’infinita disputa italiana in merito all’applicazione della legge 194, che secondo i fautori dell’aborto come “diritto” sarebbe messa a repentaglio da un molto presunto eccesso di medici obiettori. La particolarità di questo “nuovo” attacco alle coscienze dei lavoratori della sanità è che a presentare il reclamo è stata la Cgil.

L’ACCUSA. L’accusa del sindacato, contestata dal governo italiano all’udienza pubblica andata in scena l’altroieri, è la solita: nel nostro paese ci sono troppi medici obiettori (il 69,6 per cento dei ginecologi secondo i dati ufficiali), il loro rifiuto di praticare aborti rappresenta un ostacolo alla fornitura del “servizio” e genera un intollerabile sovraccarico di lavoro per i colleghi non obiettori, ragion per cui occorre limitare l’esercizio della libertà di coscienza. Per la cronaca, la denuncia della Cgil, che risale al 2013, ricalca un reclamo precedente presentato (con successo) dall’International Planned Parenthood Federation European Network, il movimento internazionale per la “pianificazione familiare” legato all’omonimo colosso americano delle cliniche abortive.

COME PLANNED PARENTHOOD. La disputa comunque è solo all’inizio e per adesso è in discussione solo l’ammissibilità o meno del reclamo che sta molto a cuore al segretario Susanna Camusso. E in ogni caso il Comitato europeo dei diritti sociali non è un organo decisionale né giudiziario, ma una commissione chiamata a valutare l’effettiva applicazione da parte degli Stati della “Carta europea dei diritti sociali”, sottoscritta dall’Italia nel 1996 e ratificata nel 1999. Già una volta il nostro paese è stato “condannato” da questo organismo per la presunta «violazione dei diritti delle donne» causata «dall’elevato e crescente numero dei medici obiettori di coscienza» rispetto alla 194: è successo l’anno scorso, proprio in merito al caso aperto da Planned Parenthood, e guarda caso la notizia della “bocciatura” è iniziata a circolare sui giornali l’8 marzo, quando non c’era ancora nulla di ufficiale.

NESSUN PROVVEDIMENTO. Sarebbe toccato al Consiglio dei ministri dell’Unione Europea dare un seguito concreto alle conclusioni raggiunte in quella occasione dal Comitato, adottando risoluzioni generali o addirittura prescrittive nei confronti dell’Italia. Tuttavia, dopo un’audizione del governo, Bruxelles si è limitata a pretendere da Roma una periodica relazione sullo stato delle cose, scelta di per sé già indicativa dell’alto tasso di pretestuosità e di ideologia che sta alla base del reclamo della Cgil.
Lunedì infatti il governo italiano in sostanza ha ribadito i dati contenuti nell’ultima relazione annuale sull’interruzione volontaria di gravidanza presentata nell’ottobre scorso dal ministero della Salute al Parlamento, strumento che, per inciso, rappresenta la più capillare raccolta di dati disponibile sul tema, frutto del lavoro della task force istituita da Beatrice Lorenzin proprio in conseguenza dell’ennesima polemica intorno ai medici obiettori.

I DATI. Premesso che il tema dell’organizzazione del lavoro dei medici attiene alle Regioni, e che il ministero interviene solo in caso di specifiche denunce, secondo il governo le criticità denunciate dalla Cgil non sussistono. L’interruzione volontaria di gravidanza, infatti, si effettua «nel 64 per cento delle strutture disponibili», e in sintesi sono tre i parametri che dimostrano che a livello nazionale l’offerta del “servizio” non è affatto in pericolo: 1) in quanto ai numeri, mentre gli aborti sono pari al 20 per cento delle nascite, i “punti Ivg” in Italia sono pari al 74 per cento dei “punti nascita”; 2) confrontando i dati rispetto alla popolazione femminile in età fertile, ogni 3 strutture in cui si pratica l’aborto, ce ne sono 4 in cui si partorisce; 3) riguardo al carico di lavoro dei medici abortisti, su 44 settimane lavorative annuali, in Italia ogni non obiettore effettua 1,4 aborti a settimana, valore che rappresenta la media tra il minimo registrato in Valle d’Aosta (0,4) al massimo del Lazio (4,2).
A Strasburgo la Cgil ha portato anche testimonianze di presunte azioni di mobbing esercitate in ospedali italiani nei confronti del personale non obiettore. Al ministero però – è la difesa del governo – non sono pervenute denunce circostanziate di disservizi o di altre irregolarità.

Foto Ansa

mercoledì 26 agosto 2015

Il gender nella "Buona Scuola" c'è eccome, di Gianfranco Amato, 26-08-2015, la nuova bussola quotidiana

Esiste o no un riferimento al “gender” nella legge sulla cosiddetta “Buona Scuola”? Cerchiamo di rispondere a questa che pare essere la domanda del momento.
Il pericolo gender, in realtà, si annida nel sedicesimo comma dell’art. 1 della legge, che testualmente recita così: «Il piano triennale dell'offerta formativa assicura l'attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall'articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n.119, nel rispetto dei limiti di spesa di cui all'articolo 5-bis, comma 1, primo periodo, del  predetto decreto-legge n. 93 del 2013».
L’insidia sta in due punti di questa disposizione normativa: il termine «violenza di genere» e il richiamo all’art. 5 della Legge 119/2013, la cosiddetta “Legge sul femminicidio”. Vediamo attentamente come stanno le cose.
Violenza di genere

L’esperienza ha ampiamente dimostrato che è proprio attraverso questa espressione che vengono surrettiziamente introdotti nelle scuole i corsi sulla teoria gender. La “violenza di genere” è diventata quello che il Cardinal Angelo Bagnasco, con un’espressione efficacemente evocativa, ha lucidamente denunciato come un cavallo di Troia. Qualcuno sostiene che il Cardinale abbia preso lucciole per lanterne, ma non è così. Che non si tratti di un abbaglio del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana lo dimostra l’ordine del giorno n. 9/2994-B/5 approvato dalla Camera dei Deputati lo scorso 8 luglio. Con quel documento parlamentare, infatti, la Camera dei Deputati, dopo aver preso atto, nella premessa, del fatto che proprio il concetto di “violenza di genere” del citato comma 16, «ha comportato una serie di storture applicative, che sono andate ben al di là dell’istanza, da tutti condivisa, di prevenire la violenza di genere e le discriminazioni», ha impegnato il Governo «in sede di applicazione del comma 16 del provvedimento in esame, ad escludere ogni interpretazione che apra alle cosiddette “teorie del gender”». Per gli increduli ed i negazionisti facciamo presente che il citato ordine del giorno si trova pubblicato a pagina 87 dell’allegato “A” ai resoconti stenografici della Camera dei Deputati relativi alla seduta dell’8 luglio 2015.
La Legge sul Femminicidio

La seconda insidia sta nel richiamo espresso all’art.5 della cosiddetta “Legge sul femminicidio”, articolo che porta il titolo di “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”. In pratica la legge sulla “Buona Scuola” dice che il piano triennale dell’offerta formativa deve «informare e sensibilizzare gli studenti, i docenti  e  i  genitori sulle tematiche indicate nel Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere». Ma cosa prevede quel Piano d’azione espressamente richiamato nel sedicesimo comma dell’art.1? Al punto 5.2 (Educazione), il Piano recita testualmente così: «(…) Obiettivo prioritario deve essere quello di educare alla parità e al rispetto delle differenze, in particolare per superare gli stereotipi che riguardano il ruolo sociale, la rappresentazione e il significato dell’essere donne e uomini, ragazzi e ragazze, bambine e bambini nel rispetto dell’identità di genere, culturale, religiosa, dell’orientamento sessuale (…) sia attraverso la formazione del personale della scuola e dei docenti, sia mediante l’inserimento di un approccio di genere nella pratica educativa e didattica».
Identità di genere

Ora, chi pretende di trovare nella legge la parola inglese “gender” è destinato a rimanere inesorabilmente deluso. Per il semplice fatto che in Italia i documenti del governo e le leggi vengono redatte rigorosamente in lingua italiana. Nonostante l’ostentata anglofilia del Premier Renzi e la sua spiccata propensione per l’idioma di Shakespeare – in cui, però, è bravo negli scritti ma zoppicante in orale – oggi nel nostro Paese le leggi vengono ancora scritte con la lingua di Dante. La traduzione ufficiale della parola “gender” che il governo ed il legislatore utilizza è “identità di genere”.
Lo spiega bene, ad esempio, il documento governativo intitolato “Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT”, redatto dall’U.N.A.R., Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziale, un ufficio del Dipartimento delle Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. A pagina 7, quel documento del Governo definisce l’identità di genere come «il senso intimo, profondo e soggettivo di appartenenza alle categorie sociali e culturali di uomo e donna, ovvero ciò che permette a un individuo di dire: “Io sono un uomo, io sono una donna”, indipendentemente dal sesso anatomico di nascita».
Quel documento del governo specifica bene la differenza tra genere e sesso, precisando che mentre il sesso è costituito dalle «caratteristiche biologiche e anatomiche del maschio e della femmina, determinate dai cromosomi sessuali», il genere è, appunto, «la percezione soggettiva di appartenere ad una delle categorie sociali e culturali di uomo e donna, indipendentemente dal sesso anatomico».
Utile evidenziare anche quanto si leggeva all’art.1, lett. b), del testo unificato adottato come testo base il 9 luglio 2013 dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, recante norme in materia di discriminazioni motivate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere. Questo era il tenore letterale di quella disposizione: «Ai fini della legge penale si intende per “identità di genere” la percezione che una persona ha di sé come appartenente al genere femminile o maschile, anche se opposto al proprio sesso biologico». Anche in questo caso, increduli e negazionisti possono trovare il testo a pagina 73 del Bollettino delle Giunte e delle Commissioni parlamentari del 9 luglio 2013.
In realtà è proprio l’erronea considerazione che uomo e donna siano semplici categorie sociali e culturali, unita all’idea che si possa scegliere di appartenere all’una o all’altra categoria indipendentemente dal sesso biologico, che sta alla base della teoria gender, così duramente ed aspramente condannata da Papa Francesco, al punto da essere stata da lui definita «uno sbaglio della mente umana che crea tanta confusione», il 21 aprile 2015 durante il suo incontro con i giovani di Napoli nel Lungomare Caracciolo.
All’Udienza Generale tenuta in Piazza San Pietro il 15 aprile 2015, il Santo Padre si è chiesto pubblicamente quanto segue: «Io mi domando, se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Sì, rischiamo di fare un passo indietro. La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione».
Ed è proprio il tentativo odioso di indottrinamento di questa teoria nelle scuole che continua ad essere una costante preoccupazione di Papa Francesco, che non perde occasione per esprimere la sua dura denuncia a riguardo. Durante il discorso alla Delegazione dell’Ufficio Internazionale Cattolico dell’Infanzia (BICE) tenuto l’11 aprile 2015, il Santo Padre ha affermato che «occorre sostenere il diritto dei genitori all’educazione dei propri figli, e rifiutare ogni tipo di sperimentazione educativa sui bambini e giovani, usati come cavie da laboratorio, in scuole che somigliano sempre di più a campi di rieducazione e che ricordano gli orrori della manipolazione educativa già vissuta nelle grandi dittature genocide del secolo XX, oggi sostitute dalla dittatura del “pensiero unico”».
Nel suo viaggio di ritorno dalle Filippine, il 19 gennaio 2015, Papa Francesco, rispondendo ad una domanda di Jan-Christoph Kitzler, giornalista della radio tedesca Ard, è tornato ancora una volta a parlare della teoria gender definendola «una colonizzazione ideologica» identica a quella praticata attraverso l’indottrinamento della «Gioventù Hitleriana» durante gli anni bui del regime nazionalsocialista del Terzo Reich. Queste le sue parole testuali pronunciate rievocando un ricordo personale: «Vent’anni fa, nel 1995, una Ministro dell’Istruzione Pubblica aveva chiesto un grosso prestito per fare la costruzione di scuole per i poveri. Le hanno dato il prestito a condizione che nelle scuole ci fosse un libro per i bambini di un certo grado di scuola. Era un libro di scuola, un libro preparato bene didatticamente, dove si insegnava la teoria del gender. (…) Questa è la colonizzazione ideologica: entrano in un popolo con un’idea che non ha niente a che fare col popolo; con gruppi del popolo sì, ma non col popolo, e colonizzano il popolo con un’idea che cambia o vuol cambiare una mentalità o una struttura. (…) Perché dico “colonizzazione ideologica”? Perché prendono proprio il bisogno di un popolo o l’opportunità di entrare e rafforzarsi, per mezzo dei bambini. Ma non è una novità questa. Lo stesso hanno fatto le dittature del secolo scorso. Sono entrate con la loro dottrina. Pensate ai “Balilla”, pensate alla Gioventù Hitleriana... Hanno colonizzato il popolo, volevano farlo. Ma quanta sofferenza!».
Papa Francesco ha, inoltre, ben chiara quale sia l’attuale situazione delle scuole italiane riguardo all’indottrinamento gender. Lo ha dimostrato quando, nel discorso di apertura del convegno ecclesiale della Diocesi di Roma, tenuto in Piazza San Pietro il 14 giugno 2015, ha pronunciato queste parole: «I nostri ragazzi, ragazzini, che cominciano a sentire queste idee strane, queste colonizzazioni ideologiche che avvelenano l’anima e la famiglia: si deve agire contro questo. Mi diceva, due settimane fa, una persona, un uomo molto cattolico, bravo, giovane, che i suoi ragazzini andavano in prima e seconda elementare e che la sera, lui e sua moglie tante volte dovevano “ri-catechizzare” i bambini, i ragazzi, per quello che riportavano da alcuni professori della scuola o per quello che dicevano i libri che davano lì. Queste colonizzazioni ideologiche, che fanno tanto male e distruggono una società, un Paese, una famiglia. E per questo abbiamo bisogno di una vera e propria rinascita morale e spirituale».
Abbiamo appreso che la Diocesi di Padova, con un proprio comunicato, ha rassicurato i fedeli sul fatto che la legge sulla cosiddetta “Buona Scuola” non contenga alcun riferimento al “gender”. Colpisce il fatto che questa affermazione non si sia basata su un’attenta analisi critica del testo normativo ma sulle rassicurazioni ottenute dagli esponenti del governo. Una Chiesa che non vaglia la realtà alla luce della fede e della ragione ma si affida alle rassicurazioni del potere civile, forse non è una Chiesa attenta agli ammonimenti del Vicario di Cristo. La Diocesi di Padova afferma, confidando sulle parole del governo, che nelle scuole non viene e non verrà mai introdotta alcuna teoria gender, mentre il Papa denuncia il fatto che già oggi genitori siano costretti a “ri-catechizzare” «i bambini, i ragazzi, per quello che riportano da alcuni professori della scuola o per quello che dicono i libri che danno lì». Uno dei due non ha l’esatta percezione di quello che sta accadendo. E noi non abbiamo alcun dubbio che, in questo caso, a sbagliare sia la Diocesi di Padova e non Papa Francesco.

giovedì 13 agosto 2015

13-08-2015 Poligamia gay - In Olanda sta cominciando di Tommaso Scandroglio, www.lanuonabq.it

In Olanda esiste la multigenitorialità gay o le plurifamiglie omosessuali. Si tratta di questo ed attenzione a non perdervi tra i legami di “parentela”. Jaco e Sjoerd sono una coppia di omosessuali maschi “sposati” tra loro. Hanno anche un altro amico omosessuale, Sean, che ha rapporti sessuali con loro. Jaco e Sjoerd vorrebbero sposare anche Sean ma purtroppo, loro dicono, la poligamia sia etero che omosessuale è vietata in Olanda: ”Jaco e io siamo sposati da otto anni. Purtroppo non possiamo sposare Sean, altrimenti lo avremmo già fatto in un batter d’occhio“. Ma proseguiamo. Daantje e Dewi sono una coppia lesbica. Anche loro sono “sposate”. I cinque si conoscono da anni. La coppia lesbica avrà un figlio tramite una sesta persona. Ora vogliono che questo figlio sia educato da tutti e cinque gli omosessuali. Dunque si sono recati dal notaio per sottoscrivere un regolare contratto di educazione multigenitoriale gay: “Cinque genitori con uguali diritti e doveri, divisi in due famiglie: queste sono le condizioni del contratto che tutti noi abbiamo firmato e sottoposto al notaio“.
Ma per i Paesi Bassi questo tipo di contratto non ha valore legale. Però dato che cinque teste gay pensano meglio di una etero, soprattutto quando è quella di un politico leguleio, le due “famiglie” hanno trovato la scappatoia. In Olanda c’è la possibilità che la madre biologica nomini, in sostituzione del padre biologico o del coniuge (anche gay), un altro genitore legale. E così Jaco è stato nominato genitore legale al posto di Dewi. “Abbiamo voluto fare in modo che ci fosse un genitore legale in entrambe le famiglie, perché divideremo anche l’educazione“, ha detto quest’ultima.
La vicenda olandese che pare presa di peso dal teatro dell’assurdo è in realtà molto educativa perché apre gli occhi sulla reale rivoluzione che il gender ha innescato nell’antropologia e nel tessuto familiare. Dietro tutto questo si nasconde una logica tanto demente quanto ferrea che, se accettata, non può che portare a legittimare la multi-omo-genitorialità. Primo: perché limitare il matrimonio a due persone se il cardine è l’affetto? Tre amici non si possono volere così bene da desiderare di sposarsi? Secondo: se due gay – così si sostiene – possono egregiamente tirare grande un pupo, perché devono essere presenti nella stessa famiglia? Terzo: se “famiglia” è anche quella composta da una coppia gay, perché famiglia non può essere anche quella composta da cinque gay? Quarto: se il figlio può venire al mondo con il concorso anche di quattro o cinque persone, tra madri e padri biologici, donne che danno l’utero ed altre che “donano” il dna mitocondriale, perché parimenti non può essere educato sempre da più persone? Più gente c’è meglio è, no? Lo ripetiamo: se fai tue le premesse non puoi che accogliere anche le conclusioni.
Queste quattro domande provocatorie possono coagularsi in un’unica riflessione. La storia made in Netherlands trova il suo cuore pulsante in una parola: “desiderio”. Il desiderio per sua natura si espande all’infinito. Se lo lasciate correre a briglie sciolte,  state pur certi che il desiderio non farà più ritorno a casa ma vi porterà lontano, molto lontano.
Ed infatti questa storia di genitori elevati alla “n” ha una dinamica centrifuga e al centro di questa omo-lavatrice c’è il desiderio. Un uomo desidera avere una relazione con un uomo. I due vogliono “sposarsi”. Questa coppia di “coniugi” conosce un terzo e avrebbero in animo di allargare la “famiglia”. I tre conoscono una coppia di lesbiche e desiderano allargare ancor di più la “famiglia”. La coppia lesbica anche lei vuole “sposarsi” e poi vuole un bambino. I cinque desiderano crescere tutti appassionatamente il pupo. E nessuno li ferma in questi loro propositi perché si pensa che siano desideri sacrosanti. Qualcuno all’opposto dice che vorrebbe vietare tutte queste cose. E no, questi tipi di desideri non devono essere assecondati. Liberals sì, ma fino ad un certo punto. Un punto ben piantato nel fondo della follia.

mercoledì 5 agosto 2015

Indottrinamento obbligatorio su linguaggi e categorie di pensiero, di Giovanni Lazzaretti, 24 luglio 2015, http://vanthuanobservatory.org/

Analizziamo insieme il DDL Fedeli sull'insegnamento Gender nelle scuole pubbliche

Vale la pena di analizzare il DDL Fedeli quando l’educazione di genere sembra ormai essersi infilata di straforo nel sistema scolastico, attraverso il voto di fiducia sulla cosiddetta “Buona Scuola”? Vale certamente la pena di analizzarlo.
Esaminiamolo dando innanzitutto il titolo esatto: “Introduzione dell’educazione di genere e della prospettiva di genere nelle attività e nei materiali didattici delle scuole del sistema nazionale di istruzione e nelle università”.
Porta la firma di Valeria Fedeli, vicepresidente del Senato; i firmatari sono in tutto 40: 35 senatori del PD, 1 dei “Conservatori, Riformisti Italiani”, 1 del PSI-Autonomie, 1 del gruppo Misto-SEL, 2 del gruppo Misto.
Rileviamo fin dal titolo che si rivolge al sistema nazionale di istruzione e alle università: quindi tutte le scuole, anche le materne, anche le scuole paritarie, anche le scuole paritarie cattoliche, anche le università dove si formano i futuri formatori. Punta alle attività e ai materiali didattici: non quindi i classici “corsi opzionali”, ma un inserimento nel cuore della formazione curriculare.
Una premessa e sei articoli
Il DDL Fedeli è costituito da una lunga premessa di presentazione e da 6 articoli.
Art. 1 - Introduzione dell’insegnamento dell’educazione di genere
Si parte nella maniera classica «per la realizzazione dei princìpi di eguaglianza, pari opportunità e piena cittadinanza nella realtà sociale contemporanea».
Al comma 2 si dà il primo “colpetto”: «promozione di cambiamenti nei modelli comportamentali al fine di eliminare stereotipi, pregiudizi, costumi, tradizioni e altre pratiche socio-culturali fondati sulla differenziazione delle persone in base al sesso di appartenenza». La corporeità sessuata come superficie neutra comincia a prendere consistenza.
Art. 2 - Linee guida dell’insegnamento dell’educazione di genere
Il sesso, citato all’art.1, sparisce. La citazione infatti serviva solo a “far credere” che si parlasse dei due sessi. Da qui in poi il sesso scompare (nei titoli non compare nemmeno) e si parla solo di genere. I numeri parlano da soli: il sesso compare 3 volte nella premessa (+ altre 5 volte in connotazione negativa: “sessismo” e simili) e 2 volte negli articoli del DDL; il genere compare 30 volte nella premessa, 4 volte nei titoli, 8 volte negli articoli.
La “parità dei sessi” è quindi il cavallo di Troia per far entrare il gender nelle scuole. I richiami continui alle linee europee (12 volte è citata l’Europa nella premessa) non lasciano dubbi in proposito.
Da adesso si parla di «linee guida dell’insegnamento dell’educazione di genere che forniscano indicazioni per includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado, tenuto conto del livello cognitivo degli alunni, i temi dell’uguaglianza, delle pari opportunità, della piena cittadinanza delle persone, delle differenze di genere, dei ruoli non stereotipati, della soluzione non violenta dei conflitti nei rapporti interpersonali, della violenza contro le donne basata sul genere e del diritto all’integrità personale».
Art. 3 - Formazione e aggiornamento del personale docente e scolastico
«[…] corsi di formazione obbligatoria […] per il personale docente e scolastico». Indottrinamento gender obbligatorio: le organizzazioni che fanno questo tipo di corsi sono tutte di area LGBT.
Art. 4 - Università
«Le università provvedono a inserire nella propria offerta formativa corsi di studi di genere o a potenziare i corsi di studi di genere già esistenti, anche al fine di formare le competenze per l’insegnamento dell’educazione di genere di cui all’articolo 1».
Formare i formatori è l’ovvio corollario. Chi si occupa degli “studi di genere” sono solamente gli “ideologi del gender”, e saranno i padroni dell’Università in questo campo. Se non sei ideologizzato, come puoi occuparti di questi studi, che non tengono conto delle due cose basilari del sapere, ossia la realtà osservabile e la logica?
Art. 5 - Libri di testo e materiali didattici
«A decorrere dall’anno scolastico 2015/ 2016, le istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado adottano libri di testo e materiali didattici corredati dall’autodichiarazione delle case editrici che attestino il rispetto delle indicazioni contenute nel codice di autoregolamentazione «Pari opportunità nei libri di testo» (POLITE)».
Anche in questo testo il genere domina e il sesso sparisce: 14 volte “genere”, 1 volta “sessi” (ma è in una frase subordinata al concetto di “identità di genere”). Cavallo di Troia è la frase “culture e competenze di ambedue i generi”.
Art. 6 - Copertura finanziaria
La copertura finanziaria non viene assicurata con nuove tasse, ma con la «riduzione complessiva dei regimi di esenzione, esclusione e favore fiscale, di cui all’allegato C-bis del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98».
Minori detrazioni significa nuove tasse, ma i nostri parlamentari sono abili a giocare con le parole.
I cavalli di Troia e il vocabolario gender
Nel DDL Fedeli i cavalli di Troia per introdurre l’ideologia gender ci sono tutti: Pari opportunità (12 volte), Differenze (11 volte), Discriminazione (3 volte), Violenza [contro le donne] (8 volte).
Non si parla di “omofobia” per un motivo molto semplice: il DDL Fedeli lavora in sinergia col DDL Scalfarotto sulla cosiddetta omofobia. Ad esempio il DDL Fedeli non definisce la “identità di genere”, ma dà per scontata la definizione del DDL Scalfarotto: «identità di genere: la percezione che una persona ha di sé come uomo o donna, anche se non corrispondente al proprio sesso biologico».
Il vocabolario gender invade tutto il DDL Fedeli: Identità di genere (7 volte), Stereotipo, e varianti (18 volte), Decostruzione (2 volte), Sessismo, e varianti (5 volte), Ruoli stereotipati, ruoli non stereotipati (3 volte).
Sì, è un DDL molto pericoloso. Introduce dall’alto un linguaggio e una cultura che nelle scuole è già largamente presente, ma solo per “osmosi” attraverso la mentalità gender che gli insegnanti, come tutti, bevono da giornali e TV. Qui invece si passa all’indottrinamento obbligatorio su linguaggi e categorie di pensiero create da una piccola minoranza ideologizzata.
Giovanni Lazzaretti