mercoledì 29 luglio 2015

Psicologi contro il gender, 27 luglio 2015 - http://www.zenit.org/

Risposta di un gruppo di professionisti al presidente dell'Ordine degli Psicologi delle Marche, secondo cui "non esiste l'ideologia gender". Il primo firmatario Paolo Scapellato: "In corso un conflitto antropologico"


Roma, 27 Luglio 2015 (ZENIT.org) Federico Cenci 


Non solo genitori e insegnanti, contro il gender prende posizione anche il mondo della scienza. Un nutrito gruppo di psicologi marchigiani ha deciso di intervenire per districare con una luce scientifica l’oscura matassa dell’ideologia. Tutto ha avuto inizio poco dopo la manifestazione del 20 giugno in piazza San Giovanni, quando un milione di persone ha urlato il proprio disappunto nei confronti dell’indottrinamento ideologico degli alunni.

Vera e propria sollevazione popolare che, com’era prevedibile, ha scatenato polemiche. Nell’acceso dibattito si è lanciato anche il dott. Luca Pierucci, presidente dell’Ordine degli Psicologi delle Marche, che si è unito al coro dei detrattori. Usando un’argomentazione molto in voga in alcuni ambienti culturali - “Non esiste l’ideologia del gender” - Pierucci ha contestato quanti sono scesi in strada. E li ha ammoniti, a nome del suo Ordine, che “non si possano e non si debbano utilizzare e distorcere informazioni basate su ricerche e studi scientifici a fini propagandistici e confusivi”.

La scelta di cooptare i suoi colleghi, spiegando inoltre che l’Ordine “continuerà a promuovere iniziative sul tema (degli studi di genere, ndr) al fine di contrastare la disinformazione”, ha tuttavia suscitato una reazione da parte degli stessi. 18 professionisti delle Marche hanno redatto una nota in cui prendono le distanze dalle dichiarazioni del loro presidente.

Primo firmatario della nota, il dott. Paolo Scapellato, psicologo e psicoterapeuta maceratese e docente di Psicologia clinica presso l'Università Europea di Roma, intervistato da ZENIT fornisce una serie di precisazioni.

In primo luogo egli sottolinea che “tra i principi ben definiti da cui parte l'educazione gender ci sono alcuni principi che non sono tali, nel senso che non sono scientificamente condivisi dalla comunità degli psicologi”. Pertanto, rileva che "ci sono dubbi sulle modalità di lavoro” adottate nei corsi agli studi di genere che si propone di introdurre nelle scuole il decreto Fedeli, “e altri dubbi sul reale nesso causale tra questo tipo di educazione e la lotta all'omofobia e alle discriminazioni di genere”.

Sempre a proposito del decreto in questione, Scapellato ritiene che, “essendo stato un lavoro sotterraneo da parte delle associazioni Lgbt e del Governo, si è cercato di far passare la legge sfruttando la ‘distrazione’ dei politici e non sollevando troppo interesse da parte della società civile; questo tentativo però è sfumato e davanti alle sollevazioni popolari che ne sono conseguite la nuova linea guida è minimizzare, nella speranza che tutto torni sotto soglia e si possa continuare a lavorare nell'ombra”.

Scapellato spiega che con l’Associazione di Promozione Sociale Praxis, di cui è presidente, sono dieci anni che svolge corsi di educazione sessuale nelle scuole. Conosce quindi la realtà degli alunni e di qui nasce la sua convinzione che “questa educazione gender rischia di creare più confusione nei nostri figli di quella che già hanno”. Educazione gender che riverbera dagli “Standard per l’educazione sessuale in Europa” dell’ufficio europeo dell’Oms. Scapellato ritiene che dietro alcuni condivisibili fini dichiarati su questo documento, come la lotta alle discriminazioni e agli atteggiamenti cosiddetti omofobici, si intravedano “altri fini non dichiarati e preoccupanti”.

Lo psicologo maceratese ricorda che il principio alla base è “che non solo il ruolo di genere, cioè cosa un bambino deve fare in quanto maschio e una bambina in quanto femmina, ma anche l'identità di genere, cioè il sentirsi maschio o femmina, e l'orientamento sessuale sono identificazioni esclusivamente dovute alla cultura dominante”. Di qui l’asserzione secondo cui - ricorda Scapellato - “ci si sente maschi non perché biologicamente maschi, ma perché è la cultura che ti spinge a identificarti come maschio; ci si sente eterosessuali perché la cultura dominante ha fatto passare l'eterosessualità come norma sociale, senza che ci sia un fattore naturale a influire”.

Ne derivano le “azioni educative gender”, che Scapellato elenca brevemente: “Insegnare ai bambini già a sei anni che possono essere eterosessuali, omosessuali, bisessuali, transessuali; fargli conoscere ed esplorare tali orientamenti; compiere una frattura tra l'affettività e la sessualità; quest'ultima, progressivamente dai 4 anni in poi, deve essere riconosciuta in tutte le sue parti (conoscenza dei genitali propri e dell’altro sesso, modalità di rapporti, gravidanze indesiderate, contraccettivi, aborti, fecondazione assistita, malattie sessuali, ecc.)”.

Azioni che Scapellato contesta, giacché “come tutta la psicologia dello sviluppo ha sempre sostenuto, l'identificazione sessuale e l'orientamento sessuale sono processi talmente complessi e intimi che investono il bambino in tutte le sue istanze coscienti e inconsce”. Quindi “presentargli la sessualità come mero appagamento di un impulso erotico contingente è riduttivo e crea senz'altro maggiore confusione nella sua mente, soprattutto quando è l'adulto che attribuisce al bambino i propri significati sessuali che egli evidentemente ancora non comprende”.

Scapellato rammenta che “l'evoluzione sessuale del bambino dipende dall'evoluzione della sua intera personalità e quindi non può avere gli stessi tempi tra un bambino e l'altro”. L’aver messo tappe troppo “precoci e uguali” per tutte le età è un rischio laddove vi siano sensibilità ancora non pronte. “Ritengo - prosegue lo psicologo - che per combattere le discriminazioni sia necessario far conoscere meglio e insegnare a rispettare la bellezza delle differenze, non annullarle del tutto: per combattere l'omofobia non occorre un mondo omosessuale, per combattere la violenza sulle donne non occorre creare un essere neutro”.

Alla luce di queste verità scientifiche e della nota di cui è primo firmatario, Scapellato auspica un nuovo intervento “chiarificatore” del presidente Pierucci. “Ma penso che non arriverà, a meno che non decida di tornare a posizioni super-partes come dovrebbe essere nella natura del suo incarico”, aggiunge.

Il problema, secondo Scapellato, riguarda non solo il mondo della psicologia. Sta avvenendo un più ampio “conflitto antropologico” tra una visione “interazionista” tra natura e cultura e una visione “culturalista” dove si nega l’esistenza, o comunque l’importanza, di una natura data. Questa seconda posizione trova oggi maggior consenso e lo testimonia anche la recente sentenza della Corte di Cassazione, la quale ha giudicato non più necessaria l’operazione chirurgica dell’apparato riproduttivo per la rettifica del sesso anagrafico sui documenti dello stato civile. “È una prova - commenta Scapellato - di come questa visione, denominata anche ‘pensiero unico’, abbia preso piede fin nelle strutture profonde della nostra società, avallate da alcuni gruppi politici che ne traggono consenso e voti a discapito del ‘bene comune’”.

(27 Luglio 2015) © Innovative Media Inc.

lunedì 27 luglio 2015

All'origine del gender. Quelle femministe senza sesso di Marco Respinti, 27-07-2015, http://www.lanuovabq.it/


All'origine dell'ideologia del gender Con buona pace della galassia Lgbt, la “teoria del gender” non solo esiste e fa danni, ma è documentabile, ha una storia e corre sulla bocca di certi profeti. O di certe profetesse, come la scrittrice francese Monique Wittig (1935-2003), scomparsa 80 anni fa il 13 luglio. Nella Sorbona occupata dalla contestazione del maggio 1968 fu tra le animatrici del crogiuolo da cui sorgerà il Mouvement de Libération des Femmes, un’organizzazione-ombrello che, mescolando marxismo, psicoanalisi ed ecologismo, federò il radicalismo femminista in nome del diritto alla contraccezione e all’aborto. Erano gli anni della “seconda ondata” femminista, che si caratterizzò per la forte sessualizzazione della “liberazione delle donne”. 

La prima, infatti, a cavallo tra Ottocento e Novecento, era stata quella delle suffragette che puntavano tutto sull’ottenimento del diritto di voto, e le cui leader statunitensi, da Elizabeth Cady Stanton (1815-1902) a Susan B. Anthony (1820-1906), erano rigorosamente antiabortiste. La terza, invece, sorta negli anni 1990, incarna la fase postmoderna, infeudatasi subito all’offensiva Lgbt e quindi corifea della “teoria di genere”. Nel passaggio dalla seconda alla terza ondata, il femminismo lesbico della Wittig, che faceva coppia fissa con la regista newyorkese Sande Zeig, è stato assolutamente strategico. Trasferitasi negli Stati Uniti nel 1976, dottore di ricerca all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi nel 1986, la Wittig insegna per anni in diversi atenei nordamericani e nel 1990 ottiene la cattedra di Women’s Studies nell’Università dell’Arizona di Tucson. Le sue pubblicazioni sono praticamente tutte di natura letteraria, un “flusso di coscienza” fatto di “poesie in prosa” scritte in uno stile spezzato e cerebrale.

L’Opoponax, del 1964 (trad. it. Einaudi, Torino 1966), immagina l’infanzia senza “sovrastrutture” né gerarchia né ordine temporale di una bambina. Le guerrigliere, del 1969 (trad. it., Autoproduzione delle Lesbacce incolte, Bologna 1996), è l’epica delle “Esse”, non-donne o forse oltre-donne che cancellano il “mondo patriarcale” fondando uno Stato sovrano di tribadi. Il corpo lesbico, del 1973 (Edizioni delle Donne, Milano 1976), è il “manifesto” del suo “femminismo materialista” in cui, sintetizza brillantemente Douglas Martin nell’estremo addio alla Wittig su The New York Times, (clicca qui) «le amanti lesbiche invadono letteralmente l’una il corpo dell’altra» e protagonista è «j/e», cioè la decostruzione/ricostruzione, come sarebbe piaciuto a Jacques Derrida (1930-2004), del pronome personale francese “je”, cioè dell’“io”, attraverso la scomposizione delle lettere del lessema e il loro successivo affastellamento visionario, spezzato per apparire indifferenziato e forzatamente asessuato o, meglio, trans-sessuato per annientare la natura: perché, spiega Simonetta Spinelli, esegeta della Wittig, «il femminile e il maschile sono il risultato di una convenzione sociale che il corpo lesbico, nella sua ricostruzione di sé per sé, cancella e rende insensata» (clicca qui). E poi Virgile, non, del 1985 (trad. it. Il Dito e La Luna, Milano 2006), che è una riscrittura parodistica in chiave lesbica de La Divina Commedia.

Il nucleo filosofico del pensiero della Wittig è comunque la raccolta di saggi The Straight Mind and Other Essays, del 1992, dove tra altri trovano posto One Is Not Born a Woman (“Non si nasce donna”), pubblicato originariamente in francese nel 1980, e quello che dà il titolo alla raccolta, The Straight Mind (“Il pensiero eterosessuale”), pubblicato originariamente nel 1980, ma prima letto a New York nel 1978 alla Modern Language Association Convention, dedicata quell’anno proprio alle lesbiche americane. La Modern Language Association Convention: non è un caso che le tesi dirompenti della Wittig facciano coming out in un assise di quel genere. La Wittig spiega perché in un altro scritto di quella medesima raccolta, Point of View: Universal or Particular?, appunti stilati traducendo in francese Spillway and Other Stories della scrittrice “cripto-lesbica” americana Djuna Barnes (1892-1982) con il titolo La passion (Flammarion, Parigi 1982; trad. it. La passione, Adelphi, Milano 1994): il gender non è la differenziazione tra maschile e femminile, ma il suo superamento per sublimazione in un pleroma unitario e indistinto, come nell’antichissimo sogno del pensiero gnostico. Il maschile è infatti il genere “forte”, che, dalla grammatica alla filosofia, diviene universale e passepartout, e così il femminile, genere particolare, viene oppresso, riassorbito e cancellato. 

Ma, come fanno la scrittura della Barnes e del francese Marcel Proust (1871-1922), omosessuale, occorre ripensare tutto rendendo obsoleti il maschile/femminile e la loro dicotomia/oppressione: un compito di liberazione totale che la “profezia lesbica” assolve perfettamente. La rivoluzione del linguaggio gender punta insomma a sovvertire dal profondo la parola, a rifare la lingua, a dare significati nuovi e arbitrari alla comunicazione del pensiero umano, un po’ come il “Newspeak” del romanzo 1984 di George Orwell (1903-1950) e un po’ come l’Humpty Dumpty de Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll (1832-1898): «Quando io uso una parola questa significa esattamente quello che dico io, né più né meno. […] Bisogna vedere chi è che comanda; è tutto qua».

One Is Not Born a Woman (clicca qui) riprende del resto il discorso là dove la femminista francese Simone de Beauvoir (1908-1986) lo aveva lasciato nel 1949 pubblicando Il secondo sesso (trad. it. Il Saggiatore, Milano 1961) e sentenziando: «Donna non si nasce, lo si diventa». Prosegue infatti la Wittig: «ciò che fa di una donna una donna è la sua specifica relazione sociale con un uomo, una relazione che ho già chiamato servaggio, una relazione che implica obblighi personali, fisici ed economici (“il tetto coniugale forzato”, le corvée domestiche, i doveri coniugali, l’illimitata produzione di figli, e così via), una relazione cui le lesbiche sfuggono rifiutandosi di diventare o di rimanere eterosessuali». Pertanto, occorre «[…] distruggere la “donna” […]», perché «[…] per ora il lesbismo fornisce l’unica forma sociale in cui possiamo vivere liberi. Il lesbismo è l’unico concetto che io conosca che sta oltre le categorie del sesso (donna e uomo) poiché il soggetto in questione (la lesbica) non è una donna né economicamente né politicamente né ideologicamente». 

Sulla medesima linea, ma ancora più compiutamente, è il ragionamento postmarxista di The Straight Mind (clicca qui), tradotto in italiano nel febbraio 1990 sul bollettino del Collegamento tra Lesbiche Italiane (CLI) da Rosanna Fiocchetto, tra le fondatrici del Cli, del Centro Femminista Separatista e degli Archivi Lesbici Italiani, altra esegeta della Wittig. The Straight Mind propone l’abbattimento dell’eterosessualità giudicata struttura borghese di potere politico ed economico oppressivo in funzione della quale vengono creati e imposti gli stereotipi “uomo”, “donna” ma anche “sesso” nell’illusione che siano reali. Come tale, «[…] la società eterosessuale è la società che non solo opprime le lesbiche e i gay, ma opprime anche molti differenti altri, opprime tutte le donne e molte categorie di uomini […]». Dunque «è la lotta di classe tra donne e uomini che abolirà gli uomini e le donne […]. Il concetto di differenza non ha nulla di ontologico in sé. È solo il modo in cui i padroni interpretano una situazione storica di dominio».

Ma, non potendo «[…] più essere […] donne e uomini», e dovendo «[…] queste, come classi e come categorie di pensiero o di linguaggio […] sparire politicamente, economicamente, ideologicamente», «se noi, come lesbiche e gay, continuiamo a parlare di noi stessi e a concepire noi stessi come donne e come uomini, siamo strumentali al mantenimento dell’eterosessualità». Bisogna allora rifuggire da questi stereotipi classisti, come fanno, ottenendo il loro “paradiso materialista”, le lesbiche della parodia Virgile, non dove, scrive la poetessa Nadia Agustoni (clicca qui), «[…] l’affermazione di una collettività non naturale ma di classe […] e nello stesso momento la distruzione delle categorie di dominio “dell’eterosessualità obbligatoria”). La fuoriuscita della lesbica dal femminile è definitiva […]».

 Dunque, «che cos’è una donna?», si domanda in sintesi e in apice la Wittig. «Francamente, è un problema che le lesbiche non hanno a causa di un cambiamento di prospettiva, e sarebbe scorretto dire che le lesbiche si associano, fanno l'amore, vivono con le donne, perché “donna” ha un significato solo nei sistemi eterosessuali di pensiero e nei sistemi economici eterosessuali. Le lesbiche non sono donne […]». È Prometeo che con l’omosessualismo si vendica finalmente della natura, annichilendola.

mercoledì 22 luglio 2015

Aberrante la sentenza europea sulle unioni gay di Massimo Introvigne, 21-07-2015, http://www.lanuovabq.it/


Manifestazione in favore dei matrimoni gayLa sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Cedu) “Oliari e altri contro Italia”. - sentenza di primo grado, dunque non definitiva è suscettibile di appello - che, sulla base del ricorso di cittadini italiani omosessuali, impone al nostro Paese di riconoscere in qualche modo le convivenze omosessuali, è una sentenza aberrante e pessima, ma non impone al Parlamento italiano di approvare la legge Cirinnà, come molti - per ignoranza o malizia - sostengono. La sentenza può essere spiegata in tre passaggi.

Primo: emana dalla Cedu, che non è un organo dell'Unione Europea, anzi per la precisazione con l'Unione Europea non ha nulla a che fare. Ci si dovrebbe dunque astenere dal consueto sciocchezzaio sul «rischiamo di essere buttato fuori dall'Europa», «siamo peggio della Grecia» e simili. Alla Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo aderiscono tutti i Paesi dell'area geografica europea, compresi Russia, Moldavia e perfino Turchia, che ovviamente non fanno parte dell'Unione Europea. La Cedu è una delle tanti Corti internazionali i cui giudici sono nominati con meccanismi oscuri alla maggioranza dei cittadini dei Paesi che ne patiscono le decisioni, senza neppure il minimo controllo democratico che il Parlamento europeo, che per lo meno è elettivo, assicura sulle istituzioni dell'Unione Europea. Le sue sentenze non sono direttamente applicabili nei Paesi membri, ma la violazione implica sanzioni e multe. Il potere di questo tipo di Corti, il cui funzionamento resta opaco alla maggioranza dei cittadini, rappresenta un esempio tipico della tecnocrazia denunciata da Benedetto XVI e Papa Francesco. Se questa sentenza indurrà un certo numero di Paesi - a partire da quelli dell'Europa dell'Est, Russia in testa, che difficilmente vorranno adeguarsi e introdurre le unioni omosessuali - a riflettere sul meccanismo della Cedu, a chiedere riforme e anche a smarcarsi forse tutto il male non sarà venuto per nuocere.

Secondo: la sentenza è tecnicamente aberrante perché - quando stabilisce un diritto delle coppie omosessuali conviventi a vedersi riconosciute in quanto tali - rappresenta un'entrata a gamba tesa gravissima nella sfera della sovranità dei singoli Stati, che evidentemente comprende l'ambito delicatissimo della famiglia. Non a caso la sentenza cita esplicitamente la decisione della Corte Suprema americana, che ha gravemente violato i diritti dei singoli Stati degli Stati Uniti. Ma la sentenza della Cedu è peggiore, perché i singoli Stati degli Stati Uniti partecipano a un'unione politica federale mentre ovviamente non c'è nessuna unione politica o federazione che tenga insieme Russia, Turchia, Moldavia e Paesi dell'Unione europea. La sentenza si basa anche su informazioni frammentarie e talora false. Afferma che l'opinione pubblica italiana è ampiamente favorevole alle unioni omosessuali, leggendo in modo unilaterale alcuni sondaggi e ignorandone altri, per non parlare di piazza San Giovanni e del milione di persone che sono andate in piazza a dire il contrario. Ci si chiede con quanto zelo il nostro governo abbia difeso l'Italia, che si ritrova condannata sulla base di informazioni in parte inesatte.

Terzo: la sentenza - che è lunga e va letta tutta - afferma che le coppie omosessuali che convivono hanno diritto a vedersi riconosciuti i «diritti fondamentali» che derivano dalla convivenza - non i semplici diritti di cui gode ogni cittadino alla vita, all'integrità fisica e così via - ma è attenta a precisare che sulle forme di questo riconoscimento gli Stati rimangono sovrani, citando sua precedente giurisprudenza in questo senso. Dunque non concedere nessun riconoscimento dei diritti dei conviventi in quanto conviventi - non solo in quanto persone umane - per la Cedu è inaccettabile. Ma da qui non discende alcun obbligo di adottare leggi come la Cirinnà. Esplicitamente la Cedu ricorda che nessuno Stato è obbligato a introdurre l'adozione omosessuale: e nella Cirinnà l'adozione c'è. L'articolo prevede l'adozione da parte di un convivente del figlio biologico o adottivo dell'altro, aprendo la strada anche all'utero in affitto. Né la Cedu impone cerimonie in Comune, richiami alla disciplina del matrimonio, reversibilità della pensione, specifiche normative sull'eredità. La pessima sentenza - che non va in alcun modo accettata - va dunque letta così: gli Stati sono tenuti a riconoscere in qualche modo le convivenze omosessuali, ma sui modi del riconoscimento i Parlamenti - e ci mancherebbe altro - restano sovrani.

Parlamentari, commentatori e vescovi dovrebbero tenerne conto. Idealmente, si dovrebbe auspicare una resistenza, nazionale e internazionale, alla sentenza della Cedu, che è comunque suscettibile di appello che confidiamo il governo italiano presenti immediatamente. Già sul tema del crocefisso nelle scuole una decisione di primo grado della Cedu aberrante e ostile all'Italia fu rovesciata in appello.

Se poi qualcuno in Parlamento volesse chiedersi quali obblighi la sentenza, pure non definitiva, della Cedu impone all'Italia, la risposta giuridica e non emotiva è che impone un qualche riconoscimento dei diritti che derivano dalle convivenze, ma non impone le adozioni, il richiamo alle norme sul matrimonio, le cerimonie pubbliche, la reversibilità della pensione, radicali innovazioni nella normativa ereditaria. Cioè non impone la Cirinnà. 

lunedì 20 luglio 2015

Usa. Il matrimonio gay, il «totalitarismo» dell’amore e la libertà dei cristiani. Di «portare la croce» luglio 19, 2015 Benedetta Frigerio, http://www.tempi.it/


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Davvero la sentenza della Corte suprema che ha imposto a tutti gli Stati Uniti il riconoscimento del matrimonio gay come diritto costituzionale non avrà conseguenze sulla libertà religiosa dei cittadini? Nel parere della maggioranza dei giudici favorevoli al verdetto, ha osservato il giudice capo John Roberts nella sua “dissenting opinion”, si «prospetta che i credenti potranno continuare a “difendere” e “insegnare” la loro visione del matrimonio», ma «il Primo Emendamento tutela la libertà di “esercitare” la religione». Che fine farà il “vivi e lascia vivere” su cui si regge da sempre il multiculturalismo americano? David Crawford, professore di teologia morale, di diritto di famiglia e di bioetica presso il John Paul II Institute di Washington, dice a tempi.it che in America si respira ormai «un clima totalitario». Non esita a chiamare in questo modo quello che si sta realizzando anche a causa della «resa silenziosa dei cattolici» alla condizione di «irrilevanza» che immagina per loro il potere. Ai cristiani, secondo Crawford, resta solo una possibilità: «Il martirio della disobbedienza, della comunione e dell’abbandono dell’individualismo, per la salvezza della fede e del mondo».

Professor Crawford, come si è arrivati alla negazione di cose che dovrebbero essere per tutti evidenti?
Innanzitutto questa svolta non è frutto del voto popolare ma della decisione di un manipolo di giudici. Anche se dobbiamo comunque domandarci come sia possibile che le istanze radicali della rivoluzione sessuale, cominciata negli anni Sessanta, siano diventate dominanti: com’è possibile che in pochi anni tante persone siano diventate incapaci di riconoscere l’ovvio? La ragione sta in un processo politico e morale, di gran lunga precedente alla rivoluzione sessuale, cominciato con la modernità: Cartesio mise in dubbio la realtà sostituendo l’essere con la volontà umana. Per lui il corpo non era più parte strutturante della persona, ma un accessorio materiale; così smise anche di avere un senso e uno scopo determinante per lo spirito. È da questa separazione che si è giunti alla negazione della differenza sessuale come fattore determinante la persona. La linea tracciata da Cartesio proseguì con Bacone e Locke, per cui la comunità umana, in primis la famiglia, non è fondata sulla legge naturale, ma su un contratto artificiale, esclusivamente dipendente dalla volontà mutevole del soggetto. Solo che in questa visione la comunità e la famiglia non hanno più alcuna protezione oggettiva dal potere e dalla legge positiva imposta dalla maggioranza.

Già prima della sentenza negli Stati Uniti si è assistito a casi anche clamorosi di persone isolate, licenziate e assalite dai media in quanto “omofobe” semplicemente perché hanno una certa visione del matrimonio. Cosa accadrà ora che il “same-sex marriage” è diventati un diritto costituzionale?
Prima della sentenza molti servizi ed esercizi commerciali, che si sono rifiutati di partecipare attivamente a cerimonie fra persone dello stesso sesso, sono stati chiusi in seguito a multe o denunce. L’arcivescovo di San Francisco, Salvatore Cordileone, ha subìto una campagna d’odio per aver chiesto alle scuole cattoliche di seguire l’insegnamento della Chiesa sulla morale. Lo Stato dell’Indiana, dopo una pressione violenta delle lobby economiche, ha ritirato la legge per proteggere l’obiezione di coscienza. Diverse persone, fra cui giornalisti, insegnanti, impiegati, militari, sono state licenziate per aver espresso il loro parere sulla famiglia. Ora tutto questo diventerà la norma, perché un’impresa, una scuola o qualunque istituzione pubblica non potrà più opporsi a questa nuova ideologia senza essere considerata un nemico dell’ordine pubblico. Quindi i cristiani avranno due opzioni: o conformarsi o essere esclusi dalla scena pubblica.

Com’è possibile che un paese nato da uomini fuggiti da un potere che limitava la loro libertà sia giunto a imporre una “dittatura del pensiero unico”?
L’ideologia gender ha bisogno che chi non la accetta sia considerato un bigotto intollerante. Tutto questo è possibile per via di quanto accennato prima: la moderna visione distorta di cosa sia l’essere umano e quale sia il suo destino. Se uno pensa che il suo destino dipenda da lui e non da un creatore, automaticamente il nemico diventa colui che pone limiti alla sua volontà. Quindi anche la visione cattolica deve essere esclusa dal discorso pubblico, il che è davvero grave, porterà solo infelicità e distruzione per molte persone.

Fino a poco tempo fa, però, almeno il dissenso era tollerato.
La nuova ideologia è riuscita a farci accettare un’analogia falsa, che fa coincidere la lotta contro la segregazione razziale del movimento dei diritti civili degli anni Sessanta con quella per la liberalizzazione dell’omosessualità. Così anche le scuole e le istituzioni private, che all’epoca furono obbligate ad accettare le persone di razza diversa, oggi saranno costrette ad ammettere l’omosessualità come normale. È evidente che l’errore è nella premessa, accettata sempre per via dell’equivoco moderno, perché se la razza è una caratteristica innata, l’omosessualità invece è un’inclinazione che può conseguire in un comportamento scelto.

In America si assiste alla crescente intrusione dello Stato in più ambiti. Basta pensare al regolamento dell’Obamacare, la riforma sanitaria di Obama, che prevede l’obbligo per tutti i datori di lavoro di offrire ai dipendenti piani assicurativi comprensivi di coperture per l’aborto e la contraccezione. Come giustifica queste “invasioni” l’opinione pubblica statunitense, da sempre ostile allo statalismo?
Credo che faccia tutto parte della stessa ideologia totalitaria. L’argomentazione a favore di queste azioni è la stessa che sta alla base delle motivazioni adottate dai cinque giudici della Corte suprema che hanno deciso la sentenza sul matrimonio “same-sex”. Anche questo è frutto della grande disintegrazione della ragione a causa della quale non capiamo più lo scopo della persona e della sessualità: se si accetta che il fine principale dell’atto sessuale non sia più la procreazione, allora la contraccezione non diventa solo legittima, ma un diritto da garantire da tutti. Così come le unioni omosessuali.

Esiste una alternativa all’adattamento al mainstream?
È evidente che stiamo entrando in un tempo davvero difficile. Dobbiamo metterci nell’ottica per cui essere cattolici negli Stati Uniti, ma anche negli altri paesi occidentali, ci costerà. L’alternativa alla resa silenziosa o al compromesso è la disobbedienza civile. Ecco credo che noi, per non scomparire o diventare come il mondo, abbiamo una sola possibilità: essere martiri, cioè testimoni della verità anche a costo di una tremenda persecuzione.

«Io morirò in un letto, il mio successore morirà in prigione e il suo successore morirà martire in una piazza pubblica». È realistica la celebre battuta del defunto cardinale di Boston, Francis George?
Sarebbe troppo facile: emergerebbe il carattere totalitario di questa ideologia, che invece ha un metodo peggiore. Come ha annunciato perfino il governatore repubblicano del New Jersey, Chris Christie, se i preti, ad esempio, si rifiuteranno di celebrare i “nuovi” matrimoni saranno semplicemente privati della possibilità di farlo con effetti civili. È tutto molto più accettabile e apparentemente indolore.

Non vede alcuna una possibilità di dialogo?
Con le persone sì. Ma bisogna essere realisti: si può dialogare solo con chi è disposto a parlare e questo è diventato impossibile con un potere politico che obbedisce a lobby senza alcuna intenzione di rinunciare al proprio obiettivo totalitario. Dobbiamo domandarci: è ragionevole che il corpo sia solo un artefatto biologico riducibile alla volontà o al desiderio? C’è una tendenza a ridurre il problema della nobilitazione dell’omosessualità a una questione morale, ma è più radicale e profonda. Il problema è sopratutto antropologico, un equivoco su cosa sia l’essere umano.
La disobbedienza civile è una via percorribile?
Sarà necessario seguire questa via, perché la nostra vocazione di cristiani è l’amore al mondo: dobbiamo quindi difenderlo richiamandolo e riportandolo a Dio. E, come il Signore, dobbiamo mettere in conto il martirio che non è necessariamente quello della morte in croce. Credo che la nuova generazione potrà conservare la fede solo se la comunità cristiana si unirà in questa lotta per la verità, perché da soli è impossibile reggere di fronte a un potere così violento.

Pensa alle minoranze creative di cui parlava papa Benedetto XVI?
Non penso che come cristiani possiamo ritirarci dal mondo, accettando un ordine mondiale legale che nega la creazione e la verità. Tollerare questo regime in silenzio sarebbe un tradimento della nostra vocazione d’amore. Dobbiamo essere testimoni ad ogni costo. Per fare questo dobbiamo rinforzare la famiglia, la vita comunitaria, quella dei movimenti ecclesiali come Cl, ad esempio. E dobbiamo educare, mai tacendo la verità e sempre rivolti al mondo, verso il quale abbiamo una responsabilità storica.

Sembra un richiamo alla conversione il suo.
Dobbiamo convertirci per convertire e quindi approfondire la fede, rinnovarla. Dobbiamo abbandonare l’individualismo, e quindi rinforzare la preghiera e il sacrificio. Perché il modernismo ha toccato anche noi: abbiamo cominciato ad essere soddisfatti della nostra fede e a pensare che la croce non fosse una parte così necessaria di essa. E così ci siamo indeboliti: per salvare il mondo dobbiamo imitare Cristo e portare la croce con lui. L’alternativa è rifiutarla, assecondando il potere e perdendo definitivamente la fede.

@frigeriobenedet
Foto Ansa

giovedì 16 luglio 2015

Così i giudici legalizzano l'utero in affitto di Tommaso Scandroglio, 16-07-2015, http://www.lanuovabq.it/

A Milano i giudici hanno legalizzato l'utero in affittoEra già accaduto altre volte, ma ogni volta è come se fosse la prima. Stiamo parlando di quei giudici che legittimano la pratica della maternità surrogata, nonostante la legge 40 la vieti espressamente. Due giorni fa sono state depositate le motivazioni di una sentenza, emessa dal Tribunale di Milano, che ha assolto una coppia per aver alterato lo stato civile di due gemelli avuti tramite la pratica dell’utero in affitto, con fecondazione eterologa, effettuata in Ucraina. In buona sostanza i due avevano spacciato come figli loro i gemelli partoriti da un’altra donna e non adottati. Infatti, lo ricordiamo, un bambino per il nostro ordinamento giuridico è figlio di Tizio e Caia solo se Caia lo ha partorito, ed è figlio legittimo o naturale riconosciuto da entrambi, oppure se lo hanno avuto in adozione. 

Il collegio della quinta sezione penale, presieduto da Annamaria Gatto, ha assolto la coppia con le seguenti motivazioni. In primo luogo occorre far riferimento alla legge ucraina sulla formazione dell’atto di nascita, legge che è stata rispettata appieno. Infatti, affermano i giudici, è «la stessa legge italiana a imporre ai cittadini italiani all'estero di effettuare le dichiarazioni di nascita all'ufficiale di stato civile straniero e secondo la legge del luogo ove l'evento è avvenuto». In Ucraina la pratica dell’utero in affitto è legittima e quindi quell’atto di nascita è legittimo anch’esso. Ma lo è per noi? La ricezione di tale atto di nascita da parte delle nostre autorità è lecita solo se non contrasta con l’ordine pubblico interno. Da qui la domanda: questo atto di nascita contrasta con il nostro ordine pubblico? Eccome, tanto è vero che c’è una legge, la legge 40, che espressamente vieta la pratica della maternità surrogata. I giudici hanno fatto spallucce e lo scoglietto della legge 40 è stato superato affermando che se l’ufficiale di stato civile italiano ha trascritto l’atto vuol dire che tale atto era compatibile con l’ordine pubblico. Come dire che la decisione dell’ultimo degli ufficiali di stato civile è insindacabile. 

Ma proseguiamo. Nelle motivazioni si legge ancora: «l'ordinamento interno […] al pari di quello ucraino, nel disciplinare gli effetti della fecondazione eterologa valorizza il principio di responsabilità procreativa e ne fa applicazione in luogo di quello di discendenza genetica; il coniuge che abbia dato l'assenso (...) alla nascita di un bambino tramite fecondazione eterologa (...) non può esercitare l'azione di disconoscimento, per avere assunto la responsabilità di questo figlio, e ne diviene genitore nonostante lo stato civile del neonato venga determinato in maniera estranea alla sua discendenza genetica». Cosa ci stanno dicendo i giudici? In primo luogo i magistrati meneghini sono arrivati ad alcune logiche conclusioni le cui premesse erano state poste dalla Corte costituzionale italiana con la sentenza 162 del 2014, sentenza che aveva aperto alla fecondazione artificiale eterologa, tecnica in cui un gamete o entrambi i gameti possono provenire da un soggetto estraneo alla coppia richiedente.

Con l’eterologa il figlio può benissimo essere figlio genetico di un terzo e non figlio biologico di Tizio e Caio, non essere adottato e nonostante questo figurare come figlio legittimo della coppia stessa. Ma non è lo stesso che accade con l’utero in affitto? Anzi in questa pratica, per ipotesi, i gameti possono venire dalla coppia richiedente. C’è solo l’inciampo che il bebè non verrà partorito dalla donna che lo crescerà, ma – come ha affermato la Corte costituzionale – questo avviene anche nell’adozione. Non solo, ma nell’adozione si cresce un figlio che non è proprio figlio biologico, così come sarà con la coppia lombarda. Se dunque è legittima l’eterologa perché non può esserlo l’utero in affitto? 

E dunque la sentenza della Corte costituzionale, richiamata spesso nelle motivazioni del Tribunale di Milano, ha fatto da grimaldello per accogliere la pratica dell’utero in affitto, pratica che per paradosso la stessa Corte in quella sentenza aveva dichiarato ancora illecita. Insomma, prendiamo delle sentenze solo ciò che ci fa comodo. Ma anche dalla legge 40 i giudici prendono ciò che vogliono. Questi, infatti, riportano pari pari ciò che in questa legge c’era scritto in merito alla Fivet eterologa: qualora avvenisse la fecondazione eterologa (che quando fu scritta la legge era pratica vietata), la coppia richiedente non può disconoscere il bambino. Ma questa postilla non la troviamo invece per la pratica della maternità surrogata. É stata semplicemente inventata dai giudici. Ciò che importa dunque per i giudici milanesi è «il principio di responsabilità procreativa»– cioè voler aver un figlio a tutti i costi – e non la «discendenza genetica». Non solo, ma aggiungono che il «principio della responsabilità procreativa» è «posto prioritariamente a tutela dell'interesse del bambino». Ma come? Far nascere un bambino in provetta con gameti di persone che non lo tireranno grande, impiantarlo nell’utero di una donna che non lo vedrà crescere, venire acquistato come una merce, esporlo ad altissimo rischio di morte, etc. tutto questo sarebbe nel suo interesse?

In realtà ai giudici del figlio importa un fico secco. Importa l’autodeterminazione della coppia. Infatti, così ancora leggiamo nelle motivazioni che richiamano un passaggio della sentenza del 2014 della Consulta: «la scelta di diventare genitori e formare una famiglia che abbia anche figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, riconducibile agli articoli 2, 3 e 31 della Costituzione». Detta in soldoni: prima c’è un presunto di diritto di diventare genitori e poi il rispetto della vita del bambino. E il primo “diritto” deve essere garantito costi quel che costi. Utilizzate pure provette, uteri in affitto, manipolazioni genetiche, bacchette magiche ma dateci il figlio. E dunque la pratica della maternità surrogata viene legittimata per via giurisprudenziale in Italia ancora una volta (c’erano stati infatti in passato altri casi). Il peccato originale, lo abbiamo scritto già altre volte, è contenuto nella stessa legge 40. Se legittimi il fatto di poter manipolare la vita di un nascituro, che poi venga al mondo con l’omologa, l’eterologa o l’utero in affitto poco cambia. É solo una variazione su un tema, un tema dai toni molto funebri.


martedì 14 luglio 2015

Fecondazione assistita. «I conti del Ministero non tornano. Sono scomparsi migliaia di embrioni» luglio 14, 2015 Benedetta Frigerio, http://www.tempi.it/

«Non si sa che fine abbiano fatto migliaia di embrioni». È quanto ha notato in un comunicato stampa l’Associazione italiana ginecologi ostetrici cattolici (Aigoc), commentando la relazione annuale relativa al 2013 da poco pubblicata dal ministero della Salute sull’attuazione della Legge 40, che nel 2004 ha legalizzato la fecondazione artificiale, producendo una «strage di embrioni». A tempi.it il presidente di Aigoc, Giuseppe Noia, ha spiegato che il documento «mostra che il denaro pubblico viene buttato per cercare di far rimanere incinte donne di età avanzata con scarsi risultati e che si tollera l’azione poco trasparente dei Centri che la praticano». Ancora peggio, «pensando di eliminare il male, lo stiamo diffondendo».

Professor Noia, perché avete scritto che mancano all’appello «migliaia di embrioni»?
A pagina 102 della relazione si legge che nel 2013 sono stati fecondati 158.672 ovuli (embrioni), a cui si aggiungono 2.896 embrioni prodotti da scongelamento. Poi, però, a pagina 113, il numero degli embrioni si abbassa a 110.016, di cui 22.143 (20,1 per cento) crioconservati. Ci chiediamo: dove sono finiti i restanti 51.552 embrioni? Inoltre, l’inserimento nella bozza della voce «eventuale numero degli embrioni estinti per sviluppo anomalo o degenerati» ci fa sperare che nella prossima relazione questo numero sia espressamente indicato, in modo da rivelare la reale grandezza del sacrificio umano in atto. Infine, la mancanza è aggravata dal fatto che è difficile non mettere in dubbio la buona fede, dato che già l’anno scorso avevamo segnalato lo stesso problema chiedendo trasparenza.

Quali sono gli altri aspetti rilevanti del rapporto?
Impressiona il tasso di insuccesso della tecnica e il sacrificio di vite correlato, dato che nel 2013 si contano 99.267 embrioni trasferiti in utero. Di questi, solo 10.217 sono nati vivi. Ad essi si aggiungono altri embrioni sacrificati prima ancora di essere impiantati in utero, dato che la relazione parla di 143.770 embrioni sacrificati tra quelli prodotti e quelli scongelati. In tutto solo 793 in meno rispetto al 2012, peccato che nello stesso anno sia cresciuto il numero degli embrioni crioconservati. Questi sono 22.143 mentre nel 2012 erano 18.957, cioè 3.186 in più. Di questi, il 92 per cento (2.867) morirà al momento del trasferimento in utero, se saranno scongelati.

Avete denunciato anche un’omissione di controllo dei Centri di fecondazione da parte del ministero della Salute. Perché?
Un altro aspetto preoccupante è il fatto che non sia noto con quale prevalenza sono utilizzate le due tecniche di fecondazione artificiale, la Fivet e la Icsi (lo spermatozoo viene iniettato direttamente nell’ovocita, ndr). Temiamo infatti una prevalenza della seconda, dato il suo maggior successo, che però comporta un rischio di malattie genetiche superiore. Infine i centri di fecondazione assistita, in tutto 14 e nella maggior parte dei casi privati, non hanno fornito dati sull’esito del 10,3 per cento delle gravidanze iniziate.

A leggere questi dati, la fecondazione sembra un fallimento.
È un fallimento e ci sembra assurdo che questa fabbrica della morte sia sovvenzionata dallo Stato grazie ai Lea (Livelli essenziali di assistenza), tramite tecniche che non hanno nulla a che vedere con la cura di una malattia come la sterilità, che infatti non viene curata. Ancora peggio se questo accade mentre alla popolazione affetta da epatite C, di gran lunga maggiore in percentuale, viene garantita gratuitamente solo una parte delle cure di cui avrebbe bisogno.

Il Ministero considera le perplessità che sollevate?
No, siamo voci che urlano nel deserto, ma la verità va gridata sui tetti. Pensiamo, come madre Teresa, che si tratti di una goccia nel mare ma che senza di essa al mare mancherebbe qualcosa di essenziale. E con Giovanni Paolo II ripetiamo: se vuoi andare alla sorgente, devi remare controcorrente. Quindi continueremo a ribadire che l’impatto di questo olocausto silenzioso è devastante per la tenuta della società. E che la cultura della morte e dello scarto colpisce le donne e le coppie che la praticano o uccidono i loro figli così. Ricordo che alle cifre della fecondazione in Italia si devono aggiungere quelle estere e i 53 milioni di aborti all’anno nel mondo.

Nessuno sembra preoccuparsi di questi embrioni.
Ma noi siamo stati quegli embrioni. Sono i nostri figli deboli. La fecondazione artificiale, come l’aborto e l’eutanasia, sono solo risposte sbagliate alla paura della debolezza e della sofferenza. Solo che cercando di eliminarle, non facciamo altro che amplificarle. Il dogma secondo cui l’eliminazione della sofferenza e della debolezza devono avvenire attraverso l’eliminazione del sofferente e del debole è errato. Al contrario, per essere alleviate hanno bisogno di essere accolte e abbracciate. Lenire e curare sono le vocazioni del medico, non procurare la morte. E se non tutti capiscono che la risposta al dolore può essere solo in Dio, tutti possono però riconoscere che senza solidarietà la società diventa terribile. Papa Francesco ha detto che senza di essa muore la fede, io aggiungo l’intera umanità.

@frigeriobenedet
Foto Ansa

Preparatevi, così ci imporranno anche la pedofilia, di Tommaso Scandroglio, 14-07-2015, http://www.lanuovabq.it/



L'articolo di Margo Kaplan apparso sul New York TimeQualche mese fa il New York Times ha pubblicato un articolo di Margo Kaplan, docente alla Rutgers School of Law di Camden. Il titolo è ad effetto: “Pedofilia: un disturbo e non un crimine”. Ora andremo a scorrere le argomentazioni offerte nell’articolo per constatare come la Kaplan riesca sottilmente a legittimare la pedofilia. Sono gli stessi passi che, anni addietro, vennero compiuti per legittimare l’omosessualità. 

Un primo passo per rendere accettabile una condotta o una condizione è affermare che non è poi così rara. Scrive la Kaplan: «Secondo alcune stime, l'1 per cento della popolazione maschile continua, molto tempo dopo la pubertà, a sentirsi attratto da bambini in età prepuberale». Direte voi: l’1% è cifra irrisoria. Non è tanto vero. In una qualsiasi giornata voi incontrate per strada, nei luoghi pubblici sicuramente più di 100 maschi. Ecco la docente della Rutgers ci sta dicendo che ogni giorno voi incontrate senza saperlo almeno un pedofilo, se non di più. Posta così la questione quell’1% inizia ad essere un po’ più ingombrante nella nostra percezione del fenomeno. Poco importa poi che il dato sia attendibile o meno, l’importante è far comprendere che la pedofilia è una realtà sociale, un fenomeno che esiste ed esiste accanto a noi. Inoltre, quell’1% ricorda tanto l’1% di persone omosessuali presenti nella popolazione mondiale. Anche loro una minoranza, ma che oggi pesa moltissimo.

Poi la Kaplan cerca di rischiarare la condizione del pedofilo quando ricorda che secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali la pedofilia è un disturbo se «provoca un disagio o difficoltà interpersonali». Affermazione volutamente obliqua. Si domanderà il lettore: se il pedofilo è felice di essere tale allora non è più un disturbo la pedofilia? Se il bambino, a motivo proprio della sua immaturità, è falsamente consenziente e quindi non ci sono particolari «difficoltà interpersonali» la pedofilia è condizione non più patologica? Domande che la Kaplan volutamente lascia in sospeso, come una spada di Damocle sulle teste dei bambini. Proseguiamo con un altro sottile e pericoloso distinguo che fa l’autrice dell’articolo: «la pedofilia è uno stato e non un atto. […] Circa la metà di tutti i pedofili non sono sessualmente attratti da loro vittime». In filigrana la Kaplan ci sta dicendo che fin tanto che il pedofilo non tocca un bambino, la pedofilia potrebbe essere anche accettata. Infatti, metà dei pedofili non sono nemmeno attratti sessualmente dai bambini (e allora non sono pedofili) e dunque perché temerli? Perché ghettizzarli? 

Infatti, più avanti l’articolo così chiosa: «Un pedofilo deve essere ritenuto responsabile per il suo comportamento, non per l'attrazione sottostante». Ad onor del vero qui la professoressa Kaplan sta parlando delle sanzioni penali – e su questo le diamo ragione – ma non specificare che anche la stessa condizione non è sana dal punto di vista clinico e intrinsecamente disordinata dal punto di vista morale potrebbe far ritenere al lettore che tutto sommato, finché non c’è abuso, la pedofilia potrebbe essere anche accettata.

Questa argomentazione appena illustrata offre la sponda ad una successiva: «Un secondo malinteso è che la pedofilia è una scelta. Recenti ricerche  […] suggeriscono che il disturbo può avere origini neurologiche». Affermare che la pedofilia non è una scelta, ma una condizione è la stessa motivazione spesa per legittimare l’omosessualità. In sintesi: se sei nato così oppure se è la conformazione del tuo cervello che ti porta a compiere atti pedofili tu non sei responsabile dei tuoi atti. É il tuo Dna o le tue sinapsi che ti costringono ad abusare sui bambini, attraverso una coazione di carattere ormonale e psichico invincibile. Ergo tu non sei colpevole di eventuali abusi. Il determinismo empirista predica in buona sostanza la morte della libertà e quindi della responsabilità morale e penale.  Il passaggio per dire che la pedofilia è condizione naturale – proprio perché inscritta nel Dna e nel cervello – è dietro l’angolo. 

Poi, ecco un altro tassello per legittimare la pedofilia, lo stesso usato dalle lobby gay per tutelare l’omosessualità: la discriminazione ingiusta che patirebbero i pedofili. La Kaplan racconta di persone che sentono l’impulso di molestare un bambino, ma si trattengono. Costoro «devono nascondere il loro disturbo a tutti», spiega la Kaplan,  «altrimenti rischiano di perdere opportunità di lavoro e di formazione […]. Molti si sentono isolati, alcuni pensano al suicidio. Lo psicologo Jesse Bering, autore di Perv.: la devianza sessuale in tutti noi, scrive che le persone affette da pedofilia “non vivono la loro vita nell'armadio; stanno eternamente accovacciati in una panic room”». Poi l’autrice, che si premura nel dire che comunque un pedofilo non dovrebbe mai fare il maestro alle elementari, prosegue citando due leggi statunitensi le quali «vietano la discriminazione contro individui affetti da disabilità mentali, in settori quali l'occupazione, l'istruzione e le cure mediche. Il Congresso, tuttavia, ha escluso esplicitamente la pedofilia dalla protezione di queste due leggi fondamentali. È il momento di rivedere queste esclusioni». 

Il pedofilo come soggetto discriminato dalle persone e dalle leggi. Il solito e pericolosissimo cliché che la Kaplan giustifica sostenendo che se non aiutiamo i pedofili a venire allo scoperto sarà impossibile curarli. Quando la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.  In sintesi l’autrice ha messo in campo le seguenti argomentazioni per normalizzare la pedofilia: essa è un fenomeno sociale non così marginale e come tale dobbiamo farci i conti; è un disturbo solo se provoca disagio al soggetto o a terzi, non di per se stessa; la pedofilia va impedita solo se sfocia in condotte conseguenti; non è colpa del pedofilo se abusa dei bambini perché è madre natura che lo ha fatto così; i pedofili vivono una vita da ghettizzati, non discriminiamoli. Un film dell’orrore già visto.