Qualche mese fa il New York Times ha pubblicato un articolo di Margo Kaplan, docente alla Rutgers School of Law di Camden. Il titolo è ad effetto: “Pedofilia: un disturbo e non un crimine”. Ora andremo a scorrere le argomentazioni offerte nell’articolo per constatare come la Kaplan riesca sottilmente a legittimare la pedofilia. Sono gli stessi passi che, anni addietro, vennero compiuti per legittimare l’omosessualità.
Un primo passo per rendere accettabile una condotta o una condizione è affermare che non è poi così rara. Scrive la Kaplan: «Secondo alcune stime, l'1 per cento della popolazione maschile continua, molto tempo dopo la pubertà, a sentirsi attratto da bambini in età prepuberale». Direte voi: l’1% è cifra irrisoria. Non è tanto vero. In una qualsiasi giornata voi incontrate per strada, nei luoghi pubblici sicuramente più di 100 maschi. Ecco la docente della Rutgers ci sta dicendo che ogni giorno voi incontrate senza saperlo almeno un pedofilo, se non di più. Posta così la questione quell’1% inizia ad essere un po’ più ingombrante nella nostra percezione del fenomeno. Poco importa poi che il dato sia attendibile o meno, l’importante è far comprendere che la pedofilia è una realtà sociale, un fenomeno che esiste ed esiste accanto a noi. Inoltre, quell’1% ricorda tanto l’1% di persone omosessuali presenti nella popolazione mondiale. Anche loro una minoranza, ma che oggi pesa moltissimo.
Poi la Kaplan cerca di rischiarare la condizione del pedofilo quando ricorda che secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali la pedofilia è un disturbo se «provoca un disagio o difficoltà interpersonali». Affermazione volutamente obliqua. Si domanderà il lettore: se il pedofilo è felice di essere tale allora non è più un disturbo la pedofilia? Se il bambino, a motivo proprio della sua immaturità, è falsamente consenziente e quindi non ci sono particolari «difficoltà interpersonali» la pedofilia è condizione non più patologica? Domande che la Kaplan volutamente lascia in sospeso, come una spada di Damocle sulle teste dei bambini. Proseguiamo con un altro sottile e pericoloso distinguo che fa l’autrice dell’articolo: «la pedofilia è uno stato e non un atto. […] Circa la metà di tutti i pedofili non sono sessualmente attratti da loro vittime». In filigrana la Kaplan ci sta dicendo che fin tanto che il pedofilo non tocca un bambino, la pedofilia potrebbe essere anche accettata. Infatti, metà dei pedofili non sono nemmeno attratti sessualmente dai bambini (e allora non sono pedofili) e dunque perché temerli? Perché ghettizzarli?
Infatti, più avanti l’articolo così chiosa: «Un pedofilo deve essere ritenuto responsabile per il suo comportamento, non per l'attrazione sottostante». Ad onor del vero qui la professoressa Kaplan sta parlando delle sanzioni penali – e su questo le diamo ragione – ma non specificare che anche la stessa condizione non è sana dal punto di vista clinico e intrinsecamente disordinata dal punto di vista morale potrebbe far ritenere al lettore che tutto sommato, finché non c’è abuso, la pedofilia potrebbe essere anche accettata.
Questa argomentazione appena illustrata offre la sponda ad una successiva: «Un secondo malinteso è che la pedofilia è una scelta. Recenti ricerche […] suggeriscono che il disturbo può avere origini neurologiche». Affermare che la pedofilia non è una scelta, ma una condizione è la stessa motivazione spesa per legittimare l’omosessualità. In sintesi: se sei nato così oppure se è la conformazione del tuo cervello che ti porta a compiere atti pedofili tu non sei responsabile dei tuoi atti. É il tuo Dna o le tue sinapsi che ti costringono ad abusare sui bambini, attraverso una coazione di carattere ormonale e psichico invincibile. Ergo tu non sei colpevole di eventuali abusi. Il determinismo empirista predica in buona sostanza la morte della libertà e quindi della responsabilità morale e penale. Il passaggio per dire che la pedofilia è condizione naturale – proprio perché inscritta nel Dna e nel cervello – è dietro l’angolo.
Poi, ecco un altro tassello per legittimare la pedofilia, lo stesso usato dalle lobby gay per tutelare l’omosessualità: la discriminazione ingiusta che patirebbero i pedofili. La Kaplan racconta di persone che sentono l’impulso di molestare un bambino, ma si trattengono. Costoro «devono nascondere il loro disturbo a tutti», spiega la Kaplan, «altrimenti rischiano di perdere opportunità di lavoro e di formazione […]. Molti si sentono isolati, alcuni pensano al suicidio. Lo psicologo Jesse Bering, autore di Perv.: la devianza sessuale in tutti noi, scrive che le persone affette da pedofilia “non vivono la loro vita nell'armadio; stanno eternamente accovacciati in una panic room”». Poi l’autrice, che si premura nel dire che comunque un pedofilo non dovrebbe mai fare il maestro alle elementari, prosegue citando due leggi statunitensi le quali «vietano la discriminazione contro individui affetti da disabilità mentali, in settori quali l'occupazione, l'istruzione e le cure mediche. Il Congresso, tuttavia, ha escluso esplicitamente la pedofilia dalla protezione di queste due leggi fondamentali. È il momento di rivedere queste esclusioni».
Il pedofilo come soggetto discriminato dalle persone e dalle leggi. Il solito e pericolosissimo cliché che la Kaplan giustifica sostenendo che se non aiutiamo i pedofili a venire allo scoperto sarà impossibile curarli. Quando la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. In sintesi l’autrice ha messo in campo le seguenti argomentazioni per normalizzare la pedofilia: essa è un fenomeno sociale non così marginale e come tale dobbiamo farci i conti; è un disturbo solo se provoca disagio al soggetto o a terzi, non di per se stessa; la pedofilia va impedita solo se sfocia in condotte conseguenti; non è colpa del pedofilo se abusa dei bambini perché è madre natura che lo ha fatto così; i pedofili vivono una vita da ghettizzati, non discriminiamoli. Un film dell’orrore già visto.
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