giovedì 31 maggio 2012

Sull'eterologa la Corte ha parlato chiaro, eccome



Così gli oversize cambiano il mondo di Elena Dusi, La Repubblica, 31 Maggio 2012, http://www.dirittiglobali.it/

La bilancia dell´umanità punta sempre più in alto. Il sovrappeso colpisce in tutto un miliardo e mezzo tra adulti e bambini Colpa di cattiva alimentazione e vita sedentaria. Dagli autobus agli stadi, dai letti di ospedale ai sedili degli aerei: l´America si adatta alle nuove maxi taglie E l´Italia ne segue l´esempio Gli standard dei mezzi pubblici risalgono agli Anni ´60, ma verranno adeguatiLe aziende private sono state più veloci delle agenzie federali a ristrutturarsi
Se gli uomini non riescono a dimagrire, sarà il mondo ad allargarsi per loro. Sedili di autobus, aerei e stadi. Gabinetti, sedie a rotelle e letti d´ospedale. Perfino le porte degli scuolabus, perché l´epidemia di obesità coinvolge anche i bambini. Tutto diventa più largo e robusto per inseguire un rigonfiamento del ventre e dei glutei che niente e nessuno sembrano in grado di frenare. E se gli Stati Uniti sono il paese che si sta riorganizzando più in fretta, anche l´Italia ha cominciato ad adattare i suoi mezzi di trasporto e ospedali alla presenza di 6 milioni di obesi, 700mila dei quali gravi. A New York, sui treni per i pendolari, le nuove carrozze saranno dotate di sedili capaci di reggere 180 chili. I vagoni appena ordinati dall´agenzia di trasporti New Jersey Transit hanno comodi posti da 50 centimetri (5,6 in più dei precedenti). I due nuovi stadi delle squadre locali di baseball - gli Yankee e i New York Mets - hanno seggiolini più ampi di 2 centimetri e mezzo. E i tradizionali scuolabus della Blue Bird hanno dovuto allargare le porte di accesso perché i bimbi più rotondi (il tasso di obesità sotto ai 17 anni negli Usa è del 17 per cento) faticavano a passarci e venivano presi in giro dai compagni. Due notizie, di recente, hanno convinto l´America che era davvero arrivato il momento di fare qualcosa. La prima è l´incidente subito l´anno scorso da un piccolo aereo privato il cui pilota era talmente voluminoso da impedire all´airbag di gonfiarsi. Le autorità federali per l´aviazione civile hanno iniziato a interrogarsi se anche i grandi velivoli di linea, pensati negli anni ´60 per un passeggero tipo di 77 chili, fossero ancora adatti a un americano medio di oggi, che di chili ne raggiunge 88. La seconda è stato l´ultimo rapporto dei Centers for Disease Control, che agli inizi di maggio ha gettato nello sconforto tutti coloro che si occupano di lotta alla cattiva alimentazione. Nonostante le strategie che gli Usa stanno adottando per ridurre un´epidemia le cui conseguenze sulla salute ormai costano più del fumo (150 miliardi all´anno), il girovita non cessa di allargarsi, e continuerà a espandersi almeno per i prossimi quindici anni. Il tasso di persone obese negli States è triplicato dal 1960 a oggi, arrivando a toccare il 34 per cento. Le persone con obesità grave (un indice di massa corporea superiore a 40) sono cresciute di 6 volte e oggi raggiungono il 6 per cento. E nel 2030 la diffusione del problema raggiungerà il 42 per cento. Tutto questo nonostante le campagne di informazione, le iniziative salutiste in scuole e ristoranti, le tabelle con i valori nutritivi stampati su tutti i prodotti, la diffusione della chirurgia per ridurre le dimensioni dello stomaco e perfino l´arrivo, previsto prossimamente, delle prime pillole per combattere il grasso attraverso la chimica.
Non c´è nulla da fare. La bilancia dell´umanità continua a puntare sempre più in alto. Secondo i dati dell´Organizzazione mondiale della Sanità ormai si muore più di troppo mangiare che non di fame. Gli individui in sovrappeso sono 1 miliardo e mezzo in tutto il globo: il doppio rispetto al 1980. Le donne sono il 50% in più degli uomini. I bambini con meno di 5 anni ma già in sovrappeso sono 40 milioni. Alla fine dell´anno scorso un articolo sul New England Journal of Medicine spiegava che quando si rispetta una dieta e si perde peso, nel nostro organismo si innesca un complicato gioco di ormoni che porta l´appetito ad aumentare di nuovo per recuperare il nutrimento perduto. Milioni di anni di evoluzione hanno portato la specie umana ad adattarsi alla mancanza di cibo, non alla sua sovrabbondanza. Tutti i nostri meccanismi cellulari si sono affinati per conservare energia anziché dissiparla.
Il risultato, secondo i calcoli di Sheldon Jacobson, ingegnere dell´università dell´Illinois, è che ogni anno le auto private americane consumano 4,3 miliardi di litri di carburante in più a causa dell´aumento di peso di conducenti e passeggeri fra 1960 e oggi. La massa in eccesso si fa sentire anche su freni e volante. Il 14 marzo del 2011 la Federal Transit Authority, un´agenzia del Dipartimento dei Trasporti americano, ha proposto di riadattare gli standard di sicurezza degli autobus pubblici da 68 a 79 chili per passeggero medio e di ricalcolare il numero massimo di persone a bordo alla luce della maggiore superficie occupata (0,16 metri quadri invece di 0,13). Ancora una volta, gli standard risalivano agli anni ´60. I nuovi automezzi dovranno essere costruiti tenendo conto dei nuovi livelli di stress per freni e sterzo.
Una procedura simile è in corso anche presso la Federal Aviation Authority, l´agenzia che sovrintende all´aviazione civile. Sedili e cinture di sicurezza sono infatti costruiti da 60 anni per sopportare il peso di un passeggero tipo da 77 chili. Ma oggi la media degli utenti dei voli americani è di 74 chili per gli uomini e 88 per le donne. E quando le compagnie aeree hanno scelto di far pagare il doppio biglietto ai clienti oversize si sono puntualmente ritrovate in un labirinto di ricorsi legali. «La forza è il prodotto di massa per accelerazione - ha spiegato al New York Times Dietrich Jehle, che insegna Medicina dell´emergenza all´università di Buffalo. «Se un passeggero è più pesante e non indossa la cintura di sicurezza, la forza dell´impatto sarà necessariamente maggiore».
In Italia sui sedili dei mezzi pubblici si è intervenuti con posti a sedere extralarge. «A richiesta, sui nostri autobus possiamo sostituire alcuni sedili tradizionali con quelli Jumbo» spiega Emanuela De Vita di Irisbus-Iveco, che rifornisce di mezzi pubblici molti comuni italiani. Nelle città più importanti questi posti larghi 63 centimetri (circa una volta e mezzo rispetto al normale) sono già diffusi da diversi anni (Roma dal 2004, poi anche Bologna, Torino, Milano, Padova, Mantova). Nella capitale sono montati oggi su 700 bus urbani dell´Atac. Ma più svelte ad adattarsi delle aziende pubbliche erano state le ditte private. Pochi anni fa trovare una bilancia che superasse i 130 chili era quasi impossibile. Oggi la Siltec Ws1000 raggiunge i 450 chili e può essere acquistata via Internet. La ditta americana "Big John" è specializzata invece in gabinetti extra-large, con piedistalli di rinforzo, cerniere in acciaio e "ammortizzatori" di gomma tra il sedile e la ceramica. Il modello estremo raggiunge i 50 centimetri di larghezza e può reggere il peso record di 544 chili.
Riadattare una nazione all´epidemia di obesità può sembrare una dichiarazione di resa. «In realtà di iniziative simili ne servirebbero di più, soprattutto in Italia» sostiene Marcello Lucchese, presidente dell´Associazione italiana obesità e direttore della Chirurgia bariatrica al policlinico di Careggi a Firenze. «Le persone obese hanno bisogno di vivere in strutture riadattate ai loro bisogni. Perfino fare una doccia è difficile, con le dimensioni delle cabine normali». La struttura di Chirurgia bariatrica di Firenze è una delle poche in Italia a essersi attrezzata per l´assistenza di pazienti di dimensioni fuori dal comune. «Un letto normale d´ospedale - spiega Lucchese - sostiene 130 chili. Nel nostro reparto abbiamo letti rinforzati da 170 chili, ma spesso non bastano e siamo costretti ad affittarne alcuni da 227. I tavoli operatori invece arrivano a 350 chili». Le normali poltrone con i braccioli - inutilizzabili - sono state sostituite l´anno scorso a Careggi con divani più comodi. Un sollevatore (un arco di metallo cui viene agganciata un´imbracatura) serve a far alzare i pazienti quando le braccia degli infermieri non bastano.
Delle vere e proprie gru in miniatura accanto ai letti di degenza sono state installate anche in quella che forse è la struttura modello nel mondo per le persone oversize: l´ospedale dell´università dell´Alabama a Birmingham, il quarto più grande degli Stati Uniti. Qui l´intero edificio è stato revisionato per fare posto alle persone di taglia extra. Porte allargate, gabinetti fissati sul pavimento capaci di sopportare 120 chili, sedie a rotelle più larghe e rinforzate. Il tutto, concentrato fra quattro mura, offre uno scorcio del mondo extralarge che verrà.

La critica dell´extralarge condanna l´uomo moderno di Marino Niola, La Repubblica, 31 maggio 2012, http://www.dirittiglobali.it

Oggi il peso eccessivo è una colpa. Ma nella storia era il segno tangibile di potere e prestigio Sedili più larghi, toilette supercomode, letti oversize. Tutto si fa spazio. Perché gli obesi sono in aumento. E reclamano comfort 

Nella società della leggerezza il peso è un handicap. E l´obesità una colpa. È un vero stigma quello che oggi marchia gli over-size, additandoli alla pubblica condanna. Le accuse? Voracità bulimica, mancanza di autocontrollo, improduttività lavorativa, analfabetismo alimentare, sublimazione libidica. I drop out della taglia estrema devono fare i conti con una diffusa presunzione di colpevolezza che ne fa i nuovi paria del villaggio globale. Umiliati e obesi. E pure puniti. Tant´è vero che guadagnano in media il 18 per cento in meno dei normopeso. Lo rivela, cifre alla mano, una recentissima ricerca svedese. Non c´è bisogno di scomodare le veneri di Tiziano e Rubens per rendersi conto di come maniglie dell´amore e cuscinetti adiposi servissero ad aumentare l´appeal femminile. Mentre gote rubizze, ventri prominenti e maestosi doppi menti erano il contrassegno del potere e del prestigio maschili. Peso sociale tradotto in massa corporea. Fustacci e maggiorate, uomini di panza e matrone come la Saraghina di Fellini erano i simboli estetici ed erotici di un´umanità che sognava l´abbondanza. Del resto è ancora così in tutte quelle parti del mondo dove l´emergenza alimentare non è ancora finita. È il caso dei lavoratori indiani che emigrano dalle regioni più povere del subcontinente e fanno fortuna a Dubai. Nuovi ricchi che hanno l´obesità come mission. Perché i clienti misurano il loro successo e la loro solvibilità sulla stazza più che sui report delle agenzie di rating. Per la stessa ragione i capi polinesiani e i re africani dovevano avere fisici debordanti che facessero da contrappeso simbolico ai loro privilegi. Non a caso venivano chiamati big men. E gli abitanti delle isole Salomone dicevano che un vero leader deve colare lardo.
Ma perfino dove grasso è bello esiste una soglia che non si deve superare. Si può dire infatti che la condanna dell´eccessiva pinguedine sia antica quanto l´uomo. A fare la differenza però sono i pesi e le misure che in tempi e luoghi diversi fissano la soglia della normalità. È vero insomma che tutte le società disapprovano la dismisura. Ma è altrettanto vero che la dismisura non ha una taglia fissa. Anche dove la grassezza è segno di importanza e di forza, superato quel limite cambia di segno. E diventa sintomo di intemperanza, di gola, di avidità. Un vizio capitale che porta dritto dritto all´inferno. Come nell´Europa medievale. È proprio allora che nasce lo stereotipo dell´ebreo obeso, figlio primogenito del ricco Epulone evangelico. Un pregiudizio che viene rispolverato dall´antisemitismo otto-novecentesco, soprattutto dal nazismo, che lo trasforma nella metafora politica del giudeo parassita, che ingrassa a spese della società. Le tragiche conseguenze di questa ideologia devono mettere in guardia da facili semplificazioni o da giudizi sommari. Perché spesso dal salutismo al razzismo il passo è breve. Ora come allora.
Anche se anticamente ad essere condannata non è tanto la stazza in se stessa quanto gli appetiti smodati di cui essa è prova evidente. Ragioni etiche più che estetiche. Ideologiche più che fisiologiche. Ad essere davvero in questione, infatti, non è il corpo ma l´anima, non è la salute ma la salvezza. È la nostra modernità a cambiare le carte in tavola facendo del sovrappeso un problema individuale, la spia di un disagio interiore. È così che l´obesità smette di essere un peccato per diventare una malattia. Definita da parametri scientifici sempre più esatti. Oggi ci sembra scontato sapere quanti chili siamo, ma fino ai primi del Novecento quasi nessuno montava sulla bilancia. Insomma in poco più di un secolo l´obesità è passata dal mondo del pressappoco all´universo della precisione. Fino a inventare un parametro come l´Imc, ovvero l´indice di massa corporea. Che prende le misure alla nostra vita, oltre che al girovita. E ci restituisce l´immagine inquietante di un pianeta sempre più smisurato. Stando alle previsioni dell´Ocse in Paesi come Usa e Regno Unito fra dieci anni quasi il 70 per cento dei cittadini sarà in sovrappeso e l´obesità raggiungerà livelli da capogiro. E così le carni tremule degli over size diventano l´ologramma di un mondo schizofrenicamente diviso tra chi non ha abbastanza e chi ha troppo. Tra quelli che hanno un bisogno disperato di mangiare e quelli che hanno un bisogno disperato di non mangiare.
E se nelle pagelle scolastiche statunitensi il peso corporeo determina il voto di condotta, il costo delle polizze assicurative oscilla con l´ago della bilancia. Insomma se il corpo è l´indicatore del rapporto tra individuo e società, peso e misura ne sono l´algoritmo. Sempre variabile nel tempo. Fino agli Anni Sessanta, infatti, con la fame della guerra ancora impressa nella mente, il grasso era una manna dal cielo. Essere pasciuti, ancor meglio se panciuti, era il segno tangibile dell´opulenza. E dunque del benessere e della bellezza.

Quando le giovani coppie sognano il terzo figlio di Federica Canadini, Corriere della Sera, 31 maggio 2012, http://www.dirittiglobali.it

Il 75% dei ragazzi pensa a famiglie numerose

Il sogno: tre o più figli. La mediazione: averne almeno due. La realtà: la media italiana è ferma a 1,42 figli per donna. Le intenzioni però, sarebbero ben altre. Il nido che i ragazzi immaginano è piuttosto animato, nonostante la crisi e le legittime preoccupazioni, se ci fossero le condizioni molte giovani coppie vorrebbero mettere al mondo tre o più creature (e più realisticamente pensano di averne almeno due). È questo il desiderio di tre giovani su quattro. Lo rivela un'indagine dell'Istituto Toniolo su crisi, famiglia e giovani, un nuovo osservatorio su novemila persone fra i diciotto e i 29 anni che monitorerà il gruppo per i prossimi cinque anni, così sapremo anche come è andata a finire, ricostruiremo come si sognano tre figli ma se ne fanno meno della metà: 1,42 dice l'Istat, e a questo risultato siamo arrivate grazie al contributo delle madri straniere perché da sole saremmo ferme all'1,33, la loro media è di 2,07 così abbiamo migliorato la performance complessiva.
Ormai assuefatti ai piccoli numeri della natalità, con un calo demografico ormai cronico — anche se siamo in lieve ripresa dopo il record negativo del '95 — il risultato dell'indagine dovrebbe rincuorarci: questa la valutazione di Alessandro Rosina, docente di demografia e statistica sociale in Cattolica e curatore della ricerca. «Se questi giovani fossero aiutati a realizzare il loro desiderio il Paese potrebbe superare la denatalità e fermare l'invecchiamento — spiega Rosina — . Questa progettualità è un patrimonio di base da valorizzare. In altri Paesi europei, come Austria e Germania, la situazione è diversa: c'è una bassa fecondità come da noi, ma lì c'è anche un riadattamento al ribasso delle intenzioni».
La nostra invece sarebbe «una progettualità al rialzo». Preziosa, da difendere. Qui il desiderio c'è. Anche se il sogno poi non si avvera. «Paesi del Nord Europa, Francia, Inghilterra e Stati Uniti fanno più figli di noi. Non soltanto l'Italia è a bassa fecondità ma la crisi è persistente, i livelli sono bassi da tempo e fanno fatica a riemergere. Sono sempre più numerose le coppie che si fermano al figlio unico».
La famiglia resiste, ma in formato ridotto. Eppure ci sarebbero le migliori intenzioni per il 40 per cento degli intervistati, secondo l'indagine realizzata con Fondazione Cariplo e Università Cattolica (dati Ipsos raccolti su un «sottocampione» di 2.400 interviste). «Per fortuna almeno a livello di progettualità c'è questo desiderio — dice Francesca Zajczyk, sociologa all'Università degli studi di Milano Bicocca —. È un dato molto importante, considerate le difficoltà oggettive, il lavoro precario, i tanti trentenni con stipendi da mille euro al mese, i servizi insufficienti. Ma attenzione anche alla frustrazione di questi giovani che vorrebbero più di un figlio e non possono realizzare questo desiderio di famiglia, né quello del lavoro». C'è il tema urgente delle politiche per la famiglia, di tempi flessibili, congedi parentali, asili nido e scuola dell'infanzia. Nel rapporto del Global Gender Gap sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro siamo scesi al gradino 74 su 134. E il rapporto Ocse denuncia le difficoltà delle donne italiane sulla conciliazione. «La mancanza dei servizi viene pagata da loro, troppo spesso ancora costrette a scegliere fra lavoro e figli», sottolinea Zajczyk. «Questo desiderio di famiglia, anche numerosa, oggi più che mai andrebbe sostenuto».
Nella ricerca del Toniolo ci sarebbe un altro dato positivo. È la fiducia che i giovani dicono di avere nei confronti della vita nonostante le difficoltà e la congiuntura economica negativa: «L'82% degli intervistati afferma di aver ottenuto dalla famiglia la capacità di guardare con tranquillità al futuro. La famiglia è supporto emotivo ed economico per otto ragazzi su dieci. Ma è anche "rifugio dal mondo" per la maggior parte dei giovani. Il rischio allora è che sia iperprotettiva e diventi una gabbia dorata», dice Rosina. «Sappiamo che i ragazzi sognano famiglie numerose, anche se sono costretti a rinunciare, perché iniziano tardi a fare figli, perché non ci sono le condizioni. Ma non è una scelta. È una conseguenza, di ostacoli che vanno rimossi».

"Una panacea per la terza età" la nuova frontiera della marijuana di Federico Rampini, La Repubblica, 31 maggio 2012, http://www.dirittiglobali.it

Platshorn, 69 anni, ha fondato il Silver Tour: visita ospizi e luoghi di culto per promuovere la legalizzazione della cannabis Negli Usa 17 Stati consentono l´uso terapeutico dell´erba. E presto si voterà in Florida dove si conta sull´elettorato anziano Un giudice della Corte Suprema affetto da cancro: "È una cura. Non criminalizziamola" Il proselitismo tra gli over 65 è strategico: hanno il minor tasso di astensionismo 

NEW YORK - «Al diavolo coi pregiudizi, dovevo provarla almeno una volta prima di morire». Selma Yeshon, 83 anni, trascorre gli anni della sua pensione al sole della Florida. Una vecchiaia serena, non fosse turbata da un cronico mal di schiena. Ma la Yeshon ha trovato la cura. Si è convertita alla marijuana. Con l´entusiasmo della neofita, è diventata una sorta di "testimonial" per un nuovo fenomeno di massa: il successo della marijuana nella terza età. La Yeshon si è fatta intervistare dal Wall Street Journal per lanciare il suo messaggio urbi et orbi: fumare un po´ di erba è quel che ci vuole, quando gli acciacchi si fanno sentire alle giunture, o l´insonnia turba le tue notti.
Lei è stata convertita in sinagoga, a Lake Worth, da un´organizzazione per la legalizzazione della marijuana che si chiama Silver Tour. Cioè il Giro d´Argento, un riferimento ovviamente al colore dei capelli degli anziani. Ad animare il Silver Tour è un curioso personaggio, Robert Platshorn, 69 anni di cui 30 trascorsi in un carcere federale: era stato condannato come capo di uno dei più grandi "cartelli" di spaccio di marijuana negli anni Settanta. Uscito di prigione nel 2008, Platshorn non aveva certo voglia di passare per un recidivo. Però a furia di incontrare suoi coetanei afflitti da acciacchi che potrebbero essere alleviati dalla marijuana, si è deciso a scendere in campo nella battaglia per la sua legalizzazione.
Sono già 17 gli Stati Usa che consentono l´uso dell´erba per «scopi terapeutici». Anche se a livello federale il divieto rimane in vigore, già nel 1999 uno studio commissionato dalla Casa Bianca all´Institute of Medicine giunse alla conclusione che la canapa indiana o cannabis «offre dei benefici nell´alleviare il dolore e la nausea». La Florida è una delle prossime frontiere nella battaglia per la legalizzazione. La promuove un deputato democratico eletto nel collegio di Lake Worth, Jeff Clemens, che spesso partecipa ai dibattiti nelle comunità di anziani. Il Silver Tour è il suo alleato più efficace: setaccia sistematicamente i residence della terza età, convince i luoghi di culto a ospitare i dibattiti.
Il rabbino capo della sinagoga di Lake Worth, Barry Silver, non ha avuto esitazione a spalancargli le sue porte. Ci ha perfino scherzato sopra, con un gioco di parole intraducibile ha ricordato che le festività più importanti della religione ebraica (l´anno nuovo e lo Yom Kippur) si chiamano High Holy Days o feste "alte": in inglese high è sinonimo di "fatto", in preda all´euforìa da marijuana. Il proselitismo tra gli anziani ha un´importanza strategica per i fautori della liberalizzazione. «Per una ragione semplice - dice Platshorn - e cioè che gli anziani vanno a votare. Sono la componente dell´elettorato con il minor tasso di astensionismo alle urne». Finora, proprio loro sono stati decisivi nello sconfiggere alcuni referendum per la legalizzazione, come quello della California nel 2010: in quel caso gli over-65 hanno dato un "voto d´ordine" e più dei due terzi si sono espressi contro.
Ma le opinioni su questo terreno si evolvono rapidamente. Il 17 maggio il New York Times ha pubblicato la sconvolgente testimonianza di un giudice della Corte suprema statale, Gustin Reichbach: affetto da cancro al pancreas, sottoposto a chemioterapia intensiva, ha trovato nella marijuana un sollievo e un palliativo contro il dolore e la nausea. «Dopo una vita dedicata ad applicare la legge - ha scritto il giudice - mi trovo a dover usare la marijuana» (che nello Stato di New York non è legalizzata). L´appello del giudice è a «non criminalizzare un medicinale efficace» e si conclude affermando che «le cure anti-dolore sono un diritto umano, non una questione di ordine pubblico».
Per far evolvere l´elettorato anziano, una spinta potente viene dalla demografia stessa: stanno arrivando all´età della pensione le avanguardie delle generazioni del baby-boom, che sperimentarono l´erba negli anni Sessanta e Settanta. Un ostacolo, spiega Platshorn, viene dalla cultura anti-tabagismo: messe al bando le sigarette, c´è una naturale resistenza verso un´altra erba che si fuma. «Ma questo non deve essere un problema - dice il leader del Silver Tour - perché la cannabis si può consumare in tante forme alternative: vaporizzatori, biscotti, lecca-lecca, pillole, bevande, non c´è limite alla varietà di opzioni».

Strappo di Erdogan - una ferita per la Turchia laica



FAMIGLIA/ Perché l'Italia non impara da Francia e Germania? Di Luca Pesenti, giovedì 31 maggio 2012, http://www.ilsussidiario.net

La recente pubblicazione del Rapporto annuale Istat ha certificato - come abbiamo già scritto su Il queste pagine - la perdurante condizione di indebolimento sociale ed economico delle famiglie italiane. Cresce la povertà assoluta, si inverte il trend relativamente alle tipologie famigliari (stanno meglio di prima gli anziani, stanno sempre peggio le famiglie numerose e quelle con un solo genitore), si blocca l’ascensore sociale, si complicano le condizioni di sviluppo per i più giovani.
È possibile ovviamente aggiungere altri tasselli al quadro già di per sé non entusiasmante. Presentando il volume “Familiarmente. Le qualità dei legami familiari” (ed. Vita e Pensiero), nato da un pool di studiosi dell’Università Cattolica sotto l’egida del Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla famiglia, l’economista Luigi Campiglio ha rincarato la dose, mostrando una serie di dati freschi di calcolo. Il reddito lordo disponibile delle famiglie italiane è precipitato nell’arco di un decennio, perdendo per strada circa 6.000 euro. Contestualmente è crollata anche la capacità di risparmiare: se nel 1995 le famiglie riuscivano a mettere da parte il 20% di quello che guadagnavano, oggi non riescono ad andare oltre il 9%. Nello stesso periodo, le famiglie francesi e tedesche hanno continuato a risparmiare in modo costante tra il 15% e il 17% del loro reddito. Ed è ovviamente cresciuta la quota di famiglie che devono intaccare i loro risparmi, se è vero che dal 1998 a oggi è cresciuta dal 14% al 16% la quota di famiglie che non hanno un reddito sufficiente a pagarsi lo stretto indispensabile.
Il confronto con i cugini francesi e tedeschi ci pare particolarmente significativo e per certi versi impietoso, documentando in modo inesorabile le ricadute ultime sulla vita comune di tendenze macroeconomiche piuttosto chiare. Se fino al 2007 l’Italia ha tenuto il passo, la crisi ha determinato un drammatico peggioramento delle condizioni generali, certificate dall’impressionante divario del Pil: se si osserva l’andamento dal 2001 al 2010, il Pil italiano è cresciuto di appena lo 0,6%, quello tedesco dell’8,6% e quello francese addirittura dell’11,1%.
In virtù di uno sviluppo economico che non si è mai interrotto, Francia e Germania hanno potuto proseguire sulla strada di una tradizione di politiche famigliari molto generose, ed è evidentemente anche questo che spiega la maggior stabilità economica delle famiglie di quei paesi. Oltre a poter far conto su un sistema fiscale basato sullo strumento del quoziente famigliare, il modello francese può vantare uno schema di intervento per famiglie a basso reddito (il Revenu de solidarité active), finalizzato a favorire il reinserimento lavorativo e sociale. In modo analogo, la Germania può vantare un sistema fiscale fortemente orientato alla famiglia (comprensivo di una franchigia molto ampia calcolata in ragione della numerosità del nucleo) cui si affiancano una serie di misure di sostegno al reddito per le persone in difficoltà economica o lavorativa.
Il risultato finale di questi interventi è sintetizzato nel dato della riduzione del rischio di povertà dopo l’intervento della mano pubblica: se in Francia e Germania questo rischio si dimezza grazie alla redistribuzione statale (abbassandosi rispettivamente di 12 e 10 punti percentuali), in Italia diminuisce soltanto di 5 punti, certificando in questo modo la peggiore efficienza redistributiva tra tutti i paesi europei.
Cosa serve dunque all’Italia per cambiare passo e per aiutare le famiglie a tirarsi fuori dai guai? I dati appena descritti ci dicono che non esiste una ricetta univoca e soprattutto facile a realizzarsi. Non sarà infatti sufficiente neppure un significativo aumento del Pil (cosa che non appare imminente) per poter garantire una svolta nelle politiche di welfare famigliare del nostro Paese. Occorrerebbero infatti contestualmente tre elementi di novità: un abbassamento significativo della pressione fiscale; una almeno parziale ricalibratura della tassazione spostandola dagli individui alle famiglie; un riaggiustamento della spesa pubblica, che liberi risorse da altre voci di spesa per convogliarle su schemi di reddito minimo a misura di famiglia.
Tre obiettivi di grande portata che purtroppo non sembrano essere nell’agenda della politica del nostro Paese.


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Cosa siamo senza famiglia? Luca Doninelli, giovedì 31 maggio 2012, http://www.ilsussidiario.net

Anche se non ci pensiamo quasi mai, la famiglia è la più grande tra le opere dell’umanità, senza paragone con nient’altro. La famiglia è un bene totalmente umano. Tra gli animali i figli dopo un po’ smettono di essere figli, il padre non è un vero padre, non sa realizzare la sua paternità, e la madre ha come unico scopo lo svezzamento dei piccoli. Poi si spalancano le porte del vasto mondo, e tutti diventano uguali. Un padre e una madre umani, viceversa, lo sono per sempre, nel senso che la paternità e la maternità sono ferite che sanguinano fino alla morte, dentro la morte e probabilmente anche dopo la morte. Perfino gli dèi antichi erano in difficoltà quando dovevano assumere un tale onere, anche loro preferivano scappare via, come gnu, come coccodrilli, come gabbiani.
Ma Jahvè no, Lui è come una donna che solleva il suo bambino alla guancia, e il Suo intimo freme di tenerezza e di compassione. E poi decide di nascere, povero e fragile, dal seno di una donna che lo amerà come ogni madre ama il suo bambino, e che piangerà la Sua morte con lo stesso strazio di tutte le madri cui sia stato restituito il corpo del figlio giovane ucciso da uno dei tanti accidenti della storia: guerra, malattia, quando non un’infida casualità. E il Cristianesimo c’insegna che la tenerezza e lo struggimento di un Padre, la premura e il pianto di una Madre sono l’origine della salvezza del mondo. Nient’altro che questo. Dio ci ha salvati nella Sua umanità, e in questo stesso modo continua a salvarci.
Ma Dio nacque povero. Povertà e famiglia si uniscono in un legame indissolubile. Nella famiglia, infatti, l’uomo accetta in modo molto concreto la propria dipendenza: il self-made man non è adatto a fare famiglia. I legami ci piegano le ginocchia, ci domandano umiltà: i difetti del marito e della moglie, il fatto che i figli non sono quasi mai come noi vogliamo, e poi l’educazione da seguire passo passo, i dolori imprevisti, le preoccupazioni che limitano spesso il nostro slancio orgoglioso…
Pensate a un intellettuale, poniamo uno scrittore, o un filosofo oppresso dal pensiero di un figlio drogato o ubriacone o malato: come diventa più difficile essere sempre brillante, in forma, avere la parola giusta al momento giusto. Questo intendo con la parola “povertà”: qualcosa che ti limita, ti rallenta, a volte ti confonde e ti rende meno piacevole, forse meno bravo. Ma più vero. Enormemente. Moglie (o marito) e figli sono la prima regola monastica della famiglia, la prima forma di obbedienza. La famiglia non è l’esito di un mettere-insieme, una composizione di qualcosa che sta prima: è una vita nuova, un essere nuovo, così come l’acqua non è solo la somma di ossigeno più idrogeno.
S. Francesco d’Assisi comprese in profondità questa cosa quando legò indissolubilmente la dedizione totale a Dio e la mendicanza. Se ti vuoi consacrare a Lui, rinunciando a una famiglia tua, devi essere al tempo stesso l’ultimo degli ultimi, vivendo della carità dei ricchi e perfino dei poveri. Noi percepiamo queste cose, oggi, con un filo di moralismo che Francesco, viceversa, non conosceva. Lui sapeva bene che senza i legami che (provvidenzialmente) lo piegano a terra, l’uomo tende a insuperbire, e che il sacrificio della carne può accendere ancor più la brama di ricchezza e di potere.
Francesco sapeva di quanta miseria ha bisogno l’uomo per scoprire quello che è realmente, il proprio bisogno, il proprio stato di strutturale necessità. E trovò nella mendicanza lo specchio più esaustivo della condizione familiare. A questo, infatti, serve la famiglia: a farci scoprire (indipendentemente dal conto in banca) quello che siamo alla radice, cioè mendicanti.
Pensate, cari lettori, cosa succederebbe se la famiglia fosse cancellata: quanta superbia, quanta presunzione, quanto artificio, quanta astrazione e, infine, quanto sterminio dilagherebbero per il mondo.


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Ci vuole una tribù per potersi gustare una cosa indifendibile come la famiglia, maggio 31, 2012,  Davide Rondoni, http://www.tempi.it

In occasione del Family 2012, dopo l’intervista al cardinale di Milano Angelo Scola, pubblichiamo l’editoriale del numero di Tempi in edicola da oggi a firma di Davide Rondoni.

L’uomo è fatto per la tribù, più che per la famiglia. Anche la donna, naturalmente. Quando lo affermo mi guardano strano. Ma in fondo sanno tutti che è così. Dicono: ah, la famiglia. Dicono così, e hanno ragione. Dedicano convegni, ritrovi, leggi. Ma devono stare attenti, i predicatori del “viva la famiglia”. Perché l’idea che oggi è in voga di famiglia è indifendibile. E fatalmente destinata a tramontare. La famiglia è importante. Lo si vede anche dai guai che provoca, o dalle fatiche che genera. Se non fosse importante, chissenefrega. Invece, si torna sempre lì, nel bene, nel male. Lo sapeva pure Marx che indicava nella famiglia l’icona della Sacra Famiglia da abbattere per costruire la sua società degli eguali – con quali risultati, s’è visto.

Siamo fatti per la tribù. Nessuna famiglia può davvero essere viva e luogo di vita se non sta dentro una tribù. Chiamate la tribù come vi pare – clan parentale, comunità, fraternità eccetera. Invece l’hanno ridotta a una monade, a una specie di organismo a se stante, che dovrebbe reggere gli urti della vita e del tempo restando sospesa al millesimo piano di un condominio di estranei, o sperduta in un reticolo di strade, in una composizione che ormai è cristallizzata: lui, lei, un figlio (se va bene), un cane, le fette biscottate del Mulino Bianco. Un organismo mostruoso. Una specie di liofilizzato “Buddenbrock” (la famiglia borghese del romanzo di Thomas Mann). È naturale che prima o poi lui morda lei o il cane morda lui o il figlio o la figlia si sfoghino sulle fette biscottate. In crisi c’è questo modello mostruoso di famiglia. La famiglia borghese, autosufficiente, monade, autofondata, e isolata. Preda di ogni moda e di ogni “riflesso pavloviano” indotto dai media e dal potere dominante. Quale ragazzo o ragazza sana di mente e di corpo potrebbe avere come ideale di andare a infilarsi in questo cubicolo asfittico? E infatti lo evitano come la peste. Magari a parole lo amano, se ne hanno avuto qualche resto di esperienza positiva. Ma via, alla larga. Vogliono aria, preferiscono la famiglia “allargata” a cui la tv di Stato continua a dedicare fiction carucce e astute. Allargata “male” con seconde mogli, figliastri eccetera ma pur sempre ombra e simulacro di quella che era la famiglia tribù, un organismo vasto dove stavano non solo zii rincoglioniti e nonni a traino, ma anche parenti vari, consanguinei di vario grado. E dove l’amicizia di una tribù collaborava a dare sostegno, ad alleviare, stemperare, consolare, accudire.

Non che manchino esperienze di questo genere. Credo che le famiglie che reggono lo debbono tutte a una sorta di appartenenza a una tribù. Se si richiama il valore della famiglia ma non si richiama il necessario legame con una tribù, si fa del danno. Ovviamente non sto mettendo in discussione il fondamento teologico della famiglia. Non sono né teologo né sposo e padre perfetto. Anzi. Ma ho gli occhi e il cuore. Vedo che le molte asfissie che schiantano molte famiglie dipendono dalla loro solitudine – e intendo la solitudine dei singoli, che non appartengono più a nulla se non a quel microorganismo il quale se non vive dell’aria e delle tempeste del mare, non può che essiccarsi. Ci sono naturalmente delle eccezioni – il mondo è bello per le sue continue eccezioni, no? Capita di vedere famiglie che paiono così concentrate su se stesse da escludere quasi il mondo. Ma il più delle volte si tratta di persone che hanno per così dire a tal punto interiorizzato una dimensione di tribù che grazie ad essa “sopportano” e anzi si gustano la vita familiare. Capita ad esempio nel caso di imprenditori molto dediti alla tribù delle loro aziende, o a professionisti molto esposti nel servire con il loro lavoro una comunità reale. Viva la famiglia, dunque. Se c’è la tribù.

mercoledì 30 maggio 2012


Gran Bretagna: più contraccezione significa più aborti, 30 maggio, 2012, http://www.uccronline.it

Nel 2009 il prestigioso “British Medical Journal” ha pubblicato uno studio in cui i ricercatori hanno verificato che le ragazze inglesi a cui era stato fornito un programma contenente informazioni sulla contraccezione mostravano un tasso di gravidanze tre volte e mezzo superiore rispetto alle coetanee che non avevano frequentato quelle lezioni.

In questi giorni sono stati pubblicati dati del Servizio sanitario nazionale relativi al 2010, dai quali si apprende che diminuiscono le interruzioni di gravidanza fra le minorenni ma aumentano in generale – il 5% in più rispetto all’anno precedente – le adolescenti che abortiscono più volte. Assuntina Morresi, docente di Chimica fisica all’Università di Perugia e membro del Comitato nazionale di bioetica ha commentato così questi dati: «mostrano che la diffusione massiccia dei contraccettivi, anche con l’educazione sessuale nelle prime classi scolastiche, è una politica fallita: chi ripete l’aborto, specie se giovane, vi ricorre come a un contraccettivo, anche quando altri mezzi sono facilmente accessibili». In Italia, ad esempio, la diffusione della pillola anticoncezionale è fortunatamente fra le più basse in Europa (intorno al 16%), e gli aborti  -come ha confermato l’ultima Relazione del ministero della Salute- sono in costante diminuzione, e lo erano anche prima dell’avvento della “contraccezione di emergenza”.

Cosa produce questa differenza? «È la solidità della famiglia a fare la differenza, è questa nostra straordinaria risorsa, ancora vitale anche se indebolita, la più efficace prevenzione dell’aborto: se i legami familiari sono stabili, se c’è il calore degli affetti solidi dei genitori, di quelli su cui sai di poter sempre contare, un figlio inaspettato non diventa un ostacolo da eliminare», ha spiegato la Morresi. Effettivamente un recente studio pubblicato su The Journal of Law Economics and Organization ha dimostrato che il coinvolgimento dei genitori e l’obbligo del consenso di uno o di entrambi i genitori prima di avere un aborto, porta ad una riduzione dei comportamenti sessuali a rischio tra gli adolescenti.

Al contrario, mettere a disposizione dei giovani metodi per non avere figli, in una cultura pansessualista come la nostra, non fa altro che incoraggiarli ad avere un maggioro numero di rapporti, deresponsabilizzando l’atto sessuale. Il fenomeno vale non solo per l’aborto ma anche per la diffusione dell’AIDS, come ha spiegato in termini tecnici Edward C. Green, direttore dell’AIDS Prevention Research Project al centro Harvard per gli Studi su Popolazione Sviluppo: «C’è un’associazione costante, dimostrata dai nostrl migliori studi, inclusi i “Demographic Health Surveys”, finanziati dagli Stati Uniti, fra una maggior disponibilità e uso dei condoms e tassi di infezioni HIV più alti, non più bassi. Questo può essere dovuto in parte a un fenomeno conosciuto come “compensazione di rischio”, che significa che quando uno usa una ‘tecnologia’ a riduzione di rischio come i condoms, spesso perde il beneficio (riduzione di rischio) “compensando” o prendendo chances maggiori di quelle che uno prenderebbe senza la tecnologia di riduzione del rischio». Vale ovviamente per il condom quanto per la contraccezione.

Pochi mesi fa, anche la rivista medica Contraception si è espressa, pubblicando i risultati di uno dal quale si evince chiaramente che la diffusione della cosiddetta pillola del giorno (che secondo l’American Journal of Obstetrics and Gynaecology” aumenta il rischio di morte per coaguli di sangue del 500%) , dopo è stata acclamata dai pro-choice (o pro-death) come un metodo per ridurre gli aborti, ha semplicemente aumentato i casi di interruzione di gravidanza. Recentemente il dottor David Paton, chairman di Economia Industriale presso la Nottingham University Business School, ha proprio spiegato che: «Si vuole sostenere che garantire agli adolescenti un accesso riservato ai servizi di pianificazione familiare e aborto avrebbe avuto un impatto positivo sulla gravidanza adolescenziale e i tassi di aborto. Tuttavia, invece, si può dimostrare che la conseguente riduzione della percezione del rischio porta a un incremento dei comportamenti a rischio, e combinati con il fallimento contraccettivo, non fanno altro che aumentare il tasso di gravidanze adolescenziali».

Io, mia moglie e otto figli - La famiglia numerosa è culla di socializzazione







L'equilibrio inquieto della parità



Un altro Stato contro l'iper-familismo



Il cuore dei diritti umani



C'è una farmacia di 30 mila molecole e si trova già a tavola


Così il popolo dei semi sconfisse i cacciatori europei



La ricerca scientifica verso la nuova frontiera mediatica



30-05-2012 - Shopping-mania, per guarire ora "basta" una pillola, di Maria Lombardi, http://www.ilmessaggero.it

ROMA - Volete risparmiare? Prendete una pillola. Dopo quella del desiderio e della felicità adesso c’è anche la compressa della parsimonia. Non bastassero già spread e crisi a far passare la voglia di spendere, dalla medicina ecco un aiuto per gli ostinati consumatori, insensibili ai prezzi come al saldo del conto in banca. Arriva in un momento di fuga dai negozi, con gli economisti e i commercianti che pregano venga scoperta la cura opposta, quella che possa riaccendere il sopito (e frustrato) bisogno di comprare: l’antidepressivo dello shopping.

Ma per adesso c’è solo la terapia per i compulsivi dell’acquisto, i tanti che costi quel che costi devono assecondare l’ultimo irrinunciabile capriccio, sapendo bene che presto ce ne sarà uno nuovo altrettanto prepotente. Si chiama «memantina» questo farmaco che promette di guarire o quasi gli schiavi di carte di credito e vetrine, quelli che nell’atto di comprare hanno trovato un modo per contenere l’ansia. Giusto il tempo che dura l’effetto sedativo delle scontrino, sempre più breve come in tutte le dipendenze.

Dopo otto settimane di cura, ha osservato il team di psichiatri della University of Minnesota, gli uomini e le donne ossessionati dagli acquisti hanno «visto diminuire il tempo da loro dedicato allo shopping e la quantità del denaro speso». Questo farmaco, usato per i malati di Alzheimer, si è rivelato efficace per i malati delle compere, tanto da dimezzare i sintomi. Il disturbo riguarda l’8,5 per cento degli adulti, spiegano gli specialisti statunitensi, quasi tutte (80 per cento) donne. La maggior parte dei loro guadagni finisce in vestiti.

Ne sa qualcosa Becky, protagonista del libro di Sophie Kinsella «I love shopping», giornalista della rivista economica Far fortuna Risparmiando che per comprare una sciarpa verde arriva a chiedere soldi per strada. Tempi duri per Rebecca Bloomwood - questo il suo nome - e per tutte le ossessionate dagli acquisti come lei. Le banche sono meno tolleranti con i conti in rosso, guarire è forse più facile che ottenere un prestito. Gli spendaccioni non patologici, per colpa della crisi, si sono da tempo convertiti alimentando la sempre più numerosa schiera dei neo-parsimoniosi.

Basta fare un giro in centro a Roma per rendersi conto di quanto sia diffuso lo stile sobrio in fatto di compere. Nei negozi d’alta moda solo stranieri, i clienti italiani sono quasi una rarità anche ai saldi. Folla alle casse delle catene low-cost, dove la qualità è così cosi ma il prezzo è ok. Al supermercato niente più carrelli stracolmi, adesso basta un cestino per comprare il necessario: si dimezzano le quantità e si cercano le marche ignorate dalla pubblicità, sovvertendo ogni regola del marketing. E anche gli allergici ai bollini adesso collezionano punti.

Nei primi quattro mesi del 2012, spiega la Confcommercio di Roma, i consumi delle famiglie sono stati quanto mai oculati. «A risentirne soprattutto il settore dell’abbigliamento che rispetto all’ultimo trimestre del 2011 ha segnato un calo del dieci per cento», dice il presidente Giuseppe Roscioli. Ci si è messa di mezzo anche la pioggia a scoraggiare l’acquisto di vestiti e scarpe: ormai per recuperare bisognerà aspettare i saldi che a Roma cominciano il 7 luglio. Nessun ulteriore risparmio invece sulle tavole dei romani. «Il settore alimentare, nei primi tre mesi dell’anno, è rimasto sostanzialmente stabile». In attesa di una cura per rivitalizzare i consumi, più facile rinunciare alla maglietta che al prosciutto. Sperando che la pillola del risparmio - ulteriore - non diventi per tutti una necessità.

Non siamo scimmie "assassine" - Nuove teorie sull'origine della violenza - "L'uomo è naturalmente buono"




FAMIGLIA/ L'uomo, la donna e quel Papa innamorato del "Principio" Massimo Serretti, mercoledì 30 maggio 2012, http://www.ilsussidiario.net

Quando alle 17.19 del 13 maggio 1981, a quattro giorni dal referendum sulla legge 194 che aveva legalizzato l’aborto nel nostro Paese, papa Giovanni Paolo II fu raggiunto in piazza san Pietro da un colpo di pistola, da due anni stava proponendo una catechesi su “uomo e donna”, sulla teologia del corpo e sulla famiglia e in quel giorno avrebbe dato l’annuncio pubblico della fondazione di un istituto internazionale di studi sul matrimonio e sulla famiglia. Solo nel novembre (mercoledì 11) di quello stesso anno egli potrà riprendere quella catechesi che porterà a termine nel febbraio del 1983, regalando così alla Chiesa uno scrigno prezioso di riflessioni e di meditazioni sulle realtà più ordinarie e quindi più rilevanti dell’essere e dell’esistere umano nelle sue qualità di “uomo e donna”.
Karol Wojtyla, prima come sacerdote e poi come vescovo, si era dedicato ad accompagnare i giovani verso la costituzione di una famiglia e le famiglie stesse con le loro problematiche e con le loro ricchezze di esperienza e di amore. Da questa lunga frequentazione, che non cessò del tutto neppure con la sua elezione a Successore di Pietro, egli trasse un sostegno ed un conforto per la sua stessa formazione umana, come egli stesso ha attestato in diverse occasioni. I due stati vocazionali si richiamano a vicenda e non è quindi strano che dal loro incontro si producano frutti saporiti e nutrienti.
Da questa esperienza presero forma alcuni lavori poetici letterari: La bottega dell’orefice, Raggi di paternità, ma anche saggi importanti quali: Amore e responsabilità, La famiglia quale comunione di persone. Tuttavia il frutto più maturo, che si colloca al culmine di una riflessione sorta al di dentro di un’esperienza di incontro e di accompagnamento pluridecennale di fidanzati e famiglie è dato proprio da quella summula che raccoglie le sue catechesi dei primi quattro anni di pontificato sotto il titolo Uomo e donna lo creò (Città Nuova Editrice – Libreria Editrice Vaticana). Proviamo a darci uno sguardo.
Il punto di partenza è decisivo. Sorprendentemente Giovanni Paolo II non prende avvio né dalla realtà del Sacramento del Matrimonio, né dal dato esperienziale diretto emotivo, psichico, fenomenico e neppure dalle tematiche classiche di teologia morale coniugale o sessuale in genere. Egli assume un’espressione usata da Gesù nel dibattito con i farisei (Mt 19), che rimanda al “principio”, come chiave di interpretazione metodologicamente centrale per intendere il dato antropologico fondamentale sulla base del quale si innesta l’essere uomo e donna e quindi l’unità dei due. Ma come può un simile punto di partenza aiutare a gettare luce su una realtà concreta e determinata com’è appunto quella della natura sessuata del corpo umano? Oppure sulle infinite sfumature esperienziali che caratterizzano l’incontro e l’unione dell’uomo e della donna?
Il rinvio di Cristo al “principio” è un rinvio alla creazione e quindi ad un’opera di Dio, ad un atto che Dio compie. La tesi di fondo di tutta la catechesi su uomo e donna, sulla teologia del corpo e sulla realtà della famiglia è che tutto quel che l’uomo esperimenta nel suo essere e nel suo esistere è legato in maniera diretta con il “principio”, cioè con l’azione creatrice di Dio. L’uomo può essere considerato a partire dalla sua storia, intesa sia come storia del singolo, sia come storia dell’umanità intera, ma l’uomo è più antico della sua storia e, in realtà, tutto quel che si può constatare nella storia e nell’esperienza dell’uomo è legato a quella che Giovanni Paolo II chiama “la protostoria teologica dell’uomo”. Essa, lungi dall’essere qualcosa di tanto remoto, da risultare ininfluente sul presente di ciascun essere umano, è invece ciò a partire da cui si può comprendere in maniera adeguata il mistero dell’uomo nella concretezza del suo essere e del suo vivere.
La conseguenza che Giovanni Paolo II ne trae è che l’uomo e la donna, se vorranno intendere se stessi e l’unità specifica che è stata ad essi assegnata, dovranno rifarsi proprio a quello che il Creatore ha fatto quando li ha creati in quel determinato modo, secondo quel determinato disegno e in vista di quella precisa finalità. Il segreto e la verità di sé è racchiusa nel “principio” che ha costituito l’umanità dell’uomo.
Con questa impostazione “dall’alto” Giovanni Paolo II entra in maniera decisiva nel cuore della controversia infuocata sull’origine. Il misconoscimento della verità e del realismo della Creazione e la sua sostituzione idolatrica, cioè, di mera parvenza, con ipotesi più fantastiche che mentali, ha ormai pervaso l’intero occidente.
Giovanni Paolo II afferma che la realtà di Dio è al principio di tutto quel che è, e in modo specialissimo dell’uomo, quale uomo e donna. Non solo, ma che questo “principio” determina per intero la realtà e l’esperienza dell’essere uomo nel suo “qui e ora” e che quindi esso costituisce il cardine esplicativo della realtà umana nel suo insieme e nei suoi dettagli.
Ciò significa che la verità dell’identità dell’essere “uomo e donna” e quindi della relazione tra i due è posta dal Creatore “in principio” ed è rivelata da Dio nella sua implicazione storica con l’uomo. Quando quel “principio” viene riconosciuto e osservato tutto si ordina in riferimento ad esso, qualora venga occultato o censurato, tutto si deforma e si disordina in frammenti irricomponibili e quindi privi di senso. L’accrescersi dell’umano nell’uomo o la sua sfigurazione dipendono essenzialmente dall’ammissione e dal riconoscimento del “principio” rivelato. La Rivelazione conferisce senso all’esperienza e, una volta accolta l’intelligenza della Rivelazione, anche l’esperienza diviene fonte di esplicazione e di esplicitazione dell’umano nell’uomo.
L’attacco massiccio, programmato e finanziato che su questo fronte è in corso, vedi la “guerra del gender” (D. O’Leary), essendo rivolto al punto in cui il Creatore ha posto il vertice di tutta l’opera creazionale, tende a svellere non un punto qualsiasi, seppur rilevante, ma il “principio” stesso, il punto archimedico della intera creazione. Non si dovrebbe neppur parlare di disordine, ma di un sovvertimento tentativamente completo dell’intera opera divina della creazione. È lo stesso Giovanni Paolo II che parla di “sfida a Dio Creatore” (25 marzo 1984) da parte di una potente corrente ideologica contemporanea istrionicamente mascherata di umanesimo.
“Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza’ (...) E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò” (Gn 1, 26s.). L’insegnamento che il Beato Giovanni Paolo II ci ha lasciato in eredità su questo dato antropologicamente basilare, ricostruisce al dritto quelle che nella Rivelazione anticotestamentaria sono chiamate “le fondamenta del mondo” (Sal 81, 5, Is 40, 21; 15; Gb 38, 4). Nell’ordine della creazione il rapporto uomo-donna ha consistenza di fondamento primordiale. La manipolazione dell’unità tra l’uomo e la donna stabilita dal Creatore è la peggiore delle manipolazioni possibili, perfino di quelle genetiche sulle quali si esercita la bioingegneria.
Se questo è il punto di avvio delle catechesi su “uomo e donna”, lo sviluppo disegna un affresco di grandi dimensioni. Il Papa si sofferma a lungo sul “linguaggio del corpo” e sulla “teologia del corpo” e quindi sulla sessualità, sulla dignità personale dell’uomo e sulla “comunione di persone” che è la famiglia, sulla realtà della famiglia, sul Sacramento del Matrimonio, sulla verginità e, da ultimo, sulle questioni capitali di etica coniugale impostate dalla Enciclica di Paolo VI Humanae vitae. Tutto il disegno si dipana tra la logica del “principio” e il termine della “altissima vocazione dell’uomo”, tra la protostoria e l’escatologia, tra la Creazione e la Risurrezione (“redenzione del corpo”) cui l’uomo è chiamato “in Cristo”.
Con questo insegnamento Giovanni Paolo II ha detto “all’uomo tutta la verità sull’uomo” a partire dal mistero di Dio e ha ridato alla Chiesa intera, dopo una pausa plurisecolare, un’antropologia che fornisce “sempre più chiaramente le ragioni per cui la norma insegnata è vera ed è praticabile da tutti” (Carlo Caffarra), offrendo da un lato le premesse per evitare la china moralista, dall’altro ragioni che legittimano la morale. 
Se il suo capolavoro filosofico era centrato sul mistero e sulla dignità dell’essere personale dell’uomo, ora egli perviene al realismo della “comunione delle persone” (GS 12) integrando la dottrina tradizionale dell’essere ad immagine e somiglianza con l’aspetto della natura originariamente comunionale dell’uomo. L’uomo, afferma Giovanni Paolo II, non è a immagine di Dio, che è Comunione di Persone, solo per il fatto di avere una facoltà di ragione, di volontà, di libertà, ma anche per il fatto di essere istituito nella comunione e chiamato alla comunione (cf. DV 34). Tale apporto si affaccia alla sua meditazione e al suo pensiero proprio attraverso la considerazione della unità dell’uomo e della donna nella famiglia.
Siamo al cuore della “verità sull’uomo”.


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IL CASO/ La Scozia vuol uccidere i papà: l'ultima follia del nichilismo di Paolo Gulisano, mercoledì 30 maggio 2012, http://www.ilsussidiario.net

Anche nella vecchia Scozia la dittatura del Politically Correct comincia a farsi sentire, e questo proprio mentre la nazione che da secoli rivendica con passione il proprio diritto all’autodeterminazione nei confronti del potente vicino inglese è sempre più vicina alla libertà. Ma quale libertà? Da mesi è attiva una durissima campagna di stampa contro il Primate scozzese, il cardinale O’Brien, Arcivescovo di St.Andrews ed Edimburgo, “colpevole”, agli occhi di alcuni potenti mezzi di stampa, di non accettare l’equiparazione della famiglia naturale formata da un uomo e una donna, alle coppie omosessuali. Per aver semplicemente ricordato che la seconda forma di convivenza non è una famiglia, il cardinale è stato pesantemente attaccato, e addirittura c’è chi ne ha chiesto l’arresto e il processo. Un esempio di intolleranza in nome della tolleranza. Ma non è un paradosso isolato. Negli ultimi giorni è uscita l’ultima versione aggiornata di un manuale, prodotto dal Sistema Sanitario Nazionale,  e dove per “nazionale” si intende proprio della Scozia, e non della Gran Bretagna o del Regno Unito, che si intitola Ready Steady Baby, un simpatico gioco di parole che in italiano suonerebbe grossomodo come “pronti…partenza…bambino!” da anni diffuso tra le coppie in dolce attesa. Tutto quello che c’è da sapere sulla gravidanza, il parto, l’allattamento, i primi mesi di vita del bimbo. Qualcosa di simile a quanto viene diffuso anche da noi da consultori o reparti di maternità o ASL. Il fatto è che in questa ultima versione è scomparsa la parola “padre”. L’unico termine ammesso è “Parent”, ovvero “genitore”: debitamente neutrale e “trasversale” ai sessi, o ai “generi”, come va di moda dire. La bella lingua inglese è ormai da anni oggetto di una severa opera di riscrittura all’insegna del conformismo ideologico: termini che offrono una definizione sessuale precisa come“Man” e “Woman” stanno estinguendosi dal vocabolario, rimpiazzati dal neutro “person”. A volte con esiti anche ridicoli. La parola “papà”, così bella nella sua forma austera father come in quella più dolce e affettuosa Dad o Daddy è stata censurata per il timore di offendere le coppie gay, a seguito della protesta di chi sosteneva che il termine padre  «non era una parola che rispetta chi ha relazioni con persone dello stesso sesso coppie dove evidentemente questa paternità non può realizzarsi, e non certo per colpa di nessuno, tanto meno della lingua inglese o dei vescovi che richiamano alle verità elementari, ma perché così è scritto nelle leggi della natura, ovvero della biologia.
E’ davvero un peccato, dicevamo, che tutto ciò abbia avuto luogo in un paese che lotta per la propria libertà dai tempi di William Wallace, il “Cuore impavido” della Scozia. Certo non è stato molto impavido Michael Matheson, il Ministro della Salute scozzese. Ministro di un Parlamento “regionale” che di fatto ha prerogative, in diversi campi (tra cui la sanità) di tipo nazionale. Un Parlamento che legifera per la Scozia attendendo la possibilità, entro pochi anni, di dichiarare la propria indipendenza ed ammainare definitivamente l’Union Jack da Glasgow fino alle Highlands.  Il partito indipendentista, che ha la maggioranza relativa, governa per ora in coalizione. Matheson è membro proprio di questo partito, l’SNP. Un partito che non può non suscitare simpatie: si tratta di una formazione politica caratterizzata da un autonomismo di tipo libertario, non intollerante, mai xenofobo. Matheson peraltro ha anche frequentato le scuole dei Salesiani di Glasgow, una città dove i cattolici sono stati per lunghissimo tempo vittime dell’odio settario. Qualche cosa in merito al coraggio di difendere  i propri valori,  e di testimoniare la verità della fede, il buon Michael l’avrà pure imparata alla scuola di Don Bosco, se non dei martiri scozzesi, come John Ogilvie e tanti altri che diedero la vita perché la Fede non scomparisse da  questa terra benedetta da Dio e vessata da uomini feroci e spietati.  C’è da augurarsi che il ministro della salute, recependo le proteste di diverse associazioni, tra cui la Family Education Trust,  il cui responsabile Norman Wells ha accusato il Servizio Sanitario Nazionale di aver «sprecato soldi del contribuente per far avanzare i diritti di una minoranza»,ci ripensi, ritrovi un po’ del cuore impavido dei suoi antenati che si batterono a Bannockburn e a Culloden, e restituisca alla guida Ready Steady Baby la parola papà:non servirà a nulla guadagnare l’indipendenza al prezzo di perdere la propria identità. Una Scozia senza padri sarà peggio di quella Scozia senza kilt e senza cornamuse che volevano gli inglesi.


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martedì 29 maggio 2012


STATO ED ETICA - Aborti tra le adolescenti: numeri-choc in Inghilterra, http://www.avvenire.it

Qualcosa non funziona nella strategia adottata dal governo per ridurre il numero delle gravidanze indesiderate tra le minorenni del Regno Unito. I dati che il ministero della Sanità pubblicherà questa settimana, e che sono stati anticipati dal Daily Telegraph, mostrano una realtà agghiacciante, e questo nonostante una campagna martellante che da almeno cinque anni promuove contraccettivi, spiega come averli gratis e indica come ricorrere all’aborto.

Nel 2010 sono state 38.269 le adolescenti che hanno interrotto la gravidanza in Gran Bretagna. Una cifra in sé raccapricciante, ma c’è di più: di queste ben 5.300 sono alla seconda esperienza, 485 ragazze alla terza, 57 l’hanno fatto per la quarta volta, 14 hanno abortito cinque volte, quattro ragazze sei volte, e almeno tre sono arrivate all’incredibile livello di sette aborti.

Si tratta di numeri choccanti che il governo non potrà ignorare, ci dice Rebecca Mallinson della Pro Life Alliance. E anche se il numero degli aborti tra adolescenti è sceso (del 4,5%) nel 2010 rispetto ai 40.067 del 2009, il fatto allarmante è che sono aumentati almeno del cinque per cento, nella stessa fascia d’età, gli aborti multipli.

«C’è qualcosa di profondamente sbagliato in un Paese – sottolinea Mallinson – quando un numero così alto di teen-agers abortisce anche solo una volta. Il fatto che tante lo abbiano fatto ripetutamente è il segnale che qualcosa non funziona e che bisogna intervenire al più presto. È ovvio che la responsabilità è di noi adulti: non stiamo facendo la cosa giusta per proteggere queste giovani tanto vulnerabili. Sono ragazze che avranno un futuro problematico: oltre alle gravi conseguenze psicologiche di una o più interruzioni di gravidanza, ci sono le implicazioni sulla salute, le malattie trasmesse sessualmente e il rischio dell’infertilità». Il problema, spiega Patrick Rubra, ginecologo, «è che molte di queste ragazze vogliono presto dimenticare quello che hanno fatto e quindi rifiutano ogni supporto psicologico». «È evidente – prosegue – che le tattiche del governo non funzionano. Queste ragazze hanno bisogno di valori, non di consigli pratici su come abortire. È facile dire a una minorenne che c’è una soluzione pratica e sbrigativa ai suoi problemi, ma una soluzione di questo tipo spesso è quella peggiore per il futuro».

L’aborto è una procedura molto seria – ci dice una portavoce del gruppo Life – «ma in Gran Bretagna non c’è mai stato un dibattito sui rischi e sulle conseguenze di questa scelta. Si parla molto di come abortire ma mai di come sia sbagliato e pericoloso avere rapporti sessuali troppo presto. Speriamo che questi dati aiutino il governo a riflettere e a far capire che non ci sono sempre soluzioni facili a tutto».


29 maggio 2012 - Le politiche educative sbagliate e l'«eccezione italiana» Adolescenti dall'aborto facile: ecco il fallimento inglese, Assuntina Morresi, http://www.avvenire.it

Gran Bretagna conferma ancora una volta il suo triste primato di abortività. Il Telegraph ha anticipato alcuni eloquenti dati del Servizio sanitario nazionale: nel 2010 hanno abortito 38.269 teen-agers, di cui circa 5.300 per la seconda volta, ma ci sono cifre ancor più impressionanti – delle quali il quotidiano inglese dà conto – relative agli aborti plurimi nelle ragazze fra i 13 e i 19 anni. Diminuiscono le interruzioni di gravidanza fra le minorenni ma aumentano in generale – il 5% in più rispetto all’anno precedente – le adolescenti che abortiscono più volte. In Italia la situazione è diversa: nel 2009 ad abortire nella stessa fascia di età sono state 9.846 donne, di cui 3.719 minorenni. In termini percentuali siamo ai valori più bassi in Europa. Per gli aborti ripetuti, i dati delle relazioni annuali al Parlamento sull’applicazione della legge 194 non sono divisi per fasce di età ma complessivamente mostrano la percentuale più bassa rispetto alle altre nazioni. Una situazione "migliore", la nostra, che certo però non può consolare e che non lascia affatto tranquilli: rimangono sempre cifre devastanti, che tuttavia vanno lette con attenzione perché le differenze significano pur qualcosa. E vanno comprese.

Innanzitutto i dati inglesi mostrano che la diffusione massiccia dei contraccettivi, anche con l’educazione sessuale nelle prime classi scolastiche, è una politica fallita: chi ripete l’aborto, specie se giovane, vi ricorre come a un contraccettivo, anche quando altri mezzi sono facilmente accessibili. In Italia la diffusione della pillola anticoncezionale è fra le più basse in Europa: intorno al 16%, circa la metà rispetto a quella delle donne inglesi. E anche per la cosiddetta contraccezione di emergenza – la "pillola del giorno dopo", per la quale comunque non si può escludere un effetto antinidatorio – i numeri dicono altro: nel 2008 in Gran Bretagna, dove per l’acquisto la ricetta non serve, ne sono state vendute 1.428.000 confezioni, contro le 381mila italiane, con la vendita subordinata a prescrizione medica. Inoltre, a differenza del Regno Unito, gli aborti in Italia sono in costante diminuzione, e lo erano anche prima dell’avvento della "contraccezione di emergenza". Qual è il motivo, al di fuori della solita propaganda? È la solidità della famiglia a fare la differenza, è questa nostra straordinaria risorsa, ancora vitale anche se indebolita, la più efficace prevenzione dell’aborto: se i legami familiari sono stabili, se c’è il calore degli affetti solidi dei genitori, di quelli su cui sai di poter sempre contare, un figlio inaspettato non diventa un ostacolo da eliminare. Se nei genitori hai visto, giorno dopo giorno, in tutte le circostanze che la vita offre, nella buona e nella cattiva sorte, un amore fedele; se hai vissuto nella tua vita l’esperienza del "per sempre" dei tuoi familiari, allora la desideri anche tu, capisci che è possibile, e difficilmente ti farai convincere che la felicità è negli affetti temporanei e fragili, nei rapporti destinati a rompersi uno dopo l’altro, nella "libertà" intesa come disimpegno. E allora è più probabile che un figlio arrivi quando c’è un rapporto certo e consolidato e – che sia voluto o meno – sarà sempre il benvenuto. Pensare che la prevenzione dell’aborto si riduca alla somministrazione della pillola di turno, oltre che riduttivo, è profondamente sbagliato. Nel nostro Paese convivono un minore ricorso alla contraccezione chimica e all’aborto insieme a una forte denatalità ma anche a una famiglia ancora sostanzialmente salda, contro le considerazioni di tanti "esperti" che si ostinano a non vedere questa eccezionalità tutta italiana, e che invece cercano di avvicinare il nostro Paese all’Europa per le pratiche contraccettive e abortive, e certe concezioni di famiglia. Ma non potrebbe essere l’Europa a "seguire" l’Italia?

L'altro Zagrebelsky e l'eterologa



29 maggio 2012- Dal fondo del dolore, Marina Corradi, http://www.avvenire.it

Per raccontare come è ora suo marito sceglie l’immagine del «Cristo velato» di Giuseppe Sanmartini; quel volto bello e dolce, come addormentato nella morte. Sono passati 6 anni da quando Mariapia Bonanate, scrittrice e giornalista – testimone oltre un anno fa dell’appello «Lasciateli parlare» di Avvenire perché fosse dato spazio televisivo anche alle famiglie che assistono disabili gravi – ha visto il padre dei suoi figli sprofondare nel buio della sindrome Locked-in, un raro genere di coma che lascia la persona cosciente, ma come murata nel silenzio e nella immobilità. Capace al massimo di rispondere con un battito di ciglia, e, col tempo, nemmeno di questo. Io sono qui, il libro della Bonanate che esce oggi per Mondadori, è la storia di un grande silenzio attraversato: quello della camera di un uomo che non sente, non parla, però respira e vive. «All’inizio ho conosciuto la disperazione», ricorda la scrittrice, che scrive del «fiume invalicabile» che presto divide un malato come questo dai sani. Della fatica di ricominciare ogni mattina, del desiderio, certi giorni, di scappare, di sottrarsi a quel silenzio. Poi, nella stanza della vita sospesa la Bonanate lentamente impara un nuovo modo di comunicare: «Ci parlavamo con gli sguardi, con le carezze. Non lo abbiamo mai lasciato solo. Abbiamo voluto tenerlo in casa. Un giorno la disperazione ha cominciato a retrocedere di fronte alla percezione di un amore di un tipo nuovo, e fortissimo. Questo amore nuovo si è aperto agli altri, agli amici e agli infermieri e ai volontari che si danno il turno nell’assisterlo. È nata attorno a mio marito una sorta di comunità. C’è qualcuno che da sei anni, ogni notte, lo veglia; e in quel vegliare è anche lui cambiato, e ha cambiato il proprio sguardo».

Dalla stanza silenziosa trasformata in un «cuore pulsante» della casa Mariapia Bonanate ha cominciato, dice, «a vedere delle cose che prima non vedevo. Ma, anche, di fronte a quel letto ho ritrovato in me come le voci spezzate delle tante sofferenze e miserie che ho incontrato come giornalista; unite, ora, nella stessa croce che riconosco in mio marito su quel letto». Come l’allargarsi lento di una gran luce, che «non cancella affatto il dolore, non evita la fatica; e però mi ha aperto davanti un mondo inimmaginabilmente più ampio». Ma già nei primi tempi di quella segregazione straziante la moglie ritrova un libro che proprio il marito tanto tempo prima le aveva messo in mano: il Diario di Etty Hillesum, la giovane ebrea olandese morta a Auschwitz che in quel testo e nelle Lettere ha lasciato la testimonianza di una straordinaria metamorfosi spirituale; come una invasione di Dio in una ragazza di radici ebraiche, ma inizialmente lontana dalla fede.

E dunque attorno alla stanza muta come la cella di un convento si forma una singolare triangolazione: Mariapia, il marito e Etty, con le sue intuizioni, con la sbalorditiva forza di cui dà prova, nel campo di raccolta olandese di Westerbork. «Come lei nel lager – dice la Bonanate – anche io in un primo momento mi sono sentita segregata, come lei assediata dall’apocalisse. Come Etty nella Amsterdam invasa dai nazisti traeva speranza anche dalla contemplazione del gelsomino candido sul balcone, ho cominciato a accorgermi della bellezza dei rami degli alberi che dalle finestre quasi entrano nella nostra casa torinese, come a toccarci». Il Diario è sempre sul comodino della scrittrice, che la sera lo apre e vi trova una eco della sua solitudine, e insieme della sua speranza. Compagna, Etty Hillesum, in modo misterioso, a lei come a molte donne che l’hanno incontrata, credenti e no, conquistate dalla ragazza «che non sapeva inginocchiarsi», dalla ragazza che parlava con Dio quasi faccia a faccia, mentre il suo popolo e lei stessa venivano deportati in Polonia. «Un pozzo profondo è dentro di me. E Dio c’è in quel pozzo. Talvolta mi riesce di raggiungerlo, più spesso pietra e sabbia lo coprono: allora Dio è sepolto. Bisogna di nuovo che lo dissotterri…».

Sono queste forse per la Bonanate le parole più care della Hillesum. La pietra e la sabbia dure come la fatica quotidiana in quella stanza; ma Dio che, in quel silenzio, si lascia trovare. «Ho cominciato a scoprire un altro mondo, una ricchezza straordinaria – dice –, man mano che mio marito ci andava accogliendo nella sua terra estrema. E ho capito perché Etty è così profetica, a sessant’anni dalla morte: lei, vissuta nel momento del culmine del male, ha conosciuto per prima le macerie del nichilismo, che ora riguardano la vita di tanti di noi; e però ha saputo sfidarle».

Ma quale risposta è umanamente possibile, di fronte a un uomo imprigionato in sé per sempre? Forse nessuna, come nessuna risposta può placare la ferita di Auschwitz, dove Benedetto XVI si chiese perché Dio aveva taciuto. E tuttavia, nel lager, dove Dio sembrava assente, Etty – dice la Bonanate – intuì che proprio quel silenzio le domandava di farsi lei stessa "casa" a Dio, angolo in cui un piccolo pezzo di Dio fosse salvato: mentre i treni la notte caricavano vecchi, uomini, donne, bambini, in un orrore cieco. E dunque anche nella nostra fatica quotidiana, quando Dio ci sembra assente, possiamo essere noi a manifestarlo, attraverso la nostra povera faccia, agli altri». Come accade in quella stanza sfiorata dai rami degli alberi, dove la faccia e gli occhi di una donna e di amici e volontari inducono in chi passa uno stupore. Una domanda: com’è possibile vivere così? In quella stanza, dove «il mistero del silenzio ci investe come un vento forte».

Tabagismo - Pelle, cataratta, infertilità, il fumo non è "solo" tumori






FAMIGLIA/ Ecco i due ostacoli che la frenano di Gian Carlo Blangiardo, martedì 29 maggio 2012, http://www.ilsussidiario.net

Dopo i tanti dibattiti sul persistente grande valore dell’istituzione familiare - e in primo luogo della sua espressione più in linea con la tradizione (genitori e figli) - sorge una legittima domanda: se è vero che la famiglia continua a essere un solido modello di riferimento per la popolazione italiana, come spiegare il suo progressivo indebolimento rispetto ai processi di formazione di nuovi nuclei e del loro sviluppo?
I dati statistici ufficiali mostrano, con crudo realismo, l’implacabile caduta della primonuzialità (dai circa 400mila matrimoni degli anni ‘70 agli attuali meno della metà), la prolungata difficoltà nel transitare alla vita adulta (il 40% dei maschi e il 22% delle femmine in età 30-34anni vivono ancora in famiglia), ma soprattutto la drastica riduzione della fecondità, che da più di trent’anni si è spinta oltre quel confine, due figli per donna, che varrebbe a garantire almeno il ricambio generazionale tra genitori e figli. Oggi si registra in Italia un numero medio di figli per donna che è pari a 1,42 e che se ci si limitassimo a considerare la sola componente con cittadinanza italiana si ridurrebbe ulteriormente a 1,33.
Eppure, le stesse fonti statistiche ufficiali documentano come le donne continuino ad avere un elevato desiderio di maternità: la media è di circa 2,2 figli e anche il fatto che oltre l’80% delle attuali quarantenni abbiano avuto almeno un figlio - quasi come avveniva per le loro madri - testimonia una sostanziale tenuta delle nascite di primo ordine. Purtroppo, nella fredda contabilità del bilancio demografico di una popolazione, avere figli più tardi significa inevitabilmente “produrne” meno.
È noto come tra i fattori che deprimono la fecondità nel nostro Paese prevalgano le motivazioni di carattere economico (che interesserebbero circa il 20% delle donne con uno o due figli e il 12% di quelle con tre o più), ma anche il lavoro extradomestico rappresenta un elemento importante per non volere un altro figlio. Si tratta di difficoltà che rientrano nella sfera della conciliazione tra attività lavorativa e gestione familiare e che spesso ostacolano già la transizione al secondo nato. In conclusione, la diagnosi è chiara. Le cause più immediate della bassa fecondità in Italia possono riassumersi in due ordini di problemi: quelli relativi ai costi (non solo monetari) dei figli e quelli legati alla difficoltà per le donne nel gestire il “doppio ruolo”, di lavoratrice e di madre.
Un doppio ruolo che sconta la presenza sia di un sistema di welfare di tipo familistico - che non le supporta attraverso l’erogazione di servizi essenziali tramite strutture pubbliche, ma demanda principalmente tale compito alle reti informali di aiuti familiari -, sia di un contesto di coppia ancora generalmente caratterizzato dalla disparità di genere nella divisione dei compiti. La difficoltà nel risolvere questi problemi si traduce in una continua attesa verso il raggiungimento delle condizioni ottimali tanto per sposarsi quanto per avere figli, uno stato che spesso prelude alla rinuncia, parziale o totale, della realizzazione di quello che vorrebbe essere il progetto familiare ideale.
Su entrambi i versanti - quello dei costi e della conciliazione - sarebbe tuttavia possibile intervenire (o almeno iniziare a intervenire) - anche facendo tesoro dei modelli già sperimentati con successo nella vicina Francia, così come in alcune realtà nordiche - con opportune azioni di supporto in termini di norme fiscali e tariffarie, di organizzazione del lavoro e di atteggiamento culturale.
E se è vero che l’intervento sul piano economico esige risorse che oggi sono alquanto difficili da reperire, almeno sul fronte della conciliazione un’azione efficace sembra potersi configurare con realismo. Occorrerebbe però comprendere maggiormente non solo quali sono le linee guida e i criteri che determinano le scelte professionali e familiari, ma anche come avviene nella coppia il processo consapevole (e spesso inconsapevole) di negoziazione e di presa di decisione sull’organizzazione familiare.
Bisognerebbe altresì prendere coscienza del fatto che la conciliazione famiglia-lavoro non si misura unicamente con le responsabilità di cura maggiormente incombenti, bensì con l’intero spettro di istanze di sviluppo e realizzazione personali e relazionali. È necessario un progressivo affrancamento di questo problema dal suo imprinting di esigenza esclusivamente femminile per interpretarlo sempre più come una vera e propria questione familiare e sociale. In ultima analisi, ciò comporta - come recentemente è stato autorevolmente suggerito - “la necessità di considerare le esigenze conciliative lungo tutto l’arco di vita, di riconoscere e valorizzare, in un’ottica sussidiaria, l’intervento dei diversi attori sociali (istituzioni politiche, imprese, privato sociale e famiglie) finalizzato, secondo una regolazione normativa di governance societaria, alla compiuta realizzazione di un welfare comunitario, fondato sulla promozione di una buona relazione tra famiglia e lavoro (CEI-Progetto Culturale, Il cambiamento demografico, Laterza, 2011, p.15).


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lunedì 28 maggio 2012


27 maggio 2012, Il dibattito (parziale) sui ginecologi obiettori - Diritti sporcati di Francesco D'Agostino, http://www.avvenire.it

Due cose, tra le tante, mi hanno colpito nella lunga intervista contro i ginecologi che fanno obiezione di coscienza all’aborto che la ginecologa Giovanna Scassellati ha concesso ad Adriano Sofri, su Repubblica del 24 maggio. In primo luogo l’accenno alla «parte sporca dell’ostetricia, il lavoro sociale, quello che coinvolge le emozioni». Il riferimento alle pratiche di interruzione volontaria di gravidanza è palese. In secondo luogo (ma strettamente collegato al precedente) l’osservazione che mentre «la maternità ti fa diventare amica della donna che assisti, per sempre», con l’assistenza all’aborto, invece, succede il contrario.

«Con l’aborto non ti fai clienti: succede che non abbiano più voglia di vederti, dopo». Tralasciamo quanto di ambiguo potrebbe esserci nel riferimento al 'farsi clienti': sicuramente Scassellati, dicendo quello che ha detto, non intendeva certo riferirsi all’aspetto puramente lucrativo della sua professione. Credo piuttosto che essa volesse alludere al fatto che la donna che abortisce volontariamente porta sempre dentro di sé la ferita, e in molti casi – perché no? – la vergogna, della decisione assunta, ancorché liberamente: ferita e vergogna proiettate inevitabilmente anche sul volto del ginecologo cui ci si è rivolti per essere aiutate ad abortire e che si è assunto il compito di farsi carico di questa pratica, della «parte sporca dell’ostetricia».

Non è questo il luogo per valutazioni morali sull’aborto, che vanno certamente fatte, ma in altro contesto e partendo da altri riferimenti rispetto a quello da cui ho preso le mosse. Quello che mi dà da pensare è quanto sia difficile ricondurre le parole di Giovanna Scassellati all’ideologia oggi dominante quando si parla di interruzione volontaria della gravidanza. L’aborto volontario è ritenuto da molti un «diritto della donna» (e da alcuni addirittura un diritto riproduttivo «insindacabile»). Come sia possibile ipotizzare un diritto, quando la sua realizzazione effettuale che ci porta a parlare della «parte sporca dell’ostetricia», fuoriesce dalle mie capacità di comprensione. Ancor più: come si possa qualificare alla stregua di un diritto una pratica che cerca di essere radicalmente rimossa da coloro che l’hanno praticata, cioè dalle donne che sono ricorse all’aborto volontario, mi appare ancora più enigmatico.

Per le donne che chiedono l’aborto volontario parliamo, se si vuole, di duro e violento condizionamento sociale, o di stato di necessità o di situazioni tragiche e laceranti; ma non parliamo di «diritto». La titolarità di un diritto, di un autentico diritto, non dovrebbe mai avere alcunché a che fare con la «sporcizia». Né meno che mai dovrebbe avere un senso il far di tutto per rimuovere la memoria di aver esercitato un diritto «insindacabile». Di qui una domanda semplicissima: perché i ginecologi che non si dichiarano obiettori, come appunto Scassellati, ma che nello stesso tempo avvertono con lucidità le difficoltà che ho appena citato e che giustamente considerano l’aborto «un enorme problema personale e sociale e culturale», non si fanno promotori a loro volta di forti e attive campagne di prevenzione, di campagne rivolte non tanto a rendere arduo l’esercizio di questo asserito 'diritto', ma solo ad aiutare quelle donne che sarebbero dispostissime ad accogliere un figlio, se avessero un minimo di supporto individuale o sociale?

Perché i medici abortisti non riconoscono che il rilascio dei certificati che autorizzano l’interruzione volontaria di gravidanza ha il più delle volte un freddo carattere burocratico? Perché non aderiscono – senza per questo divenire obiettori – ai progetti di aiuto alla vita, che, anche se in un numero limitato di casi, aiutano davvero molte madri ad accettare la gestazione e a portarla a termine? Perché attivano campagne contro i medici che fanno obiezione all’aborto, accusandoli di malafede, e non riconoscono che il fatto stesso che la stragrande maggioranza dei ginecologi italiani (il 71%) faccia obiezione non può essere riduttivamente spiegato parlando di ipocrisia e di carrierismo? L’aborto non è soltanto un lacerante problema bioetico, è una piaga sociale aperta. Le piaghe, però, si risanano mettendo olio e non sale sulle ferite.

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