martedì 22 maggio 2012


22/05/2012 – INTERVISTA - C'è la crisi e anche l'inconscio si sente poco bene - Il senso del malessere "Non ricordo niente di simile tra i pazienti neanche all'epoca dell’inflazione al 18 per cento" - La Società psicoanalitica italiana a congresso su un tema di drammatica attualità : parla il presidente Stefano Bolognini, di EGLE SANTOLINI, http://www3.lastampa.it/

MILANO
Racconta Stefano Bolognini, presidente della Società psicoanalitica italiana e primo italiano salito al vertice anche dell’International Psychoanalytical Association, che il tema del sedicesimo congresso dei freudiani di casa nostra era deciso da un pezzo, ma in qualche modo è scoppiato in mano a chi l’aveva scelto.

Mentre i relatori lavoravano sul titolo «Realtà psichica e regole sociali - Denaro, potere e lavoro fra etica e narcisismo», e si elaboravano, sui tempi lunghi richiesti da queste manifestazioni, gli interventi anche di alcuni ospiti «laici», tra cui sindacalisti, banchieri e poeti, la situazione finanziaria ed emotiva del Paese si addentrava infatti in territori angosciosi e forse inesplorati. Una tempesta che, a memoria di analista, offre pochi paragoni possibili nel tempo: «Non ricordo un tale senso di malessere dei pazienti neppure all’epoca dell’inflazione al 18 per cento», riconosce Bolognini.

Presidente, come incide la crisi sull’inconscio degli italiani?
«Rode il narcisismo fino al midollo. Quello “cattivo” ma anche quello “buono”, quello di morte e anche quello di vita. Mi spiego. Noi distinguiamo tra due tipi di narcisismo, un po’ come accade per il colesterolo: c’è quello ridondante, malato, esibito in maniera patologica e impudica, come è accaduto anche nella recentissima vita politica italiana. E poi c’è il narcisismo che ha a che fare con l’identità e con il riconoscimento delle proprie risorse e dei propri progetti. Ecco: a questo punto, la crisi sta ferendo anche il senso di sé, in maniera vasta e preoccupante. Si instaura una cappa pesante di svalutazione, di mortificazione. Questa ondata di suicidi è il segno inquietante di uno stato di sofferenza diffuso».

Il tema del Congresso mette in relazione narcisismo ed etica.
«Se la nazione è in stato di sofferenza, diventano più acute anche le questioni di tipo etico. Che, in questa fase, sembrano assumere il tono della frusta nei confronti dei politici. Si è come arrivati a un clima da resa dei conti. E i soggetti più deboli, quelli dall’ego meno saldo, soccombono».

La perdita del posto di lavoro coincide con la perdita d’identità?
«Purtroppo sì, è quello che accade molto spesso. In questa società, spesso non riusciamo a valutarci se non per quello che realizziamo professionalmente. Vede, Freud diceva che l’analista doveva mettere il paziente in condizione di fare quattro cose: amare, lavorare, godere e soffrire. E aggiungeva che, se non si è in grado di lavorare, non si può neppure amare. Nel senso profondo, complessivo, del prendersi cura di chi ama».

Quali sono le generazioni più colpite?
«I giovani che sentono di non avere prospettive, i genitori terrorizzati dal futuro dei figli. Ma anche chi di figli non ne ha, perché è in gioco il senso stesso di progetto di un’intera società».

Come si manifestano queste ferite nel suo studio di analista? Le raccontano molti sogni ambientati nell’ufficio del personale o, magari, alla mensa dei poveri?
«No, questo non succede. Il lavorìo dei sogni prende un andamento autonomo, più profondo, non rispecchiando direttamente le vicissitudini quotidiane. L’angoscia emerge dalle comunicazioni dei pazienti più che dal loro materiale onirico».

Qualche esempio, al riparo del segreto professionale?
«Molti casi di oppressione emotiva perché ci si rende conto di non poter portare a termine dei progetti creativi. Di non poterci neanche più pensare».

Visti i costi dell’analisi, ci saranno quelli che non sanno più come proseguirla, oltre a quelli che stanno male, la vorrebbero ma non la cominciano. A proposito, quanto costa oggi una seduta?

«Certi giovani colleghi la fanno pagare anche 30 o 40 euro. In media direi che siamo sui 50».

Per una frequenza di…
«Tre o quattro volte la settimana, nello schema classico. Ma dati i tempi, si negozia, si arrangiano degli aggiustamenti. Certamente c’è un po’ più di cautela del solito nel cominciare una terapia».

Capita il paziente che arriva e le dice: dottore, non la posso più pagare?
«Capita sì. È allora che si pensa a qualche compromesso, magari tagliando una seduta o due. So di colleghi che si abbassano i prezzi. Ma è difficile che un soggetto in grave sofferenza rinunci al rapporto con l’analista. Di solito si trova il sistema».

Ha riscontri nel lavoro degli analisti di altri parti del mondo?
«Oh sì. Ci si dispera in tutta Europa, ora perfino in quelle società scandinave che tradizionalmente godevano di un welfare molto efficiente. D’altro canto, in certe nazioni giovani come il Brasile la situazione è più positiva».

Presidente, un paio di anni fa, proprio in occasione di un altro congresso della Spi, lei ci aveva descritto certi soggetti caratterizzati dalla paura del pensiero, estroflessi, incapaci di interiorizzazione, che vivevano una vita finta, incentrata sul look o su rapporti virtuali e non autentici. La crisi ne ha fatto piazza pulita?
«Per considerare come un’opportunità la situazione che stiamo sperimentando direi che, se non altro, abbiamo la chance di tornare all’essenziale: alla qualità delle relazioni, all’apprezzamento di ciò che si ha. Stiamo imparando che la felicità non sta nel vestire griffato o nel viaggiare intorno al mondo come trottole. E allora sì: a un prezzo altissimo, questa può essere l’occasione per liberarci dalla volgarità generalizzata. E dallo spreco anche emotivo».

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