venerdì 31 maggio 2013

Quello che non si dice sulle unioni omosessuali - di Redazione, 30 maggio 2013 - http://www.documentazione.info


Prende sempre più spazio sui media il tema dell’equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. Il discorso è spesso incompleto e vengono omessi aspetti e fatti significativi. Come contributo al dibattito offriamo di seguito alcuni fatti e dati che se non smentiscono del tutto almeno mettono in dubbio gli “assunti” più comuni del dibattito spesso dati per scontati.

È vero che non si può uscire dall’omosessualità?
Si sente dire che l’omosessualità è un dato di natura ed è nei geni, che non si può cambiare e che solo affrontare il discorso dell’uscita dall’omosessualità sia discriminatorio e offensivo. In realtà esistono testimonianze di persone che hanno smesso di avere tendenze omosessuali, in Italia è famosa quella di Luca che ebbe il coraggio di raccontare il disagio che viveva e come è riuscito ad uscirne. Negli Stati Uniti, Joseph Nicolosi, non senza difficoltà si dedica alla cosiddetta terapia riparativa per chi si sente a disagio a vivere secondo lo stile di vita omosessuale.
Qualche anno fa il Committee on Homosexuality and Scientific Research aveva pubblicato un documento di cui abbiamo riportato alcuni estratti in cui si notava che l’omosessualità non è una caratteristica genetica predeterminata.

È vero che la politica internazionale concorda sull’equiparazione delle unioni gay al matrimonio?
Quando si parla di questo argomento si dà per scontato che l’idea dell’equiparazione delle unioni gay al matrimonio sia comunemente accettata in tutto il mondo e nell’opinione pubblica. In realtà nel mondo 14 paesi su 192 dell’ONU hanno riconosciuto il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Prima dell’ultimo referendum negli Stati Uniti (in cui 3 stati hanno approvato i matrimoni gay) in 32 stati nei referendum la popolazione ha sempre difeso il matrimonio naturale. Nel 2012 i tedeschi hanno respinto la proposta di equiparare le coppie dello stesso sesso al matrimonio tra un uomo e una donna. Per conoscere la situazione nei diversi paesi clicca qui. 
D'altra parte, i dati sui matrimoni omosessuali evidenziano che si tratta di un fenomeno in via di ridimensionamento, contrariamente alle previsioni. In Olanda, una ricerca dell'Institute for Marriage and Public Policy a dieci anni dall'introduzione del matrimonio gay dice che ormai soltanto un decimo degli omosessuali olandesi sceglie il matrimonio. E dopo l'entusiasmo del primo anno, anche in Spagna ed Inghilterra le coppie gay sposate stanno diminuendo.  

È vero che l’opinione pubblica è sostanzialmente compatta sul tema?
Quando si affronta il tema spesso si presenta la questione come fosse accettata in modo compatto dalla maggioranza a cui si oppone solo una ristretta minoranza. In realtà esistono obiezioni autorevoli da parte di intellettuali negli Stati Uniti, in Italia e in altre parti del mondo. In Francia, dove da poco è stata approvata l’equiparazione del matrimonio gay, la società civile si è spaccata con manifestazioni organizzate in tutto il paese a cui hanno aderito centinaia di migliaia di persone. Il clima è talmente polarizzato che ci sono stati episodi di violenza e repressione da parte della polizia anche nei confronti di manifestanti pacifici, come il video impressionante di una donna che viene messa a terra da poliziotti durante una manifestazione autorizzata e pacifica (ne sono la prova i bambini in bicicletta che assistono all’aggressione). 
Addirittura nella manifestazione francese contro il “Matrimonio per tutti” si sono schierate, come ha segnalato Linkiesta, alcune associazioni gay (Homo vox e Plus gay sans mariage) che difendono il diritto dei bambini ad avere un padre e una madre, considerato il fatto che in Francia già esiste (dal 1999) una legge per le convivenze civili e i diritti delle coppie omosessuali.

Gli studi scientifici concordano sulla bontà delle adozioni gay?
Quando si parla delle adozioni da parte di coppie omosessuali si sente dire che gli studi scientifici dimostrano che non c’è alcuna differenza tra padri e madri o genitori dello stesso sesso. In realtà gli studi che vanno in questa direzione hanno mostrato gravi carenze scientifiche mentre su campioni di ampio respiro i risultati che si registrano restituiscono una consapevolezza dettata dal buonsenso: tutte le condizioni familiari diverse da un padre e una madre (genitori single, bimbi orfani, genitori gay) provocano disagi e problemi nei minori.

La dottrina Cattolica è contro i gay?
Quando si parla di equiparazione del matrimonio gay si presuppone che la dottrina cattolica sia discriminatoria e “anti-gay”. In realtà se si legge il Catechismo della Chiesa Cattolica ai punti 2357-2359, si afferma che gli omosessuali, in quanto persone, non vanno mai discriminati:
“Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione.”
La Chiesa non è contro nessuno, semplicemente ritiene che il matrimonio sia una cosa completamente diversa da un’unione omosessuale. Da notare che la dottrina cattolica non ama dividere le persone in omosessuali, eterosessuali o altre categorie: esistono solo le persone, non importa quali siano le connotazioni, persino sessuali.

Il pensiero laico e non confessionale impone di riconoscere i matrimoni gay?
Nei dibattiti su questo tema sembra sia scontato che il pensiero più laico e “imparziale” propenda per l’equiparazione, mentre tutte le obiezioni siano in qualche modo confessionali e ideologiche. In realtà se si analizzano i principali discorsi di chi difende la natura del matrimonio come realtà completamente eterogenea alle unioni omosessuali si accorge che l’intero impianto argomentativo non mette mai in mezzo Dio, come a dire: basta la sola ragione per non essere d’accordo. Infatti l’obiezione nasce da tre questioni di fondo, riconoscibili da tutti:

1. La famiglia è l’unità fondante della società;

2. Il cuore della famiglia è costituito dall’unione sessuale fra un uomo e una donna per il loro beneficio e per il bene dei figli che verranno;

3. Il matrimonio costituisce l’ambiente ideale, irreplicabile per far crescere i figli.
Non si capisce perché il dibattito non entri nel merito di questi punti invece di parlare sempre di polemica tra visioni opposte.
Clicca qui per vedere tutte le risposte al matrimonio omosessuale.

Il matrimonio omosessuale è una conquista civile come altre che si sono affermate nella storia?
Su questo punto si dà per scontato che ci sia stato una sorta di cammino spontaneo dell’umanità che a poco a poco si è emancipata da pregiudizi contro gli omosessuali in modo naturale e ineluttabile. In realtà la non discriminazione verso le persone (siano omosessuali, di razze differenti, di visioni differenti, ecc.) è una cosa ben diversa dal discutere se le unioni omosessuali siano equiparabili al matrimonio. Quest’ultima operazione è stata progettata a tavolino agli inizi degli anni ’90. All’epoca il cosiddetto movimento gay propagandava ancora idee sull’amore libero, includendo forme di sadomasochismo, pedofilia e altre aberrazioni. Nel libro After the ball due attivisti gay tracciarono la strategia: ripulire l’immagine degli omosessuali soprassedendo a tutti gli aspetti più trasgressivi  per ottenere diritti riconoscibili e familiari (vedi equiparazione delle unioni al matrimonio) per poi procedere a mano a mano con il resto.

La lotta all’omofobia è una battaglia democratica?
Un altro assunto del dibattito è che occorre lottare contro l’omofobia in tutte le sue forme. In realtà questa lotta si sta trasformando in una preoccupante ondata liberticida in cui non si può più avere un’opinione diversa da quella dominante sulle unioni omosessuali. Ad esempio in Canada la commissione dei diritti umani ha indagato, processato e multato diverse persone, inclusi sacerdoti, colpevoli di aver affermato che il matrimonio eterosessuale fosse alla base dello sviluppo della società (leggi qui).
In Francia oltre agli episodi di repressione della libertà di espressione di cui abbiamo parlato sta facendo discutere molto la proposta del minstro dell’educazione di insegnare a scuola la morale laica a cui tutti dovrebbero aderire: allo studio ci sarebbe addirittura la riformulazione dei manuali scolastici tenendo conto dell’orientamento sessuale: una revisione dei libri di scuola in materia di omosessualità con l’introduzione, in particolare, della teoria sul “genere” sessuale.
Più in generale sui mezzi di comunicazione c’è un certo uso dello spauracchio dell’omofobia per alimentare il clima di conflitto a proposito di certe notizie che poi si rivelano infondate.
La lobby pedofila che vuole cambiare l'Europa - di Roberto Marchesini - 31-05-2013 - http://www.lanuovabq.it/

Don Fortunato di Notoinf
    
«In Europa c'è una forte lobby pedofila che punta a fare diventare normale la perversione. Mai come oggi si è assistito all'annientamento dei bambini in queste dimensioni». Ad affermarlo è don Fortunato Di Noto, il sacerdote siciliano fondatore dell'associazione Meter, il più famoso "cacciatore" di pedofili su Internet. Con lui cerchiamo di capire il fenomeno in Italia.

Don Fortunato, cos'è, e come funziona l'associazione Meter?
Prima di tutto è un cammino di fede. La nostra è una diakonia al servizio dell'infanzia che vuole abbracciare l'infanzia nella sua interezza. Paolo VI diceva che la difesa dei piccoli, per la Chiesa, non è una moda. E diceva che la Chiesa è esperta di umanità, di tutta l'umanità. Meter vuole essere esperta di infanzia, di tutta l'infanzia. Perché non esistono figli degli altri, ma solo figli nostri.
L'associazione funziona dal 1989. Abbiamo una sede centrale ad Avola (Siracusa) e 350 volontari in tutta Italia e nel mondo. Lavoriamo per la protezione dell'infanzia, non solo sulla lotta alla pedofilia online. Ci occupiamo di affido familiare, incontriamo i ragazzi nelle scuole per capirli ed essere loro vicini. E altre attività.

Come, e perché ha cominciato ad occuparsi di pedofilia?
Perché sono da sempre un tipo curioso e appassionato di tecnologia. Alla fine degli anni '80 ero seminarista a Roma e mi ero comprato il Commodore 64 con l'accoppiatore telefonico (roba che per voi è preistoria, era l'antenato del modem). Con quello ho iniziato a navigare nelle BBS, che erano gli antenati dei forum. E lì ho visto le prime immagini pedopornografiche. Un altro al mio posto se ne sarebbe potuto disinteressare, io ho deciso di considerare quei bambini come figli miei e occuparmene. E poi le prime storie di abusi, non potevo non considerarle, un grido di aiuto, un forte richiamo a ridare speranza.

Qual è, secondo il vostro osservatorio, la diffusione di questo fenomeno in Italia?
È purtroppo una diffusione trasversale. Possiamo offrire i nostri dati che rendiamo pubblici ogni anno con il Report Meter (che presentiamo nella Sala Marconi di  Radio Vaticana). In Italia la mancanza – ancora oggi – di una banca dati – tanto auspicata – non ci permette di avere chiaro il fenomeno.
Ecco i dati in sintesi Meter del 2012: l’impegno di Meter onlus a servizio dell’infanzia è stato nel corso di tutto il 2012 costante ed efficace, ma restano ancora forti emergenze da risolvere, in particolare i bambini minori di 13 anni che all’insaputa dei genitori aprono un profilo Facebook, nuova frontiera del rischio per i minori. E i numeri parlano: oltre 100.000 siti pedofili e pedopornografici negli ultimi dieci anni. Una diminuzione rispetto al 2011: si è passati da 20.390 a 15.946 nel “web visibile”. Aumenta invece in modo sconcertante e incontrollabile la presenza della produzione, divulgazione e detenzione di materiale pedofilo e di abusi sui bambini: nel “deep web”, sono 56.357 quelli monitorati in un solo anno. Crescono i social network, con 1.274 segnalazioni rispetto alle 1.087 del 2011. I casi (vittime di abuso) seguiti al Centro di Ascolto e accoglienza sono stati 61 rispetto ai 28 dello scorso anno (dal 2002 al 2012 sono stati in totale 951). Le consulenze telefoniche 839. Nella prevenzione sono state incontrate 18.600 persone tra cui 8190 studenti. Nell’ambito della prevenzione nella Chiesa sono state coinvolte 13 diocesi.

Si è fatto un'idea delle cause della pedofilia? Per quale motivo, secondo lei, un adulto può provare attrazione sessuale per un bambino prepubere?
Per tanti motivi. Perché è una coazione a ripetere per abuso, perché è un problema psicologico, perché è “malattia psichiatrica lucida”, perché è aberrazione, perché l’uomo si disumanizza. Perché c’è una sorta di connivenza e soprattutto di mancata sensibilità comune. Importante discutere e contrastare il femminicidio (violenza senza ragione e di grave entità), ma poco si parla del “bambinicidio” (in meno di 10 anni circa 250 bambini uccisi da adulti e genitori in Italia). Le cause possono essere tante.

La pedofilia è solo una questione psichiatrica, o ci sono in gioco altri fattori (economici, politici, ideologici...)?
Se per ideologico si intende il tentativo di far passare una perversione per una cosa normale, allora sì, c'è un fattore ideologico. Ma il punto è che mai come oggi stiamo assistendo all'annientamento dei minori in quantità industriale. Le dice niente la parola aborto? Ecco, quando sopprimere un bambino diventa facile come ingoiare una pillola, tutto è possibile. E, a cascata, questo riverbera sul valore dell'intera vita umana. C’è la crisi dell’uomo, più profonda di quella economica.

Secondo la sua opinione, quanto è diffusa la pedofilia tra religiosi e consacrati? 
I preti pedofili sono circa l'1% su 500.000 tra preti, religiosi/e nel mondo. Gravissimo è il problema, uno scandalo di vasta proporzioni. Una gravità inaudita che si affianca al fenomeno generale dello sfruttamento sessuali dei minori. Ma questo non significa niente: la Chiesa dovrà combattere per difendere i bambini fino alla consumazione dei secoli. E fino alla consumazione dei secoli dovrà piangere le vittime degli abusi che non ha saputo o voluto aiutare.

L'American Psychiatric Association (APA) ha annunciato che nella prossima edizione del suo manuale diagnostico, il celebre DSM, la voce riguardante la pedofilia subirà dei cambiamenti, al momento non precisati; in passato l'APA ha già derubricato la pedofilia egodistonica dal DSM, anche se poi è stata costretta a tornare sui suoi passi, almeno momentaneamente. La “strategia nazionale” contro l'omofobia  recentemente adottata dal governo italiano prevede l'abrogazione di “qualsiasi legislazione discriminatoria ai sensi della quale sia considerato reato penale il rapporto sessuale tra adulti consenzienti dello stesso sesso, ivi comprese le disposizioni che stabiliscono una distinzione tra l’età del consenso per gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso e tra eterosessuali” (art. 18). Insomma: è in atto una imponente campagna per “normalizzare” la pedofilia. Secondo lei, a cosa andiamo incontro? Chi vuole questo cambiamento culturale, e perché?
Pedofilia e omosessualità sono due cose diverse. Certamente però esiste – anche nelle intellighenzie europee e non  – una lobby pedofila. Glielo posso garantire. Poi gli psichiatri dicano quello che vogliono: secondo lei stuprare un bambino di pochi giorni è o no qualcosa di malvagio, indegno, violento? Lo dicano alle vittime. Questo discorso del consenso è l’ennesimo tentativo di normalizzare le relazioni sessuali tra adulti e bambini. E’ come si nota una battaglia culturale, ma che vede pochi che scendono in campo.

La sua azione contro la pedofilia ha mai suscitato reazioni negative? Avete mai subito minacce o ritorsioni a causa del vostro impegno? A chi da fastidio il vostro lavoro?
Ritorsioni? Tante minacce, calunnie, diffamazioni. Ma è meglio non parlarne. E’ dal 2000 che ho una tutela del Comitato di sicurezza, niente scorta, mi bastano gli angeli miei protettori.
Da allora devo dire a Polizia e Carabinieri dove vado perché così potranno approntare un minimo di vigilanza sulla mia persona. Ma non m'importa. Noi siamo dalla parte giusta: dei bambini, di Cristo, del Vangelo. E del Papa.



FAMIGLIA SOTTO ATTACCO/ Magatti: solo un "dono" può salvarla dalla fine - venerdì 31 maggio 2013 - http://www.ilsussidiario.net/

FAMIGLIA SOTTO ATTACCO/ Magatti: solo un dono può salvarla dalla fine

La famiglia? Ha le stesse difficoltà di una società che si ripiega sull’io e che diventa incapace di dono. A dirlo e Mauro Magatti, sociologo e docente nell’Università Cattolica di Milano, che oggi insieme al filosofo e scrittore francese Fabrice Hadjadj parlerà al convegno “Accogliere la famiglia per sviluppare una risorsa” organizzato dalla Cometa, la realtà comunitaria di accoglienza, formazione e lavoro fondata a Como nel 1986 dai fratelli Erasmo e Innocente Figini. 

Il professor Magatti parla di crisi della famiglia con ilsussidiario.net. Mai come oggi la famiglia naturale appare in difficoltà, professore. «Siamo in un tempo in cui la famiglia è investita da pulsioni molto forti. Secondo una ricerca americana riportata ieri dal Corriere, negli ultimi 50 anni i nuclei familiari mantenuti da madri single sono passati dal 7 al 25 per cento. Il dato è emblematico di una una società individualista che fatica a capire la famiglia e che considera il legame familiare come troppo vincolante». 

Dove sta il punto?
È l’approdo di una idea di libertà concepita come assoluta. Ad esso si aggiunge una sorta di smemoratezza della nostra società verso la famiglia: si ignora ciò che storicamente la famiglia ha rappresentato nel processo di crescita economica e sociale del nostro tempo, nello struttrare in maniera più civile le relazioni tra uomo e donna, nella cura dei figli.

A proposito di figli. Cometa nasce da un affido...
L’affido, che nel caso di Cometa ha dato vita ad una grande esperienza comunitaria, è una grande risposta, in positivo, alla crisi della famiglia. La diagnosi più frequente è che essa, aggredita dalla cultura individualistica dominante, si frammenti, si spacchi. C’è però un altro aspetto della sua crisi, e riguarda i limiti del modello nucleare di famiglia proprio della nostra società industriale. 

Cosa intende dire?
La famiglia, nella storia, ha mostrato sempre una sua peculiare plasticità; pensiamo alla famiglia contadina, e poi a quella dell’età industriale, così diversa dalla prima. Questa seconda però sta soffrendo di una grave carenza di dinamicità, che aggrava ulteriormente la crisi dovuta ai fattori culturali prima ricordati.

In altri termini, professore?
La famiglia si costruisce su due assi: quello del rapporto tra generazioni quello del rapporto affettivo di coppia. Fatta salva questa definizione, le forme sono tante: ad esempio in certe epoche più generazioni − nonni, genitori, figli, nipoti − hanno convissuto; poi il modello è cambiato. La famiglia nucleare, quella che abbiamo più o meno tutti in mente oggi − per intenderci, genitori e figli dentro l’appartamento in città − è la forma che si è associata all’industrializzazione. Ha avuto i suoi meriti, ma adesso sta soffrendo.

E la strada per farla vivere sarebbe quella di oltrepassarne i limiti?
La famiglia è definita da una dinamica di autotrascendenza. Nel momento in cui mette al mondo un figlio, padre e madre si autotrascendono, si donano e sono in funzione di qualcuno che è altro da loro. Qui torniamo all’affido: l’idea di autotrascendere il confine del sangue per diventare una famiglia accogliente, più ampia, sta dentro la logica della famiglia, non è una logica diversa. È la logica dell'ospitalità. Ciò che sostengo, e che l’esperienza di Cometa dimostra, è che tale espansione è una potente risposta alla crisi di cui stiamo parlando, quella per cui la mia famiglia comincia e finisce in casa mia e il mondo sta di fuori.

Dunque una parte importante della crisi…
È dovuta al fatto che la famiglia si è irrigidita, è diventata poco capace di stare dentro il flusso della vita e di arrichirsi nello scambio con la realtà della vita. In questo l’esperienza di Cometa è avanzata, complessa e ricca. Aiuta a capire che la genitorialità è un movimento esistenziale che va al di là del diventare papà e mamma.

Cosa vuol dire questo nel concreto delle nostre case?
Vuol dire mettersi insieme ad altre famiglie per aiutarsi a trovare soluzioni condivise ai problemi dell’abitare, a rispondere all’educazione dei figli. Basta poco: si comincia dall’ospitare il ragazzo straniero che viene a studiare in Italia, o dal condividere con altri il sostegno ai propri malati.

È sicuro che quello che sta dicendo sia alla portata di tutti?
Tale movimento non va compreso in chiave moralistica. L’autotrascendenza dei propri confini non è nient’altro che la risposta alle urgenze che la vita pone. Una famiglia troppo poco capace di respirare la vita è una famiglia che si ammala. La famiglia è un organismo vitale: accompagna la vita, cambia i rapporti e la realtà intorno a sé. Paradossalmente le famiglie contadine di una volta avevano al loro interno una vivacità molto maggiore delle nostre famiglie nucleari. Non a caso erano anche più solide.

Crisi della famiglia e crisi economica: cosa pensa in proposito?
Come è andato in crisi il matrimonio, parallelamente è andato in crisi il patrimonio. Matrimonio è mater-munus, cioè dono della madre; patrimonio è il dono del padre. Io vi vedo una corrispondenza: da una parte abbiamo una società che alle nuove generazioni non passa più il suo patrimonio, ma il suo debito. Dall’altra parte quella stessa società distrugge il matrimonio. Sono due fenomeni apparentemente lontani, ma che in realtà manifestano in forme diverse la difficoltà di una società che si ripiega sull’io e che diventa incapace di dono. Il dono della vita e il dono delle risorse per dare ai figli un futuro. 

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giovedì 30 maggio 2013

Che medicina è se il malato è «potenziale»? di Vittorio A. Sironi, Avvenire, 30 maggio 2013


Dopo il caso Jolie: la conoscenza del proprio destino genetico può essere destabilizzante nella vita di persone con predisposizione genetica a malattie gravi

La scelta di Angelina Jolie di farsi asportare entrambi i seni perché portatrice di una variante del gene Brca-1 che aumenta di molto (oltre l'80%) il rischio di sviluppare un cancro mammario aggressivo e spesso fatale ha fatto scalpore e ha creato sconcerto. Così come la decisione di un manager inglese cinquantenne di sottoporsi alla rimozione della prostata per la stessa ragione, poiché anch'egli aveva un gene che avrebbe favorito lo sviluppo di una lesione tumorale di quell'organo. La possibilità che si verifichi un boom di interventi di chirurgia preventiva, spesso non giustificati, anche per un "effetto imitazione" inevitabile quando sono di mezzo le celebrità, è alta. Il dibattito è aperto. Oggi la possibilità di conoscere il proprio destino medico mediante l'analisi del patrimonio genetico, ha portato alla nascita alla medicina predittiva, in grado di identificare il rischio di malattia e di cercare di prevenirla o di porvi rimedio quando si è ancora in tempo per cambiarne la naturale storia clinica. È un aiuto per la salute o un ostacolo per una tranquilla e serena esistenza? Il rischio è quello di medicalizzare la vita, facendo sentire ammalato chi è sano.

Ogni individuo non si esaurisce nel proprio corpo: egli è anche e soprattutto una persona. Ed è questa l'oggetto (il soggetto in realtà) vero della medicina. Proprio qui si situa il ruolo fondamentale del medico, che deve essere attento, sensibile e disponibile, insieme affidabile e affabile. Deve valutare, insieme al suo paziente, quale può essere la scelta migliore, considerando la molteplicità degli aspetti esistenziali (di cui la componente genetica è solo una parte) di quella persona nella sua totalità, fornendo tutte le informazioni adeguate per metterlo nelle condizioni di compiere consapevolmente la scelta migliore e più appropriata: che può essere, nel caso dei tumori, l'asportazione radicale preventiva dell'organo bersaglio in alcuni casi ben selezionati, ma anche in molti altri quella di uno stretto monitoraggio clinico per intervenire con l'adeguata terapia solo in caso di comparsa della malattia. In tal modo la medicina predittiva potrà rappresentare un vero elemento di progresso sanitario senza diventare un fattore di turbamento psichico e di devastazione fisica.

Per lungo tempo la medicina ha avuto una funzione soprattutto "palliativa" nei confronti del malato, per il quale aveva scarse risorse curative da offrire. Con la nascita della medicina scientifica grandi progressi diagnostici e terapeutici hanno consentito non solo di conoscere meglio la malattia ma anche di curarla in modo più efficace, cercando anzi di intervenire nella sue fasi precoci (medicina preventiva secondaria), quando il malato non è ancora consapevole della sua patologia. Il passaggio ulteriore è ancora più ambizioso: individuare il "malato potenziale", tale perché è esposto a fattori di rischio patogeni: ha stili di vita sbagliati, vive in un ambiente insano, possiede un patrimonio genetico con particolari modificazioni. Intervenire su questi fattori per eliminarli può ridurre o azzerare il pericolo di ammalarsi (medicina preventiva primaria).

Oggi questo eccesso di conoscenze rischia però di creare più dubbi che certezze. In medicina non si usa il linguaggio della certezza, ma quello della probabilità. Anche la medicina predittiva, in presenza di particolari geni che predispongono al cancro o all'insorgenza di gravi malattie neurodegenerative e metaboliche, esprime semplicemente l'alta possibilità che tali condizioni patologiche si sviluppino in quell'individuo, non che la malattia si manifesterà certamente. Qual è allora il confine tra vera prevenzione e ossessione della malattia?

La conoscenza del proprio destino genetico può essere un elemento destabilizzante, e i soggetti ad alto rischio genetico per tumore che scelgono la chirurgia preventiva compiono un gesto di mutilazione volontaria per evitare la probabilità che insorga una patologia potenzialmente anche letale. Si tratta di una decisione autonoma del paziente, giustamente rivendicata, ma che deve essere verificata e valutata all'interno di un corretto e leale rapporto tra il curato e il curante.

Papà e mamma per ogni figlio Lo dice la scienza – Avvenire, 30 maggio 2013


La rivista Early Children Development and Care non piacerà a tanti modaioli che scambiano la famiglia padre-madre-figli con altre forme di genitorialità. Infatti il suo numero appena uscito è interamente dedicato alla figura del padre nello sviluppo mentale del bambino. E cosa apprendiamo? Che la scienza afferma che padre e madre sono ugualmente importanti per il figlio, ma che ognuno ha un suo ruolo indispensabile per l'equilibrio dei figli; tutto il contrario della moda secondo cui coppie dello stesso sesso sono la stessa cosa che coppie di sesso diverso. Eppure la rivista parla chiaro: nell'editoriale di questo numero monografico si ricorda proprio che i figli di genitori con ruoli madre-padre differenziati «hanno capacità sociali più sviluppate e sono più pronti alla competizione e alla competizione» rispetto ai figli di genitori con ruoli non differenti. E si ricorda che un altro studio mostra come i figli delle coppie con ruoli differenziati tra madre e padre «hanno minor aggressività».

Ovviamente, spiega, la specificità dei ruoli non significa un monopolio ma una complementarietà tra madre e padre: «I padri sembrano giocare un ruolo maggiore nel processo di apertura del figli al mondo esterno che è legato allo sviluppo dell'autonomia e alla capacità di affrontare i rischi». Rispetto ai padri, «le madri attribuiscono maggior valore al lavoro in casa, al supporto emotivo per i figli e all'educazione sessuale». La rivista esamina con sette articoli di studiosi internazionali proprio queste differenze sottolineando le specificità paterne: l'importanza del gioco-lotta tra padre e figlio, e il rapporto tra divisione dei ruoli padre-madre e la crescita sociale del figlio.

La scienza parla chiaro: il figlio è in rapporto di crescita con la madre per certi tratti del carattere e col padre per altri. Due padri (o due madri) rispondono a questa esigenza? Anche altre riviste scientifiche specializzate chiariscono i dubbi: «L'aiuto alla socializzazione dei figli dato da madre e padre differiscono in alcuni tratti ma servono nella loro complementarietà a creare l'impalcatura di regolazione delle emozioni» (New Directions for Child and Adolescent Development, 2010). Insomma, per far crescere bene un figlio non è vero che "basta volerlo". Non si possono fare esperimenti in un campo come la cura dei figli quando migliaia di anni di crescita sociale umana hanno "selezionato" un ambito preferito chiamato famiglia, facendo darwinianamente sparire ogni altro tipo di convivenza. E la famiglia che ha vinto per millenni e ha permesso che il mondo arrivasse fino a oggi è quella che ha le caratteristiche della complementarietà psicologica e sociale tra donna e uomo.

Avere due "mamme" senza papà o due "papà" senza mamma è la stessa cosa rispetto ad avere un padre e una madre? La scienza risponde "no". Ma i bambini non sanno reclamare i loro diritti nei parlamenti e sui media, i loro diritti lì non hanno spazio: si affermano solo i presunti diritti dei "grandi". Ci piacerebbe un mondo in cui le decisioni sui figli si prendono su basi solide - criteri scientifici e amore, due pilastri che si sostentano reciprocamente -, non sulle mode.

Carlo Bellieni

Il processo Kameneff e la rivoluzione sessuale - 29 maggio, 2013 - http://www.uccronline.it/

Léonide Kameneff

Nel 2006 è stato realizzato il più autorevole studio sulla pedofilia da parte di sacerdoti cattolici condotto da un team di ricercatori del John Jay College of Criminal Justice di New York, la cui conclusione è stata questa: la pedofilia di alcuni preti non è dovuta né al celibato né all’omosessualità, bensì al clima culturale libertario e permissivo degli anni successivi al 1968. 

Sul finire di questo inverno, senza molti clamori, le maggiori testate giornalistiche (vedi articolo sul Corriere del 13 marzo ) hanno riferito della sentenza di condanna nei confronti dello psicologo infantile Léonide Kameneff a ben 12 anni di carcere per violenza sessuale, tentata violenza e aggressioni sessuali verso minori. Crimini consumati nello spazio temporale di un ventennio in associazione con altre persone. La sentenza di condanna è stata emessa dalla Corte di Assise di Parigi al termine di un processo drammaticodurato tre settimane nel quale il noto psicologo ha provato a “diminuire” la portata delle sue azioni giustificandole nell’ambito del più generale clima permissivo proprio di una certa cultura post-68. Ancora una volta più ombre che luci sui protagonisti dei rivoluzionari anni 70 del trascorso secolo, quando la rivendicazione di nuovi stili di vita improntati ad una ritrovata libertà e il contestuale rifiuto di quelli già esistenti sembravano precludere ad una nuova era.

Per chi non conoscesse il pensiero e l’opera di Kameneff, precisiamo subito che questo psicologo si è fatto promotore e paladino a suo tempo di un metodo scolastico che coinvolgeva decine di bambini e adolescenti francesi impegnati nell’apprendimento di diverse materie su velieri che solcavano i mari per un anno o più. Chiaramente, giova ribadirlo, ci troviamo di fronte ad una delle più classiche utopie degli anni 70: tantissimi adolescenti dai 10 ai 15 anni sono stati affidati a Kameneff e al suo staff da parte dei loro genitori convinti della bontà di un metodo educativo che fosse alternativo e più adatto a quello in voga nelle anguste scuole borghesi del tempo.

Ma la verità emersa in sede processuale è molto più scabrosa di quanto si possa immaginare in quanto Kameneff e i suoi assistenti plagiavano e abusavano dei bambini che erano stati loro affidati. Quegli stessi bambini, oggi adulti tra i 33 e i 46 anni, che hanno raccontato in tribunale come il loro “educatore” usava entrare nei loro letti, di notte, dicendo loro «Se ti faccio stare bene, è perché non ti faccio niente di male». E i bambini, in molti casi neppure entrati nella pubertà, non osavano deludere il loro maestro di vita e benefattore-orco. Kameneff nel corso del processo ha provato a rievocare queste turpi vicende inquadrandole nell’atmosfera permissiva di quegli anni, quando la pedofilia non era diventata un’emergenza sociale e mediatica e il clima culturale dell’epoca incoraggiava, semmai, a rispettare e assecondare la sessualità dei bambini.

Non a caso, sui velieri da lui approntati si viveva nudi. «Ma bisogna calarsi (sic!) nel contesto, tutti stavano nudi sulle barche all’epoca, adulti e bambini», ha detto Kameneff, autore, tra le altre cose, di un libro-manifesto La scuola senza lavagna dove afferma che «il bambino ha gli stessi diritti e doveri degli adulti, tra i quali quello di vivere la sua sessualità come preferisce». Alla fine di questa squallida storia di violenza ed abusi, la sola riflessione che possiamo fare la prendiamo dalla motivazione della sentenza, nella parte in cui si afferma che: «L’imputato si è reso responsabile di un condizionamento simile a quello di una setta nei confronti di bambini particolarmente vulnerabili, una forma di dominio psicologico usato per soddisfare le sue pulsioni sessuali». Nessuna attenuante dunque per «un’epoca che si pretende permissiva», semmai condanna per un uomo caratterizzato da «una sessualità deviata e profondamente traumatica per le vittime».
Convenzione di Istanbul, donne e dubbi di Tommaso Scandroglio - 30-05-2013 - http://www.lanuovabq.it/


 No al femminicidio
    
Anche sull'onda dell'emozione provocata da recenti e ripetuti fatti di cronaca, la Camera ha approvato martedì scorso all’unanimità la “Convenzione di Istanbul per il contrasto alla violenza sulle donne e alla violenza domestica” che il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa aveva a sua volta approvato nel maggio del 2011. Adesso la palla passerà al Senato. La convenzione per diventare esecutiva, e vincolante, deve essere ratificata almeno da dieci stati. Per ora siamo a quota cinque con l’Italia.

La convenzione nella sua sostanza dice cose condivisibili, ma all’art. 3 spiegando cosa si debba intendere per violenza fa riferimento “a tutti gli atti di violenza fondati sul genere”. Successivamente al paragrafo C dello stesso articolo si dà anche la definizione di “genere”: “Ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini”. Dunque l’essere donna e uomo non è un dato biologico a cui deve seguire una conformità psicologica, bensì un dato convenzionale (ruoli che “una determinata società considera appropriati”), un costrutto artificioso nato da un consenso diffuso (“attributi socialmente costruiti”).

Ma se la convenzione riguarda la violenza sulle donne perché inserire nel testo anche il concetto di genere? Il termine “donna” non si presta a fraintendimenti, perciò parlare di “genere” è superfluo ed anzi crea confusione. Superfluo forse per noi, non per i cultori dell’ideologia “gender” che hanno visto in questo documento una ghiotta opportunità da non perdere per infilarci dentro qualche loro idea sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere. Se ne era accorto anche il governo Monti il quale, approvando la Convenzione ancora da rettificare, depositò una nota critica presso il Consiglio d’Europa proprio su questo punto: “La definizione di genere contenuta nella Convenzione è ritenuta troppo ampia e incerta e presenta profili di criticità con l’impianto costituzionale italiano”. Tale rilievo è confluito anche in una nota inserita nell’ordine del giorno dei lavori alla Camera: in pratica si dice che la parola "genere" sarà intesa secondo la nostra Costituzione: uomo e donna. Resta però il fatto che la nota non potrà modificare il contenuto della Convenzione – e quindi la parola “genere” rimarrà nel testo – e sarà sempre soggetta a una reinterpretazione se la maggioranza parlamentare lo vorrà. 

L’operazione in realtà è stata assai furba: proporre una convenzione che certamente tutti i paesi avrebbero approvato (più di una ventina gli stati che l’hanno approvata ma non ancora resa esecutiva) – chi non è contro la violenza delle donne? – per poi far passare ciò a cui si tiene davvero: la cultura di “genere”. La solita pillola indorata assai letale. Un cavallo di Troia efficace se andiamo a leggere qua e là l’articolato della Convenzione.

Ad esempio il comma 3 dell’art. 4  ci fa capire che il termine “genere” non è usato come sinonimo del termine “sesso”, in sostituzione di questo, ma possiede un suo autonomo significato: “L'attuazione delle disposizioni della presente Convenzione da parte delle Parti contraenti […] deve essere garantita senza alcuna discriminazione fondata sul sesso, sul genere, […] sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere”. Quindi per gli estensori della convenzione il sesso “maschio-femmina” è cosa diversa dal “genere”, e questi due lemmi sono poi differenti dall’ “orientamento sessuale” e dall’ “identità di genere”.

L’art 14 comma 1 invece ci rivela che la lotta contro la violenza sulle donne è solo una parte della più ampia strategia posta in essere dalla convenzione, la quale mira ad indottrinare le nuove generazioni secondo i principi omosessualisti: “Le Parti intraprendono, se del caso, le azioni necessarie per includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado dei materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati”. Il papà maschio che fa il papà e la mamma femmina che fa la mamma state pur sicuri che passeranno come “ruoli di genere stereotipati” e dunque esclusi da qualsiasi sussidiario delle elementari.

Forse il vero DNA della convenzione potrebbe essere contenuto nell’art. 6: “Le Parti si impegnano a inserire una prospettiva di genere nell’applicazione e nella valutazione dell'impatto delle disposizioni della presente Convenzione”. Altro che violenza sulle donne, qui quello che importa è leggere ogni azione di discriminazione con gli occhiali della cultura “gender”.

A riprova che il tema sulla violenza sulle donne è preso a prestito dalla convenzione in modo pretestuoso ci sono anche i fatti. Domanda politicamente scorrettissima: ma siamo certi che il femminicidio sia davvero un’emergenza sociale? A dar retta ai media gli omicidi sulle donne sono in strabiliante aumento e il fenomeno starebbe dilagando. In realtà quello che è in aumento è solo l’attenzione di giornali e Tv, non il numero di omicidi.

Rimandiamo al seguente passaggio dell’articolo di Riccardo Cascioli dal titolo “Donne uccise, ecco cosa fare” pubblicato sulla Nuova Bussola a dicembre: “Contrariamente a quanto si sarebbe portati a pensare, gli omicidi nei confronti delle donne sono in diminuzione, almeno a quanto affermano i dati dell’Istat: in questo 2012 le vittime femminili alla fine supereranno di poco le 120 unità, ma nel 2010 erano state uccise 156 donne, 172 nel 2009 e ben 192 nel 2003, che rappresenta il picco degli ultimi dieci anni. Rispetto al totale degli omicidi le vittime donne rappresentano circa il 30%”. 

I dati ricordati da Cascioli, che trovano una significativa eco in un articolo dal titolo “Femminicidio, i numeri sono tutti sbagliati” di Fabrizio Tonello pubblicato ad inizio maggio sul Fatto Quotidiano, e vengono confermati dai vari rapporti sulla criminalità redatti dal Ministero dell’Interno. In particolare nel Rapporto pubblicato nel 2011 si afferma che il tasso di omicidi in cui la vittima è donna è in crescita, ma non così il numero assoluto di omicidi sulle donne: “La crescita dipende da una relazione ben nota agli studiosi, per la quale la quota di donne sul totale delle persone uccise cresce al diminuire del tasso di omicidi. Questo accade perché, mentre il tasso di omicidi dovuto alla criminalità comune e a quella organizzata è molto variabile, gli omicidi in famiglia − la categoria in cui le donne sono colpite con maggiore frequenza − è invece più stabile nel tempo e nello spazio”. 

Insomma se il numero di omicidi totali diminuisce e quello che interessa le donne diminuisce di poco o rimane stabile, la percentuale di “femminicidi” risulta in aumento. A tale proposito sempre il Ministero dell’Interno in un rapporto di qualche anno fa così appuntava: “È condivisa l’idea che determinate condizioni di ‘debolezza’, dovute al sesso femminile o all’età avanzata, aumentino la vulnerabilità e quindi la probabilità di essere vittima di un reato violento come l’omicidio. Al contrario, dai dati emerge che più frequentemente le vittime di omicidio sono maschi”.

Si badi bene: anche un solo cadavere grida vendetta al Cielo e, banale a dirsi, occorre lo sforzo di tutti perché gli atti di violenza sulle donne diminuiscano sempre più. Ma quello che qui vogliamo sottolineare attiene ad un altro aspetto e riguarda la strategia in atto: gonfiando il fenomeno ad arte, facendolo percepire per quello che non è, si creano le premesse culturali per mirare ad altro. 

Se facciamo credere che le donne cadono come mosche sarà più facile far passare leggi per la tutela del “genere”, cioè leggi per incoraggiare l’omosessualità. La Convenzione di Istanbul in buona sostanza è un ulteriore tassello di quel mosaico culturale che vuole stravolgere l’antropologia naturale e sostituirla con una inventata a tavolino, dove una donna biologica può diventare un “uomo” e un uomo una “donna”.

mercoledì 29 maggio 2013

Nano proiettili che colpiscono i tumori - La ricerca italiana fa centro nella salute -Scoperta in collaborazione con belgi e francesi. Ma è la Sanofi a interessarsi di un possibile sfruttamento commerciale - http://www.corriere.it/


Una buona notizia per la ricerca italiana. Due scienziati - Luigi Cattel e Barbara Stella - sono stati insigniti ad Amsterdam dello European Inventor Award, il piu' importante riconoscimento europeo per gli inventori. Insieme a due colleghi - il belga Patrick Couvreur e la francese Veronique Rosilio - hanno creato e sperimentato in laboratorio le nano capsule anticancro. Si tratta di speciali nano proiettili - 70 volte più piccoli dei globuli rossi, muniti di uno speciale rivestimento biodegradabile - che distruggono le cellule tumorali senza danneggiare i tessuti sani. Cattel e Stella hanno ottenuto il prestigioso riconoscimento, attribuito alla presenza dell'eurocommissario al Mercato Interno Michel Barnier e della principessa Beatrice d'Olanda, nella categoria principale, quella dedicata alla ricerca scientifica.


LCD - Per le piccole imprese ad alta innovazione e' stato premiato lo scienziato-imprenditore svedese Pal Nyren, cui si deve il metodo «ultra semplificato» per ottenere la sequenza del Dna. Tra gli altri vincitori - tutti personaggi di altissimo livello, autori di invenzioni già consolidate e in certi casi di grande successo - c'e' il fisico svizzero Martin Schadt, nella sezione «Lifetime Achievement» (passi avanti nella vita quotidiana), inventore nel 1970, presso Hoffmann-LaRoche, del primo display a cristalli liquidi del mondo, meglio noto come Lcd. Nella sezione «Industria» sono stati premiati due austriaci - Klaus Brustle e Claus Hammerle - per una delle invenzioni più familiari al grande pubblico dei Paesi sviluppati di tutto il mondo: il sistema di chiusura morbida per porte, cassetti e armadi, usatissimo nell'industria dell'arredamento. Della giuria del premio - promosso dall'Ufficio Brevetti Europeo - facevano parte imprenditori, scienziati e inventori, tra i quali Jens Dall Bentzen, proprietario della Dall Energy che produce energia dalle biomasse, Mario Moretti Polegato della Geox, l'oncologa Blanka Rihova e Erno Rubik, l'inventore del «Cubo».
DIECI ANNI - Dietro al successo italiano si nasconde un'ombra: quella, consueta, dei (non) finanziamenti e del (non) raccordo tra Università e impresa. «L'invenzione italo-francese, i nano proiettili anticancro - racconta Luigi Cattel, 70 anni - e' nata nella facoltà di Farmacia dell'Università di Torino ma ha potuto crescere a svilupparsi solo grazie alla collaborazione con l'Universita' di Paris Sud. E soprattutto ai cinque milioni di euro del Cnrs che hanno consentito al team di brevettare l'invenzione in tutto il mondo nel 2004». Come dice, molto prudentemente, Patrick Couvreur, «siamo già molto avanti nella sperimentazione pre clinica, ma ci serviranno altri dieci anni per arrivare alla sperimentazione sui malati. Il metodo sarà particolarmente utile nella cura del cancro al pancreas, una delle principali cause di morte nel mondo sviluppato». Adesso, aggiunge Barbara Stella (42 anni), «il nostro team sta lavorando per attribuire ai nano proiettili, creati per curare, anche proprietà diagnostiche».

DISINTERESSE - La vicenda sottolinea in modo spettacolare la forza degli scienziati italiani come individui e la debolezza del sistema Italia. Il brevetto infatti, come dicevamo, appartiene al Cnrs, che si e' assicurato il diritto di gestirlo, mentre agli inventori spettano solo le royalty, cioè il «diritto d'autore». Non molto diversa la differenza tra Francia e Italia sotto il profilo industriale. «Nessun gruppo farmaceutico italiano si e' dimostrato interessato a questa ricerca», dice Cattel, interesse che invece e' stato manifestato dal gruppo multinazionale francese Sanofi Aventis. Una differenza cui non e' estraneo un pizzico, diciamo pure una manciata di orgoglio nazionale: quando ha deciso di finanziare il brevetto, il Cnrs francese ha posto come condizione di non avere partner stranieri.

Edoardo Segantini 
@SegantiniE28 maggio 2013

Avvenire - Ma noi non la beviamo di Francesco D'Agostino _Avvenire, 28 maggio 2013


La Francia cancella dal codice civile i termini “padre” e “madre”, sostituiti da “uno dei genitori ” maggio 28, 2013 Leone Grotti - http://www.tempi.it/

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I primi effetti della legge sul matrimonio omosessuale in Francia si vedono già: le parole “padre ” e “madre” sono state cancellate. Stamattina è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale il decreto applicativo della legge Taubira che legalizza matrimonio e adozione gay in Francia, sono stati modificati il libretto di famiglia e il codice di procedura civile.

LIBRETTO DI FAMIGLIA. Prima dell’approvazione della legge nel “libretto di famiglia”, documento ufficiale rilasciato dallo Stato francese che indica tutti gli atti riguardanti lo stato civile di una famiglia, erano indicati i campi “sposo o padre” e “sposa o madre”. Queste diciture sono sparite: nei nuovi libretti sarà lasciato un campo bianco neutro per tenere conto delle famiglie composte da due padri o due madri. I vecchi libretti saranno ancora distribuiti in Francia «fino a esaurimento scorte».

CANCELLATI “PADRE” E “MADRE”. È cambiato anche il Codice di procedura civile francese (su internet è ancora disponibile quello vecchio): nella prima riga dell’articolo 1181 le parole “il padre, la madre” sono state sostituite da “uno dei genitori”. Nell’articolo 1182, nella prima riga le parole “al padre, alla madre”, sono state rimpiazzate da “a ciascuno dei genitori”. Nella quarta riga dell’articolo 1182, nella prima dell’articolo 1189 e nell’articolo 1197 le parole “padre e madre” sono state cambiate con “i genitori”. Nella prima riga dell’articolo 1184 le parole “del padre, della madre” sono state sostituite con “di ciascuno dei genitori”. I termini “padre” e “madre” sono stati cancellati anche dagli articoli 1185, 1188, 1190, 1192, 1186, 1187 e 1191. Nell’articolo 1208, infine, la frase “il padre, la madre, il tutore” è stata cambiata così: “i genitori, il tutore”.

DICEVANO IL CONTRARIO. L’8 novembre del 2012, quando il dibattito sul matrimonio gay era agli inizi e molti paventavano il rischio che «le parole padre e madre scompaiano dal codice civile», il ministro della Giustizia socialista Christiane Taubira, promotrice della legge, dichiarava: «Le parole padre e madre non scompariranno dal codice civile». In effetti in altre parti del Codice i termini “padre” e “madre” sono rimasti ma non negli articoli citati.
@LeoneGrotti

martedì 28 maggio 2013

L’aborto rovina la donna: lo dicono gli studi (ma non Chiara Lalli ) - 27 maggio, 2013 - http://www.uccronline.it/

Sindrome-post-aborto

Poco tempo fa Chiara Lalli ha pubblicato un libro, “La verità, vi prego, sull’aborto” (Fandango 2013) in cui ha furbamente cercato di negare l’esistenza della sindrome post-abortiva al quale abbiamo già risposto . Nelle scorse settimane, in ogni caso, è arrivato un nuovo ed ennesimo studio -pubblicato sull’“Australian & New Zeland Journal of Psychiatry” - a smentire ulteriormente questi subdoli tentativi.

Ne abbiamo parliamo con la dottoressa Maria Cristina Del Poggetto, specialista in Psichiatria e Psicoterapia sistemico-relazionale, membro della Società Medico-Scientifica ProMed Galileo, relatrice al convengo lo scorso 11 maggio al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum.

“Dottoressa, che cos’è la sindrome post-abortiva?”
Si tratta di una condizione che, seppure non ancora ufficialmente inserita nella tassonomia ufficiale psichiatrica, è indicata nella letteratura medico-scientifica da una mole di autori dal cui contributo abbiamo oggi un quadro abbastanza preciso dei profili che la identificano. Si tratta di una compromissione dello stato di salute mentale che insorge dopo un aborto volontario. Clinicamente si può presentare con vari disturbi d’ansia, come attacchi di panico o post traumatico da stress; con alterazioni del tono dell’umore con quadri di depressione o di tipo distimico; con uso e abuso di sostanze (farmaci, alcool, droghe); ma può presentarsi anche solo con vissuti emotivi di tale intensità da risultare invalidanti.

“Che cosa afferma la letteratura scientifica?”
La letteratura medico-scientifica su questo argomento assomiglia ad un campo di battaglia. Gli studi tendono a risentire delle influenze derivanti dalla posizione morale sull’aborto degli autori. I lavori degli anni ’60 e ’70 su questo argomento tendevano ad evidenziare nelle donne una riduzione dei livelli di stress e di ansia nei mesi immediatamente successivi all’aborto.

“E questo non è importante?”
Piuttosto poco. Qualsiasi elemento stressogeno, e lo stesso intervento abortivo lo è, una volta superato si accompagna ad una diminuzione dello stress e dei livelli d’ansia. Ma le valutazioni a breve distanza di tempo devono essere integrate da osservazioni con più lungo follow-up. A partire dagli anni ’90 alcuni autori cominciano a segnalare la presenza di una percentuale di donne che dopo avere abortito manifestavano sintomi di disagio psichico. Si cominciò pertanto a discutere su questi casi che mettevano in dubbio la giustificazione all’aborto adottata in numerose legislazioni: la salute mentale delle donne.

“Quali sono le evidenze più recenti?”
Nel 2009 l’American Psychiatric Association pubblicò una cosiddetta revisione ragionata della letteratura medica per concludere che le donne che abortiscono non hanno rischi maggiori rispetto alle donne che portano avanti una gravidanza non programmata. Due anni dopo il Collegio Reale degli Psichiatri Inglesi giunse a conclusioni simili, seppure lasciando una certa apertura alla possibilità che alcune donne possano lamentare disturbi mentali e richiedere quindi un’assistenza specialistica. Queste revisioni sono state condotte procedendo ad una selezione a mio parere discutibile della letteratura e dando agli studi un’interpretazione ed un valore che ha tutta l’aria di essere stato influenzato da quell’agenda politica di cui dicevo all’inizio.

“Può fare qualche esempio?”
Certo. Nel 2009 il professor Fergusson aveva pubblicato non solo i dati a 25 anni sull’impatto dell’aborto volontario sul campione studiato nella cittadina neozelandese di Christchurch, ma aveva effettuato un’analisi sulla salute mentale delle donne che hanno abortito sulla base delle loro reazioni emotive dimostrando che le donne con un numero maggiore di reazioni negative all’aborto mostrano un’incidenza significativamente maggiore di problemi mentali rispetto a quelle che dichiarano di non avere dolore, rimorso, pentimento, senso di colpa. Nel 2010 sul Canadian Journal of Psychiatry fu pubblicato uno studio su un campione di oltre tremila donne che tenne conto di numerose covariate compresa la storia di violenza sessuale dimostrando un incremento del rischio di depressione, ansia, uso di sostanze, abuso di sostanze e ideazione suicidarla tra le donne che abortiscono con una correlazione temporale tra primo aborto e disagio psichico in circa la metà dei casi.

“Veniamo allo studio più recente?”
Si tratta di una risposta alle numerose critiche che hanno inondato lo studio di Priscilla Coleman, la ricercatrice che nel 2011 ha pubblicato sul British Journal of Psychiatry la più vasta metanalisi della letteratura, utilizzando oltre ottocentomila donne, e dimostrando un netto incremento di rischio psichiatrico nelle donne che abortiscono rispetto a quelle che portano a termine la gravidanza, anche se indesiderata o non programmata. Quello studio, come dicevo, fu investito da numerose lettere di protesta riguardanti soprattutto la metodologia di esecuzione della metanalisi. La dottoressa Coleman replicò punto per punto respingendo le critiche con solide argomentazioni. Ma lo studio del professor Fergusson, persona non credente e personalmente schierato sul versante pro-choice, pone una seria conferma alla possibilità che l’aborto peggiori la salute mentale delle donne. Egli infatti ha incluso nella propria metanalisi quegli studi che l’American Psychiatric Association e il Royal College of Psychiatrists inglese consideravano più attendibili, dimostrando che quei dati indicano l’incremento di problematiche di ansia, uso di sostanze e atti suicidari tra le donne che abortiscono rispetto a quante decidono di tenere comunque il bambino.

“Che cosa se ne può concludere?”
Lo abbiamo scritto in un nostro intervento sul British Journal of Psychiatry ed in pratica nel suo ultimo lavoro il professor Fergusson conferma questa prospettiva. Se è ancora discussa la possibilità che l’aborto possa avere effetti negativi sulla salute mentale delle donne, ma l’ultimo lavoro del professor Fergusson costituisce un forte indicatore che le cose stiano così, tutti i ricercatori e tutti gli studi sono concordi nel mostrare l’assenza del benché minimo miglioramento della salute mentale delle donne derivante dall’aborto; le donne che abortiscono hanno comunque incidenze maggiori di una serie di disturbi mentali, compreso, quello che è sicuramente il più grave, la tendenza suicidaria. La letteratura è cioè concorde che l’aborto non è in grado di produrre quella tutela della salute mentale della donna che è posta a giustificazione di molte legislazioni, compresa quella italiana.

“Quali conclusioni ne dovrebbe trarre il legislatore?”
La corte costituzionale italiana nel 1975 dichiarò incostituzionale la proibizione dell’aborto perché essa avrebbe violato il diritto alla salute della donna. Ora, a distanza di quasi 40 anni da quella sentenza, abbiamo una mole di dati a dimostrazione che questo non è vero, almeno per quanto riguarda la quasi totalità dei casi di aborto che sono appunto giustificati come strumento per tutelare la salute psichica della donna. Possiamo cioè affermare con ampio margine di sicurezza che l’aborto sotto il profilo psichico non promuove la salute, non previene malattie, non fornisce assistenza terapeutica, non è cioè un atto medico così come esso è stato definito dall’European Union of Medical Specialists nel 2005. Questo è il dato medico-scientifico.
C'è anche la politica del silenzio di Stefano Fontana - 28-05-2013 - http://www.lanuovabq.it/

Parlamento
    
Nell’editoriale di ieri il direttore parlava della Chiesa del silenzio. Credo che si possa parlare anche della politica del silenzio, almeno da parte cattolica. L’offensiva a favore della legalizzazione delle coppie omosessuali è molto forte, ma, tranne qualche eccezione, non si sente una parola che sia una da parte dei parlamentari cattolici. Ma facciamo un passo indietro.

Si pensava che il governo Letta non avrebbe creato molti problemi sul fronte dei principi non negoziabili. Dopo lo scampato pericolo di un governo Bersani con appoggio grillino e di una presidenza Rodotà, la soluzione trovata da Napolitano aveva ringalluzzito gli animi. Dopo il buio anche la luce di una candela sembra un sole. Un motivo per stare tranquilli era soprattutto il debole equilibrio su cui si reggeva (e si regge) il governo: vuoi che Letta si dia la zappa sui piedi aggiungendo anche il contenzioso sui motivi etici? Già di mine ne deva schivare più di una … Qualcuno era sicuro: Letta congelerà le questioni sensibili. 

Poi, però il ministro Idem ha cominciato a parlare di riconoscimento delle convivenze. Poi, però, Berlusconi ha nominato suo consulente per le questioni etiche e di solidarietà la Brambilla, che, diciamolo pure, su questi temi non è che rassicuri molto. Poi però i radicali hanno lanciato la raccolta di firme per l’eutanasia. Poi però Repubblica ha pubblicato quella famosa lettera del ragazzo omosessuale e Sandro Bondi, del Pdl, ha nuovamente espresso le idee della ringalluzzita ala liberale del partito. Poi domenica scorsa nessuno è andato alla grande manifestazione di Parigi di Manif pour Tous contro la legge sul “matrimonio per tutti”, a parte Eugenia Roccella, che ha anche parlato dal palco, e Luca Volonté, che però purtroppo non siede in Parlamento perché sacrificato ai tempi delle elezioni per far posto ai Casini. 

Insomma, nonostante Letta, o tacitamente consenziente Letta – non è dato sapere, perché finora il Presidente del Consiglio non si è pronunciato su questi argomenti -, l’offensiva per il riconoscimento delle convivenze (omosessuali) è partita alla grande. Le cose che ti colpiscono alle spalle sono le più dannose. Siccome la sorveglianza sul governo Letta a proposito di questi temi si è allentata, il pericolo aumenta. La prima legge che arriva in Parlamento rischia di essere approvata. Proprio perché non c’è nel programma di governo.

Una autentica mina vagante è costituita dalla “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere” elaborato dal Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri e l’UNAR, Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali a difesa delle differenze. Il Documento riguarda il triennio 2013-2015 e vuole coordinare e garantire l’applicazione a livello nazionale di norme internazionali contro la discriminazione. L’interpretazione delle norme internazionali e la lettura della situazione italiana, però, sono molto tendenziose e fanno presagire qualche colpo di mano. Questi colpi di mano possono prendere le sembianze di una legge contro l’omofobia.

Davanti a tutto ciò non abbiamo sentito una parola da parte di Marazziti, per esempio, oppure di Gigli, oppure di Lombardo. Nessuna parola da parte dei numerosi parlamentari che avevano firmato, a seguito di Maurizio Lupi, la famosa dichiarazione di “cattolicità” apparsa su Il Giornale. Niente nemmeno dai cattolici al governo, come lo stesso Lupi o Mario Mauro. Hanno detto la loro Gasparri e Sacconi, molto attiva rimane la Roccella, ma nessuno che abbia messo uno stop, un altolà. Insomma, c’è anche una politica cattolica del silenzio. Non mi riferisco tanto ai cattolici nel Pd che, si sa, su questi temi non si esporranno politicamente perché glielo vieta la loro concezione della laicità. Mi riferisco ai parlamentari cattolici di Scelta Civica, del Pdl e di Fratelli d’Italia. 

Non so dire se l’Italia sia in grado di copiare la Francia, in caso di leggi contrarie alla famiglia. Molti dicono – ed io con loro – che oggi un Family Day è molto difficile a rifarsi. Però non è detto. La storia non si può prevedere. Nessuno avrebbe previsto la reazione oceanica dei francesi. Alla recente Marcia per la Vita del 12 maggio un certo popolo ha dato un segnale. Ora, sarebbe molto increscioso che i parlamentari cattolici e tutti coloro che fanno ancora riferimento a minimi principi di legge naturale fossero sorpassati dalla gente. 

Forse non è inutile far notare che quella del riconoscimento delle convivenze è la fessura per fare entrare una valanga. La letterina del ragazzo omosessuale apparsa su Repubblica era una di queste fessure. Oggi, riconoscimento delle convivenze significa riconoscimento delle coppie omosessuali. E questo va ben al di là della questioni dei diritti soggettivi. E’ l’apertura alla filiazione mediante acquisto di gameti e mediante l’utero in affitto. E’ la fine della procreazione, della famiglia e della filiazione come finora la civiltà le ha sempre conosciute. E’ la fessura per un altro mondo, per la fine del genere umano. La posta vale certamente un supplemento di attenzione politica da parte dei parlamentari cattolici.
Una sentenza storica per gli obiettori di coscienza di Gianfranco Amato - 28-05-2013 - http://www.lanuovabq.it/

Corte suprema scozzese
    
Merita di essere letta con molta attenzione la sentenza [2013] CSIH 36 P876/11 emessa dalla Court of Session di Edimburgo, la Corte Suprema civile scozzese, in un caso divenuto un importante precedente, quello che nella common law si definisce un landmark case. 
E meritano di essere ricordati anche i nomi dei tre coraggiosi magistrati della Corte: Lord Mackay of Drumadoon, Lady Dorrian e Lord McEwan.

Il caso riguarda la vicenda di due ostetriche cattoliche, Mary Teresa Doogan e Concepta Wood, che da molti anni lavorano presso il plesso ospedaliero del NHS Greater Glasgow and Clyde Health. Avendo esercitato il diritto all’obiezione di coscienza, le due donne non sono mai state coinvolte nelle procedure di interruzione volontaria della gravidanza, fino al momento in cui, con la chiusura del Queen Mother's Maternity Hospital di Glasgow avvenuta nel 2010, si è registrato un aumento delle richieste di aborto.

Sul presupposto di una carenza di personale, la struttura sanitaria in cui operano le predette ostetriche ha preteso che le stesse dessero un’assistenza indiretta alle procedure di interruzione della gravidanza. 
Immediato il reclamo da parte delle due donne al NHS Greater Glasgow and Clyde Health Board, reclamo che è stato puntualmente rigettato sull’assunto che la semplice presenza, supervisione e assistenza alle procedure abortive non significhi una partecipazione diretta alle medesime. 
La decisione è stata impugnata davanti la competente autorità giudiziaria, il Lord Ordinary, che ha dato torto alle ricorrenti.

Quel giudice ha ritenuto, infatti, che nella lista dei doveri cui sono tenute per legge le ostetriche, ve ne sono alcuni non direttamente correlati all’operazione abortiva strettamente intesa, quali, ad esempio, quello di fissare telefonicamente gli appuntamenti per interrompere la gravidanza, sistemare le pazienti nella sala operatoria, assicurare ai familiari delle pazienti un adeguato supporto, e così via. 
Nella sentenza è stata quindi definita una distinzione tra partecipazione diretta e indiretta all’intervento di interruzione della gravidanza, e riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza soltanto nel primo caso.

Lo stesso giudice, poi, ha ritenuto che la previsione normativa dell’obiezione di coscienza si riferisse al fatto che l’aborto fosse considerato, prima dell’Abortion Act del 1967, un reato penale, con la conseguenza che la stessa obiezione non possa essere riconosciuta per gli atti precedentemente non considerati penalmente perseguibili. 
Infine, sempre nella citata sentenza, lo stesso magistrato non ha ritenuto invocabile il diritto all’obiezione di coscienza nel caso in cui l’interruzione della gravidanza sia necessaria per prevenire una grave invalidità permanente alla salute fisica o mentale della donna, o nell’ipotesi in cui la prosecuzione della gravidanza implichi un rischio di vita per la stessa donna.

La decisione del Lord Ordinary è stata impugnata dalle due ostriche avanti la Court of Session di Edimburgo, che ha provveduto a riformarla con la citata sentenza [2013] CSIH 36 P876/11. Secondo Lord Mackay of Drumadoon, Lady Dorrian e Lord McEwan, infatti, «il diritto all’obiezione di coscienza non può riferirsi, in maniera riduttiva, al solo momento chirurgico dell’interruzione della gravidanza, ma si estende necessariamente all’intero procedimento finalizzato all’aborto». 
In questo senso, i predetti magistrati, hanno condiviso il precedente del caso R v Salford Area Hospital Authority ex parte Janaway [1989] 1 AC 537, nella parte in cui stabilisce, appunto che il diritto all’obiezione di coscienza si estende «a tutta la fase di cura pre e post operatoria, comprendendo anche il caso in cui, per una qualunque ragione, l’interruzione della gravidanza non abbia comunque luogo».

Del resto, si legge sempre nella sentenza emessa dalla Court of Session, l’introduzione della distinzione del grado di partecipazione al procedimento abortivo rischierebbe anche di apparire contraria al «common sense», ovvero al semplice buon senso, laddove si consideri l’assurdità, dal punto di vista pratico, di dover valutare ogni singolo atto per verificare quanto esso possa considerarsi direttamente connesso all’operazione chirurgica di interruzione della gravidanza. In ogni caso, non si tratta di un problema tecnico, ma di un problema etico, ed è per questo che anche la mera presenza durante l’esecuzione di un aborto deve essere evitata a un obiettore, dato che questi non può essere considerato un semplice «passive bystander», un mero osservatore passivo.

Sempre per gli stessi giudici della Court of Session, poi, «il diritto all’obiezione di coscienza non è riconosciuto perché relativo ad atti un tempo considerati illegali, ma perché l’aborto è percepito da molte persone come un fatto moralmente ripugnante». Prosegue la sentenza: «È una questione sulla quale non poche persone hanno profonde convinzioni morali e religiose, e il diritto all’obiezione di coscienza è riconosciuto proprio in virtù del rispetto di quelle convinzioni, e per nessun’altra ragione».

Merita, infine, di essere segnalata la totale condivisione, da parte della Suprema Corte civile scozzese, del ragionamento contenuto in un altro precedente giurisprudenziale citato nella sentenza, ovvero il caso Christian Education SA v Minister of Education (2001) 9 BHRC53: Il problema basilare di ogni società liberale e democratica che si fondi sulla dignità umana, sull’eguaglianza e sulla libertà, nella quale la coscienza e la libertà religiosa devono essere considerate con assoluta serietà, è quello di comprendere fino a che punto un simile sistema democratico possa e debba consentire alle comunità religiose di stabilire quali siano le leggi per loro vincolanti e quelle cui non debbono obbedire. (…) Una simile società può stare insieme solo se tutti i suoi membri accettano una comune base normativa vincolante.

Conseguentemente, i credenti non possono pretendere un diritto automatico a rifiutare le leggi del Paese a causa delle proprie convinzioni religiose. 
Allo stesso tempo, però, lo stato deve cercare di evitare, nei limiti del possibile, di porre i credenti nell’atroce dilemma di dover scegliere tra la coerenza con la propria fede e l’obbedienza alla legge. Parole sagge. O meglio, come direbbero i giudici della Court of Session di Edimburgo, di «common sense».