lunedì 30 giugno 2014

Le unioni gay di Renzi sono un vero e proprio matrimonio e sono più tutelate di quelle etero. «Sovversione del nostro ordinamento», giugno 30, 2014, Benedetta Frigerio, http://www.tempi.it/


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Si intitolano “Disposizioni in materia di eguaglianza nell’accesso al matrimonio da parte delle coppie formate da persone dello stesso sesso”. Sono le nozze gay in salsa renziana mascherate da unioni civili e presentate al Senato tramite un disegno di legge da Monica Cirinnà (Pd), inserito fra i provvedimenti urgenti da portare in aula a settembre. Presentate dalla stampa come una tutela dei diritti alla previdenza e all’assistenza in ospedale per le coppie dello stesso sesso, «in realtà prevedono molto di più: queste persone vengono equiparate ai “coniugi”, al “marito” e alla “moglie”, laddove l’ordinamento italiano cita questi termini. Di fatto non c’è più differenza fra tali unioni e il matrimonio, come si evince dal titolo del disegno di legge». A spiegare così i contenuti del ddl è Giancarlo Cerrelli, vicepresidente nazionale dell’Unione giuristi cattolici italiani e segretario nazionale del comitato “Sì alla famiglia”.


Cerrelli, il ddl Cirinnà rivoluziona l’istituto della famiglia in Italia?
La politica del governo Renzi sulla famiglia mi piace paragonarla al ruolo di un cameriere che si presenta ai clienti del ristorante con “le plateau de fromages”, il piatto dei formaggi, invitandoli a scegliere quello che più gradiscono; tale mi sembra l’intento del governo Renzi con questo disegno di legge: lascia a ciascuno dei consociati la libertà di scegliere il tipo di unione che più aggrada. Il messaggio che arriva è questo: “Ognuno scelga ciò che piace di più, secondo i propri desideri e i propri interessi”. In questo modo però non si fa altro che depotenziare l’istituto familiare ridefinendolo. La politica che sta attuando il governo Renzi mira a rivoluzionare l’istituto familiare. A tal proposito mi piace sottolineare che proprio il 26 giugno è stato presentato l’“Instrumentum laboris” del Sinodo dei vescovi sulla famiglia che afferma al n. 113 che «tutte le Conferenze Episcopali si sono espresse contro una “ridefinizione” del matrimonio tra uomo e donna attraverso l’introduzione di una legislazione che permette l’unione tra due persone dello stesso sesso». «Tutte» vuol dire «tutte». E poi si parla di «unione», anche di unione civile quindi e non solo di matrimonio. Inoltre è indicativo segnalare che al punto successivo lo stesso documento afferma che «la promozione della ideologia del gender in alcune regioni tende ad influenzare anche l’ambito educativo primario, diffondendo una mentalità che, dietro l’idea di rimozione dell’omofobia, in realtà propone un sovvertimento della identità sessuale».

Perché riconoscere queste unioni sovvertirebbe l’istituto matrimoniale?
Basta guardare al testo Cirinnà, che mette sullo stesso piano i diritti delle coppie omosessuali e quelli degli sposi introducendo un «negozio giuridico fra persone dello stesso sesso». Chi si iscriverà al nuovo registro nazionale per i conviventi omosessuali di fronte a un ufficiale di stato civile avrà tutti i diritti delle persone sposate: all’articolo 3 del ddl si afferma che all’unione civile si applicano tutte le disposizioni del matrimonio. Siamo di fronte a un istituto che di fatto è identico al matrimonio.
Però manca l’adozione.
L’adozione vera e propria non è riconosciuta formalmente, ma viene già introdotta indirettamente: all’articolo 4 si legge che il registro, oltre a contenere i dati anagrafici dei conviventi, deve contenere anche quelli dei figli, parlando «di eventuali figli minori dell’unione». Sappiamo bene che figli di un’unione omosessuale possono essere solo quelli nati tramite la fecondazione eterologa e tramite l’utero in affitto. È inquietante la forzatura del legislatore nel riconoscere implicitamente questa pratica e a riconoscere i figli concepiti in questo modo all’estero; del resto anche il Tribunale di Milano, nei mesi scorsi, ha riconosciuto la legittimità dell’operato di due coppie che hanno ottenuto il figlio affittando l’utero di donne indigenti. C’è poi un’altra possibilità data dal ddl: si tratta del diritto di inserire nel documento anagrafico i figli di ciascuna delle parti. Significa che se, ad esempio, una donna si separa e i figli vengono affidati a lei, nel caso in cui vada a vivere con altra donna questi rientrerebbero nel nuovo stato di famiglia. Mi pare ovvio che questo sia strumentale all’adozione.


Lei parlava di un’ampia scelta di “matrimoni”. Come mai?
Il disegno di legge parla al momento di unioni civili tra persone dello stesso sesso, ma ben presto, com’è successo in altri Paesi, tali unioni saranno lessicalmente rubricate come matrimonio. All’articolo 1, comma 2, si parla di conviventi come di persone «unite da reciproco vincolo affettivo». Per la prima volta un ordinamento giuridico dà rilevanza normativa all’affetto. In questo modo si apre la porta a tutto. Non era mai accaduto non per oscurantismo, ma perché se le emozioni diventano fonte di diritto, anziché il riconoscimento oggettivo di un bene comune, il desiderio del singolo prevale sul bene di tutta la società. La strategia pare chiara: è come quel cameriere che invita i propri clienti ad assaggiare i formaggi che sono ancora in stagionatura. Questo disegno di legge è parte del processo di ridefinizione della famiglia, che per gradi porterà il legislatore a riconoscere le unioni poligamiche, il poliamore o le unioni incestuose.
Questa legge avrà ripercussioni sulla società?
In forma privata si possono già regolare i diritti dei conviventi, che valgono per ogni cittadino. La famiglia, invece, è tutelata in quanto luogo dove imparare ad accettare la diversità educando i figli a costruire la società: lo Stato dà diritti in cambio di doveri. Purtroppo, con questo ddl, passa il concetto opposto, che dobbiamo cioè avere tutto ciò che vogliamo a prescindere dal fatto se sia giusto o meno. È un’idea di società dove l’egoismo e il sentimento di chi urla più forte diventano legge. Ha idea delle conseguenze di una norma simile?

Il ddl legalizza anche le unioni civili tra uomo e donna.
La seconda parte del ddl disciplina la convivenze tra uomo e donna. È un’unione light. L’articolo 8 parla dei diritti individuali dei soggetti maggiorenni conviventi stabilmente da tre anni almeno o da uno se con figli. E ancora, di persone unite da «legami affettivi» ai fini di reciproca assistenza. Oltre al fatto che questi diritti esistono già, si fa riferimento alla stipula di un contratto di convivenza che deve essere redatto da un notaio in forma pubblica da inviare al Comune per iscrivere all’anagrafe la residenza della coppia. In questo senso la predisposizione negli ultimi tempi di due dispositivi, mi riferisco ai contratti di convivenza stipulati dai notai in vigore dall’inizio di quest’anno, è stata propedeutica alla strategia di depotenziamento della famiglia naturale. In tal modo non si fa altro che acuire nel corpo sociale l’irresponsabilità nei rapporti.


Le unioni civili eterosessuali saranno meno tutelate di quelle omosessuali?
Ovviamente non si può concedere tutto a tutti. Ad esempio se la reversibilità della pensione fosse riconosciuta a centinaia di migliaia di conviventi la legge non potrebbe essere approvata perché in contrasto con il vincolo di bilancio. Renzi ha pensato, così, di concedere gli stessi diritti che hanno le persone coniugate soltanto alle coppie omosessuali, che sono poche migliaia, per adeguarsi alle richieste di forti lobby internazionali. Si illude così di salvare i conti dello Stato ma le conseguenze antropologiche saranno pesanti, indeboliranno la società e quindi l’economia. Destrutturare l’alveo dove l’uomo cresce sano renderà le persone più sole, fragili e quindi più controllabili da chi vuole costruire un nuovo ordine mondiale. Ritengo che come Marx si servì del proletariato per fare la rivoluzione, oggi forti lobby politiche e finanziarie si stanno servendo delle persone con pulsioni omosessuali.
Le associazioni Lgbt non la pensano certo come lei.
Si illudono. Se anche il diritto diventa strumento di un’ideologia non riuscirà comunque a cambiare la realtà, se mai la violenterà: non ho nulla contro queste persone, ma purtroppo stanno chiedendo di essere prese in giro, perché la loro unione non sarà mai come quella fra un uomo e una donna.


Non pensa di esagerare quando parla di un disegno sovversivo?
No, basta guardare la frenetica attività parlamentare e le pronunce delle corti di giustizia contro la famiglia. Penso poi alla seduta dello scorso 24 giugno in commissione Giustizia, in cui il presidente Palma ha chiarito che il ddl sull’omofobia – per cui sarà pericoloso persino dire che un bambino ha diritto ad avere un padre e una madre – non è fermo ma solo rallentato. Continua poi l’esame nella stessa commissione del ddl sul divorzio breve, che procede senza resistenze diluendo i termini di separazione, così da rendere il matrimonio un istituto banale senza troppi vincoli. Come non vedere un attacco alla famiglia per indebolire l’uomo e lasciarlo inerme di fronte ai poteri forti?
Davanti a questa offensiva, c’è ancora spazio per richiamare al valore della famiglia?
Bisogna continuare a chiarire l’illegittimità di tutti questi provvedimenti, contrari al nostro ordinamento e alla realtà. Non si può stare a guardare pensando che ormai la partita sia persa. Dobbiamo continuare a chiamare le cose con il loro nome, sapendo che siamo in mezzo ad una battaglia culturale che vuole sovvertire la struttura della nostra società. Dobbiamo farlo per educare i nostri figli. La storia la fanno gli uomini e le donne e ognuno di noi può cambiarla in meglio o in peggio.

@frigeriobenedet

sabato 28 giugno 2014

Obiezione vietata nei consultori, ricorso al Tar, Luca Liverani 25 giugno 2014, http://www.avvenire.it

Il Lazio forza la mano contro i medici obiettori di coscienza. La giunta di Nicola Zingaretti impone ai medici obiettori – pur non coinvolgendoli direttamente nell’interruzione di gravidanza – la prescrizione della "pillola del giorno dopo", l’inserimento della spirale contraccettiva, la redazione delle certificazioni e autorizzazioni che precedono l’aborto. Una decisione che inevitabilmente scatena polemiche. Oggi un’interrogazione in Consiglio regionale della consigliera Olimpia Tarzia: «Va revocata perché vìola la 194». La pesante modifica arriva col decreto «Rete per la salute della donna, della coppia e del bambino: ridefinizione e riordino delle funzioni e delle attività dei Consultori familiari regionali».

L’intervento, secondo l’allegato 1 del decreto, sarebbe motivato con l’obiettivo di contrastare il diffuso ricorso dei ginecologi - ma anche di anestesisti e personale non medico - all’obiezione di coscienza, che secondo l’ultima relazione 2013 al Parlamento sulla 194 - citata nel decreto - è del 69,3% come media nazionale del 2011 (80,7 la percentuale nel Lazio). Nell’allegato si sostiene dunque come l’obiezione di coscienza «riguardi l’attività degli operatori impegnati esclusivamente nel trattamento dell’interruzione volontaria di gravidanza». E si sostiene che «il personale operante nel consultorio familiare non è coinvolto direttamente nella effettuazione di tale pratica, bensì solo in attività di attestazione dello stato di gravidanza e accertazione attestante la richiesta inoltrata dalla donna di effettuare» l’aborto. Non solo: «Per analogo motivo, il personale operante nel consultorio è tenuto alla prescrizione di contraccettivi ormonali, sia routinaria che in fase post-coitale, nonché all’applicazione di sistemi contraccettivi meccanici, vedi I.U.D (Intra uterine devices)». Cioè dispositivi intrauterini come la spirale, che provoca nell’utero condizioni sfavorevoli all’impianto degli ovociti fecondati.

Netta la reazione di Olimpia Tarzia, presidente del movimento Per (Politica etica responsabilità) e vicepresidente della commissione Cultura, eletta nella Lista Storace. «Il personale obiettore operante nel consultorio familiare, pur non essendo coinvolto materialmente nella pratica dell’aborto, è obbligato comunque – afferma Tarzia – a partecipare alla redazione delle certificazioni e delle autorizzazioni che la precedono. Altrettanto inquietante – aggiunge – è la parte del decreto in cui si afferma che il personale medico obiettore del consultorio è tenuto alla prescrizione delle varie pillole abortive e all’applicazione di sistemi meccanici, quali la spirale anch’essa abortiva». Per il consigliere non ci sono dubbi: «Siamo di fronte ad un provvedimento che si pone in aperto contrasto con la legge 194/78 "Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza", che, pur essendo una legge ambigua e, a mio giudizio, profondamente ingiusta, sul tema dell’obiezione di coscienza è molto chiara». All’articolo 9 stabilisce infatti che «"il personale sanitario non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 (dove si disciplina il processo di certificazione e autorizzazione che precede l’aborto stesso) e agli interventi per l’interruzione della gravidanza, qualora sollevi obiezione di coscienza" e ciò vale, evidentemente – ribadisce – per "analogo motivo" anche per la prescrizione di sostanze o sistemi meccanici che procurano l’aborto». Quindi il decreto del presidente della Regione Lazio, «oltre che calpestare un fondamentale diritto, giuridicamente fondato, di singoli medici-cittadini, quale quello di sollevare obiezione di coscienza, si pone illegittimamente in contrasto con una legge nazionale». La consigliera annuncia quindi per oggi un’interrogazione in Consiglio per «evidenziare i profili di illegittimità presenti nel decreto e chiederne l’immediata revoca».

«L'ideologia abortista che si rifiuta di riconoscere l'esistenza dell'essere umano nella fase che precede la nascita sta raggiungndo il limite estremo della persecuzione», commenta dal canto suo Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita. «Ora si arriva a colpire addirittura il principio di libertà di coscienza che è uno dei fondamenti della società liberale, garantito dalla Costituzione e che è stato confermato da ripetuti pareri del Comitato nazionale di bioetica. «Pur di affermare un insistente diritto all'aborto il presidente della Regione Lazio arriva a disapplicare la stessa legge 194, fino a ieri intoccabile tabu ed ora minacciata dagli stessi che l'hanno finora strenuamente difesa. La legge non lascia spazio a dubbi laddove, nell'art.9, dichiara esplicitamente coperte dall'obiezione di coscienza anche le attività di certificazione che precedono necessariamente l'Ivg. «La resistenza contro questa persecuzione non potrà che essere attuata in tutte le forme possibili. In primo luogo sarà inevitabile il ricorso alla autorità di Giustizia amministrativa», conclude Casini. «Il Movimento per la vita non mancherà di attivarsi in questa direzione nel più breve tempo possibile».
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In Lazio gli obiettori sono costretti all'aborto di Alfredo Mantovano, 28-06-2014, http://www.lanuovabq.it

Non era difficile individuare nei medici obiettori il target di una rinnovata campagna ostile, per rimuovere in concreto un po’ di fastidi alla pratica abortiva e, in parallelo, per qualificare finalmente e senza infingimenti l’aborto come una scelta libera della donna, frutto della sua autodeterminazione (cf. la Nuova Bussola del 16 marzo).

L’8 marzo era stata resa pubblica la decisione del Ceds-Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa che, sul presupposto di un numero ritenuto elevato per l’Italia di medici obiettori, accusava il nostro Stato di violare i diritti delle donne che intendono abortire. Le pronunce del Ceds, che intervengono dopo articolate istruttorie, non hanno un immediato effetto vincolante, pari a quello di una sentenza di una delle due Corti europee. Se però lo Stato destinatario della decisione non vi si uniforma, ciò costituisce la premessa perché chi ha interesse si rivolga, in base al diritto che assume violato, o alla Corte di Giustizia o alla Corte dei diritti.

Sarà stato anche per questa sorta di scudo europeo che il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, nella sua veste di Commissario straordinario per la sanità, ha varato da qualche giorno un proprio decreto articolato in due punti: uno riguarda l’ammissibilità dell’obiezione a fronte di prodotti contraccettivi che funzionano pure come abortivi, l’altro riguarda l’estensione del diritto di obiezione per taluni atti previsti dalla legge 194 per realizzare una ivg. Sul primo punto il decreto viene qualificato vincolante, ed esclude apoditticamente qualsiasi ipotesi di richiamo alla coscienza; eppure la materia è controversa: se l’obiezione è un diritto, una elementare cautela raccomanda di non comprimerlo quando l’effetto abortivo di un composto chimico è eventuale e non sicuro. Se un cacciatore immagina che la lepre sia dietro la siepe, ma non esclude l’eventualità che quello che si muove sia un uomo, evita di sparare: perché il principio di precauzione non va riconosciuto permettendo di non sparare, cioè di non somministrare un prodotto letale, quando vi è l’eventualità che l’essere umano sia nella pancia, invece che nascosto da un cespuglio? È materia da lasciare alla discrezionalità di un Commissario ad acta o – essendo in discussione diritti codificati – è terreno di scelte del Parlamento? E, poiché la delega di Commissario viene al presidente Zingaretti dal governo nazionale, non è il caso che quest’ultimo lo richiami al rispetto dei propri confini?

Il secondo punto avrebbe già dovuto esigere l’intervento del governo; il decreto in questione afferma infatti che l’“esercizio dell’obiezione di coscienza” copre “l’attività degli operatori impegnati esclusivamente nel trattamento dell’interruzione volontaria della gravidanza”; esclude invece l’attività svolta nel consultorio, perché essa sarebbe coinvolta “solo nell’attività di certificazione”. La forzatura è grossa, e pare esserne consapevole la stessa Regione se si precisa che, mentre per Norlevo e spirale il decreto è vincolante, qui ci si trova di fronte a un “atto di indirizzo”. La qualifica di “atto di indirizzo” non toglie però carattere di evidente illegittimità al provvedimento. Illegittimità vuol dire contrarietà alla legge, che nella specie è la 194: quando l’art. 9 riconosce l’obiezione di coscienza al medico e al personale sanitario pone già le deroghe; anche l’obiettore – tolto l’intervento abortivo – è tenuto ad assistere la paziente quando è a rischio la sua salute, ma fra le deroghe alla copertura dell’obiezione di coscienza non vi è la certificazione. Si rileggano in proposito: il comma 3 dell’art. 9 “l’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario (…) dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”; e il comma 5 “l’obiezione di coscienza non può essere invocato dal personale sanitario (…) quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”.

Il testo è inequivocabile: non si parla solo di “attività” rispetto alle quali vale l’obiezione, ma anche di “procedure”. Alla stregua di una lettera così chiara, da quando esiste la 194, cioè da oltre 36 anni, nessuno ha mai dubitato che l’obiezione si estende anche al rilascio della certificazione alla gestante; per come è strutturata la legge (art. 5 comma 3), l’attestazione del medico in ordine all’esistenza di una gravidanza, al momento del suo inizio e alle “indicazioni” prospettate dalla donna per richiedere un aborto costituisce l’antecedente causale necessaria dell’ivg. Perfino se il medico non ravvisa “indicazioni”, il certificato da lui rilasciato rappresenta la premessa formale dell’aborto, poiché il decorso di sette giorni rende comunque possibile l’intervento abortivo (art. 5 comma 4). La certificazione non è un atto estraneo o marginale rispetto alla procedura abortiva: è il primo passaggio obbligatorio per chi intende abortire; stabilire che per tale atto non sia possibile il richiamo alla coscienza significa violare la legge. È un mistero che dalle parti del governo nazionale nessuno abbia sentito il dovere di ricordare al proprio Commissario ad acta per la sanità nel Lazio un dato così evidente.

È probabile che, mettendo a fianco la pronuncia del Ceds del Consiglio d’Europa e il decreto Zingaretti, il passaggio successivo sarà una pronuncia giudiziaria. In ossequio all’“atto di indirizzo”, qualche zelante direttore di Asl o qualche solerte dirigente di consultorio presenti nel Lazio riterrà non ammissibile l’obiezione da parte di un medico che rifiuta la certificazione; si aprirà un contenzioso: come andrà a finire? Su Questione giustizia, rivista on line di Magistratura democratica, compare una nota a margine della decisione del Ceds, a firma di Maurizio Di Masi, nella quale senza tante perifrasi si dice che il riferimento alla salute della gestante è stato in passato il “grimaldello” (si adopera proprio questo termine) per legalizzare l’aborto; ma si aggiunge che oggi la nuova frontiera è superare la c.d. “medicalizzazione” e collocare la scelta della donna nella categoria dell’autodeterminazione: se il parametro della salute costituiva approccio “condivisibile al momento dell’emanazione della legge 194 – si legge ancora nella rivista – non si può ritenere che lo sia ancora oggi, a distanza di 35 anni, quando ormai a livello europeo pare esserci un consenso generale nel riconoscere alla donna il diritto di abortire liberamente nei primi 3/5 mesi di gravidanza”. Non è tutto: poiché l’aborto viene “ricompreso tra le libertà fondamentali della donna, invece che in seno al suo diritto alla salute”, esso va inteso come una libertà personale, che per questo va esentata da restrizioni.

È l’orientamento già affermato in altre Nazioni, da organi giurisdizionali come la Corte suprema Usa, che inizia a trovare eco in Italia in talune pronunce della Consulta: la recente sentenza sul’eterologa, per esempio, collega proprio all’autodeterminazione il “diritto” di avere o non avere figli. De-sanitarizzato l’aborto, viene meno un ulteriore velo di ipocrisia sulla struttura della 194; ma viene nel contempo marginalizzata l’obiezione del medico: come osi, camice bianco, non dare seguito alla scelta libera della donna? La soluzione prospettata da Md è semplice: nell’ottica di ripensare il meccanismo dell’obiezione, al personale sanitario viene suggerita la “libertà” di optare per una specializzazione diversa da ginecologia! E se non accetti questo “consiglio che non si può rifiutare”, sarà il caso di passare a qualche provvedimento giudiziario ispirato da quella rivista …

Più dell’enunciazione di queste tesi, che dai media di correnti della magistratura associata trasmigrano in atti amministrativi di un presidente di Regione, in attesa di diventare sentenze, preoccupa l’assenza di significative reazioni. I medici obiettori erano nel mirino già 35 anni fa, quando il loro rifiuto di uccidere la vita umana nascente costituiva la pietra di scandalo della 194, ed era già allora seguito da esortazioni a lasciare il campo. Se l’emarginazione non si è poi realizzata è perché l’obiezione di coscienza è stata sempre letta come una testimonianza di vita. Oggi dagli auspici discriminatori si è passa ai decreti: è perché si pensa di poterlo fare senza che nessuno protesti? È gradita la prova contraria.

venerdì 27 giugno 2014

Svezia – Si riapre la discussione sull’obiezione di coscienza, 26 giugno 2014, http://www.notizieprovita.it/

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Una società ha davvero perso la rotta quando esclude qualcuno dalla professione sanitaria solo perché vuole far nascere una vita umana nel mondo, piuttosto che distruggerla”. Queste le dichiarazioni del legale di Ellinor Grimmark, l’ostetrica svedese licenziata dal posto di lavoro perché si rifiutava di praticare aborti.

In Svezia l’ obiezione di coscienza non è consentita, cosa che ha portato questa Nazione ad essere in stato d’accusa da parte del Comitato Europeo per i Diritti Sociali del Consiglio d’Europa, imputazione a cui il governo ha risposto affermando che l’aborto non è necessariamente un omicidio in quanto –sempre a loro dire- un bambino, anche negli ultimi mesi di gestazione, quindi già completamente formato, non può essere considerato vivo.

La Grimmark, dopo il provvedimento di licenziamento, ha chiesto aiuto al difensore civico ed all’associazione che si occupa di difendere la libertà religiosa Alliance Defending Freedom ed ha portato il caso davanti ai giudici nazionali dichiarando di esser disposta a ricorrere anche alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo qualora non avesse trovato soddisfazione.

La questione non ha riguardato solamente il caso specifico ma ha avuto il merito di sollevare il problema dell’obiezione di coscienza a livello nazionale in un Stato che “vanta” il poco ammirevole record di aborti tra le adolescenti (attestandosi alla triste media di 22 ragazze su 1.000), frutto di una cultura della morte ben radicata da non ammettere che il proprio personale medico si spenda per curare un paziente e non per farlo morire.

Redazione

giovedì 26 giugno 2014

[Notizie PRO-LIFE] Dopo la sentenza della Corte Costituzionale sulla fecondazione eterologa: che fare? - http://veritaevita.blogspot.it/



1. Approvare una legge che regoli la materia?
Qualche giorno prima che fossero pubblicate le motivazioni della sentenza della Consulta che ha sancito l’incostituzionalità del divieto inerente alla fecondazione eterologa, si è svolto presso la sala della Regina alla Camera un convegno proprio su questa sentenza. A parere dei giuristi e politici intervenuti – molti dei quali di estrazione “cattolica” – ora sarebbe necessario una legge per arginare i danni provocati dalla Consulta.
Detto in parole semplici: la sentenza della Corte Costituzionale permette l’eterologa sempre e comunque. Adesso dobbiamo fare di tutto in Parlamento per limitare questa pratica il più possibile. Simile posizione è stata sposata sui media da moltissimi altri giuristi.

Tralasciamo il fatto che nelle motivazioni della sentenza i giudici hanno espressamente affermato che non ci sono lacune normative da colmare e che quindi non serve una legge. Al di là di questo, poniamoci una domanda: è lecito sotto il profilo morale invocare una legge per limitare i danni provocati da questa sentenza?

La risposta è netta: no, perché anche una legge limitativa sarebbe una legge intrinsecamente malvagia, magari con contenuto meno iniquo rispetto al contenuto della sentenza della Consulta, ma pur sempre malvagia.
Infatti la pratica della fecondazione artificiale – omologa o eterologa poco importa – è pratica intrinsecamente malvagia e la legge che la permette è anch’essa ugualmente malvagia. Una legge che disciplinasse la pratica dell’eterologa, seppur riducendone i casi legittimi, rimarrebbe una legge cattiva e dunque non sarebbe lecito sotto il profilo morale dare il proprio assenso al varo di una norma di tale natura.

C’è chi obietta: “Ma il varo di questa legge è fatta per un fine buono: limitare i danni provocati dalla sentenza della Corte Costituzionale”.
Risposta: c’è un principio morale che afferma che vi sono azioni intrinsecamente malvagie che mai possono essere compiute anche per un fine buono. Ad esempio non è lecito sotto il profilo morale uccidere volontariamente e direttamente una persona innocente per il fine buono di salvarne cento.
Dunque è lecito e a volte doveroso adoperarsi per limitare i danni, ma a patto che l’azione di impedimento sia lecita sotto il profilo morale. Se per impedire la morte di una persona l’unico modo è quello di ammazzarne un’altra innocente, non posso che astenermi da questa azione iniqua.

Non è dunque lecito impedire “l’eterologa sempre” dando il proprio “Sì” all’ “eterologa qualche volta”.
L'errore di chi dice "meglio una legge restrittiva che la situazione di legittimità assoluta dell'eterologa creata dalla sentenza della Consulta" è il medesimo di chi diceva prima del varo della legge 40 "meglio una legge restrittiva che la situazione attuale di legittimità assoluta della fecondazione artificiale in ogni sua forma creatasi dal fatto che non c'è una legge". Ed infatti la Consulta eliminando il divieto di eterologa riporta la situazione a quella ante legem 40.
Inoltre, ma non è aspetto centrale seppur importante: una legge restringerebbe sì il campo dell'iniquo (però rimarrebbe una legge iniqua), ma - rispetto alla sentenza della Consulta - lo eleverebbe di categoria giuridica: da pronunciamento giurisprudenziale ad atto normativo. La qual cosa è ancor più grave.

Nel prossimo post tenteremo di superare un’altra obiezione: se sto a braccia conserte avrò lasciato campo al nemico per fare quello che vuole e quindi avrò collaborato alla diffusione dell’eterologa.

Tommaso Scandroglio


 2. L'obbligo morale di astenersi dal compiere il male.

Nel precedente post abbiamo visto che non è lecito battersi per avere una legge sull’eterologa al fine di limitare i danni della sentenza della Consulta che ha spalancato le porte a questa pratica. Anche per un fine buono mai si può fare il male.

In merito a tale argomentazione c’è però chi obietta: rimanendo con le mani in mano e non adoperandosi per promulgare una legge più restrittiva si fa il gioco del nemico. Sarebbe una collaborazione al male tramite omissione.
Nessuno vorrebbe varare una legge sull’eterologa, ma stretti da necessità meglio una legge che provoca pochi danni rispetto alla sentenza della Consulta che provocherà molti più danni.

Risposta che parte da un esempio: se non uccido Tizio, un pazzo ha deciso che ucciderà altre tre persone. Sono dunque in un vicolo cieco: o la morte di mia mano di una persona (eterologa per legge in alcuni casi), oppure la morte di altre tre persone (eterologa sempre come vuole la Consulta). Anche in questo caso, se non ci sono alternative valide, non posso che astenermi dal compiere il male, perché – altro principio morale – le circostanze (in questo caso lo stato di necessità) non possono legittimare un atto intrinsecamente malvagio (l’uccisione di una persona innocente).
E non vi è poi collaborazione al male da parte di chi si astiene: infatti non sono io che ho collaborato alla morte della altre tre persone per mano del pazzo, bensì è il folle stesso che le ha uccise ed ha congegnato tutto questo piano perverso a cui ho deciso di non collaborare. Non ho deciso io il verificarsi di questa condizione capestro, ma la mente del folle. Sarà Tizio ad essersi macchiato del sangue di tre innocenti, non io.

L’uomo è chiamato sempre a fare il bene, non sempre a ricercare l’utile.
E se in una situazione concreta il maggior bene possibile è l’astensione dal compiere il male, occorre assumere questa condotta anche se dal punto di vista dell’utilità è la scelta peggiore.
Ma dal punto di vista morale – l’unico punto di vista valido per l’uomo - i danni provocati non potranno essere addebitati a chi si è astenuto dal volere compiere il male, ma a chi – i giudici della Consulta – ha deciso di legittimare una pratica iniqua.

In sintesi: mai è lecito compiere un'azione intrinsecamente malvagia (voto di una legge iniqua) anche se il fine è buono (limitare i danni: restringere i casi in cui l'eterologa sarà praticata) ed anche se le circostanze non ci offrono alternative buone (o situazione molto malvagia - eterologa in ogni sua forma - o situazione meno malvagia - eterologa solo in alcuni casi: stato di necessità).

Nel prossimo post invece tenteremo di rispondere alla seguente domanda: di fronte a tale situazione creatasi dalla sentenza della Consulta, quali sono le strade lecite sotto il profilo morale per opporsi alla pratica ormai legale della eterologa?


Tommaso Scandroglio


3. Una strategia di attacco contro la fecondazione artificiale.

Nei due precedenti post abbiamo visto che non è lecito dare il proprio appoggio ad una legge intrinsecamente malvagia che legittimasse la pratica della fecondazione artificiale seppur animati dalla buona intenzione di limitare i danni provocati dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha aperto all’eterologa sempre e comunque.
Neppure in stato di necessità, cioè neppure se non ci fossero altre soluzioni percorribili.

Ora facciamoci questa domanda: di fronte a tale situazione creatasi dalla sentenza della Consulta, quali sono le strade lecite sotto il profilo morale per opporsi alla pratica ormai legale della eterologa?
Appuntiamo che, per espressa decisione dei giudici, il Parlamento non deve intervenire sulla materia essendo già sufficienti le norme vigenti (semmai occorrerà aggiustare qualcosa nelle linee guida). Per quello che qui a noi interessa ciò significa che l’eterologa è già sin d’ora pratica legittima in ogni sua forma.

Dunque abbiamo escluso che il male si possa combattere legalizzandolo (v. anche legge 194). Non vale il brocardo: se il male è inevitabile almeno che lo si faccia bene. Il male mai si può compiere anche se minore.

Le soluzioni per arginare il male, tra le molte, potrebbero essere le seguenti.
La prima: per gli operatori sanitari ricorrere all’obiezione di coscienza prevista dalla legge 40 (per gli interessati: non serve alcuna pratica aggiuntiva dato che l’obiezione di coscienza è valida per qualsiasi tecnica di fecondazione artificiale compresa quella eterologa).
In secondo luogo, sul piano giurisprudenziale, prendere esempio dai Radicali. All’indomani dalla batosta referendaria sulla legge 40 nel 2005 iniziarono ad intasare i tribunali di ricorsi per cambiare la legge e ci sono riusciti. Non si sono pianti addosso dicendo: “Con questa disfatta referendaria ormai tutto è perso e la partita sulla Fivet è chiusa”.
In terzo luogo occorre combattere la sentenza dei giudici sotto il profilo culturale – anche le azioni di carattere politico e giurisprudenziale possono assumere una veste culturale - ponendo la scure alla radice del problema, non cercando solo di sfrondare i rami più alti. Ciò significa che è doveroso ripetere in tutti i modi e in tutte le sale che è la stessa fecondazione artificiale ad essere una pratica iniqua.

Se la Corte costituzionale avesse aperto la porta alla sperimentazione sull’uomo, quale strategia sarebbe stata lecita sotto il profilo morale? Quella che contestava in radice tale provvedimento e si adoperava perché nella prassi non fosse applicata o quella che invocava una legge che confermasse il pronunciamento dei giudici?
E a parte invertite: cosa avrebbero fatto i Radicali se la Consulta avesse ad esempio soppresso il divieto di imporre le cure, anche quelle salvavita? Avrebbero chiesto una legge per porre dei limiti oppure avrebbero criticato la decisione in radice?

Infine sul piano legislativo è necessario proporre disegni di leggi che mirino (solo) a limitare la portata lesiva della legge 40, attaccandola articolo per articolo.
Si obietterà: “Proprio ora dopo la sentenza della Consulta? E’ da folli, da gente che non vive nella realtà! E’ fatica sprecata, non servirà a nulla e il disegno di legge finirà nel cestino della prima commissione che lo esaminerà!”.
Tutto vero, ma per intanto si cambia la direzione dello scontro (e si fa opinione): non più stretti a catenaccio nella difesa della legge 40 per paura che cambi in peggio, ma tesi ad attaccare il nemico. In tal modo saranno i pro-choice ad essere costretti a difendere questa legge e non i cattolici.
Infatti tali derive della Consulta sono anche l’esito della posizione rinunciataria di ampi settori della cultura cattolica volti sempre, come accennato prima, alla difesa del male esistente – pensato ormai come realtà inestirpabile e irreversibile – e mai protesi all’attacco.
Se chiedi cento magari dieci ottieni, ma se difendi il tuo dieci che ti tieni gelosamente stretto al petto vedrai che anche quel dieci ti verrà tolto.
La storia sui principi non negoziabili ce lo insegna.



Tommaso Scandroglio

Ordinanza del Giudice tutelare di del Tribunale di Spoleto del 03/01/2012 Notifica del 16/01/2012, http://www.cortecostituzionale.it/

Aborto, la 194 al vaglio della Consulta. “Violazione dei diritti dell’embrione”Corte costituzionale della Repubblica italiana
Reg. ord. n. 60 del 2012 pubbl. su G.U. del 18/04/2012 n. 16
Ordinanza del Giudice tutelare di del Tribunale di Spoleto del 03/01/2012
Notifica del 16/01/2012
Tra: F. N.
Oggetto:
Aborto e interruzione volontaria della gravidanza - Interruzione della gravidanza nei primi novanta giorni dal concepimento - Facoltà della gestante (nella specie, minorenne) che accusi circostanze comportanti "serio pericolo" per la sua salute fisica o psichica - Incompatibilità di tale previsione con la definizione e la tutela dell'embrione umano enunciate dalla Corte di giustizia UE in sede di interpretazione del divieto di brevettabilità delle utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali e commerciali (art. 6 della direttiva 98/44/CE) - Contrasto con la tutela dei diritti inviolabili dell'uomo - Lesione del diritto alla vita dell'embrione (in quanto uomo in fieri) - Lesione del diritto fondamentale dell'individuo alla salute.

Norme impugnate
Num. Art. Co. Nesso  
legge 22/05/1978 194 4 (collegamento a Normattiva)
Parametri costituzionali
Num. Art. Co. Nesso  
Costituzione 2 (collegamento a Normattiva)
Costituzione 11 (collegamento a Normattiva)
Costituzione 32 1 (collegamento a Normattiva)
Costituzione 117 1 (collegamento a Normattiva)
Sentenza Corte Di Giustizia C.E. 18/10/2011 proc. C-34/10
Camera di Consiglio del 20 giugno 2012 rel. MORELLI



Testo dell'ordinanza
  N.   60  ORDINANZA (Atto di promovimento) 3 gennaio 2012. 
  Ordinanza  del  3  gennaio  2012  emessa  dal  giudice  tutelare  del
Tribunale di Spoleto nel procedimento relativo a F.N.. 

Aborto e interruzione  volontaria  della  gravidanza  -  Interruzione
  della gravidanza  nei  primi  novanta  giorni  dal  concepimento  -
  Facolta'  della  gestante  (nella  specie,  minorenne)  che  accusi
  circostanze comportanti "serio pericolo" per la sua salute fisica o
  psichica - Incompatibilita' di tale previsione con la definizione e
  la tutela dell'embrione umano enunciate dalla Corte di giustizia UE
  in sede di interpretazione del  divieto  di  brevettabilita'  delle
  utilizzazioni di embrioni umani a fini  industriali  e  commerciali
  (art. 6 della direttiva 98/44/CE) - Contrasto  con  la  tutela  dei
  diritti inviolabili dell'uomo  -  Lesione  del  diritto  alla  vita
  dell'embrione (in quanto uomo  in  fieri)  -  Lesione  del  diritto
  fondamentale dell'individuo alla salute. 
- Legge 22 maggio 1978, n. 194, art. 4. 
- Costituzione, artt. 2, 11, 32,  primo  comma,  117  [primo  comma];
  sentenza della Corte di giustizia dell'Unione  europea  18  ottobre
  2011, nel procedimento C-34/10, resa  su  rinvio  pregiudiziale  ex
  art. 267 TFUE circa la corretta interpretazione dell'art. 6, n.  2,
  lett. c), della direttiva del Parlamento europeo  e  del  Consiglio
  98/44/CE del 6 luglio 1998. 

(GU n. 16 del 18.04.2012 )  




                            IL TRIBUNALE 

    Esaminati gli atti del procedimento in epigrafe,  introdotto  con
relazione della ASL 3 Umbria - Distretto sanitario di Spoleto  del  2
gennaio 2012 - prot. 0024 concernente la manifestata  volonta'  della
minore N.F. (nata il 14 gennaio 1995) di sottoporsi  ad  interruzione
volontaria della gravidanza senza coinvolgimento dei genitori; 
    Visto l'art. 12, secondo comma, legge n. 194/1978; 
    Premesso in fatto che: 
        il competente Servizio presso  l'ASL  3  di  Spoleto  con  la
relazione  indicata  in  premessa  riferiva   all'intestato   giudice
tutelare la situazione della minore N.F., compiutamente generalizzata
in atti, la quale, proveniente da  altro  centro  cittadino,  si  era
presentata in data 27 dicembre 2011 presso il  consultorio  familiare
spoletino   accompagnata   dal   fidanzato,   anch'egli    minorenne,
manifestando «con chiarezza e determinazione» la propria decisione di
sottoporsi ad I.V.G. «in quanto non si ritiene in grado  di  crescere
un figlio,  ne'  disposta  ad  accogliere  un  evento  che  non  solo
interferirebbe  con  i  suoi  progetti  di  crescita  e  di  vita  ma
rappresenterebbe un profondo stravolgimento esistenziale». 
    Opportunamente invitata dalle  assistenti  sociali  ad  esternare
anche le  motivazioni  piu'  profonde  della  propria  decisione,  la
ragazza, rifiutando di prendere in considerazione eventuali soluzioni
alternative a norma di legge, si diceva «... certa che comunicare  ai
genitori  l'accaduto  determinerebbe  una   crisi   intra   familiare
ingestibile: non solo i genitori non capirebbero e non  sarebbero  in
grado  di  accoglierla,  ma  lei  stessa,  consapevole  delle   gravi
questioni che la famiglia ha dovuto affrontare negli  anni,  verrebbe
travolta da un senso di  colpa  che,  sommato  alla  delicatezza  del
momento, le diverrebbe insostenibile». 
    Nel successivo colloquio del 30 dicembre 2011 l'interessata aveva
ribadito all'assistente sociale  la  propria  decisione  «in  maniera
ancora  piu'  accentuata»,  rivendicando  nel  contempo  la   propria
maturita' e capacita' di compiere  scelte  autonome;  contestualmente
aveva sottolineato, per un verso, la fragilita' dei  propri  genitori
ed il timore di ferirli in maniera irreversibile e, per altro  verso,
il dialogo limitatissimo con essi esistente di talche'  «...  parlare
con i genitori significherebbe esporsi ad ulteriori tormenti». 
    Segnalando  che  la  ragazza  era  «apparsa  piuttosto  matura  e
cosciente, contenuta nelle esternazioni», argomentava il servizio che
seppur  non  si  ravvisassero  nella  descritta  situazione  elementi
concreti  di  gravita'  o   elementi   esplicitamente   ostativi   al
coinvolgimento dei familiari, «la percezione che ha delle  fragilita'
e  debolezze  dei  genitori,  sommata   da   una   storia   familiare
oggettivamente difficile appare talmente condizionante per  cui  puo'
ritenersi verosimile che in questo momento non vi siano i presupposti
per poter effettuare una mediazione  che  richiede  energie  e  tempi
diversi da quelli indotti dall'emergenza attuale».  Esprimeva  dunque
un   parere   sostanzialmente   favorevole   all'accoglimento   della
richiesta, seppur in parallelo ad un necessario percorso di  sostegno
ed elaborazione da effettuarsi in favore della giovane nei successivi
mesi. 
    Alla relazione veniva allegato un referto datato 30 dicembre 2011
del  servizio  di  ecografia-ostetrica   dell'ospedale   di   Spoleto
attestante  una  gravidanza  alla   sesta   settimana   in   regolare
evoluzione. 
    Ritenuto in diritto che: 
        1) la sentenza della Corte di giustizia  dell'Unione  europea
del 18 ottobre 2011 nel procedimento C-34/10, resa su una domanda  di
pronunzia  pregiudiziale  ex  art.  267  TFUE   circa   la   corretta
interpretazione dell'art. 6, n. 2, lettera  C)  della  direttiva  del
Parlamento europeo e del Consiglio del 6 luglio 1998 - 98/44/CE sulla
protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche,  contiene  fra
l'altro (paragrafo 38 della motivazione) la definizione della nozione
di  «embrione  umano»;  al  riguardo  la  Corte  europea,  dopo  aver
opportunamente rammentato (paragrafo 30 motivazione) che  «quanto  al
significato da attribuire alla nozione di "embrione  umano"  prevista
all'art. 6, n. 2, lettera c) della direttiva,  si  deve  sottolineare
che, sebbene la definizione dell'embrione umano costituisca  un  tema
sociale  particolarmente   delicato   in   numerosi   Stati   membri,
contrassegnato  dalla  diversita'  dei  loro  valori  e  delle   loro
tradizioni,  la  Corte  non  e'  chiamata,  con  il  presente  rinvio
pregiudiziali, ad affrontare questioni di natura medica o  etica,  ma
deve  limitarsi  ad  un'interpretazione  giuridica  delle  pertinenti
disposizioni  della  direttiva»   cosi'   testualmente   si   esprime
(paragrafo   38   motivazione):   «Alla   luce    delle    precedenti
considerazioni la prima questione deve  essere  risolta  come  segue:
costituisce un "embrione  umano"  qualunque  ovulo  umano  fin  dalla
fecondazione, qualunque ovulo umano non fecondato in  cui  sia  stato
impiantato il nucleo di una cellula umana matura  e  qualunque  ovulo
umano non fecondato che, attraverso partenogenesi, sia stato  indotto
a dividersi e svilupparsi;»; 
        2)  trattandosi  di  decisione  resa  in  seguito  a   rinvio
pregiudiziale, ex art. 267 TFUE, da parte di un giudice nazionale, il
principio  interpretativo  affermato  dalla  Corte   deve   ritenersi
assumere, per cio' solo, efficacia diretta e vincolante per tutti gli
Stati membri  (ex  pluribus,  Cassazione  -  sentenza  14468  del  22
dicembre 1999) i cui operatori del diritto sono  dunque  chiamati  ad
applicare la legislazione interna dello Stato in maniera  armonica  e
non confliggente con quanto affermato dalla Corte  europea;  cio'  in
linea con la giurisprudenza costituzionale (da ultimo,  con  sentenza
n. 227 del 2010) che,  affermando  il  principio  di  prevalenza  del
diritto comunitario in forza  dell'art.  11  della  Costituzione,  ha
sancito il potere-dovere del giudice dello Stato  di  dare  immediata
applicazione  alle  norme  comunitarie,  se  provviste  di  efficacia
diretta, in luogo di  norme  nazionali  che  risultino  in  contrasto
insanabile  in  via  interpretativa  ovvero,  negli  altri  casi,  di
sollevare questione di legittimita' costituzionale anche in relazione
al novellato art. 117 della Costituzione; 
    3) non puo' non intravvedersi  nel  dictum  della  Corte  europea
l'affermazione,  decisa  ed  inequivoca  quanto  mai   prima   d'ora,
dell'assoluto rilievo giuridico attribuito all'«embrione  umano»,  il
quale non soltanto viene definito tale  «sin  dalla  fecondazione»  -
cosi'  sgombrandosi  il  campo  da   qualsivoglia   possibilita'   di
interpretazione      alternativa      eventualmente       finalizzata
all'affermazione dell'esistenza  di  un  embrione  umano  soltanto  a
partire  da  un  determinata  epoca   successiva   a   quella   della
fecondazione dell'ovulo - ma  considerato  un  soggetto  di  primario
valore giuridico da tutelare in modo assoluto avverso il pericolo  di
qualsivoglia indebita utilizzazione mediante invenzioni per finalita'
industriali o commerciali e, ancor piu'  espressamente,  escludendosi
qualsivoglia brevettabilita' «...  ove  l'attuazione  dell'invenzione
richieda la distruzione di embrioni umani» (paragrafo 49  motivazioni
Sentenza); 
    4) non sembra inesatto affermare, dunque, che l'«embrione  umano»
debba qualificarsi alla luce dell'intervenuta decisione europea  come
«essere» provvisto di una autonoma soggettivita' giuridica della  cui
tutela l'ordinamento  deve  farsi  carico  anche  (e  soprattutto)  a
cagione della mancanza di qualsivoglia capacita'  di  auto-tutela  da
parte del  diretto  interessato;  mutatis  mutandis,  sembra  potersi
richiamare in via analogica quella tutela che l'Ordinamento  appresta
in favore della persona umana anche allorche'  sia  colpita  da  casi
gravissimi di inabilita' assoluta determinanti la perdita  totale  ed
irreversibile delle funzioni primarie di comunicazione e  locomozione
proprie  dell'individuo  il  quale,  pero',  conservando  integri   i
processi vitali primari e la propria sensibilita', proprio per questo
non potra' mai esser retrocesso al rango di «cosa inanimata»; 
    5)  e  del  resto,  se  tale  non  fosse  stata  l'argomentazione
logico-giuridica sottesa al ragionamento  della  Corte  europea,  non
potrebbe  altrimenti   comprendersi   il   perche'   delle   relative
conclusioni  circa  il  divieto  assoluto  di  brevettabilita'  delle
invenzioni recanti lo sfruttamento a fini  industriali-commerciali  o
addirittura la  «distruzione»  degli  «embrioni  umani»;  vietare  la
«distruzione» dell'«embrione umano» equivale infatti ad affermare  il
disvalore assoluto in ogni caso, ai sensi dei  principi  fondanti  il
diritto dell'Unione europea, della perdita  dell'embrione  umano  per
consapevole  intervento  dell'uomo,  se  anche  effettuato  invocando
esigenze di progresso scientifico; trattasi quindi  di  affermazione,
nemmeno troppo implicita, della giuridica esistenza di  un  soggetto,
l'«embrione umano» che, in ogni caso, deve trovare  tutela  in  forma
assoluta; 
    6) se tale interpretazione  non  erra,  sembra  necessario  farne
diretta applicazione nel diritto interno allo Stato e, per i fini qui
ci occupano, porre d'ufficio la questione  della  compatibilita'  fra
tale affermato principio e la facolta'  prevista  dall'art.  4  della
legge n. 194/1978 di procedere volontariamente all'interruzione della
gravidanza entro  i  primi  novanta  giorni  dal  concepimento:  cio'
comportando, come e' ovvio, l'inevitabile risultato della distruzione
di quell'embrione umano che, come si e' visto, e' stato  riconosciuto
quale soggetto da tutelarsi in  modo  assoluto  nel  diritto  vivente
della Corte europea; 
    7) sembra dunque necessario  e  imprescindibile  per  l'intestato
giudice - assolutamente  consapevole  e  rispettoso  dei  profili  di
delicatezza e drammaticita' che la scelta di  procedere  ad  comporta
per  qualsiasi  donna  -  sollevare  la  questione  di   legittimita'
costituzionale dell'indicata norma dell'art. 4 legge n.  194/1978  in
correlazione ai principi generali della Carta  costituzionale  e,  in
particolare, a quelli di tutela  dei  diritti  inviolabili  dell'uomo
(art. 2) e del diritto fondamentale alla salute dell'individuo  (art.
32, primo comma), fermi restando i gia' ricordati rapporti di rilievo
costituzionale fra diritto comunitario e diritto  interno  ricavabili
dall'interpretazione  sistematica  degli  articoli  11  e  117  della
Costituzione; 
    8) in relazione all'art.  2  della  Costituzione,  poiche'  dalla
definizione  di  principio  contenuta  nella  decisione  della  Corte
europea  sembra  doversi  ritrarre  la  conclusione  sostanziale  che
l'«embrione umano» e'  suscettibile  di  tutela  assoluta  in  quanto
«uomo»  in  senso  proprio,  seppur  ancora  nello  stadio   di   sua
formazione/costituzione  mediante  il  progressivo   sviluppo   delle
cellule germinali: si legge infatti nelle motivazioni della decisione
(paragrafo 16),  nella  parte  in  cui  si  richiamano  le  direttive
europee:  «considerando  che  il  diritto  dei  brevetti   dev'essere
esercitato nel rispetto dei principi fondamentali che garantiscono la
dignita' e l'integrita' dell'uomo; che occorre ribadire il  principio
secondo cui il corpo umano, in ogni stadio della sua  costituzione  e
del suo sviluppo, comprese le cellule germinali la semplice  scoperta
di uno dei suoi elementi o di uno dei suoi dei suoi prodotti, nonche'
la  sequenza  o  sequenza  parziale  di  un  gene  umano,  non   sono
brevettabili;»;  se  dunque   l'«embrione   umano»   deve   ritenersi
correttamente qualificabile come «uomo», seppur «in  fieri»,  per  il
diritto vivente europeo, necessaria conseguenza  logico-giuridica  e'
il ritenere  costituzionalmente  illegittima  qualsivoglia  norma  di
legge che, prevedendo  la  facolta'  di  addivenire  alla  volontaria
distruzione dell'«embrione umano» leda irreparabilmente quel  diritto
alla vita che e' il primo fra i «diritti inviolabili» dell'uomo; 
    9) in relazione all'art.  32,  primo  comma  della  Costituzione,
poiche'  la  volontaria  distruzione  dell'«embrione  umano»   sembra
costituire condotta fortemente violativa anche di quel  diritto  alla
salute che viene affermato e tutelato in quanto «fondamentale diritto
dell'individuo»  e  dunque  spettante   a   chiunque   possieda   una
individualita'   giuridicamente   rilevante:   tale   e'   il    caso
dell'«embrione umano» che, anche  qualora  volesse  disattendersi  la
definizione di «uomo in fieri» come  sopra  delineata,  e'  di  certo
qualificabile come  «individuo»  in  senso  proprio,  tale  dovendosi
definire  quel  centro  di  imputazione   soggettiva   di   relazioni
giuridicamente  rilevanti  che  sia   diverso,   sotto   il   profilo
ontologico, dalle cose inanimate e, sotto  il  profilo  di  genere  e
specie, dai vegetali e dagli animali. 
    Se dunque l'«embrione umano» e'  di  certo  qualificabile  almeno
come  «individuo»  in  senso  proprio  ad  esso  e'  sicuramente   da
riconoscersi quella tutela del fondamentale diritto alla salute che e
sancita dall'art. 32, primo comma della Carta costituzionale; 
    10) le considerazioni sopra brevemente esposte militano a  favore
della  rilevanza  ai  tini  dell'odierna  decisione  della  delineata
questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  4  legge   n.
194/1978, la cui non-manifesta  infondatezza  impone  al  giudice  di
sollevarla di ufficio contestualmente disponendo la  sospensione  del
procedimento nelle forme di legge e la trasmissione degli  atti  alla
Corte costituzionale, oltreche' le prescritte notifiche ex  art.  23,
ultimo comma legge n. 87/1953. 
    Per ovvie ragioni di riservatezza la  presente  ordinanza  dovra'
essere comunicata all'interessata mediante consegna di copia  a  mani
proprie esclusivamente per il tramite del competente Servizio sociale
ASL 3 Spoleto, il quale curera' le forme piu' idonee a  garantire  in
ogni caso l'assoluta riservatezza. 


                               P.Q.M. 

    Visti gli articoli 134 Costituzione e 23 legge 11 marzo 1953,  n.
87. 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 4 della legge 22  maggio  1978,
n. 194, in relazione agli articoli 2, 32, primo comma, 11 e 117 della
Carta costituzionale. 
    Solleva d'ufficio la suddetta questione. 
    Dispone la sospensione del procedimento in  corso  e  l'immediata
trasmissione di tutti gli atti alla Corte costituzionale. 
    Dispone che la  presente  ordinanza  sia  comunicata  alla  parte
interessata per il tramite del  competente  servizio  sociale  ASL  3
mediante consegna di copia a mani proprie, curandosi in ogni caso  le
forme piu' idonee a garantire l'assoluta riservatezza. 
    Dispone inoltre che  la  presente  ordinanza  sia  notificata  al
Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata al Presidente  del
Senato ed al Presidente della Camera dei deputati. 
    Manda alla Cancelleria per le comunicazioni e gli adempimenti  di
competenza. 
        Spoleto, 3 gennaio 2012 

                         Il Giudice tutelare 




Il Lazio vieta l'obiezione di coscienza. Zingaretti obbliga i medici a prescrivere la pillola, 25 giugno 2014, http://www.liberoquotidiano.it/


Il Lazio vieta l'obiezione di coscienza. Zingaretti obbliga i medici a prescrivere la pillola
Nessuna obiezione di coscienza nei consultori del Lazio. I medici che prestano servizio nelle strutture sanitarie della Regione non potranno rifiutarsi di prescrivere la pillola del giorno dopo alle donne che ne faranno richiesta, né di applicare la spirale, e saranno obbligati a compilare la certificazione che attesta la volontà di una donna di interrompere la gravidanza. Lo ha deciso il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, che nella veste di commissario ad acta della sanità ha emesso un decreto che specifica come l'obiezione di coscienza riguarda solo quegli operatori che praticano l'interruzione volontaria di gravidanza vera e propria.

Il decreto U00152 'Rete per la Salute della Donna, della Coppia e del Bambino: ridefinizione e riordino delle funzioni e delle attività dei Consultori Familiari regionali' è una piccola-grande rivoluzione nelle politiche legate all'applicazione della legge 194. Ecco cosa c'è scritto: "In merito all'esercizio dell'obiezione di coscienza fra i medici ginecologi, che dati recenti pongono al 69,3% in Italia si ribadisce come questa riguardi l'attività degli operatori impegnati esclusivamente nel trattamento dell'interruzione volontaria di gravidanza, di seguito denominata Ivg. Al riguardo, si sottolinea che il personale operante nel Consultorio Familiare non è coinvolto direttamente nella effettuazione di tale pratica, bensì solo in attività di attestazione dello stato di gravidanza e certificazione attestante la richiesta inoltrata dalla donna di effettuare Ivg. Per analogo motivo, il personale operante nel Consultorio è tenuto - sottolinea Zingaretti nelle linee guida - alla prescrizione di contraccettivi ormonali, sia routinaria che in fase post-coitale, nonchè all'applicazione di sistemi contraccettivi meccanici, vedi Iud (Intra Uterine Devices)".

Il Consiglio di Stato condanna Vincent Lambert a morire di fame e di sete. Ma Strasburgo blocca tutto, 25 giugno 2014 di Leone Grotti, http://www.tempi.it/

Ieri il Consiglio di Stato francese ha deciso che Vincent Lambert deve essere lasciato morire di fame e di sete come richiesto dalla moglie e da sei fratelli dell’uomo. La decisione, che ricalca la richiesta del commissario del governo intervenuto lo scorso 20 giugno davanti al Consiglio, causerà l’interruzione dell’idratazione e alimentazione di quest’uomo di 38 anni, da cinque in stato di minima coscienza.

SPERANZA DALLA CORTE EUROPEA. Lambert, il cui caso è molto simile a quello di Terri Schiavo, respira in modo autonomo, non è attaccato a nessuna macchina e risponde agli stimoli. Per questo, contrariamente alla volontà della moglie, i genitori e due fratelli dell’uomo vogliono che continui a vivere. Ieri però il Consiglio di Stato ha dato torto alla famiglia, affermando che nutrirlo è «accanimento terapeutico». Ma la sentenza dei 17 giudici non sarà l’ultima parola su Vincent. Questa, infatti, è stata sospesa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, a cui i genitori si erano rivolti lunedì, in attesa di svolgere i suoi accertamenti sul caso.

«GIORNO FUNESTO». Quello di Lambert sarebbe il primo caso di eutanasia legale in Francia. L’avvocato della famiglia, Jérome Triomphe, ha reagito alla decisione del Consiglio di Stato ieri parlando di «un giorno funesto» in cui i giudici restituiscono «alla madre e alla sposa un morto». Anche l’Unione nazionale delle associazioni delle famiglie dei malati di trauma cranico ha protestato dal momento che la volontà di Lambert «è stata ricostruita a posteriori», visto che lui non ha mai lasciato detto di voler morire.

EUTANASIA LEGALE. Ieri, in un altro processo finito sotto i riflettori dei media, per Nicolas Bonnemaison, medico d’urgenza dell’ospedale Bayonne che ha ammesso di aver ucciso sette pazienti in fin di vita con l’eutanasia senza consultare pazienti e famiglie, l’accusa ha chiesto cinque anni con la condizionale. Al processo sono intervenuti molti personaggi del mondo medico e politico che pur non approvando esplicitamente l’operato di Bonnemaison, hanno chiesto che in Francia venga legalizzata l’eutanasia.

@LeoneGrotti

giovedì 19 giugno 2014

L'Onu condanna la Chiesa ma poi arruola organizzazioni pedofile di Tommaso Scandroglio, 19-06-2014, Il Rapporto Kinsey, http://www.lanuovabq.it/

Il Rapporto KinseyCi sono organismi delle Nazioni Unite che non smettono di accusare la Chiesa cattolica per i casi di pedofilia, ma altri organismi Onu avallano la pedofilia al punto da accettare al proprio interno organizzazioni dal chiaro profilo pedofilo. È il caso del Kinsey Institute - un istituto di ricerca su sesso, genere e riproduzione - che lo scorso 23 aprile è stato accreditato come organo consultivo dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC). 

L’istituto prende il nome da Alfred Charles Kinsey, un entomologo che si è dato allo studio dei comportamenti sessuali e che pubblicò i famigerati Rapporti Kinsey. Come ha ricordato da queste colonne Roberto Marchesini (Kinsey, era un maniaco il guru della cultura gay) «l'aspetto più inquietante di questo personaggio riguarda gli esperimenti sessuali condotti su bambini. Nel paragrafo intitolato ‘L'orgasmo nei soggetti impuberi’ del primo Rapporto Kinsey descrive i comportamenti di centinaia di bambini da quattro mesi a quattordici anni vittime di pedofili. In alcuni casi, Kinsey e i suoi osservarono (filmando, contando il numero di ‘orgasmi’ e cronometrando gli intervalli tra un ‘orgasmo’ e l'altro) gli abusi di bambini ad opera di pedofili: ‘In 5 casi di soggetti impuberi le osservazioni furono proseguite per periodi di mesi o di anni[...]’; ci furono anche bambini sottoposti a queste torture per 24 ore di seguito: ‘Il massimo osservato fu di 26 parossismi in 24 ore, ed il rapporto indica che sarebbe stato possibile ottenere anche di più nello stesso periodo di tempo’».

Marchesini continua spiegando che «nel secondo Rapporto esiste un paragrafo intitolato ‘Contatti nell'età prepubere con maschi adulti’ nel quale vengono descritti rapporti sessuali tra bambine e uomini adulti, ovviamente alla presenza di Kinsey e colleghi. Le osservazioni condotte inducono Kinsey a sostenere che ‘Se la bambina non fosse condizionata dall’educazione, non è certo che approcci sessuali del genere di quelli determinatisi in questi episodi [contatti sessuali con maschi adulti], la turberebbero. È difficile capire per quale ragione una bambina, a meno che non sia condizionata dall’educazione, dovrebbe turbarsi quando le vengono toccati i genitali, oppure turbarsi vedendo i genitali di altre persone, o nell’avere contatti sessuali ancora più specifici. Quando i bambini vengono posti in guardia di continuo dai genitori e dagli insegnanti contro i contatti con gli adulti, e quando non ricevono alcuna spiegazione sulla natura esatta dei contatti proibiti, sono pronti a dare in manifestazioni isteriche non appena una qualsiasi persona adulta li avvicina, o si ferma a parlar loro per strada, o li carezza, o propone di fare qualcosa per loro, anche se quella persona può non avere alcuna intenzione sessuale. Alcuni tra i più esperti studiosi di problemi giovanili, sono addivenuti alla convinzione che le reazioni emotive dei genitori, dei poliziotti e di altri adulti i quali scoprono che il bambino ha avuto contatti, possono turbare il fanciullo più seriamente degli stessi contatti sessuali».

Paul Gebhard, collaboratore di Kinsey e futuro direttore dell’istituto, ha ammesso che «quando abbiamo intervistato i pedofili, eravamo sicuri che avrebbero continuato con i loro atti, ma non abbiamo fatto nulla». Mai sono stati denunciati i pedofili oggetto di studio da parte dell’equipe di Kinsey per il semplice motivo che, come aggiunge Genhard, «non avrebbe potuto esserci nessuna ricerca se li avessero arrestati». E così chiosa: «Si trattava di pratiche illegali e sapevamo che era illegale, ed è per questo che un sacco di gente è furiosa». Anzi John Bancroft, direttore dell’Istituto dal ’95 al 2004, non fece mistero nel dire che Kinsey assicurò «l'anonimato ai suoi informatori» ed evitò sempre «giudizi di valore sul loro comportamento».

Kinsey, favorevole ad ogni parafilia tra cui la bestialità, inoltre affermò che il 95% delle persone compie reati a sfondo sessuale e dunque dovrebbe essere rivisto il concetto di “normalità” e riviste le pene per tali crimini. Lui stesso testimoniò a favore di pedofili e i suoi studi favorirono una linea più morbida nell’irrogare pene per i delitti di natura pedofila negli States.

Il Kinsey Institute, che negli anni ha ricevuto grossi finanziamenti dalla Fondazione Rockefeller, ora sta diffondendo un programma di educazione – rectius: di iniziazione – sessuale chiamato SIECUS (Sexuality Information and Education Council of United States) rivolto a bambini e ragazzi, il quale insegna la masturbazione ai bambini di 5 anni e come avere i primi approcci sessuali. Il SIECUS è stato una delle fonti per la stesura del documento dell’ONU Sezione Europa «Standard per l'educazione sessuale in Europa» (leggi qui).

Ricordiamo inoltre che il Kinsey Institute assegna borse di studio in memoria di John Money, il famigerato psicologo che persuase i genitori di Bruce Reimer ad educarlo come una bambina con il risultato che un giorno Bruce – ormai chiamato da tutti Brenda - si tolse la vita per la disperazione.

Ora in America è partita una raccolta di firme promossa dal sito www.stopthekinseyinstitute.org per revocare o non rinnovare l'accredito al Kinsey Institute da parte dell’Onu, petizione rilanciata qui in Italia dal sito CitizenGO.org (clicca qui per firmare). Qualche precedente che possa far sperare in bene c'è: l’ILGA (International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans And Intersex Association), la più potente associazione omosessuale al mondo, nel 1993 perse l’accreditamento presso l’ONU proprio a motivo di sospette contiguità con alcune realtà pedofile.

mercoledì 18 giugno 2014

La rivoluzione antropologica libera la violenza di Roberto Marchesini, 18-06-2014, http://www.lanuovabq.it/

Violenza contro le donne

L'ideologia di genere sta penetrando nella nostra società come un coltello nel burro: trascurando alcune preoccupazioni (chiamarle allarmi sarebbe esagerato) sollevate dai soliti cattolici, il comune sentire pare accettare questa “rivoluzione antropologica” (come l'ha definita Benedetto XVI il 21 dicembre 2012) senza batter ciglio.

Eppure qualche segnale dovrebbe indurre a maggior prudenza. Alla vigilia dell'8 marzo di quest'anno l'Agenzia dell'Unione Europea per i Diritti Fondamentali ha presentato al Parlamento Europeo una ricerca (leggi qui) condotta intervistando 42.000 donne dei 28 stati membri dell'Unione Europea sulla violenza di genere. Gli esiti sono stati a dir poco paradossali. I paesi nei quali l'ideologia di genere è ormai il pensiero unico istituzionale sono infatti quelli nei quali la violenza di genere è più frequente: in Danimarca il 52% delle donne ha dichiarato di aver subito violenze; in Finlandia il 47%, in Svezia il 46%, in Olanda il 45%, in Francia e nel Regno Unito il 44%. Nei paesi dove l'ideologia di genere non è ancora pienamente affermata le percentuali sono le seguenti: Italia 27%, Irlanda 26%, Grecia 25%, Portogallo 24%, Spagna 22%; fanalino di coda la Polonia, con il 19%.

Cosa pensare di questi dati? Si potrebbe ipotizzare che, negli avanzati paesi del nord Europa, le donne abbiano una percezione diversa della violenza sessuale rispetto alle donne dei soliti paesi cattolici o mediterranei (ricordiamo che Julian Assange è stato denunciato per violenza sessuale per non aver voluto indossare il preservativo durante un rapporto consensuale); implicitamente, però, bisognerebbe dare per scontato che l'ideologia di genere contrasta le violenze sulle donne, che è ciò che la ricerca di proponeva di dimostrare (era dunque il punto di arrivo, non quello di partenza). 

Blanca Tapia, portavoce dell'Agenzia dell'Unione Europea per i Diritti Fondamentali, lega queste cifre alla diffusione dell'alcolismo. A parte che in Irlanda e in Polonia non è particolarmente diffusa l'astemia, bisognerebbe chiedersi non solo se la correlazione implica un rapporto causa-effetto (difficile da credersi per la portata del fenomeno), ma anche come mai nei paradisi dei nuovi diritti la gente ha così tanto bisogno di stordirsi. Non dovrebbero essere tutti felici? Gli stessi dati sono confermati da un rapporto di Amnesty International del 2010 (leggi qui) sullo spaventoso numero di violenze sessuali nei paesi nordici, che recitava: «I paesi nordici - Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia - sono spesso citati per lodare la parità di genere. Le richieste dei movimenti delle donne hanno spianato la strada per la partecipazione delle donne in tutti i settori della società. I governi di questi paesi hanno da tempo focalizzato l'attenzione sulle pari opportunità per donne e uomini nella vita pubblica, il lavoro, istruzione, partecipazione politica, la rappresentanza e la leadership. Nonostante ciò, la violenza continua contro le donne è la prova delle relazioni di potere diseguali tra uomini e donne che ancora prevalere in tutti i paesi nordici». Il fenomeno è evidente, eclatante; ma il dogma per cui la violenza contro le donne sarebbe la conseguenza di “relazioni di potere diseguali tra uomini e donne” pare inscalfibile.

Possiamo avanzare una ipotesi impensabile, assurda, pazzesca? E se la causa di tale enorme numero di violenze sessuali fosse proprio la diffusione dell'ideologia di genere? Se la superiorità fisica dell'uomo, non più al servizio della donna, si fosse rivolta contro quest'ultima? Se la forza virile, deplorata e riprovata, fosse in realtà un antidoto alla violenza? Se, nonostante le campagne mediatiche, gli uomini fossero realmente  più aggressivi delle donne; e questa aggressività, non più normata da codici etici ma semplicemente cancellata con un tratto di penna, fosse ineliminabile e resa solamente latente, clandestina, selvaggia? Scatta automatico il ricordo di quanto diceva san Tommaso a proposito delle passioni umane. Le passioni sono come un fiume: è più opportuno costruire degli argini per condurre l'acqua dove è utile (temperanza) piuttosto che bloccarne il corso con una diga (continenza)... Se l'ideologia di genere fosse sbagliata, se uomini e donne fossero realmente diversi, se gli uomini fossero davvero più aggressivi delle donne; non sarebbe meglio regolamentare questa aggressività con un codice etico, porla al servizio delle donne con dei semplici gesti (pagare al ristorante, aprire la portiera dell'auto, aiutare la donna ad accomodarsi sulla sedia) piuttosto che fingere che questa aggressività non esista, che sia solo una favola tramandata per conservare una presunta (ripeto: presunta) superiorità?

Cambiamo argomento, pescando ancora tra quelli maggiormente dibattuti sui media. Pensiamo ora al bullismo. Qualunque “esperto” può confermare che il bullismo è un fenomeno relazionale, che necessità cioè di due attori: il bullo e la vittima di bullismo. Ciò significa che se manca uno dei due non può esistere il bullismo. Proviamo ad immaginare (siamo sempre nel campo dei pensieri mostruosamente proibiti) che il dilagare del fenomeno non sia dovuto all'aumento di bulli, cioè di ragazzini dominanti, aggressivi e violenti; quanto piuttosto all'aumento di vittime, cioè di ragazzini timorosi, particolarmente sensibili, con scarsa autostima, insicuri, fisicamente deboli, che hanno paura di farsi male, incapaci nell'attività sportiva e con poco coordinamento corporeo? Cioè ragazzini ai quali mancano quelle caratteristiche (forza, determinazione, sicurezza...) proibite agli uomini secondo l'ideologia di genere?

Ancora: il bullismo non riguarda solo il bullo e la vittima, ma tutto il gruppo (o la classe) che assiste ai soprusi senza intervenire, magari contento che tocchi alla vittima e non a loro. Ebbene: per secoli la nostra cultura ha deplorato questo atteggiamento pavido e pusillanime, educando i ragazzi ad opporsi alle ingiustizie e ad essere coraggiosi, indicando loro come modello l'eroe, disposto a sacrificare se stesso a favore dei deboli opponendosi al malvagio e all'ingiusto. Ora, invece, chiedere ad un bambino di essere «sicuro, coraggioso, serio, orgoglioso, onesto, ambizioso, [...] avventuroso, autoritario, generoso, [...] fiero, duro, [...] virtuoso, tronfio, saggio, deciso, audace, libero», invece di «affettuoso, apprensivo, [...] premuroso, paziente, buono, tenero, [...] servizievole, comprensivo, docile, delizioso, delicato, [...] dolce» è «educazione sessista» (Irene Biemmi, Educazione sessista. Stereotipi di genere nei libri delle elementari, Rosenberg & Sellier, Torino 2010).

La domanda (ripeto: mostruosamente proibita) è dunque questa: se il bullismo e le “violenze di genere” fossero una conseguenza imprevista ed indesiderata dell'ideologia di genere? Una sorta di “eterogenesi dei fini” che sembra caratterizzare ogni rivoluzione, forse anche quella antropologica in atto.