giovedì 31 gennaio 2013

"Aborto, il vento sta cambiando" di Elena Molinari - Avvenire, 31 gennaio 2013


Sesso a scuola, in Croazia educazione di Stato - Avvenire, 31 gennaio 2013



Tra accanimento ed eutanasia un confine chiaro – Avvenire, 31 gennaio 2013


Dopo aver trattato l’aborto giovedì scorso, proseguiamo l’itinerario tra i nodi della bioetica alla luce del magistero della Chiesa, riassumendo oggi il giudizio sull’eutanasia formulato dal Catechismo e dall’enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II.  L’eutanasia è «un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore» ed è ben diversa dalla rinuncia all’accanimento terapeutico, ossia «a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia». Il rifiuto di tale accanimento non vuole in alcun modo uccidere, bensì esprime «l’accettazione della condizione umana». Condannando l’eutanasia, la Chiesa non vuole affatto essere insensibile alla sofferenza. Piuttosto raccomanda le cure palliative, che sono in grado (se messe in pratica) di lenire molto significativamente il dolore nel 95% dei casi, e prescrive di accompagnare il sofferente o il disabile con grandissimo affetto. Del resto, quando chiede l’eutanasia è soprattutto questo affetto che desidera il malato.  
In realtà, molto spesso, la sua «è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova»: quando ciò avviene, è documentato che nella maggior parte dei casi la richiesta di morire cessa. Nelle situazioni di insuccesso delle cure palliative, come anche in generale, è lecito l’impiego di sedativi per sollevare il malato dal dolore, anche «quando ciò comporta il rischio di abbreviargli la vita», se «la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile», e se non sono disponibili altre vie. L’eutanasia, invece, è «un’uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore», quando invece i malati e i sofferenti «richiedono un rispetto particolare».
L’uccisione del malato è «una falsa pietà», specialmente quando avviene per motivi economici, o comunque è una malintesa pietà, dato che la vera compassione «rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza». Rispondendo a chi rivendica un’autodeterminazione che autorizzerebbe a uccidere se stessi e a chiedere la propria uccisione, Evangelium vitae accenna all’«essenziale dimensione relazionale» della libertà: siamo al mondo anche in vista del bene degli altri e del bene comune, abbiamo doveri verso gli altri che trasgrediamo se ci facciamo uccidere. In più, tale libertà di farsi uccidere «si autodistrugge» perché, una volta che il soggetto è morto, non può più esercitare se stessa. Infine, va sottolineato al parlamentare e all’elettore che una legge che ammetta l’eutanasia (o l’aborto) è «intrinsecamente ingiusta», e «non è mai lecito conformarsi a essa», «né partecipare a una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare a essa il suffragio del proprio voto». Giacomo Samek Lodovici 

Nozze addio, boom delle coppie di fatto - 31 gennaio 2013 -  http://m.libero.it



I piu' importanti valori che oggi accomunano gli italiani sono il senso della famiglia (65 per cento dei cittadini), il gusto per la qualita' della vita (25 per cento), la tradizione religiosa (21 per cento) e l'amore per il bello (20 per cento). E' quanto emerge dalla ricerca 'I valori degli italiani', realizzata dal Censis nell'ambito delle attivita' per le celebrazioni del 150esimo anniversario dell'Unita' d'Italia. Perno della comunita' nazionale e', quindi, la famiglia. Anzi, i diversi "format familiari", visto che nel periodo 2000-2010 sono diminuite le coppie coniugate con figli (-739mila), mentre sono aumentate quelle non sposate con figli (+274mila) e le famiglie con un solo genitore (+345mila). Inoltre, osserva il Censis, nel periodo 1998-2009 sono aumentate le unioni libere (+541mila, arrivando in totale a 881mila) che, inclusi i figli, coinvolgono oltre 2,5 milioni di persone. E sono complessivamente 5,9 milioni gli italiani che hanno sperimentato nella loro vita una forma di convivenza libera. Le famiglie ricostituite (formate da partner con un matrimonio alle spalle) sono diventate un milione 70mila, mentre quelle ricostituite coniugate sono aumentate di 252mila unita' arrivando a 629mila.

La ricerca evidenzia anche che piu' del 90 per cento degli italiani si dichiara soddisfatto delle relazioni familiari. E anche se ci si sposa meno (tra il 2000 e il 2010 i matrimoni sono diminuiti del 23,7 per cento: 67.334 in meno), all'unione matrimoniale e' ancora riconosciuto un valore importante: il 76 per cento degli italiani e' infatti convinto che sia una regola da rispettare e il 54 per cento ritiene che garantisca maggiore solidita' alla coppia. In merito al gusto per la qualita' della vita, e' interessante il dato secondo cui il 56 per cento dei cittadini e' convinto che l'Italia sia il paese dove si vive complessivamente meglio. Italiani non piu' esterofili, quindi, ma orgogliosi di essere l'eccellenza del buon vivere. E anche se in futuro avessero la possibilita' di andarsene dall'Italia, due terzi dei cittadini (66 per cento) non lo farebbe in nessun caso. Per quanto concerne la tradizione religiosa, la ricerca sottolinea che l'82 per cento degli italiani pensa che esiste una sfera trascendente o spirituale che va oltre la realta' materiale.

Di questi, il 66 per cento si dichiara credente e il 16 per cento lo pensa anche se non si dichiara osservante. Ma due terzi di fatto non entrano mai nei luoghi di culto, e solo un terzo vi si reca una o piu' volte alla settimana per partecipare alle funzioni religiose. Il 70 per cento e' poi convinto che vivere in un posto bello aiuti a diventare persone migliori. Crede quindi che ci sia un legame tra etica ed estetica, e che la bellezza abbia anche una funzione educativa. Il 41 per cento pensa che le meraviglie del paese possano essere la molla per ripartire. Secondo la ricerca, poi, il consumismo attrae meno, visto che il 57 per cento degli italiani pensa che, al di la' dei concreti problemi di reddito, nella propria famiglia il desiderio di consumare e' meno intenso rispetto a qualche anno fa. Il 51 per cento crede che, anche in questa fase di crisi, in famiglia si potrebbe consumare di meno tagliando eccessi e sprechi. In maggioranza gli italiani (45 per cento) pensano che devono conservare quello che hanno, piuttosto che puntare ad avere di piu' (29 per cento). La ricerca sara' presentata oggi pomeriggio a Roma all'Istituto della Enciclopedia Italiana, e discussa dal presidente del Comitato dei Garanti per le celebrazioni del 150esimo anniversario dell'Unita' d'Italia, Giuliano Amato, dal presidente del Censis, Giuseppe De Rita, e dal sottosegretario di stato alla Presidenza del Consiglio per l'Informazione, la Comunicazione e l'Editoria, Paolo Peluffo.

AVVOCATI MATRIMONIALISTI, CRESCITA ESPONENZIALE COPPIE DI FATTO - "Negli ultimi 40 anni il matrimonio italiano ha subito un vero e proprio tracollo, statisticamente documentato. Si è passati dai 419.000 matrimoni del 1972 ai 217.000 del 2010. Nel biennio 2009/2010 il decremento del numero dei matrimonio è stato addirittura del 6%". Così Gian Ettore Gassani, presidente dell'Associazione degli avvocati matrimonialisti italiani, commenta  i dati resi noti dal Censis. "Si tratta di numeri che fanno rabbrividire, se si pensa che da secoli il matrimonio in Italia è un'istituzione sacra e indissolubile osserva il Presidente dell'Ami. Eppure - osserva - dei 500.000 bambini che ogni anno nascono nel nostro Paese, 100.000 sono figli di coppie di fatto, statisticamente più prolifiche di quelle sposate". "Altro dato importante - afferma Gassani - è che non solo i matrimoni sono diminuiti nel loro complesso, ma si registra l'aumento dei matrimoni civili: 85.771 nel 2009. A Roma, per esempio - ricorda - gli sposi preferiscono il Campidoglio alla Parrocchia (il 51%). La città in cui ci si sposa di più in Comune è Bolzano (60,3% nel 2010) a cui fa da contraltare Potenza (4,5%)". E precisa: "Accanto alle coppie di fatto, si aggiunge il fenomeno delle famiglie allargate (circa 775.000): trattasi di nuclei familiari composti da separati e/o divorziati con figli di primo, secondo e terzo letto, da cui scaturisce una infinita trama di rapporti personali e familiari". Quanto alle cause del tracollo del matrimono, spiega, "C'è una scarsa politica sociale per le giovani coppie e una sorta di legittimazione morale (non ancora giuridica) di altre forme di famiglia che gli italiani non rinnegano più. Sarebbe il caso che il legislatore pensasse ad introdurre nuove leggi a tutela dei diritti anche delle coppie di fatto, atteso che esse in Italia - come conferma il Censis- ormai rappresentano una colonna portante delle famiglie".

Il presidente dell'Ami ricorda poi un altro dato importante che dimostra "il radicale cambiamento di costume degli italiani in ambito familiare" e cioè che "il 22,1% delle persone intervistate dal Censis ha riferito che il proprio modello fosse il padre". "Il nostro Paese - spiega il matrimonialista - da sempre ha considerato la figura materna del tutto centrale ed insuperabile dal punto di vista genitoriale , anche alla luce della sistematica e scientifica defenestrazione del ruolo paterno che si è consumata dagli anni '70 fino ad oggi. Ma l'inversione di tendenza sancita anche dal Censis è confermata anche nei procedimenti di separazione e divorzio, atteso che almeno il 20% degli adolescenti dichiara apertamente di voler vivere presso il padre". L'avvocato Gassani parla infine di "paternità 'addolcità, laddove i padri sono più presenti nella vita dei figli, meno autoritari e più protettivi rispetto al passato". 


Topi: scoperti i neuroni delle coccole che scacciano l'ansia - 31 Gennaio 2013 - http://nextme.it

Scoperte le cellule nervose che 'avvertono' le coccole. Ad individuare esattamente qual è la parte del nostro corpo che risponde alle carezze sono stati gli scienziati del California Institute of Technology di Pasadena, che hanno identificato questi neuroni 'sensoriali' nei topi.

La carezza produce sulla pelle una sensazione piacevole sia nell'uomo che in molti altri mammiferi, ma fino ad ora non era chiaro quali fossero i neuroni in grado di rilevare questo stimolo. Era più facile infatti misurare le risposte al dolore piuttosto che al piacere, quindi, in generale, i neuroscienziati hanno focalizzato la loro attenzione sulla stimolazione legata al dolore.

Il team del Caltech invece si è focalizzato sull'altra faccia della medaglia, trovando un particolare tipo di neurone , identificato da marcatori molecolari, che risponde specificamente alle carezze. I ricercatori hanno utilizzato una sorta di pennello realizzato appositamente per pizzicare i topi in alcuni punti dei loro arti posteriori, e hanno individuato nel frattempo i neuroni che rispondono allo stimolo attraverso tecniche di imaging, nelle quali la sensazione è segnalata da un aumento di calcio. Si tratta di cellule che esprimono una particolare proteina, nota come Mrgprb4.

L'attivazione di questi neuroni durante gli studi ha contribuito ad alleviare nei topi l'ansia e le sensazioni di stress, il che potrebbe spiegare perché agli animali piace essere coccolati. Potrebbe valere lo stesso per gli esseri umani, che hanno strutture sensoriali simili.

È ancora presto per affermare che tali risultati potrebbero avere un potenziale terapeutico ma secondo gli esperti la strada è quella, anche se il la prospettiva illustrata dai ricercatori è discutibile : “Immaginate che qualcosa 'tocchi' la pelle degli animali e li faccia sentire sempre essere accarezzati e coccolati, anche quando siamo al lavoro! Ciò ci farebbe meno in colpa per averli lasciati a casa da soli".

Francesca Mancuso





Pillole anticoncezionali e i pericoli per la salute. Ora le case farmaceutiche tremano per le cause gennaio 30, 2013 Redazione - http://www.tempi.it


 Yasmin, Meliane, anche sui quotidiani si parla sempre più insistentemente dei pericoli dei contraccettivi. Oggi, ad esempio, lo fa Repubblica (La battaglia della pillola. “Oggi più rischiosa di ieri”. L’Europa apre un’inchiesta), in cui si legge che «quando, il 14 dicembre, Marion Larat fece causa alla casa produttrice della sua pillola per attentato all’integrità umana” non sapeva quale reazione a catena internazionale avrebbe innescato» (tempi.it ve ne aveva parlato qui).

Il caso della Larat (25enne francese oggi invalida al 65 per cento a causa di un ictus causato da un contraccettivo) è «oggi sottoposto a procedura di riesame da parte dell’Ema, l’Agenzia europea che si occupa della sicurezza dei farmaci».
L’articolo prende in esame soprattutto i farmaci di terza generazione, quelli che paiono i più pericolosi per la salute: «Un’abbondanza di dati, pubblicati tra gli altri dal British medical Journal e divulgati dalla stessa Ema, dimostra che le pillole più recenti hanno un rischio di ictus e trombosi doppio rispetto a quelle di seconda generazione: 4 casi su 10 mila per ogni anno di utilizzo, rispetto ai 2 delle vecchie formulazioni. Il ministero della Salute francese ha annunciato che da fine marzo smetterà di rimborsare le donne che usano la terza generazione, invitando i medici a prescrivere di preferenza la seconda. Se l’Ema troverà fondata la richiesta di Parigi, gli altri paesi europei dovranno adattarsi a questa direttiva».

Il caso di Marion Larat non è isolato. Come scrive Repubblica, «il suo avvocato Philippe Courtois ha preannunciato che alla denuncia della ragazza si stanno per associare altre 30 donne, tutte tra i 17 e 1 48 anni, che per via della pillola sarebbero state col pile da ictus (15 casi), embolia polmonare (3 casi), trombosi venosa profonda o flebite. Una signora è morta, le altre sono rimaste invalide, in alcuni casi paralizzate ai quattro arti».

È vero che, come ha detto l’Ema, «il 99,95% delle utilizzatrici nell’arco di un anno non manifesta alcun effetto collaterale serio», ma perché le pillole di seconda generazione sono state sostituite da altre più insicure? Risposta banale: questioni di marketing. Solo che, dopo il clamoroso caso Bayer («la Bayer negli Usa ha pagato 750 milioni di dollari per 3.500 donne e ha ancora 3.800 giudizi da affrontare»), per le case farmaceutiche «il conto potrebbe però non chiudersi in attivo».

Eutanasia: diritto o delitto? di Mario Palmaro - http://www.corrispondenzaromana.it

Eutanasia, diritto o delitto? di Mario Palmaro

(di Fabrizio Cannone) Il filosofo del diritto Mario Palmaro pubblica un importante saggio (Eutanasia: diritto o delitto? Il conflitto tra i principi di autonomia e di indisponibilità della vita umana, Giappichelli editore, Torino 2012, pp. 116, € 13), in cui con un linguaggio asciutto e preciso, l’Autore esamina il problema dell’eutanasia e della sua legalizzazione, da un punto di vista giuridico.

Si nota fin da subito, e questo non è affatto un limite, l’appartenenza dello studioso al campo dei cultori del diritto naturale, che cercano dei punti fermi nella realtà, per stabilire il loro discorso e le loro analisi. D’altra parte è innegabile che Palmaro conosca a fondo l’oggetto della sua trattazione e i numerosi rimandi bibliografici, sono non meri riferimenti di contorno, ma elementi imprescindibili di una logica tanto ferrea, quanto chiaramente documentata, anche nelle fonti “avverse”. Eccellente appare la capacità di sintesi del filosofo che presenta in poche pagine (cf. pp. 50-58) una carrellata – ci si passi il termine poco tecnico – dei principali argomenti sia a favore che contrari alla legalizzazione dell’eutanasia. Anche gli argomenti favorevoli all’inumana pratica vengono esposti non in modo riduttivo o semplificato, ma chiaro e corretto.

Proprio per ciò risulta più evidente la superiorità logica degli argomenti che militano in favore dell’indisponibilità e della sacralità della vita umana innocente. Così i tanto sbandierati diritti pro-eutanasia, come il diritto a morire (come e quando si vuole), il diritto all’autodeterminazione e il diritto a morire «con dignità», vengono ben confutati da Palmaro mostrando ciò che essi contengono di assurdo: l’idea implicita di ineguaglianza tra i cittadini, l’idea che il dolore sia un “male assoluto”, l’idea che ci sia un primato della società e dei suoi costi in rapporto al rispetto di un singolo suo individuo, l’idea che la maggioranza (ammesso che essa esista sul tema dell’eutanasia) possa determinare la verità morale, l’idea che in una società laica e democratica ognuno possa far ciò che vuole, l’idea che sia lecito uccidere l’innocente quando lo si fa per pietà…

Oltre a questi pseudo-argomenti, prendiamo, a contrario, uno solo dei ragionamenti anti-eutanasia svolti da Palmaro, ossia quello della volontà del malato di morire. Nota il filosofo: «Se (questa volontà) è formulata prima della malattia, rimane il dubbio che essa sia ancora valida quando il soggetto ha perso conoscenza; se invece è contestuale alla sofferenza, nessuno può garantire che essa sia lucida e libera, proprio per la morsa che la sofferenza stringe intorno alla psiche del sofferente» (pp. 46-47). Ecco così volatilizzato, il principale argomento dei fautori della “dolce morte”. Di sicuro il criterio odierno dell’autonomia assoluta dell’individuo è fortemente condizionato da fenomeni (negativi) come la secolarizzazione del pensiero e dello stesso Diritto positivo, i quali hanno evaporato la «concezione oggettiva della morale» (p. 82), tipica dei secoli cristiani, ma già presente, ad un grado di minor sviluppo, nella tradizione classica del diritto romano.

Si è così giunti alle recenti invenzioni, sulla scorta della capziosa lezione di Kelsen, del Diritto mite (Zagrebelsky) o del Diritto liquido (ben criticato da Bauman), i quali sostengono un sistema sociale libertario avente un carattere «essenzialmente autodistruttivo» (p. 96). Si capisce, meditando bene il testo di Palmaro, che non si tratta solo di salvare vite umane innocenti, ma altresì di salvare quel che resta di una civiltà storica che si costruì attorno al Vangelo e diede frutti meravigliosi anche in ordine al retto pensiero e alla giustizia sociale. (Fabrizio Cannone)

Sono cattolico, mi dichiaro fondamentalista - http://www.corrispondenzaromana.it
fondamentalista cattolico
(di Renzo Puccetti) C’è una cosa che riesce a urtarmi oltremodo, mi riferisco all’uso del termine «fondamentalismo» per descrivere chi ispira la propria azione pubblica sul principio di indisponibilità di vita, famiglia e libertà di educazione. Come già notato da mons. Jean Lafitte, quando l’accusa è avanzata dal fronte laicista essa è incoerente con quella deferenza per il pluralismo dei valori di cui i relativisti si pavoneggiano e si resta sbigottiti quando il refrain non-cognitivista dietro cui molti di essi si trincerano per difendere il pluralismo etico viene comicamente elevato a novello superdogma.

Quella parola, fondamentalismo, quell’epiteto, fondamentalista, riesce ad essere ancora più irritante quando viene impiegato da coloro che vengono identificati come cattolici, e non si usa qui il termine nei suoi contenuti teologici. Non so se la cosa si radichi nell’inconscio o sia invece premeditata, fatto sta che ha tutta l’apparenza di essere un atteggiamento volto a placare i dolori che la coscienza, quantunque addomesticata, è ancora in grado di indurre.

«La migliore difesa è l’attacco», recita il detto e qui sembra di essere davanti a persone consapevoli, o quanto meno timorose, di essere apprezzate per quello che sono, allumati di carrierismo. Costoro pensano bene che spacciare l’integralità della difesa della vita per fondamentalismo, asserirne l’impraticabilità una volta che dalle sale convegni si scenda nelle aule parlamentari, farà apparire loro stessi dialoganti, accettabili, disintossicati dalla retta dottrina e con ciò mondi dal tradimento, presentabili per consessi non meno compromessi.

Questa sorta di auto-lavaggio ha come effetto anche quello di produrre scorie inquinanti che coprono di “fondamentalismo” le limpide guglie che si sollevano dalla palude fetida del conformismo. Così, anche senza mai averle imbrattate direttamente, diventano fondamentaliste le parole del Papa e dei Vescovi che conservino ancora dignità e voce ortodossa ed insieme a queste quelle dei sacerdoti e dei laici fedeli al Magistero. Ed avviene che il compromesso al ribasso non sia subìto, ma piuttosto promosso, si crede infatti non già che la verità renda liberi, ma la mezza verità, la sintesi, il dialogo, il ma-anchismo, e tutto quel ciarpame di tiepidezza destinato ad essere vomitato. Il sale insipido e la luce sotto il moggio sono metafore da cui non si sentono interpellati. Varcato il Rubicone dell’integralità l’aborto cessa di essere un abominevole delitto (GS, 51), per diventare una scelta dolorosa da liberare da costrizioni economiche o sociali e la legge che lo ha liberalizzato sarà una legge dello Stato da applicare in tutte le sue parti, così chi la intende un sopruso, una corruzione della legge (EV, 72), una legge ingiusta (EV, 73) da abrogare in tutte le sue parti si ritrova servito: è un fondamentalista.

Allora facciamo un po’ di chiarezza: affermare che l’aborto è un abominevole delitto è da fondamentalisti? Mi dichiaro fondamentalista. Sostenere che la legge sull’aborto è totalmente iniqua, una legge la cui totale abrogazione è da perseguire con ogni mezzo lecito è da fondamentalisti? Includetemi tra i fondamentalisti. Difendere il principio di indisponibilità della vita umana anche da ridicole dichiarazioni inequivocabili, storicamente anticamera della legalizzazione dell’eutanasia, è da fondamentalisti? Bene, chi scrive è allora un fondamentalista. Sì, sono intransigente nella difesa della dignità incondizionata ed inalienabile di ogni essere umano, ho studiato e pratico la medicina per questo, per proteggere la vita dell’essere umano, un bene che ha il difetto di tollerare solo la chiarezza, esserci o non esserci, e che non sopporta le mediazioni di piccoli uomini, con piccole idee e piccole aspirazioni. (Renzo Puccetti)

Non di guerra di religione si tratta ma di guerra alla natura - http://www.corrispondenzaromana.it

legge naturale


(di Dina Nerozzi) «I temi eticamente sensibili sono prigionieri in Italia di una sfiancante guerra di religione» questo è l’incipit di un recente articolo di Pier Luigi Battista sul “Corriere della Sera” del 18 gennaio dal titolo Proposta contro le guerre di religione. Nell’articolo Battista propone lo «spacchettamento» dei temi «eticamente sensibili», distinguendo tra il diritto alla vita e la legalizzazione del matrimonio omossessuale. «Una legge ragionevole, che salvaguardi i diritti fondamentali degli omosessuali, che dia riconoscimento giuridico alle unioni tra individui dello stesso sesso, ‒ scrive ‒ attiene a una sfera diversa da quella che si combatte sull’arena dei valori non negoziabili».

Battista riconosce che quello della vita è un «valore non negoziabile» probabilmente perché tutte le evidenze scientifiche emerse dagli anni 70 in poi hanno dimostrato quello che sembrava già ovvio in partenza: dall’unione dei due gameti maschile e femminile nasce una nuova vita umana che è unica e irripetibile, programmata in base al suo corredo genetico, su cui andranno a influire le influenze ambientali, più o meno favorevoli. Il ragionamento di Battista sembra questo: se si riconosce la vita come valore non negoziabile si fa un passo nella direzione dell’incontro tra il mondo cattolico e quello “liberal-progressista”.

A questo punto ci si aspetta che sia la parte cattolica a fare l’ulteriore passo di avvicinamento per trovare un punto d’incontro in quella terra di mezzo che non c’é, di hegeliana memoria. Infatti si chiede Battista: «Ma che c’entra con il valore non negoziabile della vita una guerra cieca e ad oltranza contro il riconoscimento delle coppie di fatto, eterosessuali e soprattutto dello stesso sesso?».

Rispondiamo: si tratta di una guerra cieca o di un pregiudizio irrazionale come qualche magistrato potrebbe ritenere? Dato che il comune buon senso sembra ormai perduto, nelle nebbie del politicamente corretto, è necessario rifare il percorso che lo aveva generato. Prima di tutto è bene ricordare che le norme morali sono nate a salvaguardia della persona e non per mortificarne la libertà. Dopo di che ciascuno è dotato di libero arbitrio e dunque può scegliere di fare ciò che vuole sapendo, però, che ci sono dei prezzi da pagare per le scelte sbagliate, che spesso ricadono anche su chi non ha nessuna responsabilità (vedi la storia del Monte dei Paschi di Siena, per restare nell’attualità).

In secondo luogo, per andare nello specifico problema, e per limitarci all’aspetto biologico, è necessario tornare all’anatomia del corpo umano che prevede un sistema cardiocircolatorio, un sistema nervoso, un sistema gastroenterico e un sistema sessuale-riproduttivo, oltre a tutto il resto. La mucosa rettale, non programmata per il rapporto sessuale, è fragile, si lacera facilmente e va incontro a problemi di natura medico-sanitaria di cui si trascura, in questa sede, il lunghissimo e frustrante elenco. Compito primario dello Stato è la salvaguardia della salute dei suoi cittadini e, ci è stato spiegato, anche, che è meglio prevenire che curare. Se questo assioma vale per «il fumo uccide te e chi ti sta intorno», si fa fatica a capire come mai per il rapporto omosessuale il ragionamento della prevenzione della salute non valga più.

Le leggi della natura biologica confermano quelle della morale razionale. Si badi bene che le norme morali dicono che il sesso “contro-natura” è sconsigliabile a tutti, omosessuali e non, con un approccio egalitario e politicamente corretto che di più non si può. Se di guerra si vuole parlare, allora bisogna dire che è il mondo post-moderno che ha dichiarato guerra alle leggi della natura e di conseguenza ha dichiarato guerra alla ragione. (Dina Nerozzi)

mercoledì 30 gennaio 2013


Matrimonio gay: si vota anche nel Regno Unito. Vescovi: «Pericolo per la libertà di pensiero » - La legge permetterà anche ai transessuali di modificare il loro genere legale. Per la Chiesa cattolica sarà minato «il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione degli impiegati pubblici».



Il matrimonio gay non è un affare che riguarda solo la Francia. Il 5 febbraio, infatti, la Camera dei comuni inglese discuterà il “Marriage (same-sex couples) bill” che legalizzerà il matrimonio omosessuale per la prima volta nel Regno Unito. Dopo questa passaggio la legge tornerà in Commissione e poi di nuovo a Westminster, per essere approvato nell’arco di 5 o 6 mesi. La legge permetterà anche alle coppie che già costituiscono un’unione civile di passare al matrimonio, alle chiese che lo vogliono di celebrare matrimoni omosessuali con valenza civile e ai transessuali di modificare il loro genere legale, anche se sono già sposati.
TRANNE LA CHIESA ANGLICANA. Nella legge sarà espressamente dichiarato che la Chiesa anglicana non può celebrare matrimoni omosessuali, per evitare rivendicazioni di singole congregazioni. Inoltre, il Parlamento dovrà modificare l’Equality Act del 2010 per impedire che coppie gay possano ricorrere alle corti nazionali od europee per obbligare la Chiesa anglicana a sposarli con rito religioso con l’argomento della discriminazione.

INIZIATIVA DI CAMERON. Il dibattito sul matrimonio gay è cominciato nel Regno Unito nel 2011 quando il premier David Cameron aveva dichiarato alla convention del suo partito conservatore (Tory): «Non appoggio il matrimonio gay nonostante sia conservatore ma proprio perché sono conservatore». La Chiesa cattolica ha promosso una campagna per sostenere il matrimonio come unione indissolubile tra uomo e donna e in questi giorni la Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles ha distribuito un memorandum a tutti i membri del Parlamento, invitandoli a respingere il disegno di legge.

NESSUNA DISCRIMINAZIONE. Secondo i vescovi «il matrimonio promuove il bene comune della società perché promuove una relazione unica nel suo genere, all’interno della quale i figli vengono concepiti, nascono e crescono; è un’istituzione che porta benefici ai bambini». Parlare dunque di matrimonio solo per le coppie eterosessuali non è discriminatorio: «La dottrina della Chiesa condanna le ingiuste discriminazioni basate sull’orientamento sessuale. Ma, poiché le unioni dello stesso sesso godono già di diritti legali equivalenti a quelli delle coppie eterosessuali, secondo il Civil Partnership Act del 2004, i cambiamenti proposti dal disegno di legge non sono necessari per garantire il riconoscimento legale e la tutela delle coppie omosessuali».

PERCHÈ TANTA FRETTA? C’è poi una nota di preoccupazione: «Un cambiamento così importante a livello costituzionale e parlamentare non dovrebbe essere esaminato in fretta, poiché esso ha conseguenze a lungo termine, molte delle quali non intenzionali. La popolazione britannica, nel suo complesso non ha cercato tale cambiamento; nessuno dei principali partiti politici lo ha promesso nel corso dell’ultima campagna elettorale; non è stato indetto alcun referendum e le consultazioni del governo non si sono chieste prima se la legge attualmente in vigore dovesse essere cambiata, ma piuttosto direttamente come dovesse cambiare».

LIBERTÀ DI PENSIERO IN PERICOLO. In pericolo, in caso di approvazione della legge, potrebbe essere «il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione degli impiegati pubblici», ci potrebbero essere limitazioni a livello educativo nelle scuole, nell’ambito della libertà di espressione e di religione degli insegnanti».
@LeoneGrotti

Sheldrake: in laboratorio ora voglio la rivoluzione  - 30/01/2013 - http://www.lastampa.it


Rupert Sheldrake si dice affascinato dai fenomeni che si manifestano ai margini della scienza ufficiale: è a partire da queste realtà che vuole provare a estendere i campi di indagine della ricerca ufficiale


“La mia lotta ai 10 dogmi che accecano la ricerca”
Il biologo ottocentesco Thomas Henry Huxley, universalmente noto come il «mastino di Darwin» per l’appassionata difesa dell’evoluzionismo, è passato alla storia anche per una frase fortunata: «E’ il destino delle nuove verità cominciare come eresie e finire come superstizioni». E’ questo il punto da cui è partito un altro biologo britannico, Rupert Sheldrake, celebre tanto per gli studi sull’invecchiamento cellulare quanto per le provocazioni sperimentali e teoriche, in nome di una ricerca libera e coraggiosa, dalle indagini sulla telepatia degli animali fino alla teoria dei «campi morfici». E infatti il suo nuovo saggio edito da Urra si chiama «Le illusioni della scienza», un titolo che nell’originale suona ancora più esplicito: «The science delusion». 

Laureato a Cambridge e Harvard e già membro della Royal Society, considerato uno degli evoluzionisti più brillanti della sua generazione, autore di 80 «papers» e vincitore del prestigioso «University Botany Prize», l’oggi settantenne Sheldrake non ha remore a dichiararsi deluso dai 10 assunti a cui i colleghi di ogni latitudine si ostinano - accusa lui - a credere ciecamente, stando attenti a non evocare mai l’esercizio del dubbio che ha forgiato i trionfi del metodo scientifico. Così ha scritto 300 pagine appassionate per chiedersi, tra le altre cose, se davvero ogni fenomeno sia unicamente meccanico, se la somma di materia ed energia sia sempre la stessa, se le leggi di natura siano immutabili, se la coscienza non sia altro che un’attività della mente. Inoltrandosi in questo labirinto concettuale e sperimentale, Sheldrake sostiene che la scienza del XXI secolo è diventata una cattedrale del dogmatismo, sempre meno adatta a indagare l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. 

Professore, il suo progetto di rifondare la scienza è più che ambizioso. Per qualcuno addirittura velleitario. Ma del decalogo materialistico che lei denuncia qual è il punto più debole?  

«Penso che di talloni d’Achille il materialismo ne abbia proprio 10! Non uno solo. Ma il più ovvio è il fallimento nel capire la coscienza. L’assunto-base è che la materia sia l’unica realtà. Perciò la coscienza dev’essere un suo prodotto o un suo aspetto. Significa che la mente non è altro che l’attività del cervello. I filosofi della mente del XX secolo hanno fatto sforzi enormi per provare che la coscienza non esiste e che è un’illusione o un epifenomeno. Ma sono approcci poco convincenti». 

Quali sono le sue controdeduzioni?  

«Definire la coscienza come un’illusione non la spiega, ma la presuppone, dato che l’illusione è una forma della coscienza stessa. E sostenere che sia nient’altro che il risultato di cause fisiche e chimiche, insieme con eventi casuali, fa del sistema di pensiero dei materialisti il prodotto della loro stessa attività cerebrale, su cui non hanno controllo cosciente. In altre parole devono credere nel materialismo, visto che il cervello li obbliga a farlo. Ecco perché un simile sistema di pensiero è auto-contradditorio: chiunque ci creda deve anche credere che la sua convinzione sia l’inevitabile conseguenza dell’attività del cervello e non una questione di scelta». 

Mentre boccia il materialismo, lei fa discutere per la teoria della «risonanza morfica», secondo la quale ogni specie e ogni individuo attinge a una memoria collettiva e, così facendo, contribuisce allo sviluppo della propria progenie: può spiegare di che si tratta a un non addetto ai lavori?  

«La risonanza morfica non è ristretta alla biologia. E’ un principio generale di memoria che, secondo la mia ipotesi, opera ovunque nella natura. Si applica anche ai sistemi fisici, come le molecole e i cristalli. E suggerisce che le cosiddette “leggi di natura” siano simili a consuetudini e che l’intero processo dell’evoluzione sia in realtà un’interazione tra creatività e consuetudini stesse». 

Se questa è la teoria, quali sono le prove che il suo nuovo paradigma esista e funzioni?  

«Ci sono prove dell’esistenza della risonanza morfica in chimica, biologia e psicologia. In chimica la teoria prevede che gli elementi si cristallizzino tanto più facilmente quanto più sono diffusi. La teoria prevede anche che i punti di fusione delle nuove sostanze si alzino, mentre i loro campi morfici diventano più forti. E ci sono evidenze che succeda proprio questo». 

E in biologia?  

«Dai test con i moscerini della frutta si è osservato che quanto più spesso si sviluppano in modo anormale tanto più probabili diventano queste trasformazioni anomale. Studiando il comportamento animale, per esempio, si vede che, quando i topolini vengono addestrati per imparare una nuova azione in un luogo specifico, possono poi assorbirla anche altrove e con maggiore facilità. Lo si è notato in una lunga serie di test a Harvard, Edinburgo e Melbourne». 

E in psicologia?  

«Qui la teoria prevede che per gli individui debba essere più facile imparare “cose” che altri hanno già fatto. Nel XX secolo i punteggi medi del quoziente di intelligenza sono saliti di oltre il 30% in tutto il mondo. Il fenomeno è noto come “Flynn Effect”: ritengo che confermi la risonanza morfica, perché gli individui non sono diventati più intelligenti, ma, semplicemente, dimostrano più facilità nell’eseguire i test. E’ proprio ciò che ci si dovrebbe aspettare sulla base della risonanza morfica». 

C’è una ricerca che, secondo lei, può essere considerata come il punto di inizio del nuovo pensiero scientifico che trascende i confini del materialismo?  

«C’è un libro scritto di recente dal filosofo americano Thomas Nagel, “Mind and cosmos: why the materialist neo-Darwinian conception of nature is almost certainly false”: dimostra che la concezione materialistica è incompatibile con l’esistenza di una mente consapevole e che conduce a una comprensione distorta dell’evoluzione. Invoca quindi il ritorno alla teleologia nel pensiero scientifico, in particolare l’accettazione del ruolo del fine e dello scopo, tutti elementi che sono stati banditi dalla ricerca già a partire dal XVII secolo. Considero questo saggio complementare al mio libro, che discute non solo concetti filosofici, ma anche i passi concreti e gli esperimenti che potrebbero condurre le scienze verso nuove direzioni». 

Lei si considera un eretico? E che rapporti ha con i colleghi biologi?  

«Mi considero uno scienziato che fa ricerca e raccoglie prove secondo i principi scientifici. Vedo, tuttavia, che molti miei colleghi sono prigionieri delle pressioni sociali e dell’inerzia istituzionale. In pubblico, per loro, è difficile esprimere idee non convenzionali. In privato, però, sono spesso più aperti. Ecco perché ho rapporti di amicizia con molti scienziati, i quali dimostrano un interesse crescente per le mie idee. Ma considerano più sicuro parlarne in privato piuttosto che in pubblico». 



Il Foglio - Perché il 'Dottor Morte' in Francia adesso è un eroe popolare



PROGRAMMI SOTTO LA LENTE - I partiti di fronte alla vita - Compromessi, scelte e silenzi - 30 gennaio 2013 - http://www.avvenire.it/


​A meno di un mese dalle elezioni politiche, la moltiplicazione delle polemiche incrociate che alimentano la campagna elettorale è inversamente proporzionale al rilievo offerto a temi che invece occupano la quotidianità degli italiani, dalla famiglia alla scuola, dal lavoro alla sanità, all’impegno sociale. Per restituire a queste e altre grandi questioni pressoché rimosse nella contesa pre-elettorale il peso e la centralità che gli spetta e che hanno nella vita della gente avviamo, da oggi, una ricognizione critica delle posizioni (esplicitate o taciute) di aggregazioni e partiti che si candidano a ottenere il consenso dei cittadini e a guidare il Paese nella prossima legislatura. Il primo tema dell’«Agenda Italia» è naturalmente quello che sta a fondamento di tutto l’edificio sociale: la tutela della vita umana.

Il diritto alla vita è il primo e fondamentale diritto umano, condizione per l’esistenza stessa di tutti gli altri e per il godimento di qualsiasi libertà. Per questo la tutela della vita umana è un dovere inderogabile della società e dello Stato, e non può essere assoggetata ad alcun altro principio. La politica dovrebbe riconoscere questa come la piattaforma elementare condivisa su cui costruire qualsiasi scelta, anche perché il diritto alla vita è garantito da tutte le costituzioni e i codici internazionali. 

Eppure la storia recente documenta una sequenza di eccezioni a questo primato che per natura sarebbe indiscusso e che invece – per effetto di leggi e sentenze – non lo è più quasi ovunque, Italia inclusa. Dall’aborto all’eutanasia, il diritto alla vita sta perdendo la sua funzione di fondamento di ogni affidabile etica sociale per diventare una variabile condizionata da altre libertà e altri diritti, resa funzionale e strumentale, in balia di forze, interessi, richieste, desideri. I programmi di coalizioni e partiti risentono di questa drammatica frana culturale: e a fronte di (pochi) programmi nei quali il diritto alla vita è ancora riconosciuto, prevalgono le dichiarazioni elettorali che non spendono una sola parola su questioni come l’applicazione delle leggi 194 e 40, le scelte di fine vita e le gravi disabilità – limitandosi a una neutralità rispettosa di posizioni anche antitetiche all’interno dello stesso cartello di formazioni politiche –, oppure avversano apertamente ogni limite puntando sulla deregulation nel nome dell’individualismo e della piena autodeterminazione. Opzioni politiche a favore o contro il diritto alla vita, così come i silenzi nei programmi, sono materia nevralgica per la formazione di una scelta elettorale informata. 

Anche perché – che le coalizioni si pronuncino o meno – le questioni in tema di tutela della vita sono urgenti e decisive, e sarà inevitabile che Parlamento e governo usciti dalle urne si pronuncino su molti nodi tuttora irrisolti. A cominciare dal fenomeno degli aborti, che per quanto in progressivo calo è ancora attestato attorno alle 110mila interruzioni di gravidanza l’anno – un numero enorme, se si pensa a cos’è un aborto –, con una quota di donne straniere in forte crescita. Di fronte a questo silenziato mare di dolore si intende lasciar fare nel nome di un asserito "diritto" oppure si vuole valorizzare e imitare il lavoro dei Centri di aiuto alla vita, che si mettono accanto alla donna per aiutarla a scegliere senza pressioni (ambientali, economiche, culturali) improprie, cioè con piena ed effettiva libertà da bisogni indotti? La pillola abortiva, che si vorrebbe "liberante", è invece un ingannevole trucco per relegare l’aborto nel buio e nella solitudine, che può essere parzialmente risparmiato dall’obbligo di legge (eluso in vari ospedali) del ricovero fino al completamento dell’aborto. Le stesse pillole del giorno dopo e dei cinque giorni meritano uno stringente controllo per evitare che diventino la facile anticamera per il nuovo dilagare degli aborti (perlopiù assai precoci) cui si è assistito in altri Paesi. Problemi lancinanti  sono anche agli aborti selettivi, l’ossessiva diagnostica prenatale a caccia di imperfezioni presunte, il numero abnorme di parti cesarei, mentre continua l’assalto contro l’essenziale e costituzionalissimo diritto all’obiezione di coscienza.

Uno dei punti più controversi è l’applicazione della legge 40, che si vorrebbe piegare fino a svellerne le regole (tuttora, checché se ne dica, quasi integralmente in piedi nonostante le spallate per via giudiziaria), per legittimare la selezione degli embrioni e la libertà di scartare gli esemplari difettosi. L’eugenetica, liquidata tra gli orrori della storia, sta rientrando dalla finestra per effetto di pratiche selettive che si pretenderebbero legali, finendo così per uccidere il malato anziché impegnare la ricerca scientifica nella strenua lotta alla malattia. La produzione e il congelamento incontrollato degli embrioni (per ogni bimbo nato ci sono dieci embrioni creati: una distorsione clamorosa e censurata) pone il problema della spinta culturale a preferire la provetta all’adozione. Per tutelare la vita umana più fragile occorre proteggere l’embrione con uno scudo legale quale quello proposto dalla mozione europea "Uno di noi", animata dalla stessa cultura che vorrebbe una legge umana sul fine vita capace di proteggere dalla solitudine e da pulsioni autodistruttive le persone nel tratto più vulnerabile della vita, risparmiando loro l’impressione di sentirsi "di troppo". Magari perché assai costosi per la collettività. Stati vegetativi, Sla, malattie neurodegenerative, gravi disabilità, malattie rare meritano la massima e incondizionata protezione dello Stato. Ma chi si espone a parlarne in campagna elettorale?


Francesco Ognibene

40 anni di aborto negli Usa - di Alessandro Cristofari, 29 gennaio 2013 - http://www.documentazione.info


Nel 1973 venne introdotto l'aborto negli Stati Uniti. Una decisione che ha diviso l'opinione pubblica e che continua a far discutere. Lo evidenziano alcuni fatti recenti.

Lo scorso 11 gennaio la Corte suprema dell’Alabama ha riconosciuto il nascituro come persona che merita tutela giuridica. Secondo la legge dell’Alabama, esporre un bambino a pericoli chimici attraverso l’assunzione di sostanze è reato. La Corte ha osservato che quaranta Stati e il District of Columbia “prevedono un indennizzo per morte ingiusta di un bambino non ancora nato quando le lesioni ne causano la morte prima della sua nascita”. Questa sentenza potrebbe avere implicazioni significative sulla questione dell’aborto negli Stati Uniti.

L'istituto di ricerca Gallup tiene sotto controllo l'opinione degli statunitensi sulla questione aborto. I dati più recenti, aggiornati al 2013, sono riportati nello schema qui sotto. Si nota come, da una forte maggioranza nel 1996 di coloro che  si definiscono “pro choice”, la distanza con lo schieramento “pro life” è andata diminuendo e negli ultimi anni la maggioranza oscilla dall'una all'altra parte.


Un altro sondaggio condotto da Marist Poll e commissionato dai Cavalieri di Colombo mostra che l'83% degli americani è a favore di restrizioni all'aborto, e il 58% lo considera moralmente sbagliato. Dal sondaggio emerge anche un incremento nel numero delle persone a favore di restrizioni sull’aborto: dal 79% dello scorso anno si è passati all’83%. Solo l’11% degli intervistati ha espresso il suo sostegno all’aborto legale su richiesta. Infatti il 58% degli americani considera l’aborto “moralmente sbagliato” e l’84% spera che possano essere messe in atto leggi che proteggono sia la madre che il bambino non nato.  

Intanto il 25 gennaio scorso a Washington mezzo milione di persone sono scese in piazza per una manifestazione pro-life , a 40 anni dalla legalizzazione dell’aborto.




Le illusioni della Rivoluzione sessuale di Giovanni Vassallo, 29 gennaio 2013 - http://www.documentazione.info


Recentemente il DailyMail ha pubblicato un interessante articolo di Andrew N. Wilson sulle promesse non mantenute della Rivoluzione Sessuale degli anni ’60. Ne presentiamo qui una breve sintesi. Wilson è uno scrittore e giornalista inglese da sempre ateo convinto, autore anche di un libro “Contro la religione”, che si è riavvicinato alla fede nel 2009.

Wilson sostiene che, a partire dalla Rivoluzione Sessale, si è andati avanti per anni con la certezza che un rilassamento nella morale sessuale avrebbe portato senza dubbio a una società più felice ma nel suo articolo fa notare tutte le contraddizioni che tale rivoluzione ha sollevato e che ancora oggi solleva nella società odierna.

Durante la Rivoluzione sessuale fu introdotta, nel 1961, la pillola contraccettiva per le donne, presentata come una prevenzione a gravidanze indesiderate e quindi agli aborti. Dopo 50 anni il numero degli aborti è invece aumentato: nel 2011 sono stati effettuati 189.931 aborti, circa 7% in più rispetto a 10 anni prima. Il 96% di questi aborti è stato finanziato dal Servizio sanitario nazionale, cioè dai contribuenti e solo il 47% di essi è costituito dai cosiddetti “aborti terapeutici”, eseguiti perché la salute della madre e del bambino erano a rischio. Questo significa, fa notare Wilson, che gli aborti praticati come mezzo “contraccettivo” sono ancora 90.000 all’anno: la pillola non ha mantenuto affatto le sue promesse.

Un’altra grande “conquista” attribuita a quegli anni è stata il divorzio. La conseguenza oggi è che circa un terzo dei matrimoni in Inghilterra finisce in un divorzio. E poiché molte coppie non si sposano affatto prima di separarsi, il numero delle famiglie distrutte è ancora più elevato.

Wilson riporta una ricerca degli anni ’50 dell’istituto GfK che aveva chiesto alla gente quanto si sentisse felice in una scala da “molto felice” a “molto infelice”. Nel 1957, il 52% diceva di essere “molto felice”. La stessa serie di domande, posta 60 anni dopo, ha mostrato che solo il 36% si oggi dichiara “molto felice”, e le cifre vanno scendendo. (qui la notizia)

Una pillola per affrontare i lutti? «Attenti, è un modo per scappare dalla realtà» - gennaio 30, 2013 Benedetta Frigerio - http://www.tempi.it/

«Ingurgitare una pillola per affrontare un lutto è un modo per scappare da tutto». Lo dice a tempi.it la professoressa Marina Sozzi, consulente e docente di tanatologia storica presso l’Università di Torino.

Facciamo un passo indietro. La rivista scientifica The Lancet ha pubblicato un articolo in cui si esprime preoccupazione per l’inserimento del dolore per la morte di un caro fra le malattie psichiatriche. Infatti, secondo il nuovo Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm-V) il lutto sarebbe una disfunzione psichiatrica da trattare con medicinali e psicofarmaci. Nell’articolo sono evidenziate le apprensioni di alcuni psichiatri per il rischio di medicalizzazione del lutto e per gli interessi delle case farmaceutiche.
Della questione si è occupato anche l’Osservatore Romano che, oltre a segnalare l’aspetto di interesse economico, ha messo in rilievo l’incapacità da parte della società, del curante e del soggetto del lutto di sostenere il dolore. Sul quotidiano della Santa Sede, la stessa Sozzi è intervenuta per chiedere: «Ma davvero vogliamo essere e diventare così, macchine da guerra, senza umanità e fragilità, senza dolore e vulnerabilità, neppure quando la sventura ci è addosso, neppure quando un grande affetto ci lascia? È questa la società di domani che vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli?». Una società che pensa di eliminare la vulnerabilità, ma che in realtà sostituisce alla ricerca di relazioni, che il bisogno e la debolezza possono generare, la solitudine di un farmaco.

«Il LIMITE E’ UNA RISORSA». Riprendendo il filo del discorso, Sozzi spiega a tempi.it: «Così si scappa da tutto e ingurgitiamo farmaci pur di non fermarci. Non ci abbandoniamo al malessere, non facciamo spazio alla riflessione necessaria per attraversarlo e proiettarci fuori dalla solitudine, alla ricerca appunto di relazioni vere». Per Sozzi, infatti, la vulnerabilità è una risorsa che rende l’uomo più vicino e solidale all’altro. Al contrario rimaniamo monadi che prima o poi crollano: «Ci sono casi dove il lutto, legato a storie e pazienti patologici, necessita il farmaco. Ma questa operazione, avallata dai medici e dettata dalle esigenze della Big Pharma, è fuorviante: prendiamo una pillola e così cerchiamo di risolvere il vuoto buttandoci nel lavoro, ad esempio, nelle cose materiali per non pensarci». Così però non si risolve davvero il disagio, «solo che non ci accorgiamo, pensiamo di essere ancora indipendenti e quindi forti ma rimaniamo soli, fermi». Come si risolve quindi il disagio e il dolore? «Attraversandoli, perché sono davvero una porta che ci apre ad altro: ho visto persone riordinare le proprie priorità e riscoprire la bellezza degli affetti guardando alla perdita di un caro. Al contrario, ho incontrato persone che per evitarli si sono buttate nel lavoro e dopo anni sono esplose dal dolore». Dal punto di vista scientifico, per la professoressa l’operazione è menzognera: «Una società vuole decidere cosa è accettabile o meno? Lo faccia, ma almeno non usi la scienza quando di scientifico nell’asserzione che malessere sia uguale a malattia non c’è nulla. Perché se un’opinione passa per verità scientifica siamo alla mistificazione pura. Per non parlare della spietatezza di un mondo in cui sempre di più l’uomo si concepisce sbagliato e non si accetta perché limitato o sofferente. Quando il limite è, invece, una risorsa».

@frigeriobenedet

martedì 29 gennaio 2013


Fecondazione in vitro: patologie gravi per madre e figlio - 29 gennaio, 2013 - http://www.uccronline.it

Fecondazione assistita

A causa della fecondazione in vitro, oltre all’incremento di uccisione di embrioni umani scartati che tale pratica comporta, la maternità è rimandata sempre più tardi, aumentando i rischi di patologie gravi e togliendo il diritto ai bambini di avere due genitori in grado di badare a lui con tutte le loro forze, senza doversi occupare precocemente della loro vecchiaia.

Lo ha spiegato un figlio cresciuto con genitori anziani: «c’è da considerare cosa significhi essere adolescenti con genitori ultrasessantenni, incapaci di capire i loro figli, sentendosi continuamente definire “bastone della mia vecchiaia”. C’è soprattutto da considerare cosa significhi cercare di costruirsi un futuro con genitori ormai anziani e bisognosi di assistenza, barcamenandosi tra pannoloni, medicine e colloqui di lavoro; tra orari d’ufficio e improvvise chiamate da casa per imprevisti legati all’età».

Rispetto ai rischi alla salute che le donne corrono volendo partorire anche superati gli “anta”, ha preso posizione il professor Antonio Chiantera, segretario nazionale dell’Associazione dei ginecologi (AOGOI), affermando: «Quella di non fare figli quando si è veramente in età fertile è una scelta che giudico egoistica [...]. Nella donna l’età di massima fertilità è tra i 18 e i 28 anni, poi lentamente decresce fino a quando superata la soglia dei 40 anni la capacità riproduttiva diventa decisamente scarsa. A meno che, appunto, non si congelino prima in una banca gli ovociti. Ma i figli sarebbe meglio farli prima. Anche per non incorrere in pericoli per la salute», come i «gravi rischi di contrarre l’endometriosi, che è una malattia seria perché provoca ripetuti sanguinamenti, cistiti e la necessità di intervenire più volte anche chirurgicamente». Secondo Chiantera può essere giustificato congelare gli ovuli «per le donne con neoplasie che richiedono cicli chemioterapici o di radioterapia, ma quando la motivazione è egoistica e non sanitaria è giusto che ci si faccia carico in proprio delle spese». E invece, «finisce quasi sempre per pagare il servizio pubblico e non è proprio giusto».

Anche Carlo Bellieni,  neonatologo dell’Università di Siena, ha spiegato che la prima prevenzione alla fertilità è «fare i figli nell’epoca della vita più propizia», e comunque il problema non si risolve con la fecondazione artificiale, dato che -come riportato sull’ultimo numero della rivista Family Physician, organo del Royal Australian College of General Practitioners- le possibilità di impianto dell’embrione sono comunque basse: il 35-40 per cento se la donna ha meno di 35 anni e il 15 per cento al di sopra di quella età. Concludendo: «E’ paradossale aprire alla fecondazione in vitro e non far nulla in quanto a prevenzione della sterilità. E’ uno sbilanciamento che non sconfigge la sterilità dilagante».

La stessa tecnica di Fecondazione in vitro, inoltre, oltre ad essere poco efficace è portatrice di un aumento di rischi per la salute della donna. Un recente studio, pubblicato su British Medical Journal , ha mostrato un aumentato rischio di embolia polmonare (blocco della principale arteria del polmone) e di tromboembolia venosa (coaguli di sangue) durante il primo trimestre di una gravidanza ottenuta per fecondazione artificiale. La rivista scientifica «HEC Forum», in seguito ad un altro studio, è arrivata recentemente a questa conclusione : «La Fivet ha strette regole che lasciano le donne fisicamente ed emotivamente esauste. Il trattamento di Fiv può avere un tremendo impatto sulle donne».

Studi precedenti hanno inoltre dimostrato la pericolosità anche per i bambini: una probabilità di malformazioni congenite pari a 1.25 volte maggiore per chi nasce tramite fecondazione rispetto a chi nasce naturalmente. A risultati simili è arrivato anche uno studio su New England Journal of Medicine, uno pubblicato su Pediatrics e uno su  Minerva Pediatrica . 

I VESCOVI E IL PAESE - Zamagni: «La bioeconomia una questione vitale» - Massimo Calvi - 29 gennaio 2013, http://www.avvenire.it/

L’etica della vita alla base dell’economia. È la «bioeconomia». Il termine, introdotto dal cardinale Agelo Bagnasco nella Prolusione al Consiglio permanente della Cei, richiama i concetti di «biopolitica», o anche di «biodiritto», che tanto spazio trovano oggi nei programmi politici di tanti schieramenti, in Italia come all’estero. Ma di bioeconomia è sempre più necessario parlare, alla luce di una crisi che si è manifestata innanzitutto come deriva di senso, nella prassi di sacrificare l’umano al «primato economicista». Ne è convinto l’economista Stefano Zamagni, d’accordo nel leggere che vi sia ormai un «sistema che va posto in discussione», un modello «da rivoluzionare» perché «ha mostrato l’assoluta inadeguatezza morale e pratica».

«Il cardinale Bagnasco ha il coraggio di uscire allo scoperto e di proporre un intervento di forte originalità – spiega Zamagni –. Perché dire che oltre alla biopolitica e al biodiritto si deve parlare anche di bioeconomia è gettare un sasso nello stagno. Una questione, per così dire, vitale. È dire cioè che non tutti i modelli di economia di mercato sono amici della persona umana. Certo, all’economia di mercato non c’è alternativa. Ma alcuni modelli sono più compatibili di altri con la Dottrina sociale della Chiesa.

Il cardinale rimarca il passaggio della Caritas in veritate in cui si afferma che «la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica».
È il tema centrale. Affrontare la questione sociale vuole dire fissare l’attenzione sulle cause più profonde della crisi, e non solo sugli effetti. Bagnasco tira le orecchie a chi vuole far credere che, superata la fase critica della crisi, si potrà tornare a fare affari esattamente come prima. Ma è un’illusione, e va detto con forza. Se non si intacca l’assunto antropologico basato sul presupposto dell’individualismo e dell’auto-interesse, per cui il discorso economico regola se stesso, non si tocca l’origine vera di questa crisi.

Insomma non ci sarà ripresa fino a che le coscienze «respirano una cultura che esalta il successo e la ricchezza facile»?
Il punto è che se non vi è più un fine che non sia legato al desiderio individuale, all’interesse o al piacere del singolo, si arriva abbastanza facilmente a certe posizioni su vita, famiglia, matrimonio, aborto, eutanasia. O, appunto, economia. Su questi temi i cattolici, purtroppo, troppo spesso sono andati a rimorchio delle altre posizioni, mediando per ottenere in cambio qualche misura in più per aiutare i poveri o le famiglie. Ma si tratta di cerotti, di pezze, non della cura del male di cui soffre l’organismo. In questa fase il mondo cattolico deve avere il coraggio e la volontà di elaborare un pensiero che mostri gli errori della visione individualista e auto-interessata. Non basta affermare la legge naturale: è compito nostro riuscire a mostrare le ragioni per cui la legge naturale è superiore all’assunto individualista e auto interessato. Bagnasco ha centrato il cuore del problema.

Il modello economico deve cambiare, in quale direzione?
Si tratta di guardare a soluzioni che mettono al centro la persona non solo nel momento della distribuzione della ricchezza, ma anche nel modo in cui è prodotta. Oggi non basta più pagare la giusta mercede ai lavoratori o dare le ferie: il processo produttivo non deve essere umiliante per la persona e per la sua dignità. Il concetto di sviluppo umano integrale è legato a tre fattori: Pil, beni socio-relazionali, beni spirituali. Quello che vuol dire il cardinale Bagnasco è che per far crescere il prodotto interno lordo non si possono sacrificare le altre due componenti. In nome dell’economia, cioè, non è bene mettere slot-machine nelle scuole, oppure abolire le feste.

Dall’etica della vita si può arrivare a parlare di lavoro e consumi?
In una prospettiva nuova dobbiamo privilegiare un modello di sviluppo che consideri i beni relazionali, i servizi alla persona, i beni comuni. Il modello fondato solo sul consumo di beni privati è un sistema pernicioso, non può più reggere. Non possiamo mettere sullo stesso piano gli interessi economicistici con i valori non negoziabili. Non si può accettare il principio che ti dò più soldi, ma in cambio tu rinunci a realizzare il tuo potenziale di lavoro. Faccio un esempio più chiaro. Se si detassano i redditi delle donne, l’effetto è quello di aumentare il potere d’acquisto, ma anche di disincarnare la donna dalla famiglia. Ora, se la donna è madre non le interessa avere più soldi, ma più tempo. Il tema dell’armonizzazione dei tempi di lavoro con la vita familiare vale anche per i papà. Che senso ha aumentare le retribuzioni se poi l’organizzazione del lavoro ti impedisce di essere genitore?

In un passaggio viene espresso «stupore» per l’incomprensione che ha colpito l’economia sociale e il Terzo settore. Cosa ne pensa?
L’Italia ha un modello di economia che va oltre il modello dicotomico basato solo sullo Stato e sul privato. Noi abbiamo anche la dimensione del "civile". Il problema è che alla sfera dell’economia civile non possono andare solo le briciole o la pubblica beneficenza: questo è un universo a cui va permesso di esprimere il suo vero potenziale, anche sotto il profilo economico. Scuole, ospedali, case di riposo, cooperative sociali. Considerare il civile come tappabuchi è un errore. Eppure fino a oggi l’economia civile di mercato è sempre stata trattata come una ruota di scorta. È tempo che lo Stato smetta di "concedere" e incominci invece a "riconoscere", accettando il principio di sussidiarietà, e avendo la capacità di spiegare in Europa la forza e il valore di un modello.



Mobilitazione di fronte a un progetto di legge in Québec La vera dignità è la tutela della vita -  L’OSSERVATORE ROMANO lunedì-martedì 28-29 gennaio 2013


OTTAWA. «Poiché il Governo del Québec intende presentare entro giugno un progetto di legge sulla “morte assistita”, chiunque creda ancora al primo dei diritti fondamentali — il diritto alla vita — ha oggi il dovere di agire. Come cittadini e cittadine di un Paese che si considera civile, tutte le persone di buona volontà hanno il diritto e il dovere di promuovere le cure palliative e la vera compassione e di contrastare qualsiasi tentativo di legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito». È l’appello lanciato in Canada dall’Organismo cattolico per la vita e la famiglia (Ocvf) dopo che il comitato di giuristi, incaricato dall’Assemblea nazionale del Québec di esprimere le raccomandazioni alla Commissione speciale sulla questione della morte assistita, ha consegnato il proprio rapporto al ministro responsabile del dossier «Mourir dans la dignité», Véronique Hivon. L’Ocvf, per il quale le cure palliative costituiscono «l’unica risposta veramente umana e rispettosa dei bisogni delle persone in fin di vita e delle loro famiglie», contesta con forza il concetto di “aiuto medico a morire”, preoccupandosi delle conseguenze giuridiche, etiche e sociali di una tale pratica. Secondo l’accusa, il «Rapporto Ménard» (Jean-Pierre Ménard, giurista, è il presidente del comitato) maschererebbe la realtà «giocando con le parole e mantenendo la confusione», mentre resta il fatto che questo “aiuto medico a morire” è sinonimo di eutanasia, «una pratica mortifera che va mano nella mano con il suicidio assistito», e significa «uccidere volontariamente, mettendo fine alla vita di una persona», in nome di una concezione limitata della sua autonomia. L’Organismo cattolico per la vita e la famiglia — fondato congiuntamente dalla Conferenza episcopale del Canada e dal Consiglio supremo dei Cavalieri di Colombo — contesta anche che esista un consenso sociale a favore della morte assistita, perché «il 60 per cento delle persone e dei gruppi intervenuti durante le audizioni della Commissione si oppongono all’eutanasia e al suicidio assistito». I media, dunque, così come i deputati che seggono all’Assemblea nazionale del Québec «devono ascoltare gli elettori e le elettrici contrari al progetto di legge che sarà presto depositato dal Governo Marois, in contrasto con il codice penale del Canada che vieta sia l’eutanasia sia il suicidio assistito». Nel suo comunicato, l’Ocvf segnala infine ai cittadini una serie di documenti per approfondire il tema e i siti on line di tre organizzazioni particolarmente attive nel campo del fine vita: il Collettivo medico per il rifiuto dell’eutanasia, Vivere nella dignità e la Coalizione per la prevenzione dell’eutanasia. Il «Rapporto Ménard», parlando dell’aide médicale à mourir, lo definisce come una «nuova tipologia di cure» riservata a coloro che sono stati colpiti da una malattia grave e incurabile, le cui capacità sono compromesse, senza alcuna prospettiva di miglioramento, e alle prese con sofferenze fisiche o psicologiche costanti, insopportabili, che non è possibile lenire se non in situazioni giudicate dal paziente “intollerabili”. L’aiuto medico a morire verrebbe tuttavia reso accessibile solo a determinate condizioni: richiesta esclusiva da parte del malato; scrupolosa valutazione del medico curante e di un altro medico indipendente; successiva, nuova presentazione della domanda da parte del paziente; parere da consegnare al Consiglio dei medici, dei dentisti e dei farmacisti. Il comitato di giuristi conclude la sua relazione raccomandando al legislatore di intervenire «per meglio inquadrare le cure del fine vita, tenendo conto dell’evoluzione dei diritti e delle attese della società». 

Bagnasco spiazza i cattolici "adulti" di Stefano Fontana - 29-01-2013 - http://www.lanuovabq.it

Il cardinale Angelo Bagnasco
    
Il Cardinale Bagnasco di Todi 1 è tornato – e alla grande – nella Prolusione al Consiglio permanente della CEI di ieri lunedì 27 gennaio. Non è un segreto che nonostante il suo discorso a Todi1, tra i cattolici si sia diffusa una notevole incertezza sulla strada politica da seguire. Tanto è vero che molti avevano cominciato a pensare di dare ormai per persa questa tornata elettorale e di mettere piuttosto le basi per ricominciare un percorso dal 26 febbraio, a conteggi fatti. Questa Prolusione non farà forse a tempo ad invertire la tendenza alla confusione circolante tra i cattolici, ma senz’altro può fare chiarezza per il lungo periodo e per una ripresa futura.

Il motivo principale di confusione è che importanti figure del mondo cattolico sono entrate in lista ovunque e che raggruppamenti politici che in qualche modo si rifanno al cattolicesimo siano pronti ad allearsi con chiunque. Anche nei partiti che prevedono esplicitamente l’ampliamento della legge 40, il divorzio veloce, il riconoscimento delle coppie omosessuali. Anche nei partiti che non contrappongono granché al progressismo nichilista che ci potrebbe dare nel giro di poco tempo la stessa devastata situazione di Francia, Spagna o Inghilterra, ove tutto è ormai possibile.

Paradossalmente, anche l’appello ai principi non negoziabili, se adoperato male, può fare da alibi a questa confusa diaspora. Quando qualche Pastore dice che i cattolici, ovunque siano collocati politicamente, debbono convergere sui principi non negoziabili, di fatto convalida la collocazione ovunque. Mentre i principi non negoziabili non permettono una collocazione ovunque. In altre parole: i principi non negoziabili vengono proposti come il punto di convergenza trasversale ed attuato “in coscienza” da parte di politici cattolici collocati indipendentemente dai principi non negoziabili, ma in realtà questi sono i criteri anche per scegliere il proprio collocamento, in quanto illuminano l’umano e pongono la Chiesa e i cattolici, come ha detto Bagnasco, all’avanguardia. 

Altrimenti avrebbe ragione Casini a dire che nel programma di governo non devono esserci i principi non negoziabili ma questi devono essere perseguiti “in coscienza” in Parlamento. Altrimenti, per proseguire con le conseguenze logiche rispetto alla premessa, non sarebbe più valida la Nota Ratzinger del 2002 che diceva proprio il contrario. Se la coscienza del cattolico in politica entra in gioco “dopo” la scelta del partito e non anche prima che ce lo dicano. Finora abbiamo sempre pensato che la scelta di un partito avvenisse “in coscienza”, ossia nel rispetto della verità dell’uomo, di cui sono espressione i principi non negoziabili. I quali, del resto, sono principi e non valori e, come tali, sono i fondamenti dell’intero impegno politico e non solo di certe sue fasi.

Tornando alla Prolusione, il cardinale Bagngasco ha detto alcune cose che se messe insieme costituiscono una significativa summa che spiazza molti professionisti del cattolicesimo politico. 

Primo: non è possibile che nei programmi dei partiti queste cose non ci siano: «Non si può far finta di accantonare i problemi quando sono semplicemente nodali nelle società post-moderne». Non ci si nasconda dietro la foglia di fico. Chi ha dichiarato che questi principi sono importanti ma non urgenti ha sbagliato.

Secondo: su questi problemi non si possono fare i partiti-contenitore: Non «ci si può illudere di neutralizzare in partenza il dibattito, acquisendo all’interno delle varie formazioni orientamenti così diversi da annullare potenzialmente le posizioni, o prevedere al massimo il ricorso pur apprezzabile all’obiezione di coscienza». Io vado nel Pd e poi quando il Pd fa un disegno di legge sul riconoscimento delle coppie omosessuali mi appello all’obiezione di coscienza. Eh no! I partiti-contenitore sui problemi etici hanno scelto la indifferenza della politica rispetto all’etica spacciandola per rispetto dell’obiezione di coscienza. Ma se l’etica la si butta fuori su questi punti come vi si potrà appellare in altri?

Terzo: «quando si giunge di fronte alla grande porta dei fondamentali dell’umano, non è possibile il silenzio da parte di alcuno, persone e istituzioni». La politica non è un compromesso tra interessi o opinioni. Essa ha a che fare con la verità dell’uomo (e di Dio): sottrarvisi è impossibile. E ciò vale non solo per le persone ma anche per le istituzioni perché esiste un ordine sociale.

Quarto: nel paniere del bene comune non tutto è uguale. Qui torna il concetto-base di Todi1: «Dobbiamo stare attenti che una certa cultura nebulosa non ci annebbi la vista, inducendoci a non riconoscere più, tra i principi che mandano avanti la società, i fondamenti che non sono confessionali, come si insiste a dire, ma semplicemente di ordine razionale». Ci sono i fondamenti e poi ci sono i valori importanti e magari urgenti, ma non fondamentali. I fondamentali non possono mancare in un programma di un partito che chieda l’adesione di un cattolico: «è necessario che in un momento elettorale si certifichi dove essi trovano dimora». 
Quinto: «Su questi principi i cattolici sanno che non esiste compromesso o mediazione comunque si voglia chiamare, poiché ne va dell’umano nella sua radice. Per questo la Chiesa è “avanguardia”». Ci sono i cattolici che si credono di avanguardia perché aperti a considerare tutto quanto capita in strada e a darvi configurazione giuridica. Si tratta invece di conservatori dell’esistente. La Chiesa è all’avanguardia perché indica il dover essere, al cui servizio dovrebbe porsi la politica.

Il cittadino americano Abedini condannato a 8 anni di carcere in Iran per «attività cristiane »
gennaio 29, 2013 Leone Grotti- http://www.tempi.it/

Saeed Abedini, americano di origini iraniane, è stato condannato a 8 anni di carcere in Iran «per avere minacciato la sicurezza nazionale del paese esercitando la sua leadership nei confronti delle comunità cristiane». Abedini, sposato con due figli e musulmano convertito al cristianesimo, è stato arrestato per la prima volta nel 2009 dopo essere tornato nel suo paese per un viaggio. Costretto a firmare un figlio dove si impegnava a non fare proselitismo, dopo diversi altri viaggi in Iran, durante i quali ha anche fondato un orfanotrofio, a settembre 2012 è stato arrestato ancora con l’accusa di avere violato il documento.
PROCESSO IRREGOLARE. L’uomo è stato condannato da Pir-Abassi, considerato un «giudice spietato», responsabile di numerose impiccagioni, nonostante le promesse di rilasciarlo su cauzione. Le “attività cristiane” per cui è stato condannato Abedini, sarebbero state compiute nei primi anni 2000, quando era presidente Khatami, che lasciava più spazio alla libertà religiosa. Nonostante la legge iraniana richieda un verdetto scritto, nel caso di Abedini non c’è alcun documento ma solo una sentenza orale.

TORTURA PSICOLOGICA. La moglie di Abedini ha dichiarato al Centro americano per la giustizia e la legge (Aclj), in costante contatto con la famiglia: «Avevano promesso di rilasciarlo, hanno mentito. La falsa speranza che il governo iraniano ci ha lasciato è come una tortura psicologica. Ora sono devastato, ma tenterò con ogni sforzo di riportare mio marito in America».

TESTIMONI MINACCIATI. Al processo, durato neanche una settimana, l’avvocato di Abedini non è stato ammesso in aula, i testimoni sono stati minacciati e lo stesso Abedini, che temeva di «essere impiccato», è stato più volte picchiato in prigione. Ora dovrà scontare la pena nella prigione di Evin, una tra le più brutali nella capitale dell’Iran, mentre Aclj continua a chiedere al governo americano di fare pressione sul regime iraniano per ottenere il suo rilascio.
@LeoneGrotti