Il mondo gay e le vestalidi un certo conformismo - 23 gennaio 2013 - http://27esimaora.corriere.it
C’è una frase di George Orwell che mi è venuta in mente leggendo sul Foglio del 15 gennaio le obiezioni di Luigi Manconi a quanto da me scritto sul Corriere della Sera del 30 dicembre scorso («Le religioni che sfidano il conformismo sui gay»): quando ho osservato che la discussione pubblica italiana sul riconoscimento del diritto al matrimonio e all’adozione per le persone omosessuali è caratterizzata da una mancanza di voci fuori dal coro rispetto al mainstream, il flusso delle idee dominanti. In specie da parte di chi, per professione (gli psicanalisti) o per vocazione (gli intellettuali in genere), in quella discussione, invece, dovrebbe far mostra della massima indipendenza di giudizio.
Ma come? — obietta Manconi — come si può parlare di obbedienza al mainstream delle idee dominanti in un Paese dove a tutt’oggi non c’è neppure uno straccio di legge sulle unioni civili, dove nel codice non figura ancora il reato di omofobia?
Invece si può. Si può benissimo proprio ricordando le parole di Orwell di cui sopra: e cioè che «Il conformismo degli intellettuali non si misura su ciò che pensa la gente comune, bensì si misura su ciò che pensano gli altri intellettuali».
Ora si dà il caso che oggi, nell’intero Occidente, l’opinione ultramaggioritaria di costoro sia tutta, in linea di principio, dalla parte delle rivendicazioni dei movimenti omosessuali. Per una ragione ovvia, e cioè che gli intellettuali occidentali, da quando esistono, amano atteggiarsi a difensori elettivi di ogni minoranza la quale si presenti come debole, oppressa, o addirittura perseguitata: al modo, per l’appunto, in cui di certo è stata storicamente, specie nei Paesi protestanti, la minoranza omosessuale. Per questo è abbastanza ovvio che nell’ambiente intellettuale chi pure dentro di sé è magari convintissimo che la natura esiste, che il genere corrisponde a una base sessuale biologica, che non si possa parlare di alcun diritto alla genitorialità ma che semmai il solo diritto è quello del bambino ad avere un padre e una madre, chi è pure dentro di sé, dicevo, è magari arciconvinto di tutte queste cose, esita tuttavia a dirlo chiaramente. Per la semplice ragione che non ama sottoporsi al giudizio negativo che una tale affermazione gli attirerebbe immediatamente da parte dei suoi simili. Perlopiù, infatti, gli intellettuali non temono affatto il giudizio della gente comune (che anzi assai spesso si compiacciono di contrastare); temono molto, invece, quello del loro ambiente, degli altri intellettuali. Come Orwell per l’appunto aveva capito benissimo.
Anche per una ragione più generale. Essi sanno bene che in una società democratica di massa — in specie per ciò che riguarda l’ambito dei valori personali e del costume — l’opinione degli addetti alle mansioni intellettuali è destinata inevitabilmente, prima o poi, a divenire l’opinione dominante. Da questo punto di vista è davvero difficile — a proposito del matrimonio gay e delle questioni relative — accettare quanto obietta sempre Manconi, e cioè che seppure il giudizio degli intellettuali è in tale materia un giudizio massicciamente favorevole, non si può però parlare di un loro conformismo dal momento che in Italia «la mentalità condivisa e i sentimenti collettivi sono in prevalenza altri». Forse — e almeno parzialmente — ancora oggi è così. Forse: ma può qualcuno dubitare davvero che in un brevissimo giro di tempo anche la maggioranza della nostra opinione pubblica non si adeguerà all’opinione attualmente già dominante quasi dappertutto in Europa come nell’America settentrionale? Davvero non significa nulla, ad esempio, che proprio su questo giornale — per carità con le migliori intenzioni del mondo — sia comparsa appena la settimana scorsa un’intera pagina intitolata «Genere neutro», dove si illustrava la positività moderna, culturalmente molto à la page, di un’educazione dei bambini all’insegna del rifiuto delle obsolete categorie «maschietti» e «femminucce»?
Da che parte sta, allora, il conformismo? Mi chiedo, in quale direzione va il mainstream? In quella di Obama o del cardinale Bagnasco?
Nella sua essenza non è un mainstream politico: è qualcosa di molto più profondo percepibile adeguatamente adoperando non già categorie ideologiche e neppure giuridiche, bensì il parametro rivelatore delle immagini, il linguaggio della pubblicità con il suo ovvio rimando a quell’ambito supremo che è l’economia.
Il confronto appare immediatamente impari. Basta gettare uno sguardo sulle riviste e in genere sulle pubblicazioni dell’editoria cattolica. In modo particolarissimo sulle copertine dei libri a grande tiratura, della pastorale «per tutti». Al primo colpo d’occhio famiglie effigiate appaiono irreali, perlopiù sdolcinatamente felici, sorridenti e circondate di debita prole, impegnate nell’esplicita quanto disperata edificazione del lettore: lei magari ancora con gonna plissettata (nel 2013!) e lui con lo zainetto.
E così è quasi sempre per la raffigurazione di donne e uomini: immagini inerti e senza alcuna profondità, senza storia. Da cui emana perlopiù un’eterosessualità piatta e tristissima, una convenzionalità di ruoli oggi più che mai destinata a risultare irrimediabilmente patetica. Che differenza con ciò che invece si vede altrove! Qui — dai magazine alla pubblicità, dalla tv al cinema, e che si tratti della pubblicità di un profumo o di un orologio o di un film di successo — dappertutto domina la più intrigante ambiguità dei corpi, spesso dalle fattezze allusivamente ermafrodite, seminudi, accostati l’uno all’altro senza distinzione di sessi. E per giunta tutto sempre terribilmente «moderno», oggettivamente accattivante, sullo sfondo degli ambienti e dei paesaggi più seducenti, tutto sempre culturalmente in piena sintonia coi tempi: tanto per dire, mai una famiglia, mai una fede al dito (come ostensibilmente, invece, nel Bersani dei ritratti elettorali odierni).
Dove sta allora — mi piacerebbe continuare a chiedere a Manconi — qual è il pensiero dominante? E in quale campo si manifesta? Su Famiglia cristiana o su Vogue?
Non basta. Chi dice pubblicità dice economia. E non a caso l’omosessualità e le sue rivendicazioni ad ampio raggio sono da tempo anche un florido business. Era noto, ma ora ce lo racconta bene Il Fatto del 16 gennaio. «Essere gay friendly — si legge — non è più un costo ma un beneficio. Offre innumerevoli possibilità di guadagno e attrae un elevato numero di consumatori. I gay americani, ad esempio, spendono oltre 835 miliardi di dollari l’anno. E anche in Italia i numeri non possono essere sottovalutati». Ancora: «I maggiori istituti finanziari del mondo fanno quasi a gara nel lanciare iniziative pro gay: JP Morgan ha per esempio sponsorizzato l’organizzazione dei gay pride a Londra e New York; la banca londinese Lloyds stima che all’interno del gruppo lavorino circa 2.500 omosessuali e transgender e ne favorisce l’inserimento tra i colleghi, con i clienti e all’interno della comunità». Dal canto suo «l’amministratore di Goldman Sachs, sposato con tre figli, fa uno spot tv a sostegno dei matrimoni gay perché, dice, “la tolleranza è un buon affare”». La tolleranza e gli affari certo. Meglio però se entrambi «politicamente corretti»: non si ha notizia, infatti, che ad alcun presidente della Apple o più modestamente della Fiat sia mai venuto in mente di presenziare al Family Day. Chissà perché.
Ps: vorrei fosse chiaro, questo non è un articolo sull’omosessualità, sugli omosessuali o sui loro diritti. È un articolo sulle vestali dell’illuminismo che non si sono accorte di essersi trasformate col tempo in devote sentinelle delle maggioranze silenziose.
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