Il sorriso beffardo di Re Erode di Giovanna Arcuri - http://www.lanuovabq.it
15-01-2013
I tempi di Erode son tornati. Nel febbraio del 2012 due giovani ricercatori italiani che studiano in Australia – Alberto Giubilini e Francesca Minerva - hanno pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Medical Ethics un articolo con il seguente titolo: “Aborto post-natale: perché un neonato dovrebbe vivere?”.
Questi gli snodi concettuali principali dell’articolo. Alcune malattie genetiche non possono essere scoperte o non sono semplicemente ricercate nella gravidanza oppure si manifestano dopo questa e quindi i genitori sono costretti a “tenere il bambino, che spesso è proprio la scelta che non avrebbero mai fatto se la malattia fosse stata diagnosticata prima della nascita”.
Dunque se la donna può abortire il figlio perché ha una malformazione, logica impone che potrebbe ucciderlo per lo stesso motivo anche dopo la nascita. Infatti gli autori, di cui tutto si può dire eccetto che pecchino in chiarezza, scrivono: “sosteniamo che, quando dopo la nascita si verificano le stesse circostanze che giustificano l’aborto prima della nascita, quello che chiamiamo aborto post-natale debba essere permesso. […]Perciò, chiediamo che uccidere un neonato sia eticamente accettabile in tutti i casi in cui lo è l’aborto.
Questi casi includono quelli in cui i neonati siano potenzialmente in grado di vivere (per lo meno) una vita accettabile, ma il benessere della famiglia sia a repentaglio”.
Avete capito bene: possiamo uccidere un neonato per tutti gli stessi motivi per cui in uno stato abortista come il nostro è possibile abortire, anche per motivi economici, sociali e psicologici. Qui si fa un passo in avanti rispetto all’eutanasia infantile made in Olanda. Nella terra dei tulipani il criterio ipocrita, ma ormai retrogrado, per uccidere il bebè è quello del “best interest” del neonato. Insomma si decide a posto suo se la sua vita è degna di essere vissuta.
I due studiosi si spingono oltre: magari il bambino un giorno riterrà di essere pure felice nonostante la sua condizione, ad esempio, di bambino Down, ma i genitori e la società no. Ciò basta – al di là del miglior interesse del neonato – per eliminarlo.
Banale a dirsi l’articolo ha suscitato polemiche e disgusto in tutto il mondo, anche tra i laici. Maurizio Mori, presidente della Consulta di Bioetica, ha pensato bene di dare occasione a questi due cervelli in fuga di far ritorno in patria per spiegarsi meglio, offrendo loro un convegno universitario ad hoc – tenutosi venerdì a Torino con la partecipazione anche di Giovanni Fornero, Assuntina Morresi e Adriano Pessina, – per dissipare equivoci e togliere tutti dall’imbarazzo. In effetti, dopo gli interventi di venerdì, di equivoco non è rimasto proprio più nulla e l’imbarazzo però è cresciuto.
Ecco alcuni passaggi significativi dei due studiosi: “Se pensiamo che l’aborto è moralmente permesso perché i feti non hanno ancora le caratteristiche che conferiscono il diritto alla vita, visto che anche i neonati mancano delle stesse caratteristiche, dovrebbe essere permesso anche l’aborto post-nascita. Il nostro intento era rendere esplicite certe conseguenze normative e tenere conto di implicazioni socioeconomiche: se queste sono importanti per ammettere l’aborto, allora lo sono anche se il bambino è già nato”.
Hanno dunque confermato per filo e per segno quanto hanno scritto qualche mese fa: se hai pochi soldi o il bambino per un motivo o per l’altro è un peso per te, non solo puoi abortire ma puoi ucciderlo anche dopo che è nato. Se quindi hai un figlio già nato e perdi il lavoro (motivi economici), oppure litighi con la moglie/compagna su come educarlo (motivi sociali), oppure più banalmente non ne puoi più che pianga di notte (grave lesione alla tua sfera psichica), potrai sempre soffocarlo nel lettino con il suo cuscino. Dalla terra dei canguri ti danno il benestare per farlo.
Teorie vecchie, si scherniscono i due, già espresse dal loro maestro Peter Singer. Rispetto a quest’ultimo “noi abbiamo aggiunto solo un pezzetto: il fatto che non occorra che il neonato sia disabile per poterlo uccidere”. Mori ha replicato: “Siete troppo modesti. Non avete aggiunto solo un pezzetto, avete anche inventato un nome: aborto post-nascita”. Una gara di modestia a chi trova migliori teorie omicide. Ammettiamolo: come dare loro torto? E’ questione di logica: se tuo figlio può essere eliminato mentre sta nel tuo ventre, per quale motivo non potrebbe essere eliminato anche una volta che ha visto la luce? Cambia solo il luogo dell’omicidio, non l’età del condannato a morte come tengono a precisare Giubilini e Minerva: “non avanziamo nessuna richiesta sul limite entro cui l’aborto post-natale non debba più essere permesso – scrivono nell’articolo - Nel caso in cui l’aborto post-natale sia richiesto per ragioni non cliniche, non suggeriamo di porre soglie”.
Che siano avvertiti dunque i giudici che hanno deciso del caso di Anna Maria Franzoni e di tanti altri simili. A presto la scarcerazione delle madri assassine. E che siano avvertiti anche i bamboccioni, ultraventenni e più, che pesano sul conto corrente di mamma e papà. D’altronde, vero o no che qualsiasi omicidio avviene dopo la nascita? E così tutti gli assassinii potrebbero essere derubricati ad aborti post-natali.
Dicevamo allora che i due giovani studiosi sono coerenti in modo inossidabile nelle conclusioni con le premesse che si sono date. Purtroppo sono le premesse ad essere profondamente erronee.
Infatti perché Giubilini e Minerva ammettono la soppressione del feto e del neonato? Perché non sono persone. Ma allora: quando diventiamo persone per costoro? Due sono le caratteristiche che determinano la nostra condizione personale.
La prima attiene al riconoscimento consapevole del valore/disvalore di alcuni atti o della propria condizione: “Noi chiamiamo persona un individuo che è capace di attribuire alla propria esistenza almeno alcuni valori di base come il ritenere una perdita l’essere privati della propria esistenza”, ciò “dipende dallo sviluppo neurologico del neonato”.
Risposta: noi non diventiamo persone quando siamo coscienti delle cose che facciamo e/o del loro valore, o della nostra condizione. Altrimenti cesseremo di essere persone quando dormiamo o quando siamo sotto anestesia. Il terrore poi dilagherebbe: qualche malintenzionato potrebbe tramortirci, noi perderemmo così coscienza di noi stessi, del disvalore dell’aggressione subita e del valore della nostra vita, e dunque perderemmo anche lo status di “persone”, rischiando così che quello stesso malintenzionato ci uccida, dato che non siamo più persone.
Nessuno si sentirebbe più al sicuro, nemmeno dall’altra parte del mondo. Nemmeno in Australia.
In aggiunta: la capacità “di attribuire alla propria esistenza almeno alcuni valori di base” sta a significare che diventiamo persone allorquando le nostre facoltà mentali migliorano a tal punto che siamo in grado di formulare giudizi morali. Ma se la qualità delle nostre facoltà mentali determina il nostro status, ciò significa anche che tanto più siamo intelligenti tanto più siamo “persona”.
Però questo non può essere perché la persona umana non sopporta nuances, sfumature di umanità, altrimenti Einstein sarebbe più uomo di chi non sa far di conto e anche di chi è un semplice ricercatore. Se poi la cifra caratteristica per capire quando siamo in presenza di un uomo è lo “sviluppo neurologico”, cioè quanta materia grigia abbiamo nella scatola cranica, va da sé che chi ha un cervello più pesante è più persona di un altro.
Ma forse i due autori intendevano lo sviluppo neurologico in senso meno materiale e più metafisico. Infatti ecco cosa hanno detto venerdì scorso i due studiosi in merito all’altra caratteristica indispensabile affinchè il neonato diventi persona: “serve uno sviluppo neurologico superiore, avere degli scopi, delle aspettative, verso il futuro, provare un interesse per la vita. E un neonato non li ha”. Dunque chi non è in grado di porsi un obiettivo cosciente non è persona.
A questo proposito vorremmo sapere un paio cose: chi decide quali sono gli “obiettivi coscienti”? Immaginiamo che i due studiosi insieme a Mori si metteranno a capo di una comitato etico per la definizione dei fini coscienti e non coscienti (ma questo stesso atto definitorio persegue un fine cosciente o incosciente?).
Secondo: quali sono i criteri per qualificare un fine cosciente? La maturità del soggetto che decide? La sua capacità di mostrarsi essere libero? Il problema si sposta poco più in là: e quando uno è maturo o libero? Lo giudicheranno sempre l’illuminata triade di cui sopra? E se gli standard per ricevere la patente di “persona” fossero così alti che neppure bioeticisti di fama – figurarsi quelli in erba – non riuscissero ad entrarci, cosa accadrebbe?
Infine: perché i criteri per fondare la nostra umanità devono essere quelli dei fini e della coscienza? I fini e la coscienza non valgono tanto quanto come altri criteri quali la razza, il credo religioso, la ricchezza, il sapere? Anche qui: chi decide quali tra questi criteri è il migliore?
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