mercoledì 31 ottobre 2012


Medico si sveglia dal coma e racconta: “Il paradiso esiste, ecco com’è…” - http://www.igossip.it


Il medico inglese si è ricreduto sull'esistenza dell'Aldilà, dopo aver fatto un sogno...

Si sa, fede e ragione non sono mai andati d’accordo nel corso degli anni. Pochi sono i medici credenti o almeno che credono nell’aiuto del Signore per poter risolvere determinate malattie.
Anche Eben Alexander, un neurochirurgo di Harvard, fino a qualche anno era scettico, ma poi unevento ha radicalmente cambiato la sua vita, portandolo ad accostarsi alla religione cattolica. Nel 2008, infatti, l’uomo è rimasto in coma per 7 giorni in seguito ad una meningite batterica da Escherichia Coli.
La sua mente scientifica non ha mai creduto nell’esistenza dell’aldilà o alle esperienze pre-morte, ma il dottore si è dovuto ricredere.
Uscito dal coma, infatti, ha raccontato di aver visto un posto “incommensurabilmente più in alto delle nuvole, popolato di esseri trasparenti e scintillanti”. Un viaggio attraverso un mondo che egli racconta in un’intervista al Newsweek, ma che approfondisce nel suo libro di prossima uscita dal titolo eloquente: “Proof of Heaven” (“La prova del paradiso“).
L’uomo al suo risveglio, ha raccontato di essere stato “accudito” da una ragazza bionda che camminava su un tappeto di farfalle. La ragazza gli parlava, dicendo frasi che sono rimaste impresse nella sua mente. Tre sono quelle che più l’hanno colpito, “non c’è niente di cui avere paura” , “tu sei amato e accudito”, ed infine “non c’è niente che tu possa sbagliare”.
Il neurochirurgo descrive questo luogo come un “un mondo di nuvole bianche e rosa stagliate contro un cielo blu scuro come la notte e stormi di esseri luminosi che lasciavano dietro di sé una scia altrettanto lucente”.
Non angeli o uccelli, ma forme di vita superiore. E dice “potevo ascoltare la bellezza di questi esseri straordinari e contemporaneamente vedere la gioia e la perfezione di ciò che stavano cantando”.
Questo lungo viaggio ha avuto una fine, Eben si è risvegliato, come aveva preannunciato la misteriosa ragazza dai capelli biondi “Ti faremo vedere molte cose qui. Ma alla fine tornerai indietro”, aveva detto.

La macchina che svela i meccanismi della mente




Scopri chi sei con le molecole - http://www.lastampa.it

Inizia l’era della metabolomica: 
che cosa cambia, dalla diagnosi 
ai farmaci
Fabio Di Todaro
La terza prova, nel giro di qualche anno, potrebbe diventare quella decisiva per la diagnosi di una malattia. Dopo lo studio del Genoma e del proteoma, la nuova era della medicina molecolare sta concentrando tutti i suoi interessi su una nuova disciplina: la metabolomica. 
Ovvero: l’analisi di acidi grassi, nucleotidi, proteine e zuccheri che circolano nell’organismo. In Italia, a tentare il nuovo approccio, sono poco più di 10 laboratori, quasi tutti avviati nel nuovo millennio. Canada, Stati Uniti e Inghilterra, invece, sono decisamente più avanti e hanno già costruito banche dati per consolidare la conoscenza nell’ultimo campo delle scienze cosiddette «omiche». 
L’orizzonte è piuttosto interessante. Perché l’analisi dei metaboliti possa rivelarsi più efficace rispetto allo studio del corredo genetico, è presto chiaro: se l’espressione genica è lo specchio della natura interna di un organismo, le molecole poste alla fine della catena metabolica risentono anche di altri fattori. Innanzitutto l’alimentazione, l’ambiente e lo stile di vita, ma anche il ricorso ai farmaci e l’azione degli ormoni possono alterare il prodotto terminale di una sequenza di reazioni. Ecco perché la metabolomica è considerata particolarmente selettiva negli orientamenti diagnostici.  
Il corpo umano, che celebri studiosi del passato come Morgagni e Golgi ritenevano un insieme di organi utili a comporre la «macchina biologica», è oggi considerato in termini di strutture di cellule e di molecole a strettissimo contatto. Queste ultime, stando ai dati pubblicati sull’«Hmbd» (l’unico database ufficiale del metaboloma umano), sono al momento 7900, anche se si pensa che non tutte siano state ancora catalogate. Sono proprio questi numeri - relativamente bassi - a facilitare l’indagine, rispetto alle 25 mila unità che compongono il Genoma umano e ai 10 milioni di proteine dell’organismo. 
«La metabolomica evidenzia lo sviluppo di una patologia, sulla quale incidono anche varianti epigenetiche - spiega Mauro Picardo, direttore del centro di ricerca integrato sulla metabolomica del San Gallicano di Roma -. Geni, proteine e metaboliti contribuiscono in modo diverso all’indagine: se un polimorfismo è la spia della predisposizione, una proteina alterata segnala l’insorgenza di una possibile malattia. Ma è soltanto dall’alterazione di un metabolita che si può anticipare la diagnosi». 
Due esempi su tutti: elevati livelli di glucosio e colesterolo nel sangue anticipano sempre il diabete e alterazioni a carico del metabolismo degli acidi grassi. «Lo studio dei metaboliti, infatti, è utilizzato per la diagnosi precoce in assenza di sintomi e nei “follow-up” che controllano la progressione della malattia - sostiene Margherita Ruoppolo, docente di biochimica alla facoltà di medicina Federico II di Napoli -. Difetti del metabolismo lipidico, amminoacidopatie e disordini ormonali sono oggi diagnosticabili con lo screening neonatale». 
A differenza del Genoma e del proteoma, però, il metaboloma non è sempre uguale. Sono le sue variazioni a segnalare una possibile malattia. La ricerca, per esempio, sta incrociando i dati per capire se l’alterazione della composizione del sebo può essere il segnale di uno squilibrio sistemico dei lipidi. Oppure: dall’analisi del lipidoma - l’insieme dei lipidi nell’organismo - si è notata una stretta associazione tra disturbi psicotici e obesità, tra numero di acidi grassi insaturi e resistenza all’insulina, tra elevata concentrazione di fosfolipidi e maggiore incidenza del cancro al seno. 
E ancora: la sarcosina (metabolita della glicina) è stata riscontrata nelle indagini condotte su pazienti con un tumore alla prostata, mentre nei topi di laboratorio si è visto come alte concentrazioni di solfato di indossile - un glicoside vegetale - siano correlate a una ridotta funzionalità renale. In attesa di scoprire le future applicazioni, queste associazioni non implicano un nesso causale diretto, ma rappresentano una spia che può predire la malattia e favorire la messa a punto di nuovi percorsi sia preventivi sia terapeutici. 
Le maggiori difficoltà, al momento, riguardano l’estrazione dei metaboliti dai campioni (sangue, siero, urine e anche liquido cefalorachidiano) e le successive analisi, che devono essere condotte attraverso tecniche sofisticate come la spettrometria di massa e la risonanza magnetica nucleare.  
L’evoluzione, comunque, è continua: l’elenco delle discipline interessate alla metabolomica, infatti, sembra non conoscere limiti. Oltre ai risvolti in ambito farmacologico, gli specialisti stanno studiando anche le «correzioni» da portare all’alimentazione: la riduzione o l’integrazione dei metaboliti è legata alla prevenzione di una serie di malattie neurodegenerative e neoplastiche. È questo il compito che, negli ultimi anni, è stato riconosciuto alla nutrigenomica. Ecco perché lo studio dei metaboliti è tenuto in grande considerazione anche dalle industrie agroalimentari. 
«L’obiettivo è partire dalla varietà del corredo genetico per ripristinare le peculiarità dei prodotti ortofrutticoli attraverso un “miglioramento assistito” - chiarisce Roberto Viola, direttore del centro di ricerca della Fondazione Mach -. I consumatori sono sempre più interessati ad acquistare frutta e verdura che abbiano migliori proprietà organolettiche. Per farlo non basta intervenire sui geni, ma si deve agire anche sulle molecole». Ecco un’altra e promettente applicazione della metabolomica.  

Quelle ferite misteriose dei bambini





«Pillola alle minorenni». Proposta choc - 31 ottobre 2012 - http://www.avvenire.it

​L’Emilia-Romagna come la Francia, dove il Governo di Francois Hollande ha deciso di rendere gratuita la pillola per le ragazze dai 15 ai 18 anni. La proposta arriva da Bologna,  lanciata dal consigliere comunale del Pd Corrado Melega, ginecologo: sempre più bassa l’età del primo rapporto sessuale, sempre più costosi gli anticoncezionali, è il suo ragionamento. Un discorso fatto in consiglio lunedì, che genera, però, discussioni e contrarietà. Numerose le prese di posizione contrarie: dal Movimento per la Vita, al centrodestra, fino a qualche "distinguo" nella maggioranza di centrosinistra.

L’occasione per insistere sul tema, già portato avanti in passato dal medico attivo anche con la Rete Laica, è una dichiarazione di inizio seduta, uno spazio nel quale i consiglieri di Palazzo D’Accursio affrontano argomenti di attualità, anche non strettamente legati alle competenze dell’amministrazione del sindaco Virginio Merola. Gli anticoncezionali, dice Melega «sono spesso poco sostenibili da parte dei giovani: si va dal prezzo medio di una scatola di pillole tra i 7 e i 10 euro, ai 56 euro di un dispositivo intrauterino, agli otto euro circa di una scatola di preservativi. Il prezzo del coito interrotto – arriva a dire il ginecologo – e dei metodi naturali è spesso un figlio». Il numero delle gravidanze nelle minorenni «è in aumento e si tratta quasi sempre di gravidanze indesiderate». A chi fa notare che l’idea non sarebbe attuabile, non solo perché ignora qualsiasi profilo educativo, ma anche perché siamo in tempi di spending review, replica: «Il costo iniziale sarebbe controbilanciato dal risparmio in termini sanitari e sociali».

«Questa idea ci disgusta ma non ci meraviglia – ribatte Lucia Galvani, presidente del Movimento per la Vita bolognese - che segue la logica che dice "il consumatore chiede, noi gli diamo". Senza guardare ai veri bisogni dei giovani». La pillola anticoncezionale è un metodo "cripto abortivo", sottolinea. «È poi inaccettabile che anche il nostro Paese si adegui al peggio di quanto l’Europa pretende di propinarci».

Ma anche la politica non tace. Per il centrodestra, all’opposizione, «è una proposta ideologica e fuori dal tempo, che non può trovare concreta applicazione», fa notare Valentina Castaldini (Pdl). «Non so se Melega conosca qualche ragazza minorenne che abbia questa pretesa. Quelle che conosco io, hanno altre esigenze». Bisognerebbe piuttosto affrontare «la questione educativa, cioè come rispondere ai ragazzi nelle famiglie – dice ancora Castaldini – come aiutarli». Ma anche nel Pd c’è chi chiede di "non banalizzare" la questione. Come Raffaella Santi Casali, consigliere cattolica: «Come madre ritengo che ragionare della sessualità dei ragazzi in termini di costi-benefici sia riduttivo. 

Come adulti dobbiamo porci il tema dell’educazione all’affettività, al rispetto per se stessi e gli altri, a guardare alla persona umana nella sua integrità». L’argomento divide, come non mancherà di farlo un altro annuncio, diffuso ieri in città: il referendum contro i finanziamenti comunali alle scuole materne paritarie si farà.  A favore, associazioni, partiti di sinistra, Movimento 5 Stelle. Uniti nella contrarietà, invece, l’amministrazione, il Pd e il centrodestra.

Chi ha smantellato l’etica che ci univa? - 31 ottobre 2012 - http://www.avvenire.it

«Emergenza antropologica: per una nuova alleanza tra credenti e non credenti» è il titolo del volume edito da Guerini e Associati (pagine 152, euro 16,50) in cui Pietro Barcellona, Paolo Sorbi , Mario Tronti e Giuseppe Vacca hanno raccolto i contributi scaturiti dalla pubblicazione su «Avvenire» del 16 ottobre 2011 di una loro lettera aperta e controcorrente sulla necessità di dialogo fra Partito democratico e mondo cattolico a partire dalle più scottanti questioni bioetiche e antropologiche affrontate dal magistero di Benedetto XVI. Per approfondire ragioni e sviluppi del dibattito «Avvenire» ha promosso una serie di incontri tra ciascuno dei quattro firmatari e altri importanti intellettuali. Pubblichiamo in questa pagina la prima conversazione, che vede confrontarsi Vittorio Possenti e Mario Tronti.

Quella antropologica è questione «senza tempo» per eccellenza. Perché parlare di «emergenza» proprio adesso?
TRONTI: «Un primo tentativo di risposta non può non fare riferimento alla contingenza attuale, che ci spinge ad affrontare le tematiche antropologiche con un’intensità prima sconosciuta. Si fa sempre più forte l’impressione di trovarsi al centro di una crisi che non è soltanto economico-finanziaria, ma che investe i legami sociali divenendo così crisi di civiltà e costringendoci a fare i conti con i processi di civilizzazione del passato. Penso, in particolare, alle forme più spinte di secolarizzazione, che hanno abbandonato l’uomo a se stesso e prodotto il deterioramento delle relazioni personali. Questa è l’“emergenza” segnalata dalla nostra lettera».

E come se ne esce? 
TRONTI: «Tornando a intrecciare culture e sensibilità diverse, e più che altro spostando l’attenzione su questi temi dall’ambito cattolico, dove hanno da tempo una centralità riconosciuta, a quello della sinistra, che invece li ha troppo a lungo trascurati. Nei miei studi ho sempre cercato di rifarmi all’orizzonte della teoria e della filosofia politica. Poi, negli ultimi decenni, anche grazie ad alcune esperienze (il laboratorio della rivista “Bailamme”, gli incontri presso l’eremo camaldolese di Monte Giove), mi è parso di capire che la crisi della politica non si risolve con le ragioni della politica. Da qui il mio interesse per la teologia politica».

POSSENTI: «È vero, oggi c’è una crisi che affiora in emergenza, ma che è precedente rispetto ai fenomeni che stiamo vivendo. Per un certo periodo l’umanità ha tentato di fondare le ragioni della propria convivenza su una specie di accordo sociale e contratto morale, che ha avuto il suo momento più fortunato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Un documento importante di questa temperie è costituito dal discorso che Jacques Maritain pronunciò a Città del Messico nel 1947, in occasione della prima Conferenza generale dell’Unesco: nelle parole del pensatore francese è chiaro che, a dispetto delle diversità presenti anche nel dopoguerra, è possibile conseguire un accordo pratico sui valori fondamentali, che poggiano da ultimo sul concetto di dignità della persona. Negli ultimi sessant’anni il presupposto stabilito da Maritain, e di fatto sancito dalla Dichiarazione universale, è venuto almeno in parte a cadere. Oggi come oggi siamo costretti a registrare il fallimento di ogni tentativo di costruire un’etica pubblica condivisa che si fondi su istanze di tipo esclusivamente etico-politico. Se davvero si vuole trovare un minimo comun denominatore, occorre fare un passo indietro e attestarsi al livello antropologico, l’unico che riesca a offrire un fondamento affidabile per affrontare le grandi questioni di questo momento».

Possiamo fare qualche esempio?
POSSENTI: «C’è anzitutto l’economia, che dall’epoca di Ronald Reagan e Margaret Thatcher ha operato mediante lo slegamento assoluto delle leve finanziarie, riducendo la stessa politica a una variabile dipendente del capitalismo finanziario. Ma la partita decisiva si gioca nella gestione della vita (la cosiddetta biopolitica), dove ci si confronta con un progresso scientifico-tecnologico a fronte del quale perfino l’etica appare insufficiente. Quando dobbiamo stabilire come trattare l’embrione umano, dobbiamo anzitutto stabilire se ci troviamo davanti a un grumo di cellule o davanti a una persona. A secondo della posizione antropologica che assumiamo, le conseguenze morali sono molto diverse e addirittura conflittuali».

Proprio su questi temi, però, la sinistra italiana sconta una lunga indifferenza.
TRONTI: «Più che altro parlerei di una forte subalternità al clima dominante in tutto l’Occidente. Già la visione imperniata sull’homo oeconomicus  ci consegnava un’umanità dimezzata, contro la quale il movimento operaista proponeva l’affrancamento del lavoratore dai macchinari. Adesso, con l’avvento dell’homo technologicus, questo stesso asservimento si compie in maniera più subdola, provocando un’ulteriore riduzione di umanità. Nel frattempo le ideologie si sono disperse, ci siamo persuasi di vivere dopo la fine della grandi narrazioni e ci siamo assuefatti a una narrazione che esiste purtroppo da molto tempo: quella per cui il mondo non è trasformabile e l’uomo deve limitarsi ad aderire allo <+corsivo>status quo<+tondo>. Il risultato è un diffuso sentimento anti-ideologico, figlio a sua volta di certe utopie degli anni Sessanta. Le coscienze cambiano, questo sì, ma in modo solo istintivo, secondo i dettami delle culture radicaloidi e falsamente libertarie, per cui non esiste altro diritto che non sia il diritto dell’individuo. La sinistra non è stata capace di contrastare questa deriva che, cancellando il limite, vanifica anche ogni legame con la collettività. Ed è a causa di questa incapacità che la sinistra italiana oggi è poco riconoscibile a livello popolare: riscuote consenso presso quel che rimane del ceto medio riflessivo, ma ha perduto il contatto con le grandi culture popolari ancora vive nel nostro Paese».

POSSENTI: «Mi trovo in piena sintonia con questa analisi, specie per quanto riguarda le osservazioni sulla mancata dimensione popolare della politica nostrana. A partire dagli anni Ottanta si sono innescati diversi processi che hanno condotto a operare tagli dolorosi e, per così dire, trasversali rispetto alle culture dell’esistenza proprie del popolo italiano. In generale, si è smarrito il senso di un’appartenenza comune, anche per effetto di un bombardamento mediatico che ha fatto perdere di vista molti riferimenti tradizionali. La piazza pubblica si è pertanto ritrovata nuda di alcuni presupposti esistenziali e dominata al contrario da un discorso vacuo, poco attento alla vita reale delle persone e dei gruppi sociali. Purtroppo, come osservava prima Tronti, la politica non è bastata a se stessa e al posto del bene comune è sopraggiunta una spudoratezza che fa quasi rimpiangere la stagione di Tangentopoli. Ma anche questo è un effetto della mentalità corrente, per cui esiste solo il singolo, qui e ora, e viene abbandonata ogni preoccupazione per gli altri, per il domani.».

Insomma, un’alleanza di ferro tra deserto delle ideologie e secolarizzazione dilagante?
POSSENTI: «Con una responsabilità ben precisa della cultura radicale, che punta a esaltare l’essere umano in quanto individuo, con l’obiettivo dichiarato di tutelarne i diritti, ma senza operare più alcuna distinzione tra diritti, pretese e desideri. La sinistra si è lasciata contaminare da questo atteggiamento, arroccandosi su una difesa dei diritti che trascura ogni riferimento ai doveri. Del resto, anche la cultura liberale ha mostrato la sua insufficienza, concentrandosi unicamente sul diritto di libertà. Il che è molto, ma non tutto: il diritto al lavoro, per esempio, non è un diritto di libertà, né lo è il diritto alla vita. È su questa base di realismo che occorre tornare a riflettere su quelli che, personalmente, preferisco chiamare i “princìpi irrinunciabili” su cui poggia la dottrina della Chiesa». 

Sono gli stessi princìpi su cui concordano i “marxisti ratzingeriani” che hanno firmato la lettera ad “Avvenire”?
TRONTI: «Al di là delle formulazioni giornalistiche (e “marxisti ratzingeriani” è un’etichetta molto efficace, lo ammetto) resta la volontà, da parte nostra, di richiamarci a un’idea di sinistra forte, consapevole delle sue ragioni e proprio per questo capace di confrontarsi con culture diverse. Quanto a Benedetto XVI, mi pare che la lettura corrente, per cui questo sarebbe un pontificato “conservatore”, costituisca un completo travisamento del pensiero del Papa-teologo. Centrale, in Ratzinger, è la necessità della dimensione pubblica dell’esperienza di fede. Anziché accontentarsi dei luoghi comuni, le culture della sinistra dovrebbero semmai sollevarsi a questo livello e accettare il confronto sul terreno dei “princìpi irrinunciabili”. Ma il problema viene da molto lontano e ha la sua origine nel pensiero dello stesso Marx. Eppure più passa il tempo, più ci si rende conto che qualsiasi esperimento di trasformazione della realtà non può prescindere dall’elemento spirituale presente in ogni essere umano. Per come la vedo io, c’è un legame strettissimo fra trascendenza e rivoluzione, a patto ovviamente di intendere quest’ultimo termine nella sua portata più vasta».

POSSENTI: «Nell’enciclica Spe salvi Benedetto XVI ha invitato a riconsiderare la vicenda degli ultimi secoli come il tentativo di fondare un “regno dell’uomo” nel quale non vige più una speranza di tipo teologale. Nell’Ottocento anche il movimento socialista ha fatto la sua scelta, abbracciando il materialismo storico di Marx ed Engels come garanzia di scientificità, vale a dire come dottrina che risolve (e che sa di risolvere) il mistero della storia. Questa illusione ci costringe oggi a vivere in un campo di realtà molto ristretto, nel quale hanno valore solo meccanismi di facile presa, come quello che ha trasformato l’etica economica in etica universale. Per superare questa visione accorciata dell’uomo e della società occorre riaprire molto porte e molti spazi. Un’etica condivisa, a questo punto, non è più sufficiente. Occorre un umanesimo condiviso. Un’antropologia che si ponga l’obiettivo di superare l’emergenza, appunto».

30 ottobre, 2012
 
di Costantino Esposito, docente di filosofia all’Università di Bari
da Avvenire , 19/10/12

La grande ipotesi di lavoro che Benedetto XVI ha lanciato alla Chiesa e al mondo intero, aprendo l’Anno della fede, è come uno sguardo inedito sul nulla. Il nulla che pervade la cultura contemporanea e che si annida nelle pieghe della nostra esistenza, tutte le volte che avvertiamo il venir meno del significato, il vuoto di senso che si nasconde dietro la grande “scena” del mondo. Già avere questa percezione non è affatto scontato: essa è possibile solo a chi avverte tutto il bisogno di senso e tutta l’esigenza del vero che costituiscono la nostra ragione. E l’avverte proprio perché è stato “preso” dal significato, ha visto la presenza del Logos, ha ascoltato la sua voce.
Il deserto avanza, affermava Friedrich Nietzsche già a fine Ottocento, indicando l’inarrestabile tendenza della storia «metafisica» dell’Occidente all’esaurimento dei suoi valori e battendo con il suo «martello» sugli idoli per auscultare il vuoto che si nasconde dentro i simulacri. Ma è possibile riconoscere e attraversare davvero questo vuoto, e coglierne tutta la drammaticità, senza stare in qualche modo su un “pieno”? È possibile guardare questo deserto, e riconoscerlo come tale, senza vederlo da un luogo che deserto non è? Torna alla mente ciò che ha scritto Emanuele Severino«Lo sguardo che vede crescere il deserto non appartiene al deserto. Sta “dall’altra parte”. E in esso è riposta ogni possibilità di salvezza» (da Téchne, 1979). Ma questo non appartenere al deserto, che permette di vedere che cosa sia veramente il deserto, nella riflessione del Papa significa che il deserto diventa una formidabile occasione per avvertire il bisogno di essere che ci segna come enti finiti, e l’esigenza dell’essere come apertura a un significato più grande di noi stessi e del mondo. Come ci siamo sentiti dire l’11 ottobre in Piazza san Pietro, «è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne. Nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere».
La fede cristiana, qui, non è proposta come una fuga spirituale dal deserto, e nemmeno come il mero distacco o la dura rinuncia alle “tentazioni” del mondo (come pure alcune volte si è tentati di sublimare il deserto), ma come l’impegno più semplice e diretto con la sete di vita che ci muove: «Così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza». Ogni qual volta questa sete vien fuori, è come se il nulla fosse squarciato, e la voce afona di chi cerca il significato di sé e del mondo si facesse udire.
Il dramma del nichilismo contemporaneo è quello di non riconoscere più e non avvertire la mancanza da cui pure esso era nato. L’ipotesi di Benedetto XVI è che solo una risposta presente può far riconoscere questa attesa: la fede non è la mera “credenza” in qualcosa che non si vede, ma è la possibilità di vedere quello che c’è e di cui spesso non ci accorgiamo nemmeno. Perciò l’Anno della fede è stato proposto come «un pellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo, in cui portare con sé solo ciò che è essenziale», cioè il fatto sorprendente che il «Senso ultimo» si è reso carne, ha parlato – parla – e chiede di essere ascoltato e riconosciuto dal nostro bisogno. Solo per questo l’uomo che vive la fede può portare in sé e con sé, in una lieta drammaticità, tutta l’inquietudine del mondo.

martedì 30 ottobre 2012

Nuove frontiere per le tecnologie nella medicina


Farmaci - la fabbrica salvavita pronta ad ogni emergenza





Nozze gay, la rivolta dei sindaci



Aumenta l’inserimento sottopelle di contraccettivi alle 13enni. «Così si banalizza il sesso»

ottobre 30, 2012 Leone Grotti - http://www.tempi.it
Negli ultimi tre anni le scuole del Regno Unito hanno applicato sotto pelle a ragazzine tra i 13 e i 16 anni impianti contraccettivi come rimedio per non farle rimanere incinta. Per applicare l’impianto le infermerie scolastiche non sono tenute ad informare i genitori delle ragazzine. La pratica è stata introdotta nelle scuole di Bristol, Northumbria, Peterborough, County Durham, West Midlands e Berkshire.
BASTA UN BASTONCINO DI 4 CENTIMETRI. Il metodo contraccettivo utilizzato si chiama Implanon ed è un sottile bastoncino di 4 centimetri che si inserisce sottopelle nei primi cinque giorni del ciclo e libera gradualmente un ormone che blocca l’ovulazione e riesce a fermare l’ascesa degli spermatozoi. La sua efficacia comincia dopo 24 ore dall’innesto e dura circa tre anni. I ricercatori affermano che gli effetti secondari come acne, cefalea e tensione mammaria scompaiono dopo appena sei mesi. Secondo dati raccolti dal Daily Telgraph la tecnica, praticata nelle scuole fin dal 2009, si è diffusa nel 2011. A Bristol, a fronte di 102 impianti inseriti nel 2010, nel 2011 sono stati 330. A County Durham e Darlington, nel 2010 solo cinque ragazze erano state sottoposte all’intervento, nel 2011 82. A Dorset si è passati da 49 a 62.
«AUMENTA LA PROMISCUITÀ». La pratica nel Regno Unito è sotto accusa perché banalizzerebbe l’atto sessuale, incoraggiando la promiscuità nei rapporti tra ragazzini. Afferma Norman Wells, direttore del Family Education Trust: «Questo tipo di iniziative dà a ragazzine di 13 anni la licenza di avere rapporti sessuali illegali e nega loro la protezione della legge. Inoltre, fornire alle ragazzine la contraccezione senza informare i genitori significa minare gravemente il loro ruolo. Senza contare che così la promiscuità aumenta».
«SESSO? COME ANDARE AL MCDONALD’S». Per Anthony Seldon, a capo del Wellington College, «il rapporto sessuale è la più alta e matura forma di relazione che ci possa essere tra due persone. Ogni cosa che la banalizzi o la tratti come qualcosa di semplice, specie per le persone giovani, danneggia la loro capacità di crescere e formare in un futuro un rapporto d’amore duraturo nel tempo. Così si svaluta il sesso, lo si rende una cosa ordinaria, come andare al McDonald’s».

29 ottobre, 2012
Il governo federale canadese si è recentemente pronunciato sul suicidio assistito affermando che la sua legalizzazione sminuisce il valore della vita e potrebbe portare le persone più vulnerabili a prendere provvedimenti drastici nei “momenti di debolezza”. Nel giugno 2012, invece, il Canadian Medical Association Journal ha pubblicato un editoriale chiedendo un ampio dialogo nazionale per discutere di ciò che ha descritto come “omicidio terapeutico” (interessante l’inquientate richiamo alla morte come terapia), sostenendo che il destino della legge sul suicidio assistito dovrebbe essere decisa attraverso il processo democratico, e non attraverso i giudici.
Quella del governo canadese è una presa di posizione che condividiamo, non soltanto per le motivazioni espresse ma anche per le conseguenze negative sui familiari e amici del suicida. Un’esperienza traumatica che può lasciare profondi segni nella psiche, come ha affermato uno studio dell’Università di Zurigo pubblicato sull’ultimo numero della rivista scientifica European Psychiatry.
Stando alla ricerca un familiare su quattro dopo una simile esperienza è caduto in depressione o ha sviluppato un disturbo post-traumatico da stress, per cui si è resa necessaria una terapia medica. Questi disturbi, ha spiegato la psicologa Birgit Wagner responsabile dello studio, appaiono con maggior frequenza in relazione ai suicidi assistiti rispetto ai casi di morte naturale, nei quali soltanto il 5% dei familiari sviluppano un disturbo posttraumatico e soltanto lo 0,7% una depressione.
Secondo un altro studio, pubblicato qualche anno fa sul Journal of the Royal Society of Medicine, la depressione gioca un ampio ruolo anche nella decisione ad intraprendere la strada del suicidio assistito, confermando così le preoccupazioni del governo canadese. Il desiderio di morte precoce, è stato attestato, si correla infatti con disturbi depressivi. Riconoscere e trattare la depressione, si conclude nello studio, potrebbe migliorare la vita delle persone affette dalla malattia terminale e così ridurre il desiderio di morte precoce, per via naturale o per suicidio.
Infine, una serie di filosofi si sono espressi su “Avvenire” nel settembre scorso sul suicido assistito. Particolare l’intervento di Silvano Petrosino, docente di semiotica all’Università Cattolica, il quale ha ricordato il pensiero dell’agnostico sociologo e antropologo Emile Durkheim, per il quale la società è lesa dall’atto del suicidio, e poiché «la persona umana è e deve essere considerata come cosa sacra, qualsiasi attentato contro di essa deve essere proscritto».

IDEE/ Rémi Brague: una società che non sa chiedere perdono non ha futuro - http://www.ilsussidiario.net/

martedì 30 ottobre 2012
Senza una metafisica non si mettono al mondo i figli. A dirlo è Rémi Brague, filosofo e docente nella Sorbona di Parigi. Di recente in Italia per un ciclo di conferenze organizzato dalla rivista Philosophical News(philosophicalnews.com) sul tema del senso e del valore della tradizione, Brague sorprende per le sue affermazioni e la sua dote di mostrare le conseguenze tangibili di principi apparentemente remoti e inafferrabili, come quelli della speculazione che attraversa il pensiero dell’occidente. Dire metafisica, per Brague, è dire trascendenza, desiderio di Essere; ansia di destino che dà senso alla vita dell’uomo e gli fa desiderare il bene, per sé e per gli altri. È l’uomo, dunque, ad essere «meta-fisico» per Brague; proprio perché la materia non gli basta.

In una delle sue ultime opere lei afferma che la metafisica è l’«infrastruttura dell’uomo». Che cosa intende?

L’opposto della concezione di Feuerbach e Marx, per i quali la metafisica e la religione, definita quest’ultima come metafisica per il popolo, sono una costruzione astratta, una sovrastruttura edificata sulla base concreta della vita della gente che - nella loro opinione - era solo la vita economica. Invece, senza un rapporto con la trascendenza, colta o nel pensiero metafisico, nel senso filosofico del termine, o nella religione, non è possibile trovare una ragione all’esistenza dell’uomo. 

Davvero non possiamo farne a meno? Quel che resta del pensiero postmoderno sembra smentire questa ipotesi.

Occorre recuperare una distinzione forte tra causa e ragione. Causa è ciò che fa esistere qualcosa che è già nel presente; ma della ragione abbiamo bisogno perché ci sia un futuro. Ragione, infatti, è giò che giustifica la nostra azione come dotata di senso. È importante possedere tale ragione? Sì, perché mai come oggi l’esistenza del genere umano dipende da noi. Tocca a noi, in fondo, decidere se ci sarà o no una generazione dopo la nostra. Oggi la questione demografica è in fondo una questione metafisica.

Lo è anche la crisi economica mondiale? 

Ciò che ha rilevanza metafisica è la fiducia dell’uomo in se stesso. In tal senso la crisi economica può essere pensata come conseguenza di una più profonda e radicale crisi di fiducia che l’uomo sta attraversando; crsi di fiducia in se stesso e nelle relazioni reciproche.

Lei afferma che mai come oggi l’uomo si è trovato a scegliere l’essere piuttosto che il nulla. Ci sono ragioni per scegliere l’uno al posto dell’altro?

Subiamo le conseguenze della critica di Nietzsche, per il quale cercare di giustificare l’esistenza sulla base di una cosa «altra» dall’esistenza stessa, sarebbe svalutare questa nostra esistenza in favore di un essere metafisico. Dunque non si ha da cercare ragione al di là di ciò che esiste, al di là della vita presente. Io rispondo che la giustificazione della vita è la vita stessa; ma non la vita intesa come è oggi, e cioè cammino verso la morte, bensì la vita come destino, e dunque la vita eterna.

Se così non fosse?

La metafisica è la riscoperta del significato della vita eterna e della sua pertinenza per la vita presente. Se l’esistenza è soltanto dolore, coloro che noi chiamiamo all’esistenza − i nostri figli! − sono solamente uomini destinati alla morte più tardi di noi. Ma se abbiamo il diritto di chiamare all’esistenza la generazione che verrà dopo di noi, allora dobbiamo anche pensare che i nostri figli sono chiamati a qualcosa di più di questa vita. Rifiutare questa prospettiva metafisica vuol dire abbracciare ragioni essenzialmente immorali; per esempio, dire che la prossima generazione è necessaria per pagare le pensioni di quella attuale. Tratteremmo altri uomini semplicemente come mezzi, e non fini.

Ma è realmente possibile non considerare mai gli uomini come mezzi?

È vero che considerare gli altri come mezzo nella vita quotidiana è inevitabile. In realtà − e qui si vedono tutte le buone ragioni della prudenza di Kant − occorre che trattiamo gli altri uomini mai semplicemente come soli mezzi, ma anche sempre come fini. Fare figli per avere qualcuno che paghi le nostre pensioni, sarebbe una riduzione allo stato di mezzo terribilmente radicale. Lo stesso discorso vale anche per i rapporti tra nord e sud del mondo. 

Lei ha recentemente parlato ad un workshop dedicato a tradizione e innovazione. Quest’anno sono i 50 anni del Concilio Vaticano II. Le due parole di rottura e continuità le sembrano categorie adeguate a comprendere la realtà ecclesiale?

Sì e no allo stesso tempo. La mia opinione è che non dobbiamo votarci alla rottura, ma nemmeno tornare al passato; semplicemente perché non dobbiamo «fare» nulla. Dobbiamo soltanto lasciare che il passato, che ci ha fatto gli uomini che siamo, produca in noi i suoi effetti, cercando semplicemente di agire nel modo più razionale e buono possibile. 

Dischiudere un futuro a ciò che viene dal passato chiama in causa l’educazione. Qual è la cosa più importante che ha cercato di insegnare ai suoi figli?

Ho cercato di trasmettere loro con l’esempio ciò che ero e ciò che sapevo. Ciò che si dice ai figli, se non è vivificato dall’esempio, perde di valore. E l’esempio più importante è saper chiedere perdono. Questo me lo hanno detto proprio loro, i miei figli, che ora sono grandi. Tu hai fatto anche errori e sciocchezze, mi hanno detto, ma hai sempre saputo chiedere perdono. La società europea in cui viviamo ha dimenticato l’importanza del perdono ed è avvelenata da un pesante senso di colpa; per quello che di drammatico troviamo nella nostra storia, per quello che come occidente abbiamo fatto. Direi che la malattia dell’occidente contemporaneo è la confessione senza assoluzione, senza perdono. Ma senza perdono, non c’è neppure nuovo inizio.

Anche in questo la metafisica sarebbe indispensabile?

Sì. Senza un rapporto con il Dono assoluto, non possiamo pensare a un perdono. L’unico essere che può veramente perdonare è quello che può donare, quello da cui tutto viene e da cui − per questo − può ricominciare a venire. 

Il nostro presente non si misura solamente con il passato, ma anche con le differenze. La Francia sembra non riuscire a trovare la strada per ridefinire una delle sue maggiori eredità storiche. Sarkozy parlava di laicità positiva, non diffidente ma aperta verso le fedi. Ora Hollande sembra tornare indietro. Che ne pensa?

Occorre innanzitutto precisare che la laïcité francese non è traducibile in italiano. Essa non è un principio, un concetto filosofico, ma piuttosto il risultato molto concreto di un compormesso per cui ci è voluto quasi un intero secolo; un accordo imprefetto tra Stato, Chiesa e società civile nella sua concretezza, la gente nella diversità della sua ispirazione e provenienza. 

Il problema viene dal fatto che oggi lo Stato non si trova più ad aver a che fare solo con il cristianesimo. E i vecchi equilibri sono saltati.

Sì, perché nell’islam il concetto di fede ha un significato differente da quello cristiano, mentre la laïcité alla franceseè stata elaborata storicamenteper trovare un posto alla Chiesa e alla fede cristiana nei suoi rapporti con la società civile e lo Stato repubblicano. Con l’islam è tutto diverso, non soltanto sul piano della relazione tra la sfera politica e quella religiosa, ma anche tra di quello della fede rispetto all’insieme delle norme del comportamento privato. Può, nello Stato laico, essere il Corano l’ultima regola ispiratrice di comportamento? Nella sfera pubblica, avremmo per esempio un parlamento in cui l’ultima regola del diritto sarebbe il diritto coranico…

Cosa fare?

L’unica risposta possibile mi pare quella di un aggiustamento progressivo della convivenza. Non vedo altre soluzioni.

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ABORTO/ D'Agostino: vi spiego l'ultimo "golpe" dell'Onu contro la ragione - http://www.ilsussidiario.net/

Francesco D'Agostino
martedì 30 ottobre 2012
Ha avuto perfettamente ragione Mons. Silvano Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede all’Onu, a criticare con forza la risoluzione recentemente varata a Ginevra dal Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani sulla Mortalità e morbilità materna prevenibile e i diritti umani. È un testo, ha spiegato Mons. Tomasi, pieno di ambiguità, che ricollega la mortalità materna alla negazione dei suoi diritti riproduttivi, ignorando quelle che sono le reali cause del tristissimo fenomeno e che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha da tempo individuato in una serie di fattori strettamente medici (infezioni, emorragie, dinemiche di alta pressione durante la gravidanza) e più generalmente sanitari (carenza o fragilità delle strutture sanitarie, ambiente medico insano, scarsa professionalità medica e paramedica, ecc.). Mettendo al centro del discorso la discriminazione contro le donne e la negazione dei suoi diritti riproduttivi il Consiglio dell’Onu ha indubbiamente portato un ulteriore contributo a quel processo di piena legittimazione mondiale dell’aborto, che ha preso le mosse dagli anni Settanta del secolo scorso e che non ha mai conosciuto da allora battute d’arresto.
1. Denunciare l’unilateralità, le ambiguità e – perché non dirlo ad alta voce? - le ipocrisie di un testo che si avvantaggia dell’alto prestigio dell’Onu è tanto doveroso, quanto arduo: lo dimostrano la scarsa risonanza che esso ha trovato nella nostra stampa (con la felice eccezione di Avvenire) e i maldestri tentativi della Rappresentanza italiana presso il Consiglio ginevrino, che ha insistentemente richiamato l’attenzione sul fatto che nella risoluzione la parola “aborto” non compare mai. Il che è verissimo, ma appartiene a quella particolare categoria di verità, che assume un dato estrinsecamente linguistico come rappresentativo di una realtà empirica e sociale: anche nella legge italiana sull’aborto, la 194 del 1978 la parola “aborto” non compare mai, ma solo la locuzione Interruzione volontaria della gravidanza; né la parola “divorzio” trapela mai nella nostra legislazione, che preferisce parlare di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. Le parole non esistono per salvarci l’anima; siamo piuttosto noi che dobbiamo salvare il linguaggio che utilizziamo, se non per il bene della nostra anima, almeno per quel bene che è (per chi riesce a percepirlo) la nostra onestà intellettuale. 
2. Resta da chiederci perché in documenti internazionali di così indubbia rilevanza si continui a portare avanti una politica filo-abortista, senza volerlo dichiarare esplicitamente. Le ragioni possono essere molte e molto diverse e tra le tante quelle che per lo più vengono ammesse (sia pure a bassa voce) fanno riferimento ad una sorta di pedagogia politica internazionale, che starebbe molto a cuore all’Onu: poiché non tutti gli Stati avrebbero raggiunto quel livello di maturità socio-politica che dovrebbe indurli a riconoscere la definitiva liberazione del genere femminile dalla storica oppressione maschilista, è opportuno che le Nazioni Unite, orientate dagli Stati più illuminati, si muovano con cautela, ma allo stesso tempo con fermezza. Piccoli passi, quindi, ma irreversibili. 
Un simile processo dovrebbe, alla fine, portare al pieno riconoscimento che è diritto esclusivo delle donne decidere se fare figli o no, decidere quando farli; decidere quanti farne e, infine, decidere sempre e comunque unilateralmente se accettare o non accettare la gravidanza,  anche se liberamente voluta e priva di ogni rischio patologico. Se questo è l’obiettivo finale, l’attuale insistenza sulla riproduzione come diritto individuale femminile (lasciando cadere ogni riferimento alla realtà di coppia, per non parlare della realtà coniugale) può avere la massima efficacia se il discorso viene ricondotto al paradigma della cosiddettasalute riproduttiva. Non c’è dubbio, infatti, che il tema della salute sia ormai divenuto l’unico autentico universale del nostro tempo.
3. La rimozione di ogni riferimento esplicito all’aborto non è comunque cosa esclusiva del nostro presente. Chi studi l’aborto in prospettiva antropologica acquista ben presto la consapevolezza del rilievo di alcuni, pochi, punti fondamentali:
a. l’aborto è una pratica universalmente conosciuta in tutte le culture; b. l’aborto è sempre stato ampiamente tollerato, ma nello stesso tempo è sempre stato oggetto di rimozione, di deplorazione o di riprovazione sociale;  c. non è mai esistita, in nessuna cultura, e nemmeno nella nostra che pur lo ha generalmente legalizzato, un’adeguata elaborazione simbolica dell’aborto; d.  non è possibile ricondurre l’aborto – come esperienza universale, ma priva di espressione simbolica − a dinamiche di repressione sociale o sessuale: esso infatti, incidendo sulla generazione, incide sul presupposto stesso di ogni vincolo sociale e di ogni regolamentazione sociale della sessualità. Questo ultimo punto è quello fondamentale: da esso emerge con chiarezza come la contraddizione tra la funzione generativa del sesso femminile e l’interruzione volontaria della gravidanza sia sempre stata evidentemente ritenuta non sanabile (da parte e) nell’inconscio collettivo.
4. Avanzo un’ipotesi. Non si parla esplicitamente di aborto, nel testo dell’Onu, perché è difficilissimo rimuovere il disagio, o per meglio dire, il turbamento che questo tema continua ad attivare nelle coscienze, anche in quelle che ritengono di essere riuscite a superare ideologicamente ogni remora al riguardo. È un fatto che la contraddizione tra la funzione generativa del sesso femminile e l’interruzione volontaria della gravidanza non è di principio sanabile: lo dimostrano le innumerevoli elaborazioni ideologiche dell’aborto stessoche hanno rispettato le dinamiche proprie di tutte le ideologie, in quanto forme di pensiero finalizzate a nascondere le contraddizioni. L’aborto legalizzato è stato giustificato in chiave medica (come aborto terapeutico), in chiave sociologica(come unica modalità per contrastarne l’intollerabile e altrimenti insuperabile clandestinità), in chiave ontologica (negando carattere propriamente personale e addirittura umano alla vita prenatale), in chiave economica (a seguito di situazioni di invincibile indigenza familiare), in chiave giuridica (qualificando la scelta abortiva come scelta di privacy socialmente insindacabile), in chiavecontraccettiva (come tollerabile variante di altre più complesse o più costose forme di contraccezione), in chiave politica (come diritto umano fondamentale delle donne e simbolo della loro sofferta liberazione nei confronti del potere maschile) e last but not least in chiave demografica. Non sarebbe compiuta questa rassegna, però, se si tacesse di alcune opinioni sorte nell’ambito del pensiero femminile più radicale, quello che rifiuta di fornire alcuna giustificazionedell’aborto, perché lo qualifica nel contesto dell’esperienza femminile alla stregua di un momento di libertà e di pienezza, una forma di compiuta auto-affermazione della donna, per la quale non sarebbe inadeguata l’espressione, molto amata da un vituperato filosofo tedesco, di affermazione di sé, diSelbstbehauptung. 
5. Il fatto che nemmeno un simile lavoro ideologico, che ha ormai alcuni decenni alle spalle, sia  riuscito a far uscire l’aborto dalla zona d’ombra che lo caratterizza e a fargli acquisire visibilità simbolica – sono un segno evidente del fatto che la questione aborto non ha trovato nella legalizzazione la sua risoluzione: contrariamente a quanto imprudentemente affermato da molti, la legalizzazione dell’aborto non è riuscita ad imporsi nella coscienza collettiva come una decisione altamente morale − come imprudentemente affermava Italo Calvino negli anni Settanta, ma continua ad apparire alla stregua di una ferita destinata a restare piaga aperta. Merita di riportare le parole dello scrittore: “Solo chi - uomo e donna - è convinto al cento per cento d’avere la possibilità morale e materiale non solo d’allevare un figlio ma d’accoglierlo come una presenza benvenuta e amata, ha il diritto di procreare; se no, deve per prima cosa far tutto il possibile per non concepire e se concepisce (dato che il margine d’imprevedibilità continua a essere alto) abortire non è soltanto una triste necessità, ma una decisione altamente morale da prendere in piena libertà di coscienza” (da una lettera che Calvino scrisse a Claudio Magris tra il 3 e l’8 febbraio 1975, pubblicata postuma su “Liberazione” del 21 febbraio 2008). 
Il vero effetto antropologico della legalizzazione dell’aborto è stato quello di imporre al sesso femminile la riformulazione del senso che possiede la sua specifica generatività biologica. L’uomo (non diversamente dalla donna) può scegliere la sterilità volontaria, ma non può stroncare la vita prenatale, se non attraverso un atto di violenza su di un altro corpo (sul corpo femminile). La donna, con l’aborto volontario, può stroncare la vita prenatale operando sul suo stesso corpo. Legalizzando la maternità come scelta insindacabile (dato che la gravidanza può essere, per volontà della donna, liberamente interrotta) la postmodernità induce la donna a pensare la generatività non più comepossibilità, bensì come potere. Quest’assunzione, che potrebbe in astratto essere pensata come una conquista del sesso femminile, possiede invece ambiguità e ambivalenze profonde, che conduce direttamente alla perdita simbolica del ruolo generativo della donna stessa. 
6. In modo estremamente sintetico: dichiarazioni come quella di Ginevra, che pur muovono dalle buone intenzioni di salvaguardare la salute delle donne, producono alla fin fine come effetto l’erosione interna della stessa identità femminile.Assumere questa consapevolezza è forse il compito meno avvertito, ma indubbiamente più urgente, del nostro tempo.
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