mercoledì 31 ottobre 2012


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Inizia l’era della metabolomica: 
che cosa cambia, dalla diagnosi 
ai farmaci
Fabio Di Todaro
La terza prova, nel giro di qualche anno, potrebbe diventare quella decisiva per la diagnosi di una malattia. Dopo lo studio del Genoma e del proteoma, la nuova era della medicina molecolare sta concentrando tutti i suoi interessi su una nuova disciplina: la metabolomica. 
Ovvero: l’analisi di acidi grassi, nucleotidi, proteine e zuccheri che circolano nell’organismo. In Italia, a tentare il nuovo approccio, sono poco più di 10 laboratori, quasi tutti avviati nel nuovo millennio. Canada, Stati Uniti e Inghilterra, invece, sono decisamente più avanti e hanno già costruito banche dati per consolidare la conoscenza nell’ultimo campo delle scienze cosiddette «omiche». 
L’orizzonte è piuttosto interessante. Perché l’analisi dei metaboliti possa rivelarsi più efficace rispetto allo studio del corredo genetico, è presto chiaro: se l’espressione genica è lo specchio della natura interna di un organismo, le molecole poste alla fine della catena metabolica risentono anche di altri fattori. Innanzitutto l’alimentazione, l’ambiente e lo stile di vita, ma anche il ricorso ai farmaci e l’azione degli ormoni possono alterare il prodotto terminale di una sequenza di reazioni. Ecco perché la metabolomica è considerata particolarmente selettiva negli orientamenti diagnostici.  
Il corpo umano, che celebri studiosi del passato come Morgagni e Golgi ritenevano un insieme di organi utili a comporre la «macchina biologica», è oggi considerato in termini di strutture di cellule e di molecole a strettissimo contatto. Queste ultime, stando ai dati pubblicati sull’«Hmbd» (l’unico database ufficiale del metaboloma umano), sono al momento 7900, anche se si pensa che non tutte siano state ancora catalogate. Sono proprio questi numeri - relativamente bassi - a facilitare l’indagine, rispetto alle 25 mila unità che compongono il Genoma umano e ai 10 milioni di proteine dell’organismo. 
«La metabolomica evidenzia lo sviluppo di una patologia, sulla quale incidono anche varianti epigenetiche - spiega Mauro Picardo, direttore del centro di ricerca integrato sulla metabolomica del San Gallicano di Roma -. Geni, proteine e metaboliti contribuiscono in modo diverso all’indagine: se un polimorfismo è la spia della predisposizione, una proteina alterata segnala l’insorgenza di una possibile malattia. Ma è soltanto dall’alterazione di un metabolita che si può anticipare la diagnosi». 
Due esempi su tutti: elevati livelli di glucosio e colesterolo nel sangue anticipano sempre il diabete e alterazioni a carico del metabolismo degli acidi grassi. «Lo studio dei metaboliti, infatti, è utilizzato per la diagnosi precoce in assenza di sintomi e nei “follow-up” che controllano la progressione della malattia - sostiene Margherita Ruoppolo, docente di biochimica alla facoltà di medicina Federico II di Napoli -. Difetti del metabolismo lipidico, amminoacidopatie e disordini ormonali sono oggi diagnosticabili con lo screening neonatale». 
A differenza del Genoma e del proteoma, però, il metaboloma non è sempre uguale. Sono le sue variazioni a segnalare una possibile malattia. La ricerca, per esempio, sta incrociando i dati per capire se l’alterazione della composizione del sebo può essere il segnale di uno squilibrio sistemico dei lipidi. Oppure: dall’analisi del lipidoma - l’insieme dei lipidi nell’organismo - si è notata una stretta associazione tra disturbi psicotici e obesità, tra numero di acidi grassi insaturi e resistenza all’insulina, tra elevata concentrazione di fosfolipidi e maggiore incidenza del cancro al seno. 
E ancora: la sarcosina (metabolita della glicina) è stata riscontrata nelle indagini condotte su pazienti con un tumore alla prostata, mentre nei topi di laboratorio si è visto come alte concentrazioni di solfato di indossile - un glicoside vegetale - siano correlate a una ridotta funzionalità renale. In attesa di scoprire le future applicazioni, queste associazioni non implicano un nesso causale diretto, ma rappresentano una spia che può predire la malattia e favorire la messa a punto di nuovi percorsi sia preventivi sia terapeutici. 
Le maggiori difficoltà, al momento, riguardano l’estrazione dei metaboliti dai campioni (sangue, siero, urine e anche liquido cefalorachidiano) e le successive analisi, che devono essere condotte attraverso tecniche sofisticate come la spettrometria di massa e la risonanza magnetica nucleare.  
L’evoluzione, comunque, è continua: l’elenco delle discipline interessate alla metabolomica, infatti, sembra non conoscere limiti. Oltre ai risvolti in ambito farmacologico, gli specialisti stanno studiando anche le «correzioni» da portare all’alimentazione: la riduzione o l’integrazione dei metaboliti è legata alla prevenzione di una serie di malattie neurodegenerative e neoplastiche. È questo il compito che, negli ultimi anni, è stato riconosciuto alla nutrigenomica. Ecco perché lo studio dei metaboliti è tenuto in grande considerazione anche dalle industrie agroalimentari. 
«L’obiettivo è partire dalla varietà del corredo genetico per ripristinare le peculiarità dei prodotti ortofrutticoli attraverso un “miglioramento assistito” - chiarisce Roberto Viola, direttore del centro di ricerca della Fondazione Mach -. I consumatori sono sempre più interessati ad acquistare frutta e verdura che abbiano migliori proprietà organolettiche. Per farlo non basta intervenire sui geni, ma si deve agire anche sulle molecole». Ecco un’altra e promettente applicazione della metabolomica.  

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