domenica 28 ottobre 2012


Quanti «diritti inventati» sulle frontiere della vita - Dalle Nazioni Unite all’Italia, prende corpo in leggi, sentenze e documenti l’idea che la persona umana sia ridotta a «cosa» destinata a un uso efficiente  e utile  e non titolare  di relazioni  di giustizia  e di amore di Claudio Sartea, Avvenire, 25 ottobre 2012

Anzitutto un piccolo episodio raccolto in presa diretta: a una recente assemblea affollata un momento inatteso di silenzio è stato squarciato dall’improvviso vagito di un neonato. Tutte le teste si son girate verso la fonte del suono, con un misto di sorpresa, curiosità, aspettativa. Non è certo superficialmente che Hannah Arendt ha attribuito all’essere umano la capacità di novità come caratteristica decisiva per cogliere il fenomeno umano, individuando nella «natalità» ciò che davvero di più nuovo e attraente si verifica nel mondo. A ogni nuovo nato, sano o malato che sia, noi colleghiamo istintivamente un carico di imprevisti, positivi e negativi, che costituiscono il sale della vita e il senso della storia. Non c’è davvero nulla di simile in un nuovo prodotto tecnologico, nemmeno il più straordinario e sofisticato: perché tra pochi mesi sarà superato da altri, imitato, ripetuto, infine abbandonato perché obsoleto o inutilizzabile. L’essere umano no: è fonte potenzialmente continua di novità e sorprese, finché vive come individuo e prosegue come specie. Solo i viventi umani sanno davvero stupire, deludere, inventare, promettere, perdonare...
Anche per queste ottime ragioni da tempo immemorabile la mente umana si è abituata a distinguere tra persone e cose. In base a questa distinzione elementare, ha poi appreso che i diritti si predicano delle persone, così come i doveri: perché sono posizioni e relazioni sociali in cui viene messa in gioco la libertà delle donne e degli uomini, come pretesa o facoltà (diritti), o come obbligo (doveri). Dall’altro lato della netta linea di demarcazione, stanno le cose: sulle quali quei diritti e quei doveri si esercitano.  In tempi piuttosto recenti, si è cominciato a discutere se questa distinzione fondamentale per la nostra civiltà giuridica funzioni ancora bene. Non lo si è fatto a partire dalle teorie ma dalla prassi: in particolare, in ordine al problema del tutto pratico delle gravidanze indesiderate. Quando nel 1975 la Corte Costituzionale italiana (in compagnia di istituzioni legislative e giudiziarie di mezzo mondo), ha affermato che l’embrione e il feto «persona devono ancora diventarlo» si è accreditato al massimo livello istituzionale (e dopo tre anni cristallizzato in legge) un modello che sbaragliava la distinzione consueta. Ci sono persone "in divenire", cioè persone che, contro ogni riscontro scientifico (biologico, fisiologico, genetico), "non sono persone", e dunque che possiamo trattare come cose. La cesura tra persone e cose di fatto cadeva: o meglio, restava in piedi ma rivisitata nei suoi termini di riferimento essenziali.
Le conseguenze di questa crisi sono sotto gli occhi di tutti, e non smettono di aumentare in quantità e gravità. C’è chi già ora non esita a parlare di un (incomprensibile) "diritto di" aborto: e molti altri, che non hanno la medesima spudoratezza (o semplicemente, sconsideratezza), presuppongono l’esistenza di un siffatto "diritto" quando sentenziano a favore del risarcimento del danno da nascita (che ovviamente, a parte la sua palese illogicità, è predicabile solo a partire dall’attribuzione all’aborto del rango di un diritto della gestante, o finanche del concepito: suprema irrazionalità di qualcosa che è ormai impossibile definire "ordinamento giuridico"); o quando dichiarano la prevalenza di una simile facoltà interruttiva di gravidanza nei casi di L conflitto con l’obiezione di coscienza dei professionisti; o ancora quando elevano l’accesso alle possibilità tecniche di riproduzione artificiale al rango di "diritto riproduttivo", in grado di travolgere i vincoli di protezione dei concepiti, nonché le loro legittime aspettative di non manomissione genetica e di famiglia naturale. Si tratta di una evoluzione molto evidente sia nella legislazione e giurisprudenza italiana sia nel contesto europeo e nelle istituzioni Onu operanti in questi ambiti: è insomma un’intera cultura che sta cambiando, e non è chiaro se sia consapevole del regresso.
Forse non è ancora troppo tardi per ricominciare ad applicare la ragione ai meccanismi del diritto: a partire proprio dalla distinzione tra persone e cose, e dall’attribuzione alle persone del protagonismo attivo nel mondo giuridico, e quindi anche dell’adeguata, spesso necessaria, protezione, impedendo con gli strumenti a disposizione delle istituzioni la riduzione a cosa delle persone e ricominciando a promuovere la tutela di ogni essere umano. La moderne forme di schiavitù non nobilitano questa riduzione solo perché gli schiavi sono muti e non possono protestare, o perché, in alcuni casi davvero estremi, sono addirittura consenzienti. La dignità delle persone è da sempre, nella sua dura consistenza obiettiva, il senso profondo del diritto e il suo compito primario. Non cambia né può cambiare il significato profondo della distinzione: le cose chiedono un uso efficiente o utilitario; le persone chiedono relazioni di giustizia, e magari di amore. 

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