lunedì 28 febbraio 2011

Il discorso di Benedetto XVI sull'aborto - Per difendere la comune umanità di Lucetta Scaraffia (©L'Osservatore Romano - 28 febbraio - 1 marzo 2011)

Il discorso di Benedetto XVI ai membri dell'Accademia per la vita non ha la caratteristica di un ragionamento interno - rivolto cioè a una istituzione pontificia i cui membri condividono per definizione il pensiero del Papa - e neppure di una sacrosanta ma generica affermazione del valore della vita in generale, come ideale da coltivare e difendere. È invece un concreto e circostanziato appello rivolto a tutti; in particolare in occidente, dove l'aborto è considerato un diritto e un segno di modernità che dovrebbe garantire la presenza e la libertà delle donne nelle società democratiche.
Il Papa infatti parla soprattutto alle donne, in particolare a quante hanno abortito, e parla di quel disagio tanto spesso celato, di quella sofferenza segreta che costituisce la sindrome post-abortiva. E la riconosce e la interpreta non dal punto di vista psicologico - senza evocare per queste donne sofferenti l'assistenza medica, ridotta magari a qualche antidepressivo - ma con il coraggio di nominare l'innominabile in una società secolarizzata come la nostra: la voce della coscienza. Definita secondo la tradizione cattolica non come un effetto di condizionamenti esterni o emozioni interne come molti preferiscono credere, ma proprio come voce che illumina l'essere umano sul bene e sul male, e quindi prova evidente del legame di ogni creatura con Dio.
Da una parte, una società che vuole fondare il diritto di cittadinanza delle donne sulla cancellazione di un nuovo essere umano; dall'altra, un Papa che ha il coraggio semplice e chiaro di ricordare che dentro ciascuno di noi c'è una voce che parla chiaramente, e che è difficile, anzi impossibile, farla tacere. Anche, se non soprattutto, quando l'aborto viene realizzato per "ragioni mediche", che buone non sono mai se vogliono cancellare la sofferenza cancellando la persona che soffre. E il Papa lo dice con chiarezza proprio nel momento in cui ricorda che solo all'interno della Chiesa le donne che hanno abortito possono trovare il perdono, e quindi la pace interiore.
La voce della coscienza - insiste Benedetto XVI - parla a tutti, non solo ai credenti, ed è una voce insopprimibile, anche se non la si vuole ascoltare perché la legalizzazione dell'aborto è all'origine di profonde modificazioni socio-culturali, identificate positivamente e acriticamente come aspetti di modernizzazione: non solo il posto delle donne nella società, ma anche le rappresentazioni della famiglia, le relazioni fra i generi, le modalità della vita sessuale e dell'affettività.
Ma chi osserva la trasformazione che ha segnato la legalizzazione dell'aborto nelle nostre società con occhio scientifico e onesto - come il sociologo francese Luc Boltanski (La condition fatale. Une sociologie de l'engendrement et de l'avortement, Paris, Gallimard, 2004) e pochissimi altri studiosi, dato il peso ideologico che opprime questo tema - si rende conto che con la legalizzazione dell'aborto viene riaperta la questione dell'appartenenza all'umanità. Questa avrebbe dovuto essere assicurata a tutti, e una volta per tutte, dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948: scritta per impedire che si ripetessero gli orrori del nazismo, sistema che aveva negato a molte persone la dignità di appartenenza al genere umano.
Oggi, invece, siamo di nuovo a discutere sulla possibilità di escludere dei potenziali esseri umani dal diritto di vivere: secondo Boltanski, la situazione attuale somiglia infatti a quella di duemila anni fa, quando venne messo in questione dal cristianesimo nascente il carattere inevitabile e naturale della schiavitù, cioè dell'esistenza di esseri con uno statuto di umanità ineguale.
Si è così riaperta la questione antropologica a proposito dei diritti del feto - considerato un essere incerto sospeso fra esistenza e inesistenza - e questo ci costringe a riconoscere il carattere paradossale e, quindi, eminentemente fragile, della nostra idea di umanità, nella contraddizione che ci vede al tempo stesso esseri perfettamente rimpiazzabili ed esseri assolutamente singolari.
La preconferma da parte di Dio, che istituisce una parentela divina fra gli esseri umani, è l'unica condizione che accetta ogni nuovo concepito, attribuendogli uguale valore. Su questo concetto riposa l'idea, egualitaria, di comune umanità. 
DAL GIURAMENTO DI IPPOCRATE A QUELLO DEGLI IPOCRITI. Il trauma post aborto. Di Cinzia Baccaglini - 28/02/2011 - Aborto - Dopo le parole del papa sulla sindrome post aborto, è opportuno ripubblicare un vecchio articolo sul tema, da http://www.libertaepersona.org

Torino. Valentina, nome dai giornali, tredicenne, viene ‘costretta’ ad abortire. Così la stampa comincia a riverberare nel circuito massmediatico questa situazione.

Poi le altre notizie si accavallano e si confondono. Nel momento in cui scrivo si sa che è figlia adottiva di genitori che si sono poi separati, che ci sono stati interventi degli assistenti sociali e del giudice tutelare per l’aborto. Che il padre del bimbo ha 15 anni e che Valentina sta male. E’ stata ricoverata in psichiatria, poiché ha reagito con un dolore acuto, un vero e proprio scompenso, che ha queste parole: ‘voi mi avete fatta uccidere mio figlio, adesso a me non rimane che uccidere me stessa’. Parole terribili che scuotono dentro, perché dette da una bimba. Se ci fermiamo però a riflettere anche su tutti i commenti fin ad ora fatti non ho letto niente in merito al punto vero della questione: cioè che tutto questo parte da un bimbo concepito che non c’è più, che è stato ucciso sotto l’egida di una legge che lo permette per ‘libera scelta’ e anche su questo avrei qualcosa da ridire, ma anche se lo vuoi tenere e sei troppo piccola per decidere di te.

Chi come me tratta la sindrome post aborto e quella post fecondazione sa che questo dolore è profondo, è una ferita inferta al corpo e al cuore della madre, che ha riverberi spaventosi all’interno della donna ed anche a livello familiare e della stessa società. Non lo dicono i dottrinari senza cuore che difendono la vita dal concepimento alla morte naturale, non lo dicono i cattolici invasati che hanno fatto le battaglie sull’aborto.

Lo dice la scienza, lo dice l’esperienza clinica; un esempio: secondo l' Elliot institute for social sciences research : il 90% di queste donne soffre di danni psichici nella stima di sé; il 50% inizia o aumenta il consumo di bevande alcoliche e/o quello di droga; il 60% è soggetto a idee di suicidio; il 28% ammette di aver persino provato fisicamente a suicidarsi; il 20% soffre gravemente di sintomi del tipo stress post-traumatico; il 50% soffre dello stesso in modo meno grave; il 52% soffre di risentimento e persino di odio verso quelle persone che le hanno spinte a compiere l'aborto.

L’aborto, insieme alla fecondazione artificiale, sono le uniche azioni che io conosca che uccidono più del 100%. Oltre 400 lavori scientifici prodotti dal 1995 ad oggi a livello mondiale si definiscono tre quadri gnoseologici:

1. La psicosi post-aborto, che insorge subito dopo l'aborto, può perdurare per oltre sei mesi ed è un disturbo di natura prevalentemente psichiatrica;

2. Lo stress post-aborto, insorge tra i tre e i sei mesi e rappresenta il disturbo più lieve sinora osservato;

3. La sindrome post-abortiva: un insieme di disturbi che possono insorgere subito dopo l'interruzione come dopo svariati anni in quanto possono rimanere a lungo latenti e nella mia esperienza clinica anche dopo 23 anni. Il rischio aumenta a scadenza dei termini legali, in età adolescenziale (e qui bisognerebbe fare una sana riflessione su ciò che significa dare il Norlevo alle adolescenti), in età pre-climaterica quando si fa un bilancio della propria attività sessuale e del poco tempo riproduttivo rimasto, dopo un lutto, dopo un'infertilità precedente (pensate alle mamme della fecondazione artificiale), al termine di una relazione affettiva, legata ad ambivalenza decisionale (pensate a quanto questo bimbo diventa sempre più importante se c'era o non c'era fino a diventare persecutorio nel dilemma della Norlevo), in condizione di isolamento affettivo. Bisogna anche dire che la sindrome post-abortiva non concerne esclusivamente la mamma che ha abortito. Si perché è facile dire anche a livello comune che l’aborto è un dramma, che è un trauma, ma il motivo non lo si dice mai: è così perché ci scappa il morto ammazzato, il bimbo che non ha chiesto di venire al mondo al quale non è data la possibilità di venire alla luce. Ma se non posso chiedere questa consapevolezza a una tredicenne, che peraltro sembra avesse, e come la posso chiedere agli adulti, la posso chiedere agli operatori sociali, la voglio chiedere a quei medici ed infermieri che in sala operatoria sanno quello che fanno e chi, non che cosa, uccidono.

 La consapevolezza la voglio chiedere in particolare a loro che portano il camice bianco e come dentro una divisa vi si nascondono, e usano strumenti sterili nelle sale operatorie. Non c’è strumento sterile che tenga al dolore inferto da quella mano armata, anche se sotto anestesia! ... ma il bambino non è sotto anestesia e soffre terribilmente, come dimostra il filmato ‘Il grido silenzioso e come sostengono studiosi italiani ed americani. E allora basta nascondersi dietro al fatto che è un servizio fatto alla donna, in nome della legalità o della libertà di scelta? Si può avere da dire sulle leggi delle tasse, perché ingiuste e quelle che toccano la vita indifesa devono essere osannate anche se intrinsecamente gravemente ingiuste? Non voglio minimamente giudicare le donne che abortiscono, non sta a me il giudizio sulla persona, so quante volte sono costrette, anche se non così platealmente come Valentina, ma per solitudine, motivi economici e familiari, ma non posso non giudicare i fatti e li abbiamo sotto gli occhi. So però che sono stanca di raccogliere i cocci a valle, vorrei che una cultura per la vita nascente fosse la normalità, perché non ci sarà mai pace, non finirà mai la violenza se una donna può uccidere il suo piccolo bimbo in grembo.

E risuonano in me le parole di Romano Guardini del lontano 1949 (Il diritto alla vita prima della nascita. Ed Morcelliana 2005 pagg 37-38): “Come esiste una logica della scienza, esiste pure una LOGICA DELLA VITA. La prima è evidente, quando dice per esempio che una pietra attirata dalla forza di gravità al centro della terra non può muoversi verso l’alto. L’altra è più difficile da capire, ma altrettanto inesorabile come la prima: dichiara che azioni eticamente sbagliate, anche se appaiono utili, alla fine conducono alla rovina. Mentire può recare vantaggio una, dieci, cento volte; alla fine stronca ciò su cui poggia la vita: nella propria interiorità il rispetto di se stessi, nel rapporto con gli altri la fiducia; è un danno senza rimedio. Questa conseguenza è inesorabile al pari della legge di gravità.


 Una tale logica funziona pure nel caso nostro. Nell’uomo c’è qualcosa che, per sua stessa essenza, non può venire violato: L’ELEVATEZZA DELLA PERSONA VIVENTE. Possono addursi importanti ragioni per fare questo, e tali ragioni possono anzi divenire così urgenti che chi vi resista può sembrare un dottrinario senza cuore. Eppure, cedere qui è la distruzione finale-la distruzione precisamente di ciò che dovrebbe venire salvato. Ci si appella al diritto di intervento in nome della libertà e della possibilità per la vita di svolgersi: dal bilancio finale risulterà che la vita è in balia dell’egoismo del singolo e degli scopi dello Stato. E sarebbe veramente tempo che imparassimo a vedere quali siano le conseguenze. Abbiamo pur sperimentato che cosa vuol dire accondiscendere prima a una cosa, poi ad un’altra e poi ad una terza, asserendo ogni volta che non si poteva fare diversamente, cercando ogni volta di persuadere se stessi che il peggio non sarebbe venuto- finchè il peggio ce lo trovammo davanti… Ogni violazione della persona, specialmente quando s’effettua sotto l’egida della legge, prepara lo Stato totalitario. Rifiutare questo e approvare quella non denota chiarezza di pensiero né coscienza morale vigile”. Dott.ssa Cinzia Baccaglini Presidente del Movimento per la Vita di Ravenna.
CON LE STAMINALI DEL CORDONE OMBELICALE NUOVE SPERANZE PER IL DIABETE di Paolo De Lillo*

ROMA, domenica, 27 febbraio 2011 (ZENIT.org).- La possibilità del trapianto autologo con cellule staminali del cordone ombelicale ha trovato un'applicazione, soprattutto immunomodulatrice, anche nel trattamento del diabete tipo 1, patologia che colpisce una persona ogni 200 e che risulta in continuo aumento1. Questa malattia autoimmune comporta la distruzione delle cellule beta, che producono insulina da parte dei linfociti T. L'insulino-deficienza, che ne deriva, comporta la dipendenza dalla somministrazione di forme esogene di insulina per tutta la vita.
Nonostante tutti i progressi scientifici, che hanno portato questa patologia a diventare più di frequente una malattia cronica e non sempre direttamente letale, come in passato, la sua incidenza continua ad essere estremamente alta.
Nel lungo termine, inoltre, permangono gravissime le conseguenze per il sistema nervoso, per i grandi vasi sanguini e, soprattutto, per il microcircolo, con danni alla retina, al rene, alle coronarie, come ai vasi cerebrali, o con il “piede diabetico”. Fra le nuove strategie per il trattamento di malattie autoimmuni come questa, già nel recente passato si è fatto strada anche l'utilizzo autologo del sangue cordonale; questo risulta possibile data la potenzialità delle cellule staminali del cordone di differenziarsi in tessuti non solo ematologici, ma anche di diversa natura. In questa direzione si muove lo studio pilota, condotto dal gruppo del dottor  J. Michael Haller2 del Dipartimento di Pediatria della University of Florida di Gainesville, iniziato alla fine del 2005.
Le ipotesi che sono all'origine di questo studio si basano sulla possibilità che il trapianto autologo di cellule staminali derivanti dal cordone ombelicale possa attenuare il processo autoimmune all'origine della patologia, seguendo diversi meccanismi: le cellule staminali migrano nel pancreas danneggiato, dove possono differenziarsi in cellule beta che producono insulina; possono agire per fare aumentare la proliferazione delle isole pancreatiche da parte del tessuto sano; alcune cellule del cordone ombelicale sono in grado di mediare il recupero della immuno-tolleranza. Infatti si era notata durante la gravidanza la capacità delle cellule cordonali di evitare il rigetto GVHD da parte della madre contro la placenta e gli altri tessuti embrionali.
Nel giugno del 2007 sono stati presentati i dati preliminari riferiti a otto pazienti sei mesi dopo l'infusione di sangue cordonale autologo per il trattamento del diabete di tipo 1; questi hanno descritto risultati molto incoraggianti, come la mancanza di significativi eventi avversi associati a questo studio e i benefici ottenuti in seguito al trattamento collegati ad una maggiore immuno-tolleranza. In questo studio, ad oggi, i soggetti sottoposti ad infusione di cellule staminali cordonali per uso autologo sono quindici. Nonostante gli interessanti esiti parziali di questo trial clinico, ulteriori dati e conclusione sono stati pubblicati in seguito3.
Secondo il Dr. Haller e i suoi collaboratori, il sangue del cordone ombelicale può preservare senza rischi la produzione di insulina nei bambini a cui è stato diagnosticato da poco tempo il diabete tipo 1: è il risultato di un piccolo studio pilota presentato alla 67ª Sessione Scientifica della American Diabetes Association a Chicago.
I ricercatori della University of Florida hanno cercato di determinare se sia fattibile usare le cellule staminali isolate dal sangue del cordone ombelicale del paziente per neutralizzare l’attacco autoimmune al pancreas e per aiutare l’organismo a ripristinare l’abilità di produrre insulina, ormone che regola l’impiego degli zuccheri e di altre sostanze nutrienti con cui il corpo produce energia.
“Questo è il primo tentativo di usare il sangue del cordone ombelicale come potenziale terapia per il diabete tipo 1. Speriamo che queste cellule possano ridurre l’attacco del sistema immunitario al pancreas o possibilmente introdurre cellule staminali, che riescano a differenziarsi in cellule produttrici di insulina”, ha detto il Dr. Haller.
“Benché questo sia uno studio relativamente piccolo, possiamo affermare con certezza la sua attendibilità: abbiamo osservato cambiamenti metabolici ed immunologici, che suggeriscono la possibilità di trarre benefici”, ha aggiunto il pediatra americano. “Non è una cura per il diabete, ma è il primo passo per aiutarci ad imparare e a muoverci nella giusta direzione”.
I ricercatori hanno avuto l’idea per questo studio in parte grazie al padre di un paziente, il quale aveva letto che alcuni scienziati erano stati in grado di curare il diabete nei topi, prendendo il midollo osseo da un animale ed iniettandolo nei suoi fratelli, senza usare chemioterapia o radioterapia. E nel laboratorio gli scienziati erano riusciti a far produrre insulina alle cellule staminali isolate dal sangue del cordone ombelicale. Quest’uomo ha chiesto ai ricercatori della UF (University of Florida) se l’iniezione ad un paziente del sangue isolato dal proprio cordone ombelicale avrebbe potuto avere un simile effetto positivo.
“Abbiamo pensato che fosse una domanda molto ragionevole e che sarebbe stato un approccio sicuro finché non si fosse usata la chemioterapia, la radioterapia o manipolato le cellule. Poiché ci sono molte più persone là fuori che depositano il sangue del cordone ombelicale rispetto a 5 anni fa, abbiamo avuto la sensazione che questo approccio sarebbe diventato sempre più allettante”.
Dieci anni fa meno dell’1% degli americani depositava il sangue del cordone ombelicale; oggi questa cifra è cresciuta fino al 4% circa e sta aumentando, dice Haller. Il sangue del cordone ombelicale è ricco di cellule che aiutano la regolazione del sistema immunitario, ma finora è stato tipicamente usato per risanare il sistema immunitario in pazienti che erano stati sottoposti a trattamenti per la leucemia o per il linfoma.
I ricercatori della UF hanno identificato i bambini a cui è stato recentemente diagnosticato il diabete tipo 1 le cui famiglie avevano depositato il sangue del loro cordone ombelicale alla nascita. La maggior parte produceva ancora una piccola parte di insulina. A 7 pazienti di età compresa fra i 2 e i 7 anni sono state fatte delle iniezioni endovenose di cellule staminali isolate dal sangue del loro cordone ombelicale (da allora i ricercatori hanno trattato altri 4 bambini). Nei successivi due anni è stata misurata la quantità di insulina che i pazienti producevano da sé e sono stati accertati i livelli di glicemia e il funzionamento dei linfociti T.
Nei primi 6 mesi i bambini avevano bisogno di una quantità significativamente minore di insulina – in media 0.45 contro le 0.69 unità di insulina per chilogrammo al giorno - e mantenevano un migliore controllo dei livelli di glicemia rispetto ai loro coetanei affetti da diabete tipo 1 scelti casualmente tra la popolazione. I ricercatori hanno anche notato che i bambini che erano stati sottoposti alle iniezioni avevano livelli più alti di linfociti T nel sangue sei mesi dopo l’iniezione, in media il 9% del volume totale di cellule rispetto al 7.21% al momento dell’iniezione.
“Questa non è una panacea. Pensiamo che somministrare queste cellule sia essenziale per fornire una immunoterapia e diminuire l’autoimmunità di questi pazienti”, dice Haller.
“Realisticamente speriamo di proteggere ciò che è rimasto della loro produzione di insulina per un vasto periodo di tempo. Pensiamo che l’ipotesi della regolazione immunitaria sia più verosimile rispetto all’ipotesi in base, alla quale le cellule staminali possano formare insulina producendo cellule da sé”.
L’idea sarebbe intervenire e riparare ogni danno iniziale durante il periodo “luna di miele” gradito da molti pazienti – periodo che può durare diversi mesi dopo la diagnosi, durante il quale il bisogno di insulina è minimo, aggiunge.
“L’idea del nostro gruppo è che non saremo in grado di curare il diabete senza un approccio di terapia combinata”, sottolinea Haller. “È ingenuo pensare che con un solo agente troveremo una cura definitiva per una malattia molto complicata come il diabete tipo 1. Probabilmente dovremo agire usando diverse medicine, per attaccare i vari aspetti della malattia. Curare il diabete potrebbe richiedere un approccio simile a quello usato per il trattamento di AIDS o cancro. La cura di pazienti affetti da queste complesse malattie non è migliorata notevolmente, finché non sono state somministrate terapie combinate. Sospetto che sarà lo stesso con il diabete”.
Lo studio è finanziato dalla Juvenile Diabetes Research Foundation e dal National Institutes of Health, con il supporto del UF’s Clinical Research Center. Il prossimo progetto dei ricercatori della UF è quello di reclutare un massimo di 23 pazienti che verranno sottoposti ad iniezioni di sangue del cordone ombelicale. Cercheranno anche di migliorare i piccoli vantaggi metabolici ed immunologici che hanno notato finora, possibilmente testando l’aggiunta di una delle molte medicine usate attualmente in altri esperimenti sul diabete tipo 1.
“Abbiamo bisogno di decidere quale agente funzionerà bene se combinato con il sangue del cordone ombelicale”, spiega Haller. Al momento non stiamo manipolando le cellule. Stiamo semplicemente iniettando il sangue del cordone ombelicale. Oltre all’aggiunta di altre medicine, potremmo aver bisogno di verificare la possibilità di prendere le cellule T dal sangue del cordone ombelicale e manipolarle senza rischi per migliorare le nostre scoperte”.
L’applicazione di sangue del cordone ombelicale umano nel trattamento del diabete tipo 1 è di estrema importanza, dice Colin P.McGuckin, professore di medicina rigenerativa alla Britain’s University of Newcastle presso la Tyne Medical School.
“Il lavoro condotto presso la University of Florida è stato il primo a mostrare che il sangue del cordone ombelicale contiene cellule che possono placare l’attacco del sistema immunitario al pancreas dei pazienti”, dice McGuckin. “Sappiamo che il sangue del cordone ombelicale contiene cellule molto specializzate il cui compito è evitare il rigetto della placenta del bambino alla madre durante la gravidanza, e queste sono probabilmente le uniche utili per il trattamento del diabete tipo 1. Con il nostro lavoro, che mostra come le cellule beta produttrici di insulina possano essere formate usando il sangue del cordone ombelicale, siamo sulla strada giusta per aiutare pazienti diabetici in futuro. Il primo passo, tuttavia, deve essere frenare l’attacco del sistema immunitario, ed è per questo che lo studio a Gainesville è così importante4 .
Il numero di Marzo 2005 della rivista  Diabetes  ha pubblicato un importante articolo su
una strada più “tradizionale” per la lotta contro il diabete. Essa utilizza sempre le staminali cordonali, ed è stata ideata dal Diabetes Research Istitute di Hollywood in Florida. I suoi ricercatori hanno cercato di indirizzare la differenziazione di queste staminali immature verso le cellule beta produttrici di insulina delle isole di Langherans. Ad esse sono stati forniti gli stessi segnali ricevuti dal pancreas durante il normale sviluppo embrionale. Gli scienziati dell'Università della Florida di Miami sono riusciti ad inserire questi messaggi critici nella cellula tramite la “terapia della proteina”, una nuova tecnica in rapida evoluzione, che è stata sviluppata per fornire peptidi e proteine all'interno di tessuti e cellule. Questi segnali sono stati inviati in una sequenza tale da indurre la trasformazione delle staminali cordonali trapiantate in cellule insulari.
Lungo questo percorso sono stati premuti in sequenza una serie di “interruttori”, che attivano geni necessari per sviluppare le cellule beta produttrici di insulina, come: 1) Pdx1, che attiva il primo programma del pancreas, 2) Neurogenina 3 , la cui espressione trasforma  le staminali del pancreas in cellule endocrine, 3) Pax4, Isl1 e Nkx6.1, geni coinvolti nella caratterizzazione delle cellule beta.          
Il processo di trasformazione delle staminali è stato, in parte, reso possibile da una innovazione DRI, chiamata il “sandwich d'ossigeno”. Il loro sviluppo richiede una grande quantità di ossigeno per crescere, cosa che non poteva accadere nelle normali colture di Petri. Come alternativa, gli scienziati DRI hanno sviluppato un dispositivo a sandwich, che fa moltiplicare le staminali tra due fonti d' ossigeno, sia dall'alto tramite il mezzo di cultura, sia dal basso attraverso una membrana di silicone, che incorpora un legante di ossigeno. Ciò può portare alla rapida produzione di una scorta quasi illimitata di cellule delle isole di Langherans 5.
1 Department of Pediatrics – University of Florida – www.peds ufl.edu
2 Il Dr. J. Michael Haller è attualmente assistente alla cattedra di Pediatria presso l'Università della Florida. Dopo aver completato i suoi studi universitari presso la Duke University, è tornato al suo luogo di nascita, Gainesville, in Florida, dove ha completato la scuola di specializzazione medica in pediatria e la formazione in endocrinologia pediatrica. Il Dr. Haller ha iniziato a lavorare in ricerca sul diabete di tipo 1 durante il suo primo anno di scuola medica e da allora ha indirizzato la sua carriera accademica nello sviluppo di terapie sicure ed efficaci per la prevenzione e la cura del diabete di tipo 1. Ha pubblicato più di 30 ricerche e capitoli di libri in materia di diabete di tipo 1. E' un ricercatore attivo nel TrialNet Diabete di tipo 1 finanziato dal NIH, lavora come principal investigator  (PI) dell'Università della Florida per gli studi anti-CD20 e ha la carica di presidente del Comitato di studio di Implementazione Clinica dei Determinanti Ambientali del Diabete Giovanile (TEDDY). E' anche il PI di un nuovo studio che consente l' utilizzazione delle cellule staminali autologhe del sangue del cordone ombelicale  come potenziale terapia per il diabete tipo 1. In questo studio, i bambini con recente diabete di tipo 1 ricevono un'infusione di un quarto delle  cellule staminale del proprio sangue del cordone ombelicale, al fine di determinare se queste cellule siano in grado di fornire  una immunomodulazione sicura e significativa, che possa tutelare le rimanenti cellule beta. Haller è inoltre il PI di uno studio pilota che mira a determinare il potenziale del fattore stimolante le colonie di granulociti (GCSF), per aumentare la distruzione autoimmune delle isole nei pazienti con recente insorgenza di diabete tipo I. Gli studi hanno già dimostrato che GCSF può prevenire il diabete in modelli animali e questi risultati sono ora in fase di sperimentazione sugli esseri umani. Al Dr. Haller sono stati assegnati il premio Lawson Wilkins Clinical Scholar, un assegno per ricerche innovative JDRF, due premi NIH R21, e un JDRF Early Career Clinical Oriented award, per sostenere il suo lavoro di ricerca di terapie  combinate, in via di sviluppo per il diabete di tipo 1. Nel 2008, il Dr. Haller e i suoi colleghi Desmond Schatz e Mark Atkinson hanno ricevuto il più alto riconoscimento per la ricerca clinica JDRF, la Mary Tyler Moore e Robert S. Levine Excellence Award , per il loro approccio di gruppo allo sviluppo di terapie per il diabete di tipo I.
3 Il Giornale - 28/09/2010
4 Medical News Today – University of Florida - 16/07/2007
5 Diabetes Research Istitute – www.diabetesresearch.org - 2010

* Paolo De Lillo è dottore in Farmacia.
PAPA/ Così anche anche la scienza dimostra che l'aborto uccide la famiglia, INT. Carlo Bellieni, lunedì 28 febbraio 2011, il sussidiario.net

L’aborto, libera scelta e aiuto alla salute femminile? E’ il “mantra” della società postmoderna, la parola d’ordine che risuona nella maggior parte dei media: obbligatoria e indiscutibile. E’ il “mantra” di una società occidentale che alle donne non dà alternative, che non fa prevenzione, che non aiuta economicamente, ma che deve far osannare l’unica scelta che propone (impone) alle ragazze e alle donne che aspettano un figlio ed hanno problemi. E sarebbe libertà? E avete mai provato a controllare cosa dice la scienza sulle conseguenze dell’aborto sulla mente della donna?

Il Papa ha seguito questo ragionamento il 26 febbraio, a conclusione dell’Assemblea annuale della Pontificia Accademia Pro Vita, che ha trattato di questo argomento, spiegando che “l’aborto non risolve nulla, ma uccide il bambino, distrugge la donna e acceca la coscienza del padre del bambino, rovinando, spesso, la vita famigliare”, e parlando diffusamente del trauma da aborto cui soggiacciono tante donne, che la Chiesa vuole abbracciare e non abbandonare.

Questo non farà piacere agli araldi dell’egoismo postmoderno, che sanno solo indicare “come fuggire” dai problemi gravi, e non vogliono riconoscere che vari studi mostrano che l'aborto comporta dei seri rischi per la salute psicologica femminile, proprio quella che a parole vorrebbero difendere. In primo luogo, abortire non è un bel segno di serenità mentale: le donne che abortiscono più volte hanno avuto più esperienze negative, in età infantile, delle altre, secondo uno studio pubblicato in febbraio sull’American Journal of Obstetrics and Gynecology. E sarebbe libertà?

Ma provoca anche conseguenze, abortire? Sullo stesso giornale nell’agosto 2009, veniva mostrato stress postraumatico e depressione nel 40% e 28% delle donne dopo 4 mesi, che si dimezzavano dopo 16 mesi, ma solo poche mostravano segni di dispiacere, indice del fatto  che non si trattasse di un generico senso di colpa o magari della difficoltà ad ammetterlo, ma di segni psichiatrici gravi. Simili valori di depressione postaborto sono mostrati nel giugno 2010 da un’équipe Turca; il che, non considerando una popolazione cattolica, ha mostrato come infondata l’idea che le conseguenze mentali siano dovute al supposto “senso di colpa cattolico”.

Sugli Archives of Women Mental Health dell’agosto 2009, gli studiosi hanno messo a confronto donne che hanno abortito, con donne che hanno dato alla luce un bambino prematuramente (con tutti i rischi conseguenti) e donne che hanno partorito normalmente: i tassi di disturbi psichiatrici nei 3 gruppi sono rispettivamente del  22% (aborto), 18% (prematuri) e del 6% (normali).

Un recente studio danese è stato pubblicizzato per aver mostrato che abortire fa andare meno dallo psichiatra che partorire. Ma vi invito a leggere lo studio per vedere quante contraddizioni metodologiche contenga e come, alla fine, non possa non riconoscere che anche in quel gruppo di donne c’è un aumento dei disturbi della personalità di 1,5 volte dopo aver abortito.

E tutto questo sarebbe “terapeutico”? Certo non è terapeutico per il bambino che viene ucciso, e questi rischi non mostrano alcun effetto curativo per la donna. Sul fatto poi che certi medici indichino alle donne incerte l’aborto come “terapia”, anche questa non è un’invenzione del Papa: basta leggere cosa scriveva nel 1996 il prof Maroteaux, sugli aborti fatti per la previsione che il bambino sarebbe stato di bassa statura, su Archives de Pédiatrie. Parole forti, scritte da chi ha dedicato tutta la vita a curare il nanismo e ora vede che tutti i futuri “nani” non vengono lasciati nascere, sono indesiderabili, hanno perso, come scrive, “diritto di cittadinanza”.


Le conseguenze poi dell’aborto sugli altri figli della donna sono state ben spiegate dallo psichiatra francese Benoit Bayle, che parla di sindrome del sopravvissuto, con sensi di colpa e di onnipotenza in chi si rende conto che un suo fratello è stato ucciso prima di nascere, forse “per far nascere lui”. Insomma, anche in questo caso il Papa ha visto oltre quello che vogliono vedere gli altri e per questo sarà attaccato da chi si fida più della propria ideologia (in barba alle donne) che dei dati scientifici.
© Riproduzione riservata.
"L'aborto non risolve nulla e distrugge la donna" di Massimo Introvigne, 28-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Il 26 febbraio Benedetto XVI ha ricevuto i partecipanti all’Assemblea annuale della Pontificia Accademia per la Vita. Pur senza far mancare un cenno alla tematica, anch'essa affrontata nell'assemblea, della conservazione e dell'utilizzo delle cellule staminali provenienti dal cordone ombelicale - di cui riferiamo a parte - il discorso si è concentrato sulla sindrome post-abortiva, definita dal Pontefice come «il grave disagio psichico sperimentato frequentemente dalle donne che hanno fatto ricorso all’aborto volontario».

Questa sindrome, ha affermato Benedetto XVI, «rivela la voce insopprimibile della coscienza morale, e la ferita gravissima che essa subisce ogniqualvolta l’azione umana tradisce l’innata vocazione al bene dell’essere umano, che essa testimonia». Certo, si dovrebbe parlare anche della «coscienza, talvolta offuscata, dei padri dei bambini, che spesso lasciano sole le donne incinte». Ma la sindrome  colpisce comunque, e dolorosamente, le donne.

Il fenomeno della sindrome post-abortiva smentisce clamorosamente quanti cercano di negare il ruolo della coscienza. «La coscienza morale - insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica - è quel "giudizio della ragione, mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto" (n. 1778). È infatti compito della coscienza morale discernere il bene dal male nelle diverse situazioni dell’esistenza, affinché, sulla base di questo giudizio, l’essere umano possa liberamente orientarsi al bene. A quanti vorrebbero negare l’esistenza della coscienza morale nell’uomo, riducendo la sua voce al risultato di condizionamenti esterni o ad un fenomeno puramente emotivo, è importante ribadire che la qualità morale dell’agire umano non è un valore estrinseco oppure opzionale e non è neppure una prerogativa dei cristiani o dei credenti, ma accomuna ogni essere umano. Nella coscienza morale Dio parla a ciascuno e invita a difendere la vita umana in ogni momento. In questo legame personale con il Creatore sta la dignità profonda della coscienza morale e la ragione della sua inviolabilità».

Si può tentare d'ignorare la voce della coscienza. Ma fenomeni come la sindrome post-abortiva mostrano come essa torni sempre ad affiorare. «Nella coscienza - ricorda il Papa - l’uomo tutto intero - intelligenza, emotività, volontà - realizza la propria vocazione al bene, cosicché la scelta del bene o del male nelle situazioni concrete dell’esistenza finisce per segnare profondamente la persona umana in ogni espressione del suo essere. Tutto l’uomo, infatti, rimane ferito quando il suo agire si svolge contrariamente al dettame della propria coscienza».

La sindrome post-abortiva non è un semplice fenomeno psicologico. In essa si manifesta infatti la voce stessa di Dio: «Anche quando l’uomo rifiuta la verità e il bene che il Creatore gli propone, Dio non lo abbandona, ma, proprio attraverso la voce della coscienza, continua a cercarlo e a parlargli, affinché riconosca l’errore e si apra alla Misericordia divina, capace di sanare qualsiasi ferita».

E tuttavia la sindrome post-abortiva va prevenuta, evitando l'aborto, e gli studi su questa sindrome richiamano il grave dovere di dire la verità alle donne tentate di abortire, senza prospettare loro l'aborto in modo banalizzante come una scelta facile e priva di conseguenze. «I medici, in particolare - ha detto il Papa -, non possono venire meno al grave compito di difendere dall’inganno la coscienza di molte donne che pensano di trovare nell’aborto la soluzione a difficoltà familiari, economiche, sociali, o a problemi di salute del loro bambino. Specialmente in quest’ultima situazione, la donna viene spesso convinta, a volte dagli stessi medici, che l’aborto rappresenta non solo una scelta moralmente lecita, ma persino un doveroso atto "terapeutico" per evitare sofferenze al bambino e alla sua famiglia, e un "ingiusto" peso alla società. Su uno sfondo culturale caratterizzato dall’eclissi del senso della vita, in cui si è molto attenuata la comune percezione della gravità morale dell’aborto e di altre forme di attentati contro la vita umana, si richiede ai medici una speciale fortezza per continuare ad affermare che l’aborto non risolve nulla, ma uccide il bambino, distrugge la donna e acceca la coscienza del padre del bambino, rovinando, spesso, la vita famigliare».

Ma il compito di evitare l'aborto e le sue conseguenze non può essere affidato solo ai medici. Al contrario, «è necessario che la società tutta si ponga a difesa del diritto alla vita del concepito e del vero bene della donna, che mai, in nessuna circostanza, potrà trovare realizzazione nella scelta dell’aborto».

Quando poi la sindrome post-abortiva si manifesta, una volta che la scelta sempre sbagliata dell'aborto è stata fatta, sarà importante «non far mancare gli aiuti necessari alle donne che, avendo purtroppo già fatto ricorso all’aborto, ne stanno ora sperimentando tutto il dramma morale ed esistenziale». Benedetto XVI ha voluto ricordare «a tale proposito l’invito rivolto dal Venerabile Giovanni Paolo II [1920-2005] alle donne che hanno fatto ricorso all’aborto: "La Chiesa sa quanti condizionamenti possono aver influito sulla vostra decisione, e non dubita che in molti casi s’è trattato d’una decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro animo non s’è ancor rimarginata. In realtà, quanto è avvenuto è stato e rimane profondamente ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piuttosto, ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se ancora non l’avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: il Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione. Allo stesso Padre e alla sua misericordia potete affidare con speranza il vostro bambino. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita" (Enc. Evangelium vitae, 99)».
Staminali dal cordone: il Papa fa scienza di Carlo Bellieni, 28-02-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

Un Papa che mette in dubbio quello che viene strombazzato dalla pubblicità è un Papa coraggioso: non solo nel discorso alla Pontificia Accademia pro Vita del 26 febbraio si oppone alla burrasca morale dell’aborto, ed è l’unico al mondo che vuole che ci si curi integralmente delle donne, senza abbandonarle con le spalle al muro quando sono nei guai e dar loro solo l’opzione di uccidere il figlio come unica scappatoia, spesso causa di danni psichiatrici.

Ma alza anche la voce per difendere la giustizia, cioè l’accesso di tutti all’utile sangue preso dal cordone ombelicale (SdCO) del bambino, ricco di cellule staminali; e spiega da scienziato, che tenerlo per sé è forse una futuribile speranza, ma allo stato attuale non mostra nessun vantaggio e una pallida utilità. Mentre vanno favorite e incrementate le raccolte pubbliche, per far arrivare questo materiale a tutti, ricchi e poveri.

Sarà aggredito dal pregiudizio, che vuole l’egoismo come unico metro di scelta, dal guadagno o dalle urla di chi pensa che se una cosa si può fare è per forza utile. Il Papa ciononostante inneggia all’altruismo, alla giustizia; e alla scienza. Già: perché tutte le società scientifiche mondiali (a differenza da quanto compare su tanti giornali italiani) sconsigliano la conservazione “per se stessi” del sangue preso dal cordone ombelicale, o ne mostrano la scarsa utilità: non ci si può curare con le proprie cellule che evidentemente saranno già malate alla nascita se uno ha una malattia genetica.


L'American College of Obstetricians and Gynecologists afferma che le possibilità di usare il proprio sangue vengono calcolate approssimativamente in 1 caso su 2.700, e la Società Americana per il trapianto del Midollo Osseo alla domanda "Posso conservare il SdCO per il mio bimbo?" pubblicata nel suo sito web risponde: "Certo, ma la possibilità di usare il proprio SdCO è molto bassa. Molti pazienti che necessitano trapianto di SdCO hanno bisogno di cellule da un donatore, non le proprie che possono contenere le stesse cellule che hanno prodotto la malattia. Spesso i fratelli e le sorelle sono i migliori donatori. D'altronde nei registri pubblici si possono trovare donatori compatibili".

Su basi simili si esprime il recente rapporto della senatrice Hermange a nome della Commissione Affari Sociali del Senato Francese e l'American Academy of Pediatrics spiega: "La donazione di SdCO dovrebbe essere scoraggiata quando diretta ad uso personale o familiare per la possibilità che nel sangue stesso ci siano cellule che causano la patologia che si vuole curare". "La donazione al pubblico deve essere incoraggiata" e al momento "la conservazione privata come assicurazione biologica deve essere scoraggiata".


Anche un recente articolo del Comitato di Medicina materno-fetale dei Ginecologi Canadesi riporta che "la donazione altruistica di sangue di cordone ombelicale per un uso pubblico deve essere incoraggiata", ma "la conservazione per donazione autologa non è raccomandata date le limitate indicazioni e mancanza di evidenza scientifica per supportare detta pratica"; e il Comitato Nazionale di Etica francese (CCNE), nel 2002 riportava che "la conservazione di SdCO per il bimbo stesso sembra una destinazione solitaria e restrittiva rispetto alla pratica solidale del dono. Si tratta di una capitalizzazione biologica preventiva, di un'assicurazione biologica di cui l'utilità effettiva appare ben modesta. La posizione del CCNE non è di considerarla moralmente condannabile in sé. Potrebbe essere proposta, in via eccezionale e non sistematica, in caso di gruppo HLA raro conosciuto".

Il commento, infine, del Groupe européen d'éthique des sciences et des nouvelles technologies, un Comitato di Bioetica della Unione Europea, conclude che "Bisogna interrogarsi sulla legittimità delle banche commerciali del SdCO a uso autologo, nella misura in cui offrano un servizio che, ad oggi, non presenta alcuna utilità reale in termini di possibilità terapeutiche". Il documento caldeggia inoltre che la pubblicità delle stesse banche debba chiaramente offrire informazioni sulle scarse possibilità per motivi clinici di usufruire del sangue conservato. E' un documento che merita, almeno nelle sue conclusioni, di essere letto integralmente.

La Società Americana per la Donazione del Midollo Osseo, così riassume (febbraio 2008):

1. La donazione pubblica di SdCO deve essere incoraggiata

2. La probabilità di usare il proprio SdCO è molto piccola - difficile da quantificare ma probabilmente tra lo 0.04% (1:2500) e lo 0.0005% (1:200,000) nei primi 20 anni di vita, e perciò non deve essere raccomandata.

3. La raccolta per un membro della famiglia è raccomandata quando ci sia un fratello con una malattia che può essere trattata con successo con trapianto allogenico.


Tanti dati, tutti univoci e chiari; e il Papa da qui parte.

Insomma, il Papa incoraggia all’altruismo, mostra i limiti di una mentalità che per paura tende a tenere “tutto per sé”, e ha dalla sua parte tutta la comunità scientifica. Dall’altra parte, dalla parte opposta alla scienza, staranno i soliti giornali, i VIP ricchissimi e i soliti politici nostrani, pronti a parlare senza sapere. Ma gli conviene?

domenica 27 febbraio 2011

Domenica 27 febbraio 2011 - Il Papa ha capito che nelle "banche della vita" c'è un bel po' di egoismo. Dubbi anche dalla comunità scientifica di Carlo Bellieni © Copyright L'Occidentale, 27 febbraio 2011

Le parole del Papa nell’udienza di ieri ai membri della Pontificia Accademia per la Vita, che sollevano forti e concreti dubbi riguardo l’utilità di conservare “per uso proprio” e “in banca” il sangue che alla nascita si prende dal cordone ombelicale del neonato (come vorrebbero certi ambienti cosiddetti progressisti), solleveranno critiche: interessi e pregiudizi non si contano nel nostro Bel Paese; ma bisogna essere perlomeno disinformati per criticare un ragionamento chiaro e scientificamente fondato come quello del Santo Padre a proposito di questo uso. E se leggete qui, finirete col ringraziarlo.
Il sangue preso dal cordone ombelicale è ricco di cellule staminali curative che si possono donare o tenere per sé in costose banche private. Ma: “Il Sistema Sanitario non deve incoraggiare la creazione di banche commerciali per il sangue di cordone ombelicale”. E non sono parole del Papa, ma di Leroy Endozien sul British Medical Journal del 14 ottobre 2006. Ora, si deve sapere che alla nascita di un bambino è possibile prelevare il sangue dal cordone ombelicale (SCO) del bambino stesso, ricco in cellule staminali, donarlo al centro di ematologia che lo conserverà per possibili usi terapeutici in favore di un possibile paziente che ne avrà bisogno, o per lo stesso donatore se nel futuro si ammalasse. Proprio come si fa per le donazioni di sangue in caso di trasfusioni: il donatore non decide a chi donare, ma dal pool di sangue donato tutta la popolazione – senza criteri di censo, religiosi o altro – trarrà beneficio.
“Le donazioni altruistiche di cordone ombelicale sono usate per curare degli ‘estranei’”, scrive Endozien. “Per contro, le conservazioni commerciali operano la raccolta e la conservazione del SCO del bambino per un uso di quella persona (trapianto autologo) o dei suoi parenti”. L’attuale sistema di donazione del SCO in Italia si chiama “donazione altruistica” ed è proprio basato sulla certezza che “donando non si perde nulla”. In Italia è attualmente il sistema in vigore, perché la validità delle banche per lo stoccaggio personale del proprio SCO – tranne nei casi in cui si ha un parente malato – è stato ampiamente criticato dalla scienza.
“Dopo le prime critiche da parte dell’American Academy of Pediatrics e dell’American College of Obstetricians and Gynecologists – scrive Fisk nel 2005 sulla rivista PloS Medicine – il Royal College of Obstetricians and Gynecologists del regno Unito concluse nel 2001 che la conservazione commerciale del proprio SCO non è giustificata scientificamente, è logisticamente difficoltosa e non può perciò essere raccomandata. Nel 2002 il Comitato Francese Nazionale di Bioetica giunse a simili conclusioni. In Italia è proibito. Un report recente dell’Unione Europea ha avanzato serie preoccupazioni etiche sull’uso di banche commerciali per il SCO e mise in dubbio la loro legittimità nel vendere un servizio senza utilità reale”. La conservazione “per se stessi” è stata criticata anche dal Collegio Britannico delle Ostetriche.
Gli argomenti contro la conservazione “per se stessi” sono in sostanza, secondo Edozien, la bassa possibilità che una persona a basso rischio possa aver davvero bisogno di usare il sangue che ha messo da parte (“le stime variano da 1/1.400 a 1/20.000); “Il trapianto autologo può in certi casi non essere la miglior scelta – per esempio mutazioni preleucemiche possono essere presenti nel SCO di bambini che poi sviluppano leucemia”; “Gli argomenti per la conservazione “per se stessi” che il SCO potrebbe essere usato per trattare diabete e altre malattie sono teorici”; “I progressi nelle cure convenzionali e nei trapianti allogenici significano che solo pochi pazienti con leucemia acuta richiederanno trapianto autologo”.
Esistono inoltre problemi di tipo organizzativo (etichettatura, personale per il prelievo, che sono da considerare attentamente se siamo in presenza di donazione pubblica o di un servizio privato) e di tipo di pubblica sanità (che fare del SCO se una di queste “banche” fallisce?). Purtuttavia, osserviamo forti spinte anche in Italia perché la privatizzazione del SCO venga permessa. E’ una richiesta poco sostenibile, considerate tutte le controindicazioni che abbiamo visto finora. Non ci piace la privatizzazione di qualcosa che sarebbe più utile (e gratuito) se fosse di tutti. Le parole del Papa chiariscono questo punto e sono di aiuto alla scienza. Il sangue preso dal cordone è certo utile se messo a disposizione di tutti. Si pubblicizza, senza nessuna certezza, che questo sangue salverebbe la vita al bambino se se lo tenesse per sé. E si pensa così di fargli un regalo. Un regalo davvero forte sarebbe potergli dire che la sua vita è iniziata donando a qualcuno il suo sangue, che qualcuno se ne è servito avendone salva la vita, e che lui (o lei) potrebbe ricevere da un altro bambino un regalo così bello, semmai gli servisse. E’ la forza dell’altruismo, che va braccetto con la scienza e la fede. 
IL DRAMMA DELL’ABORTO NELLE PAROLE DEL PAPA - Nella coscienza morale il vero cuore dell’umano di ROBERTO COLOMBO, Avvenire, 27 febbraio 2011

Stiamo attraversando tempi in cui il dibattito sui comportamenti è entrato nelle nostre case e affiora nei i dialoghi attorno a un caffè tra colleghi e amici. Alla popolarità dell’etica 'in terza persona' – quella dello spettatore che si tiene lontano dal palcoscenico per non rischiare di immedesimarsi o di essere confuso con gli attori – corrisponde un’emarginazione della coscienza morale, dell’'io' in azione che si interroga su se stesso, sulla qualità di bene o di male dei propri desideri e atti, non di quelli degli altri. Alcuni vorrebbero insegnare come difendersi dalla tirannia del moralismo e far tramontare l’apoteosi dell’etica pubblica. Altri ne celebrano il trionfo, quasi preludio di una catarsi della società e della politica. Il grande assente resta il soggetto antropologico, l’uomo reale, concreto quale io sono, con la sua inalienabile dignità che gli deriva dall’essere l’unico abitante dell’universo che porta la coscienza di sé e del mondo, che vive la drammatica tensione tra la propria finitudine e la vocazione all’infinito, tra il desiderio del bene e il fascino suadente del male. Alla necessità di un ritorno alla coscienza come «cuore dell’umano» ha fatto riferimento Benedetto XVI nel limpido e incisivo discorso di ieri all’Accademia pontificia per la vita. Il Papa ha ricordato che uomo e coscienza coesistono originalmente: la seconda non è una sovrastruttura facoltativa, della quale ciascuno di noi si possa servire in talune circostanze e disfare in altre. «A quanti vorrebbero negare l’esistenza della coscienza morale dell’uomo, riducendo la sua voce al risultato di condizionamenti esterni o a un fenomeno puramente emotivo, è importante ribadire che la qualità morale dell’agire umano non è un valore estrinseco oppure opzionale e non è neppure una prerogativa dei cristiani o dei credenti, ma accomuna ogni essere umano». Il male non è solo una malattia della vita pubblica, della vita degli altri, da denunciare e da curare, ma è dentro ciascuno di noi per quella «ferita originale» con la quale veniamo al mondo, «cosicché la scelta del bene o del male nelle situazioni concrete dell’esistenza finisce per segnare profondamente la persona umana in ogni espressione del suo essere». Il riferimento al dramma dell’aborto, che lacera la coscienza della donna fino a incidere nella sua psiche anche per molti anni, diviene allora esemplare della drammaticità dell’umana esistenza, resa ancora più acuta da «uno sfondo culturale caratterizzato dall’eclissi del senso della vita». Una considerazione cara a Benedetto XVI, sin dall’inizio del suo pontificato, ripresa nel motu proprio

Ubicumque et semper

sulla nuova evangelizzazione: «Il grande problema dell’Occidente è l’oblìo di Dio: un oblìo che si espande» in ogni piega della vita, allargando quel «deserto interiore che nasce là dove l’uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose». Il ritorno alla coscienza non è separabile dal ritorno al fondamento, all’Essere, la meraviglia per tutto ciò che esiste in me e attorno a me, ma che non ho fatto io.

«Due cose mi riempiono di stupore – diceva Kant –: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. [...] Io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza». Di questo stupore ha bisogno ciascuno di noi per ricominciare a vivere ogni mattina, e l’intera società per far rifiorire la vita pubblica e il bene comune.

sabato 26 febbraio 2011

Avvenire.it, 26 febbraio 2011, L'OSPITE - Una retta interpretazione del Ddl sulla fine della vita - Con le Dat non si impone nulla - Ma certe scelte non sono delegabili

Un grande maestro europeo del diritto, R. Von Ihering, ha scritto una volta un aureo libretto che ricordo di avere letto nei miei anni giovanili. Il titolo è Der Zweck im Recht (La finalità nel diritto). Lì Jhering spiega che per interpretare una norma e collocarla in modo corretto nel sistema normativo di cui essa è parte bisogna prima di tutto intendere la finalità della norma stessa, l’interesse umano che essa intende proteggere. Anche per capire la legge che stiamo facendo sulle Dichiarazioni Anticipate di trattamento dobbiamo domandarci: “quale è il telos (il fine), quale è l’interesse che la legge intende proteggere?”. È l’interesse ed il diritto della persona a vivere fino al termine naturale della propria esistenza. Questo implica il rifiuto della eutanasia ed il rifiuto dell’accanimento terapeutico. L’eutanasia pone alla vita un termine artificiale, fa morire una persona prima che la vita sia giunta al suo termine naturale.

L’accanimento terapeutico prolunga la vita oltre il suo termine naturale.

Non è possibile criticare questa legge per il fatto che essa non contiene prescrizioni eutanasiche. Qualcuno è a favore dell’eutanasia ed avrebbe voluto una legge che introducesse in Italia l’eutanasia, magari solo in alcuni casi, in modo da rompere la presunzione a favore della vita che regge oggi il nostro ordinamento e legittimare più tardi interventi legislativi più forti a favore della eutanasia. Io sono grato a chi afferma francamente di essere a favore della eutanasia perché questo permette di discutere con onestà intellettuale. Diffido un poco invece di chi inizia il suo discorso dicendo “io beninteso sono contro l’eutanasia” per poi arrivare nei fatti a chiedere la liberalizzazione di prescrizioni eutanasiche.
Vediamo adesso di fornire alcune chiarificazioni su alcuni artifici retorici che spesso ricorrono nella discussione intorno a questa legge. Alcuni dicono “io sono contro l’eutanasia ma non possiamo imporre la alimentazione forzata a chi non la vuole”. La legge non prevede nessuna alimentazione forzata. Se uno non vuole la alimentazione forzata e la rifiuta nessuno può imporgliela. Fa uso della sua libertà e ne dispone lui davanti a Dio e davanti agli uomini. Il problema insorge quando uno non è in grado di formulare un atto di volontà, per esempio perché è in coma. La persona non è in grado di badare a se stessa ed è affidata a chi ne ha  cura. Immaginiamo che il paziente sia in cura intensiva e che siano esaurite le probabilità di una guarigione. Il paziente ha lasciato un documento in cui dice di non volere essere mantenuto in vita artificialmente. Il medico in questo caso ha il dovere di sospendere le cure straordinarie. A questo punto in genere il paziente muore. Servono in questo caso le direttive anticipate di trattamento? Certo che servono. Il medico avrebbe dovuto decidere comunque prima o poi di sospendere i trattamenti. Il fatto di avere la dichiarazione del paziente lo aiuta a prendere la decisione (insieme con il fiduciario indicato nelle dichiarazioni anticipate) e lo tutela anche contro possibili azioni legali dei familiari. La decisione verrà presa (probabilmente) prima e con minori difficoltà. A questo serve la dichiarazione anticipata di trattamento. Nella stragrande maggioranza dei casi le cose vanno in questo modo. Quasi tutti noi moriremo così.

A volte però il paziente anche dopo che tutte le terapie sono state interrotte si rifiuta di morire. Che dobbiamo fare in questo caso? Qualcuno pensa: provvediamo noi a farlo morire comunque, magari iniettandogli un qualche veleno nelle vene. Evidentemente questo non sarebbe un termine naturale dell’esistenza e ciò sarebbe incompatibile con la legge. Qualcuno allora, per aggirare questa difficoltà, propone di sospendere la alimentazione del paziente, per farlo morire di fame e di sete. È ammissibile questo? Evidentemente no. La morte per fame e per sete non sarebbe un termine naturale dell’esistenza. A rendere più penosa la situazione si aggiunge il fatto che non è sempre chiaro il confine fra il vero coma prolungato ed altri stati solo apparentemente simili nei quali il paziente mantiene sensibilità e capacità di soffrire, tanto è vero che chi sospende l’alimentazione e la idratazione ha cura di dare la sedazione al paziente  perché è possibile, anzi probabile, che egli avverta il dolore. La legge pensa che questo non si possa fare ed il paziente debba essere alimentato fino a che sopravvenga la morte naturale.

Immaginiamo però che il paziente abbia lasciato scritto che non vuole la alimentazione artificiale. Che faremo in questo caso? La legge in preparazione dice che in questo caso non si deve tenere conto del documento. Perché? Perché è giusto obbedire alla volontà di chi dice di non volere la alimentazione artificiale e non è giusto obbedire ad un documento che chiede la stessa cosa? La ragione è semplice. Il rifiuto di terapie salvavita o di ordinarie misure di assistenza e cura che preservano la vita è un atto personalissimo assolutamente non delegabile. La persona deve esprimerlo direttamente. La ragione è che ogni atto di volontà si colloca in un contesto. Il contesto della imminente minaccia di vita è un contesto assolutamente straordinario. È elevata la probabilità che in quel contesto la persona esprimerebbe una indicazione diversa da quella che ha lasciato scritta in un documento. Ne abbiamo la riprova nel caso, ben noto, di chi tenta il suicidio. La sua volontà di morire è, in questo caso, evidente e comprovata da un gesto ben più eloquente di una dichiarazione scritta. Noi tuttavia lo assistiamo e, se questo è possibile, gli salviamo la vita. Nella maggioranza dei casi l’aspirante suicida è contento di essere stato salvato e non ripete il tentativo. Per questo è ingiusto parlare di “alimentazione forzata”. Semplicemente vale qui una presunzione a favore della vita in assenza di una indicazione contraria attuale. La semplice verità è che noi non sappiamo cosa pensi o voglia chi è in stato di incoscienza. In altre parole: se uno si suicida deve farlo lui personalmente, non può delegare l’incombenza ad altri e meno che mai al servizio sanitario nazionale.

Ma, si dice, in questo modo noi neghiamo il principio costituzionalmente garantito della autodeterminazione del paziente. E si cita, a questo proposito, l’art. 32 della Costituzione, secondo comma. Leggiamolo allora questo articolo 32, ma leggiamolo per intero e non in una versione abbreviata di comodo, come ha fatto anche di recente un autorevole commentatore del Corriere della Sera. Ecco il testo abbreviato e falsificato: “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario”. Ecco il testo autentico: “Nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Invece di un divieto assoluto abbiamo qui una semplice riserva di legge. La riserva è poi rafforzata da una clausola di chiusura: “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. In altre parole ove venisse istituito un trattamento sanitario obbligatorio esso dovrebbe essere rivolto sempre (anche) al bene del paziente e dovrebbe trattarlo sempre come un fine in sé e non semplicemente come un mezzo. È risibile il tentativo di far derivare dal rispetto della persona umana il diritto alla eutanasia. Se alcuni vedono in tale diritto l’espressione suprema della libertà e dignità della persona altri vedono in esso la rinuncia più assoluta a tale libertà e dignità. È giusto che se ne discuta nel Parlamento e nel paese ma è bene che nessuno pretenda di chiudere le orecchie alle ragioni dell’altro sequestrando a proprio favore la Costituzione. La Costituzione è di tutti e non decide questo problema.  Sarà bene ricordare, inoltre, che la Costituzione è il risultato di un patto fra cattolici, liberali laici e comunisti. Se una interpretazione capziosa ed estensiva altera i termini di questo patto e dichiara incostituzionali valori fondamentali dei cattolici allora è la ragione di vita della Costituzione che viene meno ed ha ragione chi dice che bisogna negoziare un nuovo patto costituzionale, ma non nelle aule dei tribunali bensì nel parlamento e nel paese. I cattolici possono accettare di essere sconfitti in una battaglia politica libera e democratica ma non possono accettare di essere considerati  come cittadini di seconda categoria le cui convinzioni sono a priori contro la Costituzione.

Nel caso specifico che ci riguarda è però sbagliato scomodare l’art. 32 della Costituzione. Ciò di cui stiamo parlando sono semplicemente le condizioni di validità di un atto di volontà con cui si rinuncia a misure di sostegno vitale. Si dice semplicemente che questo atto non è delegabile. Nel bilanciamento fra il principio costituzionale della difesa della vita e  quello della autodeterminazione si stabilisce un equilibrio per cui prevale il principio di autodeterminazione quando la volontà viene espressa direttamente e prevale il favor vitae quando manchi questa espressione diretta.

Resta infine da considerare un’ultima obiezione: la legge contraddirebbe gli indirizzi giurisprudenziali della Corte di Cassazione. Su questo punto basta replicare che le leggi non le fanno i giudici ma il Parlamento.
(testo integrale dell'intervento in Commissione Giustizia del 22 febbraio 2011, pubblicato in forma ridotta su Avvenire del 26 febbraio 2011)
Rocco Buttiglione, vicepresidente della Camera e presidente dell'Udc
© riproduzione riservata
Avvenire.it, 26 febbraio 2011, LA DIFESA DELLA VITA - Farmacisti: obiezione possibile alla pillola del giorno dopo

Il Comitato nazionale per la Bioetica (Cnb) si pronuncia a favore dell’obiezione di coscienza dei farmacisti che non vogliono dare la pillola del giorno dopo, ma al contempo chiede che le autorità competenti provvedano a tutelare anche il diritto di chi richiede quel prodotto. Questa la posizione espressa in un documento votato dalla plenaria di ieri. «A fronte dell’ipotesi che il legislatore riconosca il diritto all’obiezione di coscienza del farmacista e degli ausiliari di farmacia – si legge in una nota del Comitato – i componenti del Cnb si sono trovati d’accordo che, nel rispetto dei principi costituzionali, si debbano considerare e garantire gli interessi di tutti i soggetti coinvolti, come generalmente previsto in situazioni analoghe. Presupposto necessario e indispensabile per l’eventuale riconoscimento legale dell’obiezione di coscienza è, dunque, che la donna debba avere in ogni caso la possibilità di ottenere altrimenti la realizzazione della propria richiesta farmacologia e che spetti alle istituzioni e alle autorità competenti, sentiti gli organi professionali coinvolti, prevedere i sistemi più adeguati nell’esplicitazione degli strumenti necessari e delle figure responsabili per la attuazione di questo diritto».

Come ha riferito il vicepresidente del Cnb, Lorenzo D’Avack, «è emersa una maggioranza a favore dell’obiezione di coscienza per i farmacisti». Tutti d’accordo, invece, i membri del Cnb nel sollecitare, quando il legislatore approverà la norma sull’obiezione di coscienza per tale categoria, la previsione di un sistema organizzativo che consenta comunque alla donna che ne faccia richiesta di ottenere la pillola del giorno dopo.

«In via generale» dunque il Cnb ha riconosciuto che l’obiezione di coscienza «ha un fondamento costituzionale nel diritto generale alla libertà religiosa e alla libertà di coscienza». Si è voluto aggiungere, però, che l’attuazione di questi principi «deve pur sempre essere realizzato nel rispetto degli altri diritti fondamentali previsti dalla nostra Carta costituzionale e fra questi l’irrinunciabile diritto del cittadino a vedere garantita la propria salute e a ricevere quella assistenza sanitaria riconosciuta per legge».

Il documento votato ieri risponde a un quesito formulato dalla deputata udc Luisa Capitanio Santolini, «in merito alla clausola di coscienza invocata dal farmacista per non vendere quei prodotti farmaceutici di contraccezione d’emergenza anche indicati come "pillola del giorno dopo", per i quali nel foglio illustrativo non si esclude la possibilità di un meccanismo d’azione che porti all’eliminazione di un embrione umano».

La maggioranza del Cnb ha «ritenuto che si possa riconoscere al farmacista un ruolo ritenuto riconducibile a quello degli operatori sanitari e che pertanto, in analogia a quanto avviene per altre figure professionali, debba necessariamente essere riconosciuta anche a questa categoria professionale il diritto all’obiezione. Il fatto che il farmacista svolga un ruolo "meno diretto" rispetto a chi pratica clinicamente l’aborto non è stata ritenuta ragione sufficiente per invalidare l’argomento a favore della clausola morale, dato che la consegna del prodotto contribuisce a un eventuale esito abortivo in una catena di causa ed effetti senza soluzione di continuità».

Secondo altri membri del Comitato, invece, non si potrebbe «assimilare la figura del farmacista a quella del medico, dato che il rapporto con l’utente è generico: è la ricetta che legittima la consegna del farmaco e non l’identità della persona che lo ritira». Secondo i sostenitori di questa tesi, il diritto all’obiezione di coscienza costituirebbe un impedimento all’autodeterminazione della donna e addirittura una facoltà di censurare l’operato del medico.

«Soddisfazione» per la posizione assunta dal Cnb, pur in attesa di leggere le motivazioni integrali, è stata espressa dalla Capitanio Santolini, che ha evidenziato come questo pronunciamento «sgombri il campo da polemiche pretestuose surrettizie». Ora, sottolinea la parlamentare dell’Udc, auspicando una pronta calendarizzazione della sua proposta, «il legislatore potrà mettere mano all’attuazione di questo parere e, nel provvedere a rendere disponibile il farmaco a chi lo richiede, non si deve minimamente ledere la libertà del farmacista di praticare l’obiezione di coscienza, anche se dipendente, garantendogli nel mondo più pieno l’esercizio di questo diritto fondamentale senza subire alcuna discriminazione». Nel parere viene evidenziato, ha notato sempre nell’Udc Paola Binetti, come «il ruolo del farmacista non possa essere ridotto ad una semplice funzione commerciale di compra-vendita, ma abbia invece tutta la dignità del lavoro dell’operatore sanitario, che ha una competenza specifica nella gestione del farmaco, come conferma l’obbligo di controllare le ricette».
Pier Luigi Fornari
© riproduzione riservata