«Diritto di morire», pericolo per chi è più debole - Luciano Eusebi argomenti - Nelle situazioni in cui è ormai irrecuperabile uno stato di salute piena vi sarebbe una fortissima pressione nei confronti del paziente (e della famiglia) a fare un passo indietro, liberando la società dall’onere di farsi carico di alcuni malati e disabili, di Luciano Eusebi*, Avvenire, 24 febbraio 2011
Certe attribuzioni di diritti, se non tengono conto di tutte le esigenze connesse alla tutela delle persone interessate, possono dar luogo a risultati opposti a quelli dichiarati. Ed è per questo che negli Stati democratici non tutto si risolve secondo la prospettiva contrattualistica: soprattutto quando sia in gioco la migliore realizzazione sostanziale dei diritti di soggetti deboli (si pensi, per esempio, ai rapporti di lavoro). Il fatto che nella società democratica possano darsi regole comportamentali condivise non ha nulla a che fare con visioni conservatrici o paternalistiche.
Il cosiddetto «diritto di morire» rende ancor più deboli i soggetti deboli e la sua istituzione non è affatto necessaria per evitare gli oltranzismi terapeutici, né per consentire che elementi del vissuto personale entrino nella valutazione circa l’adeguatezza di una terapia. Il diritto di morire fa sì, infatti, che nelle situazioni di precarietà esistenziale, in cui è ormai irrecuperabile uno stato di salute piena, la prosecuzione delle terapie (pur proporzionate) in atto non costituisca più la normalità, ma dipenda da una richiesta del singolo alla società: con una fortissima pressione psicologica e culturale nei confronti del paziente (e della famiglia) a fare un passo indietro, liberando la società, con una sorta di atto solidaristico al contrario, dell’onere che il farsi carico della sua condizione comporta. Non possiamo continuare a non vedere, in nome di teorizzazioni astratte, che dietro agli interrogativi concernenti la gestione del fine vita e delle cronicità patologiche gravi si celano questioni delicatissime di carattere economico. Questioni che è troppo facile eludere prospettando all’opinione pubblica l’idea di una medicina che congiura contro il malato, dalla quale è dignitoso difendersi facendo valere contro il medico la propria autodeterminazione a morire: posizione, questa, diametralmente opposta alla logica dell’alleanza terapeutica.
Come, del resto, non possiamo dimenticare che situazioni invalidanti o degenerative, tuttavia non terminali né sostenute attraverso terapie intensive, possono essere portate a una conclusione rapida – se si escludono condotte eutanasiche dirette – solo attraverso l’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione. Attività le quali, pur quando realizzate mediante interventi sanitari, hanno una natura del tutto particolare, poiché non contrastano alcuno stato patologico, essendo necessarie allo stesso individuo sano. Per cui, non trattandosi di terapie, rimangono dovute anche nelle situazioni terminali (sempre, ovviamente, che l’organismo sia in grado di fruirne).
Non è per nulla ovvio, dunque, che il paziente risulti al meglio tutelato ove una dichiarazione formalmente corretta con cui richieda (o si richieda a suo nome) di interrompere terapie già in atto rilevi a prescindere da qualsiasi valutazione medica circa il contesto in cui esse risultino operanti: ammettendosi, in tal senso, che il medico possa interrompere anche presidi terapeutici del tutto proporzionati e, conseguentemente, possa attivarsi in concreto per la morte del malato (il che costituirebbe una novità assoluta per l’ordinamento giuridico).
Ciò, fra l’altro, priverebbe il medico di qualsiasi ruolo proprio e lo renderebbe, di fatto, un mero esecutore. Venendo a delineare una realtà molto più rigida di quella in cui il medico, considerati tutti i fattori in gioco (anche quelli psicologici e personali), sia tenuto a operare un giudizio complessivo circa il persistere del carattere proporzionato di una data terapia, secondo una modalità ben più consona, di nuovo, allo spirito dell’alleanza terapeutica.
Del pari, non è affatto ovvio che il miglior interesse del paziente e il miglior rapporto di quest’ultimo col medico si realizzino prevedendo che una dichiarazione anticipata di trattamento possa esigere da un medico operante nel futuro, per il caso di incapacità del malato, di non attivare terapie a prescindere – pure in questo caso – da qualsiasi valutazione sul contesto attuale in cui quelle terapie verrebbero a inserirsi. Ipotesi che porrebbe il personale sanitario nella condizione di dover accedere alla richiesta di stabilire un rapporto col malato, ma escludendo a priori l’utilizzazione di presidi i quali, al momento in cui tale rapporto si concretizzi, potrebbero rivelarsi del tutto proporzionati: dunque, di stabilire un rapporto col paziente finalizzato in concreto non alla salvaguardia della sua salute, ma alla sua morte. Laddove la stessa Convenzione europea di biomedicina («di Oviedo») vede piuttosto nelle dichiarazioni anticipate un elemento necessario per la valutazione del medico, in un’ottica di alleanza terapeutica. È indispensabile riprendere, su questi temi, una riflessione che ne accetti la complessità.
* ordinario di Diritto penale all’Università Cattolica
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