mercoledì 9 febbraio 2011

ELUANA/ Melazzini: vi racconto la mia voglia di vivere, più forte della malattia - INT. Mario Melazzini - mercoledì 9 febbraio 2011 – il sussidiario.net

Due anni fa si spegneva Eluana Englaro. Mentre all’esterno, dai tribunali ai giornali alle aule parlamentari imperversava una battaglia senza tregua, nel chiuso della clinica “La Quiete” di Udine il neurologo che seguiva Eluana da anni, Carlo Alberto Defanti, ne certificava la morte, dovuta ad arresto cardiaco, dopo che il personale medico incaricato aveva interrotto l’alimentazione e l’idratazione. 
«Dobbiamo cercare di dare a questa giornata il significato che merita: dar voce a chi voce non ne ha, ma soprattutto a quelle persone che non vengono ascoltate. E fare di tutto per ridurre l’isolamento e l’abbandono delle famiglie e di chi è nella condizione di Eluana». Chi parla è Mario Melazzini, medico, afflitto da sclerosi laterale amiotrofica. Al sussidiario Melazzini racconta di sé: della malattia, di un’insopprimibile voglia di vivere, e di come si possa accettare una condizione che non smette di interrogare la nostra ragione.

Melazzini, in che modo la vicenda di Eluana ha toccato la sua vita di uomo e di malato?

Mi ha portato a riflettere su come una persona disabile, legata ad una patologia neurodegenerativa, viene vista da una parte consistente della nostra società. Una società che ha trattato Eluana non come una persona, ma solo come un corpo senz’anima. È prevalsa l’idea che alcune malattie o condizioni di grave disabilità non siano conciliabili con una vita degna di essere vissuta. È la stessa idea che ha ucciso Eluana.

Proprio su questo il paese si è diviso: 17 anni di stato vegetativo non sono una vita che vale la pena di vivere.

La risposta, invece, è no, perché la dignità di ogni vita ha un carattere ontologico e non può dipendere, come molti vogliono affermare, dalla sua «qualità». È questo l’esito di una riduzione utilitaristica e costruttivistica,che volendo liberare l’uomo dalla sua condizione presente, gli nega ogni dignità. Nessuno, e sottolineo nessuno, può decidere che una vita non vale la pena di essere vissuta.

Non abbiamo il diritto a disporre di noi stessi, neanche in una situazione così drammatica?

Si parla molto di diritti, ma forse dobbiamo cominciare a tutelare il principale diritto che è il diritto alla vita, in qualsiasi condizione, dal concepimento alla sua fine naturale, anche con la malattia. Un paese che voglia definirsi civile dev’essere in grado di mettere tutti i suoi cittadini nella condizione di vivere con dignità anche l’esperienza della malattia e della disabilità.

Che cosa auspica, Melazzini?

Basterebbe che il ricordo di questa giornata non fosse l’ennesima occasione per contrapporsi su ideologie o posizioni legate a schieramenti politici. Dovremmo far tesoro di quanto è successo perché non possa più accadere, perché quello che è accaduto è stato un atto di totale abbandono, l’abbandono di una persona che aveva solo bisogno di essere nutrita, idratata e accudita con affetto. Questa è la lezione. Una società vera non uccide, ma si fa carico dei più deboli con amore e li accompagna lungo tutto il percorso della vita.

Lei mangia e beve con l’aiuto di un sondino. Come vive questa sua condizione di disabilità?

Per me è ormai la normalità. Non lo considero né un atto di forza né un atto di violenza, e nemmeno un atto terapeutico. Certo, chi non preferirebbe mangiarsi un bel piatto di pasta? Nella nostra vita diamo per scontate davvero tante cose. Quando ci imbattiamo in un evento legato a qualcosa che ci fa provare angoscia, come una malattia, lo rifiutiamo e questo fa parte del vissuto della persona umana. Ma oggi abbiamo la fortuna di avere a disposizione strumenti che possono garantire in qualche modo un percorso di vita anche in stato di malattia, e con dignità.

A cosa non rinuncerebbe mai?

Alle persone che mi stanno accanto. Basta a volte la loro presenza, uno sguardo. Mi infondono quella grande dignità che a volte si pensa di poter perdere. Sono convinto che da questi semplici atti quotidiani chiunque di noi può trarre non tanto un insegnamento, ma la semplice consapevolezza che anche in determinate condizioni tutto può continuare, come si dice, con qualità. Una qualità «riprogrammata» sul proprio percorso di vita, quello dettato dalle circostanze che non possiamo mutare.

Affrontare una situazione come la sua, così limitante, è questione di razionalità? Di coraggio? Di fede?

È un percorso che va metabolizzato. Non è stato semplice, all’inizio ragionavo nel modo in cui avviene intorno a noi: no, dici a te stesso, una vita così è impossibile. Ma nulla è impossibile, se c’è la consapevolezza che si matura pian piano, in un percorso legato all’esplorazione e alla conoscenza di quanto si può effettivamente sostenere nella malattia. Certo posso solo parlare della mia esperienza personale. Ma grazie alla malattia ho imparato ad accettare il mio limite.

Lei è credente. Che posto ha la fede in tutto questo?

La fede ha aumentato in me la consapevolezza di essere immerso in un Mistero che, come tale, mi rende partecipe di qualcosa di più grande di me. È qualcosa che ti cambia nel profondo, e sostiene il tuo percorso razionale di accettazione fatto di negazione, di rifiuto, di rabbia, fino a che non ti è dato di accettare e di capire. La fede conduce alla consapevolezza, passo dopo passo, che quel Mistero esiste e che per questo c’è una ragione profonda per tutto ciò che accade, male compreso. Io sto cercando, grazie ad esso, di vivere la mia situazione come un valore aggiunto, sia come uomo sia come professionista, ma soprattutto come malato.

Ha detto che grazie alla malattia ha imparato ad accettare il suo limite. Che vuol dire?

Se non temessi di essere molto presuntuoso, direi che il mio stato è qualcosa che mi accompagna e mi educa, progressivamente. Mi sento molto fortunato in tutto questo; anche se non le nascondo che preferirei tornare ad andare in bicicletta... però siccome per il momento non è possibile - per il momento: mai dire mai - andiamo avanti.

Non tutto dipende da noi, molto dipende anche dalle leggi. Lei sente tutelata la sua vita?

Le darei una duplice risposta. Come medico e professionista, le posso dire di sì. Come paziente e come persona fragile, invece, ho scarsa fiducia nell’interpretazione di quella che è la reale presa in carico della persona e dei suoi familiari da parte sia del medico, sia delle istituzioni. Sarebbe fondamentale mettere dei paletti molto solidi, perché io non voglio, su di me e su altri, che qualcuno possa decidere di considerare come atti terapeutici mezzi di supporto vitale come la nutrizione o l’idratazione o il supporto ventilatorio, e come tali farne oggetto di interruzione terapeutica.

Sono due anni che si parla di una legge che non arriva…

Quando una persona si avvicina alla fine, chi fa bene il medico con scienza e coscienza è in grado di comprendere se ciò che si sta facendo è o non è accanimento terapeutico. Però, per ovviare al fatto che su dieci professionisti uno solo possa valutare correttamente la situazione, sarebbe importante avere a disposizione qualcosa che tuteli quelle persone non in grado di esprimere la propria volontà nel momento attuale. La grande paura è di non riuscire a tutelare le fragilità più gravi, e che determinate condizioni possano diventare fattori di emarginazione e soprattutto di costo sociale.

Quanto pesa la solitudine in queste situazioni?

Può risultare mortale. Sono convinto che determinate scelte rinunciatarie non siano dettate da una scelta razionale, ma da una situazione di abbandono e di elevati costi, non solo di tipo economico, che vengono a gravare solo sulla persona e sulla sua famiglia.

In quello che dice, lei sembra tutt’altro che prigioniero di se stesso.

Può sembrare una situazione mostruosa, ma non è così. Il paradosso è che una condizione che ci piove sul capo, apparentemente inconciliabile con la vita e che mortifica senza posa il nostro corpo, faccia brillare ancor di più tutto ciò che c’è nella persona, le sue emozioni, la sua anima. Io questo lo sto imparando quotidianamente dalle persone malate, dall’amore con cui i familiari le accudiscono, dallo sguardo anche con cui queste persone rispondono. Siamo qui a toccare con mano che l’essere conta infinitamente più del fare.
(Federico Ferraù)

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