Ma il matrimonio non va deformato - 14 gennaio 2013 - http://www.corriere.it
La questione del matrimonio gay è, nella sua essenzialità, molto semplice. Chi si batte perché i partner di una coppia gay ottengano la qualifica legale di «coniugi» o quella di «genitori» non riesce ad esibire convincenti ragioni sociali, ma solo ragioni di ordine simbolico (più o meno tutte riconducibili alla logica dell'affettività).
Ma il diritto non esiste per dare soddisfazioni simboliche ai cittadini. Garantiamo legalmente un titolo professionale (ad esempio quello di medico o di infermiere) per il rilievo sociale posseduto da questi professionisti. Non garantiamo legalmente, invece, il titolo di pittore o quello di romanziere, perché un brutto quadro o un pessimo romanzo non possono produrre i disastri che potrebbero produrre una diagnosi medica sbagliata o un'errata valutazione dell'idoneità statica di un edificio.
Come istituto giuridico (e gli assetti giuridici della società dovrebbero essere i soli a interessare i cittadini di una società pluralista) il matrimonio non ha finalità meritevoli di tutela di carattere simbolico, ma un'unica essenziale finalità sociale, quella di garantire l'ordine delle generazioni, istituzionalizzando tra l'uomo e la donna quelle relazioni pubbliche di particolare intensità e responsabilità che consentono la nascita della famiglia, come struttura di socializzazione primaria.
In quanto costitutivamente sterile, il rapporto omosessuale (come peraltro qualsiasi altra forma di rapporto affettivo o amicale) non ha alcun bisogno di un riconoscimento legale, o almeno non ha bisogno di un riconoscimento diverso da quello che l'ordinamento giuridico potrebbe, se volesse, offrire, ma solo sul piano patrimoniale, ad altre forme di convivenza «non sessuate» , che venissero ritenute meritevoli di attenzione sociale (come quelle tra fratelli conviventi o tra anziani genitori e un figlio).
Si obietterà: perché negare ai gay la realizzazione dei loro «desideri» coniugali? La loro, è stato detto efficacemente, è una «battaglia per la felicità». Soggettivamente, può senza dubbio esserlo; ma oggettivamente bisogna riconoscere che si tratta di una battaglia molto ingenua, perché, comunque essa vada a concludersi, non è dal diritto e dai suoi eventuali (e impropri) riconoscimenti simbolici che deriva la nostra felicità, ma dalla coerenza tra il bene, nella sua oggettività, e il nostro personale stile di vita.
Questa forma di felicità, l'unica davvero autentica, non è veicolata dal diritto e non è preclusa a nessuno, sia che possa sia che non possa sposarsi (come capita anche a tanti eterosessuali). Nel dibattito in merito al matrimonio gay, la vera posta in gioco non è il pur legittimo desiderio di felicità degli omosessuali che vogliono sposarsi, ma la deformazione oggettiva del matrimonio come istituto giuridico che è conseguenza inevitabile del riconoscimento del matrimonio tra omosessuali. Su questo punto e su questo soltanto dobbiamo discutere, senza cedere a suggestioni che hanno un notevole rilievo ideologico, ma una limitata forza argomentativa.
Francesco D'Agostino
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