Esiste o no un riferimento al “gender” nella legge sulla cosiddetta “Buona Scuola”? Cerchiamo di rispondere a questa che pare essere la domanda del momento.
Il pericolo gender, in realtà, si annida nel sedicesimo comma dell’art. 1 della legge, che testualmente recita così: «Il piano triennale dell'offerta formativa assicura l'attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall'articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n.119, nel rispetto dei limiti di spesa di cui all'articolo 5-bis, comma 1, primo periodo, del predetto decreto-legge n. 93 del 2013».
L’insidia sta in due punti di questa disposizione normativa: il termine «violenza di genere» e il richiamo all’art. 5 della Legge 119/2013, la cosiddetta “Legge sul femminicidio”. Vediamo attentamente come stanno le cose.
Violenza di genere
L’esperienza ha ampiamente dimostrato che è proprio attraverso questa espressione che vengono surrettiziamente introdotti nelle scuole i corsi sulla teoria gender. La “violenza di genere” è diventata quello che il Cardinal Angelo Bagnasco, con un’espressione efficacemente evocativa, ha lucidamente denunciato come un cavallo di Troia. Qualcuno sostiene che il Cardinale abbia preso lucciole per lanterne, ma non è così. Che non si tratti di un abbaglio del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana lo dimostra l’ordine del giorno n. 9/2994-B/5 approvato dalla Camera dei Deputati lo scorso 8 luglio. Con quel documento parlamentare, infatti, la Camera dei Deputati, dopo aver preso atto, nella premessa, del fatto che proprio il concetto di “violenza di genere” del citato comma 16, «ha comportato una serie di storture applicative, che sono andate ben al di là dell’istanza, da tutti condivisa, di prevenire la violenza di genere e le discriminazioni», ha impegnato il Governo «in sede di applicazione del comma 16 del provvedimento in esame, ad escludere ogni interpretazione che apra alle cosiddette “teorie del gender”». Per gli increduli ed i negazionisti facciamo presente che il citato ordine del giorno si trova pubblicato a pagina 87 dell’allegato “A” ai resoconti stenografici della Camera dei Deputati relativi alla seduta dell’8 luglio 2015.
La Legge sul Femminicidio
La seconda insidia sta nel richiamo espresso all’art.5 della cosiddetta “Legge sul femminicidio”, articolo che porta il titolo di “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”. In pratica la legge sulla “Buona Scuola” dice che il piano triennale dell’offerta formativa deve «informare e sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate nel Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere». Ma cosa prevede quel Piano d’azione espressamente richiamato nel sedicesimo comma dell’art.1? Al punto 5.2 (Educazione), il Piano recita testualmente così: «(…) Obiettivo prioritario deve essere quello di educare alla parità e al rispetto delle differenze, in particolare per superare gli stereotipi che riguardano il ruolo sociale, la rappresentazione e il significato dell’essere donne e uomini, ragazzi e ragazze, bambine e bambini nel rispetto dell’identità di genere, culturale, religiosa, dell’orientamento sessuale (…) sia attraverso la formazione del personale della scuola e dei docenti, sia mediante l’inserimento di un approccio di genere nella pratica educativa e didattica».
Identità di genere
Ora, chi pretende di trovare nella legge la parola inglese “gender” è destinato a rimanere inesorabilmente deluso. Per il semplice fatto che in Italia i documenti del governo e le leggi vengono redatte rigorosamente in lingua italiana. Nonostante l’ostentata anglofilia del Premier Renzi e la sua spiccata propensione per l’idioma di Shakespeare – in cui, però, è bravo negli scritti ma zoppicante in orale – oggi nel nostro Paese le leggi vengono ancora scritte con la lingua di Dante. La traduzione ufficiale della parola “gender” che il governo ed il legislatore utilizza è “identità di genere”.
Lo spiega bene, ad esempio, il documento governativo intitolato “Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT”, redatto dall’U.N.A.R., Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziale, un ufficio del Dipartimento delle Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. A pagina 7, quel documento del Governo definisce l’identità di genere come «il senso intimo, profondo e soggettivo di appartenenza alle categorie sociali e culturali di uomo e donna, ovvero ciò che permette a un individuo di dire: “Io sono un uomo, io sono una donna”, indipendentemente dal sesso anatomico di nascita».
Quel documento del governo specifica bene la differenza tra genere e sesso, precisando che mentre il sesso è costituito dalle «caratteristiche biologiche e anatomiche del maschio e della femmina, determinate dai cromosomi sessuali», il genere è, appunto, «la percezione soggettiva di appartenere ad una delle categorie sociali e culturali di uomo e donna, indipendentemente dal sesso anatomico».
Utile evidenziare anche quanto si leggeva all’art.1, lett. b), del testo unificato adottato come testo base il 9 luglio 2013 dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, recante norme in materia di discriminazioni motivate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere. Questo era il tenore letterale di quella disposizione: «Ai fini della legge penale si intende per “identità di genere” la percezione che una persona ha di sé come appartenente al genere femminile o maschile, anche se opposto al proprio sesso biologico». Anche in questo caso, increduli e negazionisti possono trovare il testo a pagina 73 del Bollettino delle Giunte e delle Commissioni parlamentari del 9 luglio 2013.
In realtà è proprio l’erronea considerazione che uomo e donna siano semplici categorie sociali e culturali, unita all’idea che si possa scegliere di appartenere all’una o all’altra categoria indipendentemente dal sesso biologico, che sta alla base della teoria gender, così duramente ed aspramente condannata da Papa Francesco, al punto da essere stata da lui definita «uno sbaglio della mente umana che crea tanta confusione», il 21 aprile 2015 durante il suo incontro con i giovani di Napoli nel Lungomare Caracciolo.
All’Udienza Generale tenuta in Piazza San Pietro il 15 aprile 2015, il Santo Padre si è chiesto pubblicamente quanto segue: «Io mi domando, se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Sì, rischiamo di fare un passo indietro. La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione».
Ed è proprio il tentativo odioso di indottrinamento di questa teoria nelle scuole che continua ad essere una costante preoccupazione di Papa Francesco, che non perde occasione per esprimere la sua dura denuncia a riguardo. Durante il discorso alla Delegazione dell’Ufficio Internazionale Cattolico dell’Infanzia (BICE) tenuto l’11 aprile 2015, il Santo Padre ha affermato che «occorre sostenere il diritto dei genitori all’educazione dei propri figli, e rifiutare ogni tipo di sperimentazione educativa sui bambini e giovani, usati come cavie da laboratorio, in scuole che somigliano sempre di più a campi di rieducazione e che ricordano gli orrori della manipolazione educativa già vissuta nelle grandi dittature genocide del secolo XX, oggi sostitute dalla dittatura del “pensiero unico”».
Nel suo viaggio di ritorno dalle Filippine, il 19 gennaio 2015, Papa Francesco, rispondendo ad una domanda di Jan-Christoph Kitzler, giornalista della radio tedesca Ard, è tornato ancora una volta a parlare della teoria gender definendola «una colonizzazione ideologica» identica a quella praticata attraverso l’indottrinamento della «Gioventù Hitleriana» durante gli anni bui del regime nazionalsocialista del Terzo Reich. Queste le sue parole testuali pronunciate rievocando un ricordo personale: «Vent’anni fa, nel 1995, una Ministro dell’Istruzione Pubblica aveva chiesto un grosso prestito per fare la costruzione di scuole per i poveri. Le hanno dato il prestito a condizione che nelle scuole ci fosse un libro per i bambini di un certo grado di scuola. Era un libro di scuola, un libro preparato bene didatticamente, dove si insegnava la teoria del gender. (…) Questa è la colonizzazione ideologica: entrano in un popolo con un’idea che non ha niente a che fare col popolo; con gruppi del popolo sì, ma non col popolo, e colonizzano il popolo con un’idea che cambia o vuol cambiare una mentalità o una struttura. (…) Perché dico “colonizzazione ideologica”? Perché prendono proprio il bisogno di un popolo o l’opportunità di entrare e rafforzarsi, per mezzo dei bambini. Ma non è una novità questa. Lo stesso hanno fatto le dittature del secolo scorso. Sono entrate con la loro dottrina. Pensate ai “Balilla”, pensate alla Gioventù Hitleriana... Hanno colonizzato il popolo, volevano farlo. Ma quanta sofferenza!».
Papa Francesco ha, inoltre, ben chiara quale sia l’attuale situazione delle scuole italiane riguardo all’indottrinamento gender. Lo ha dimostrato quando, nel discorso di apertura del convegno ecclesiale della Diocesi di Roma, tenuto in Piazza San Pietro il 14 giugno 2015, ha pronunciato queste parole: «I nostri ragazzi, ragazzini, che cominciano a sentire queste idee strane, queste colonizzazioni ideologiche che avvelenano l’anima e la famiglia: si deve agire contro questo. Mi diceva, due settimane fa, una persona, un uomo molto cattolico, bravo, giovane, che i suoi ragazzini andavano in prima e seconda elementare e che la sera, lui e sua moglie tante volte dovevano “ri-catechizzare” i bambini, i ragazzi, per quello che riportavano da alcuni professori della scuola o per quello che dicevano i libri che davano lì. Queste colonizzazioni ideologiche, che fanno tanto male e distruggono una società, un Paese, una famiglia. E per questo abbiamo bisogno di una vera e propria rinascita morale e spirituale».
Abbiamo appreso che la Diocesi di Padova, con un proprio comunicato, ha rassicurato i fedeli sul fatto che la legge sulla cosiddetta “Buona Scuola” non contenga alcun riferimento al “gender”. Colpisce il fatto che questa affermazione non si sia basata su un’attenta analisi critica del testo normativo ma sulle rassicurazioni ottenute dagli esponenti del governo. Una Chiesa che non vaglia la realtà alla luce della fede e della ragione ma si affida alle rassicurazioni del potere civile, forse non è una Chiesa attenta agli ammonimenti del Vicario di Cristo. La Diocesi di Padova afferma, confidando sulle parole del governo, che nelle scuole non viene e non verrà mai introdotta alcuna teoria gender, mentre il Papa denuncia il fatto che già oggi genitori siano costretti a “ri-catechizzare” «i bambini, i ragazzi, per quello che riportano da alcuni professori della scuola o per quello che dicono i libri che danno lì». Uno dei due non ha l’esatta percezione di quello che sta accadendo. E noi non abbiamo alcun dubbio che, in questo caso, a sbagliare sia la Diocesi di Padova e non Papa Francesco.
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