La nuova sentenza della Corte Costituzionale sulla legge 40 del 2004 depositata ieri contiene due decisioni di segno diverso, entrambe assai interessanti.
Il Tribunale penale di Napoli, che stava giudicando due professionisti della fecondazione in vitro, accusati di avere selezionato, tra gli embrioni prodotti in soprannumero, quelli affetti da malattie genetiche e di averli soppressi, ha sospettato che la legge sia incostituzionale nel porre due divieti assoluti: di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e di soppressione degli embrioni prodotti. Secondo il Tribunale, entrambe le condotte dovrebbero essere permesse ai danni degli embrioni malati, alla luce del diritto della donna a rifiutarne il trasferimento nel proprio corpo, avendo ella in ogni caso il diritto di abortirli.
Come si vede, si tratta della concretizzazione giuridica della "cultura dello scarto" di cui ha spesso parlato Papa Francesco: se gli embrioni sono malati possiamo rifiutarli e, siccome non servono a niente, è meglio ucciderli.
I criteri indicati per sollevare il dubbio di costituzionalità sono ben conosciuti: il diritto alla salute della donna – che è ormai una parola vuota, che corrisponde al riconoscimento della sua totale autodeterminazione – e l'Europa: viene così richiamata la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che aveva, appunto, affermato il diritto delle coppie di procedere alla diagnosi genetica preimpianto sugli embrioni prodotti e di rifiutare quelli malati.
La Corte Costituzionale ha risposto in maniera affermativa alla questione della selezione, dichiarando l'illegittimità costituzionale della legge «nella parte in cui contempla come ipotesi di reato la condotta di selezione degli embrioni anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili».
La decisione viene presentata come inevitabile conseguenza di quella di pochi mesi fa che aveva eliminato il divieto di accesso alle tecniche di fecondazione artificiale per le coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili: la Corte osserva, infatti, che l'accesso di queste coppie alle tecniche presuppone l'esecuzione della diagnosi genetica e la selezione, perché esse non servono più a superare la sterilità, ma a conseguire gravidanze di bambini non malati. Quindi, dice la Corte, ciò che è diventato lecito per effetto di quella pronuncia «non può dunque – per il principio di non contraddizione – essere più attratto nella sfera del penalmente rilevante».
In realtà quella piccola breccia aperta per gli aspiranti genitori consapevoli di essere portatori di malattie genetiche si è rapidamente trasformata nel crollo dell'intera diga: ora – in forza della nuova pronuncia della Corte Costituzionale – la diagnosi genetica preimpianto e la selezione degli embrioni è espressamente consentita per tutte le coppie. La Corte finge di credere che ciò avverrà al solo scopo di evitare il trasferimento degli embrioni malati, ma, di fatto, viene espressamente autorizzata la prassi usata dagli "specialisti" della fecondazione in vitro: produzione di quanti più embrioni possibili, diagnosi genetica su tutti gli embrioni prodotti, selezione discrezionale di alcuni di essi dipendente dalle finalità che la coppia o i tecnici si prefiggevano.
Si deve sottolineare che questa pronuncia contiene un elemento davvero sorprendente – ma anche terribile - di chiarezza: la Corte, infatti, ha autorizzato (sia pure in qualche caso) la selezione eugenetica degli embrioni! Sì: questa parola terribile – eugenetica – che richiama pratiche orribili contro la vita e la dignità dell'uomo e tempi oscuri è stata "sdoganata"; sì, la Corte Suprema di una nazione civile ha statuito che, in certi casi, la selezione a scopo eugenetico è permessa.
Nonostante l'enormità di questo evento giuridico, non possiamo stupirci: sappiamo benissimo, infatti, che la produzione artificiale dell'uomo è inevitabilmente eugenetica, perché l'embrione è un "prodotto" (la legge 40 parla di "produzione degli embrioni") realizzato su richiesta da clienti paganti, che lo vogliono perfetto.
Possiamo consolarci osservando che ora, almeno, ogni velo sulla natura di queste pratiche è caduto; nessuno può dire di non sapere; nessuno – soprattutto se afferma di far parte di un mondo che difende la vita e respinge la cultura dello scarto – può continuare a sporcarsi le mani (e a guadagnare denaro) con pratiche così abiette.
La decisione della Consulta in merito al secondo quesito sorprende nel senso opposto. La Corte afferma che gli embrioni malati possono essere, sì, selezionati e non trasferiti nel corpo della madre, ma non possono essere soppressi; e tale decisione è presa con parole non banali. Conviene leggere un passo, anche se un po' impegnativo: «deve escludersi che risulti (…) censurabile la scelta del legislatore del 2004 di vietare e sanzionare penalmente la condotta di «soppressione di embrioni», ove pur riferita (…) agli embrioni che, in esito a diagnosi preimpianto, risultino affetti da grave malattia genetica. Anche con riguardo a detti embrioni, la cui malformazione non ne giustifica, sol per questo, un trattamento deteriore rispetto a quello degli embrioni sani (…), si prospetta, infatti, l’esigenza di tutelare la dignità dell’embrione, alla quale non può parimenti darsi, allo stato, altra risposta che quella della procedura di crioconservazione. L’embrione, infatti, quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico. Con la sentenza n. 151 del 2009, questa Corte ha già, del resto, riconosciuto il fondamento costituzionale della tutela dell’embrione, riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.; e l’ha bensì ritenuta suscettibile di «affievolimento» (al pari della tutela del concepito: sentenza n. 27 del 1975), ma solo in caso di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in temine di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti. Nella fattispecie in esame, il vulnus alla tutela della dignità dell’embrione (ancorché) malato, quale deriverebbe dalla sua soppressione tamquam res, non trova però giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela di altro interesse antagonista».
Insomma: la Corte sa – e lo ribadisce pubblicamente – che l'embrione prodotto non è "mero materiale biologico" e non può essere trattato come se fosse una cosa ("tamquam res"); quindi i suoi interessi possono cedere solo di fronte «ad altri interessi di pari rilievo costituzionale». L'embrione soprannumerario malato, quindi, non può essere soppresso – e resta reato farlo – e, per evitare che muoia, non può che essere crioconservato.
Una mezza vittoria per i prolife? Purtroppo i timori sono legittimi.
Colpisce, in primo luogo, che la Corte non abbia avuto il coraggio di usare le parole "uccidere" e "vita": in effetti, la "soppressione" dell'embrione in vitro, più che ledere la sua "dignità", ne viola il diritto alla vita. L'embrione "soppresso" viene ucciso volontariamente; prima era un essere umano vivo – anche se ingiustamente congelato – e dopo è un essere umano morto.
E poi: quali sono gli altri interessi "di pari rilievo costituzionale" rispetto ai quali quelli degli embrioni "affievoliscono", per usare l'eufemismo della Corte Costituzionale? Fino ad oggi – nella finzione creata con la sentenza n. 27 del 1975 che consentì la liberalizzazione dell'aborto volontario – vi era un unico interesse prevalente: quello alla vita e alla salute della madre la cui tutela, formalmente, ha permesso l'approvazione della legge 194 del 1978 sull'aborto. Non a caso, quella risalente pronuncia della Corte è sempre stata richiamata per "smantellare" progressivamente i "paletti" della legge 40.
Ora scopriamo che potrebbero esistere altri interessi prevalenti; e subito viene in mente la questione che ancora pende davanti alla Corte: quella della possibilità di destinare gli embrioni soprannumerari alla ricerca scientifica che – come è noto – è tutelata dalla Costituzione. In quella causa – che sarà discussa all'udienza pubblica del 22/3/2016 - i Giuristi per la Vita avevano chiesto al Presidente della Corte di nominare un curatore speciale per gli embrioni, visto il loro conflitto di interessi con i genitori, che vogliono destinarli, appunto, alla sperimentazione e alla conseguente soppressione.
Il fatto è che la produzione in vitro dell'uomo – non dimentichiamolo: una pratica creata nell'ambito della zootecnia – lo rende, come dice la Corte, "tamquam res", come se fosse una cosa; e quali diritti si possono attribuire alle cose?
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