giovedì 13 gennaio 2011

Diagnosi prenatali, l’eugenetica dietro l’angolo - dialoghi - Licinio Contu, esperto di talassemia: «Sì ai test sul feto quando sono funzionali a predisporre una terapia adeguata per il bambino Ma prima lasciamolo venire al mondo» di Emanuela Vinai, Avvenire, 13 gennaio 2011

Itest genetici in gravidanza continuano a essere oggetto di costante attenzione da parte dei media. L’ultima scoperta, in ordine di tempo, è il nuovo screening per la ricerca della sindrome di Down che filtra, attraverso l’analisi del sangue della donna in gravidanza, il dna del bimbo in grembo.

Il dibattito su questi temi è vivace e porta anche qualche incomprensione, come testimoniano le due lettere riportate in questa pagina. È quindi utile e opportuno dedicarvi un ulteriore approfondimento, così da sgombrare il campo da possibili equivoci, senza tralasciare un’analisi rigorosa della posta in gioco.

Torniamo dunque a parlarne con il professor Licinio Contu, ematologo, genetista e presidente Admo e Adocesc e tra i primi in Europa a occuparsi di trapianti per talassemici.

Qual è l’approccio corretto rispetto ai test genetici prenatali?

I test non sono da demonizzare in sé, ma mi preme sottolineare un’importante e fondamentale criticità che deriva dalla finalità degli stessi. Infatti, a mio parere, la diagnosi prenatale è da sostenere quando sia funzionale a predisporre e programmare una terapia adeguata per il nascituro. Se invece l’obiettivo è sostanzialmente teso all’eliminazione del feto perché portatore di anomalie o patologie, allora siamo nell’ambito dell’eugenetica, tentazione da respingere con forza. E questo, saggiamente, lo afferma con molta chiarezza anche la legge 40 all’articolo 13: «La ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche a essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative».

Rispetto alla celocen­tesi e alla diagnosi precocissima di talas­semia, quali sono le criticità?

È indubbio che, grazie a questo esame, diviene possibile determinare fin dalle prime settimane se il feto è affetto da talassemia.

Ma proprio perché il fattore tempo è strategico le prospettive cambiano. Infatti il feto è immunocompetente già a 12 settimane: in altre parole non è possibile effettuare trapianti di cellule oltre questo limite perché si andrebbe incontro a una reazione di rigetto che renderebbe vano l’intervento.

Il brevissimo periodo che intercorre tra la formulazione della diagnosi e l’intervento pone genitori e medici in grave difficoltà, perché la ricerca di un donatore rigorosamente compatibile per Hla identico deve avvenire in un lasso di tempo molto rapido. Senza contare che per quanto riguarda il trapianto in utero siamo ancora in fase di studio sperimentale.

Quali sono le alternative scienti­ficamente efficaci che possono essere proposte?

Facciamo nascere il bambino. In questo modo avremo tre vantaggi innegabili. In primo luogo, con la nascita potremo formulare una diagnosi precisa in merito alla talassemia, superando il margine di incertezza di un’analisi precoce. In secondo luogo, avremo molto più tempo a disposizione per cercare un donatore compatibile, perché avremo di fronte almeno 10 anni e non poche settimane. In ultimo, ma non per questo meno apprezzabile, studi approfonditi e decennali hanno dimostrato come, intervenendo con un trapianto su bambini talassemici entro i 10 anni di età, quindi in classe di rischio 1 in cui non si sono ancora verificati danni rilevanti o irreversibili, la percentuale di successo è del 98%.

Questa percentuale non è né assurda, né frutto di fantasia, ma è incontrovertibile e può essere verificata attraverso qualunque ricerca, anche online. Purtroppo è solo per scarsa informazione che si può mettere in dubbio la veridicità di tali dati.

Aumentano quindi le probabilità stati­stiche e concrete che il bambino guari­sca...

Potendo contare su una rete internazionale di 17 milioni di donatori nel mondo e con l’opportunità di sfruttare un margine di tempo congruo a disposizione, la probabilità statistica gioca oggettivamente a favore del piccolo malato. Anche perché possiamo ragionevolmente prevedere uno sviluppo della donazione eterologa di sangue cordonale che, per un talassemico, è la fonte migliore di cellule grazie alla minore probabilità di reazioni avverse al trapianto. Dobbiamo quindi proseguire per incentivare la raccolta e il bancaggio pubblico del cordone, così da aumentare in modo esponenziale le possibilità di guarigione di coloro che sono affetti da questa grave malattia. Come Federazione Adocesc abbiamo chiesto e ottenuto un’audizione alla Commissione sanità del Parlamento europeo. Il 15 marzo, insieme al sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella, una delegazione italo­francese sarà a Bruxelles per chiedere l’emanazione di una direttiva comunitaria che contrasti la donazione autologa e punti, invece, a quella solidaristica.

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