lunedì 10 gennaio 2011

Tar, l'impossibile riforma della 194 di Mario Palmaro 04-01-2011 da http://www.labussolaquotidiana.it

Il Tar ha deciso di  “bocciare” le linee guida che Regione Lombardia aveva dettato nel 2008 in materia di aborto volontario. Alcuni medici della Cgil avevano fatto ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale, che in questi giorni ha dato loro ragione. In sostanza, ha detto il Tar, la Regione Lombardia non può emanare linee guida sull’aborto, poiché la legge 194 disciplina già la materia, che è di competenza del Parlamento e non delle regioni.

Nel merito, la questione riguarda la condotta da tenere nei confronti dei nascituri in fase gestazionale avanzata: la legge 194 non prevede infatti un termine preciso oltre il quale l’aborto è vietato, ma stabilisce nell’ultima parte dell’articolo 7 che quando “sussiste la possibilità di vita autonoma del feto” l’aborto non può più essere praticato, ameno che la madre non sia in pericolo di vita.

Ora, nel periodo trascorso dal 1978 – anno di entrata in vigore della legge – a oggi, le tecniche di assistenza neonatale sono progredite, aumentando sempre di più le possibilità di sopravvivenza dei bambini prematuri, e anticipando l’età in cui è possibile salvarli. Di conseguenza, questo ha comportato anche un cambiamento nella “soglia” di sopravvivenza autonoma del feto fuori dal corpo della madre, andando a toccare un nervo scoperto della legge 194. Teniamo conto che l’aborto in fase così avanzata assomiglia a un parto, e che talvolta il feto nasce vivo; e che si sono verificati casi in cui un bambino abortito è stato rianimato e salvato. Ovviamente, gli abortisti spingono affinchè quel momento di capacità di vita autonoma sia portato il più in là possibile, allo scopo di assicurare la maggiore ampiezza all’autodeterminazione della donna; gli antiabortisti invece sperano, come Oskar Schindler nel famoso film girato da Steven Spielberg nel 1993, di poter “rosicchiare” un po’ alla volta il termine massimo di età gestazionale, oltre il quale abortire non è più legale. Questo aveva fatto la Regione Lombardia, emanando delle linee guida che raccomandavano ai medici di non procedere all’aborto quando il feto avesse compiuto 22 settimane più 3 giorni. Dopo tale termine si presumeva la possibilità di vita autonoma del feto e quindi l’aborto diventava illegale a norma della stessa legge 194.

Il Tar ha spazzato via quelle linee guida, e si capisce facilmente il perché: la 194 deve essere difesa e applicata nel rispetto della sua indistruttibile radice libertaria e mortifera, e quelle linee guida incrinavano quella visione, seppure in misura periferica e marginale. Di per sé, la Ragione Lombardia dice il vero quando afferma di non aver compiuto alcun golpe contro la 194, poiché le linee guida non contraddicono il testo della norma, ma forniscono un’interpretazione medico-tecnica. D’altra parte, il Tar ha buon gioco nell’usare l’arma formalistica della legge per giocare la sua partita ideologica, ricordando alla regione che l’effetto delle linee guida è – in punta di diritto – una limitazione a un potere (di vita e di morte) che la 194 affida alla donna e solo a lei.

Ricapitolando: Regione Lombardia vuole salvare qualche bambino in più dalla “strage legalizzata” che chiamiamo legge 194, dichiarando però che non può né intende violare la legge italiana; il Tar dice che la 194 non si tocca, e che essa contiene già tutta la tutela che serve al concepito. Morale della vicenda: Roberto Formigoni e i suoi collaboratori hanno fatto bene a tentare, e faranno bene a insistere, incuneandosi nelle maglie del diritto vigente. Ma occorrerà che, prima o poi, si riconosca pubblicamente la verità: e cioè che, vigente la legge 194 del 1978, la tutela dei bambini non ancora nati è, sul piano giuridico, impossibile.


Si allegano:
1) Linee guida della Regione Lombardia di attuazione della legge 194/1978
2) Testo integrale della sentenza del TAR Lombardia



DECRETO DIREZIONE GENERALE SANITA' N°  327 DEL 22/01/2008 Identificativo Atto n.   70
Oggetto:  ATTO DI INDIRIZZO PER LA ATTUAZIONE DELLA LEGGE 22 MAGGIO 1978 N. 194 "NORME PER LA TUTELA SOCIALE DELLA MATERNITA' E SULL'INTERRUZIONE VOLONTARIA DELLA GRAVIDANZA"
IL DIRETTORE GENERALE   
DIREZIONE  GENERALE  SANITA’
VISTA la l. n. 194/78  “Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza”;
CONSIDERATO che il monitoraggio costante dello stato di attuazione della legge 194/1978, sia dal punto di vista sanitario che socio assistenziale, ha fatto rilevare l’opportunità di valutarne la congruenza rispetto ai principi fondanti stabiliti all’articolo 1 della legge stessa;
RITENUTO: 
− di riferirsi in particolare alle attività preventive, di accoglienza e di presa in carico delle donne in stato di gravidanza complessivamente effettuate dalle ASL, dai consultori e dai servizi di ostetricia e ginecologia delle  strutture ospedaliere, con attenzione anche alle sinergie già presenti ed ulteriormente auspicabili con altri soggetti rappresentativi del volontariato sociale; 
− di dare indicazione per l’individuazione del termine ultimo di effettuazione delle interruzioni volontarie di gravidanza di cui all’articolo 6, lettera b, della legge, che non è stato individuato dalla legge stessa in quanto subordinato ai progressi della tecnica medico - scientifica che con il passare degli anni hanno ragionevolmente permesso di collocare il termine stesso in un momento sempre più precoce della gravidanza;
PRESO ATTO che queste attività di valutazione sono state effettuate considerando le esperienze regionali ritenute più avanzate sulla base del richiamo e della autorevolezza scientifica delle strutture coinvolte;
STABILITO di assumere quale parte integrante del presente atto l’allegato “Atto di indirizzo per la attuazione della legge 22 maggio 1978 n. 194”;
ACQUISITO il parere favorevole del Direttore Generale della DG Famiglia e Solidarietà Sociale;
STABILITO di pubblicare il presente atto sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia e sul sito web della Direzione Generale Sanità
VISTA  la l. r. 16/96 e successive modifiche, nonché i provvedimenti organizzativi dell’VIII legislatura;
DECRETA
1. Di assumere quale parte integrante del presente atto l’allegato “Atto di indirizzo per la attuazione della legge 22 maggio 1978 n. 194”.
2. Di pubblicare il presente atto sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia e sul sito web della Direzione Generale Sanità.
   
          Il DIRETTORE GENERALE DELLA D.G. SANITA’
     CARLO LUCCHINA 1
Allegato ddg. N.  327  del 22/01/2008
“Atto di indirizzo per la attuazione della legge 22 maggio 1978 n. 194”
N.B. gli articoli a cui si fa riferimento nel testo sono gli articoli della legge 194/1978 per i quali vengono definite delle indicazioni e degli indirizzi attuativi
Per quanto riguarda l’articolo 1 della legge si rileva che la attuazione dei suoi principi fondanti è condizionata dalla piena osservanza di quanto previsto all’articolo 2.
Nel merito dell’articolo 2  si rileva la necessità che tutti gli operatori comunque coinvolti in una richiesta di interruzione volontaria di gravidanza debbano  contribuire in modo particolare all’attuazione del punto d, di seguito riportato:
“I consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405, fermo restando quanto stabilito dalla stessa legge, assistono la donna in stato di gravidanza:
a) omissis;
b) omissis;
c) omissis;
d) contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza”
Il ruolo essenziale dei consultori può essere esercitato anche provvedendo: 
• A promuovere, in via prioritaria, corsi di aggiornamento (vedi anche articolo 15) organizzati con il coordinamento delle ASL, anche in collaborazione con le associazioni di volontariato, coi rappresentanti delle organizzazioni sindacali e dei patronati della Provincia, partendo quindi da un confronto comune sul tema della tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria di gravidanza. I corsi sono organizzati per gli operatori dei consultori, dei dipartimenti materno infantili delle aziende ospedaliere e per i PLS ed MMG. La loro finalità principale è quella di favorire un continuo aggiornamento sugli aspetti  giuridici, amministrativi e socio-sanitari relativi alla tutela della procreazione cosciente e responsabile la cui piena conoscenza ed attuazione, da parte degli operatori professionali, è indispensabile per ottenere una piena attuazione della presente legge. Si auspica che  i corsi di aggiornamento si svolgano anche in collaborazione con le istituzioni scolastiche.
• A predisporre, contestualmente alla organizzazione dei corsi di aggiornamento, dei manuali che possano essere di aiuto agli operatori elencati al punto precedente, che si trovano a contatto con le donne in stato di gravidanza.
• A predisporre, con finalità informative, degli opuscoli, tradotti anche nelle lingue straniere più parlate dalle donne immigrate in Lombardia, dove vengono illustrate le leggi a sostegno della maternità e tutte le opportunità di aiuto e sostegno che la rete sociale ed il volontariato possono offrire. E’ cura dei professionisti che seguono le donne, con il fine di aiutare la consapevolezza della loro scelta, integrare il supporto e le informazioni date verbalmente con la consegna di questo materiale informativo.
• A prevedere che le ASL si adoperino affinché i medici del territorio (MMG, PLS) informino le loro assistite, direttamente e/o con l’aiuto degli opuscoli informativi sopra menzionati, sulla possibilità di rivolgersi a strutture all’uopo identificate come  i consultori, altre strutture pubbliche, strutture del Volontariato sociale o Centri di Aiuto alla Vita eventualmente presenti in ospedale.
Riguardo l’articolo 4 si dà indicazione affinché la funzione chiave dei Consultori venga implementata favorendo una maggiore integrazione degli stessi con gli Ospedali. Si privilegia il 2 fatto che il certificato venga redatto presso il Consultorio. Per aiutare il raggiungimento di questo obiettivo si individua una rete, che definisca i confini e le dimensioni territoriali all’interno delle quali sono situati i Consultori da fare afferire all’Azienda Ospedaliera di riferimento; ciò anche per evitare gravosi e dispersivi passaggi delle donne da una struttura all’altra. Per migliorare il rapporto tra ospedale e consultori afferenti sono organizzati, con il coordinamento della ASL, dei gruppi di lavoro di tipo territoriale, col compito di analizzare i percorsi delle pazienti ed il ruolo dei diversi operatori.
E’ di particolare importanza, infatti, che gli operatori coinvolti nelle varie fasi del percorso che viene proposto dai servizi consultoriali ed ospedalieri alle donne che si presentano con una richiesta di interruzione della gravidanza possano essere  aiutati a ricostruire in modo attivo il senso complessivo dell’offerta proposta. Ciò avviene, da un lato esplicitando gli orientamenti, le ipotesi e gli intenti che guidano il lavoro di presa in carico delle donne che richiedono l’interruzione volontaria di gravidanza nell’istituzione in cui lavorano, dall’altro  interpellandosi e riflettendo su chi siano oggi le loro utenti, che domande portino e quale significato attribuiscano all’evento
aborto, italiane o straniere che  siano, maggiorenni o minorenni.  Ciò con l’attenzione ad una maggiore condivisione, ma anche ad una maggiore  formalizzazione delle metodologie e delle procedure con cui viene accolta e seguita la donna che si presenta con una richiesta di interruzione volontaria di gravidanza in modo  da corrispondere ad una presa in  carico globale della persona, della coppia e della famiglia, anche seguendo i cambiamenti sociali e culturali di questi anni e la sempre maggiore presenza di donne/famiglie migranti che richiedono adeguamenti opportuni e la presenza di mediatrici culturali nei consultori e negli ospedali.
Passando poi all’articolo 5 si rileva che il ricorso  alla procedura di urgenza non deve privare le donne dell’opportunità, voluta dalla legge, in particolare all’articolo 2d, che la loro scelta sia consapevole e cosciente di tutti i fattori che la determinano. A questo fine i Consultori e le UO di Ostetricia – Ginecologia mettono in atto gli  opportuni adempimenti e provvedono affinché la motivazione dell’urgenza sia riportata in chiaro sul certificato.
Per quanto attiene inoltre l’articolo 6 si da indicazione affinché ogni struttura socio-sanitaria , nel caso di interruzione di gravidanza disposta dopo  i primi novanta giorni disponga di percorsi diagnostico terapeutici da applicare specie nei casi di cui all’articolo 6b.
Numerose evidenze dimostrano che il maggior supporto alle famiglie con a carico bambini portatori di handicap è dato dalle Associazioni di Genitori di bambini affetti dalle medesime patologie. La presenza di queste associazioni nei luoghi pubblici e l’interazione tra le associazioni dei genitori e gli operatori sanitari che si occupano di Diagnosi Prenatale è uno strumento utile per il sostegno globale alle coppie che si trovano ad affrontare  il percorso di una gravidanza complicata da una malformazione fetale. La Regione promuove ed  auspica l’accoglienza  negli ospedali delle Associazioni dei Genitori, negli  spazi già definiti per le Associazioni dei Malati e facilita affinché questo si realizzi negli ospedali di 3° livello dove sono presenti i Centri di Diagnosi Prenatale. Per promuovere politiche di sostegno alle maternità  difficili, e per applicare la legge è importante conoscere e rendere pubblici i dati sulle patologie fetali. 
Sempre nel merito dell’articolo 6  si  stabilisce  di  creare un Registro Regionale nel rispetto dell’articolo 11, senza fare menzione dell’identità della donna,  dove la diagnosi prenatale è confrontata con l’accertamento eseguito sul feto abortito. Una valutazione annuale di queste informazioni, coinvolgendo anche le società scientifiche  interessate, aiuta ad  individuare eventuali problemi di accuratezza diagnostica delle tecniche di diagnosi prenatale mettendo così in atto strategie per migliorarne la qualità. 3
Proseguendo all’articolo 7, che stabilisce le modalità attuative da seguire per arrivare alla certificazione delle condizioni di cui all’articolo 6 ed alla eventuale effettuazione della interruzione volontaria di gravidanza, si rileva che:
• Nel caso dell’articolo 6a l’accertamento che  la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna viene effettuato dal medico del servizio ostetricoginecologico dell’ente ospedaliero, avvalendosi  degli specialisti che ritiene necessari e la patologia deve essere specificata nel certificato.
• Nel caso dell’articolo 6b, quando la donna richiede l’interruzione oltre i 90 giorni, in assenza di rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, l’accertamento dei gravi motivi psichici avviene con la consulenza dello psicologo/psichiatra.  Il medico del servizio di ostetricia e ginecologia si deve avvalere per la consulenza della collaborazione di altri specialisti, compreso lo psicologo, quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. La consulenza multidisciplinare deve fornire alla donna ed alla coppia tutti gli elementi utili a prendere una decisione consapevole.
Sia il certificato medico che la documentazione attestante il percorso di valutazione clinica che porta alla certificazione dell’interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi 90 giorni sono parte integrante della cartella clinica ed una copia del certificato medico è inviata alla Direzione Sanitaria ed a cura della stessa debitamente archiviata. Il certificato è redatto da almeno due medici ginecologi e firmato per presa visione  dal dirigente della struttura complessa di ostetricia e ginecologia. Deve essere fatto il riscontro diagnostico e/o effettuata una verifica del cariotipo fetale nei casi di interruzione di gravidanza effettuata per i casi di cui all’articolo 6b.
Nelle varie fasi della interruzione volontaria di gravidanza viene fornita un’adeguata assistenza psicologica.
Vita autonoma del feto (articolo 7 – comma 3)
I dati scientifici oggi a disposizione indicano che a 23 settimane di età gestazionale è possibile la vita autonoma del neonato. Considerando però che è dimostrato un margine di errore nella datazione della gravidanza, anche se effettuata in epoca gestazionale precoce, e che la possibilità di vita autonoma del neonato migliora, tra la 22  e la 24 settimana, del 2-3% per ogni giorno di gravidanza, si ritiene che l’interruzione di gravidanza di cui all’articolo 6b non debba essere effettuata oltre la 22ª settimana +3 giorni, ad eccezione dei casi in cui non sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, per i quali devono essere fornite cure confortevoli ed il nato deve essere trattato con rispetto e delicatezza.
Prendendo in esame l’articolo 8 si rileva che il consenso informato, come prevede la normativa vigente, viene raccolto in modo adeguato sia in termini di tempo dedicato che di elementi informativi trasmessi.
Per quanto attiene infine l’articolo 12 si rileva che alla minore che richieda una interruzione volontaria di gravidanza viene proposto un percorso di aiuto che preveda una attenta verifica della sua relazione genitoriale ed un adeguato accompagnamento psicologico ed assistenziale. Questo percorso di aiuto deve essere adeguatamente ed opportunamente diffuso tra gli operatori professionali coinvolti.


N.07735/2010 REG. SEN.
N.00804/2008 REG. RIC.

http://www.giustizia-amministrativa.it/DocumentiGA/Milano/Sezione%203/2008/200800804/Provvedimenti/stemma.jpg
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 804 del 2008, proposto da:
COLOMBO AUGUSTO, MAURO ALBERTO BUSCAGLIA, FIAMMETTA SANTINI, MARIA LUISA COMO, TIZIANA VAI, SONIA RIBERA, LOREDANA FRATTINI, ERMINIA MARIA GIAGNONI, tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Vittorio Angiolini, Ileana Alesso e Marilisa D'Amico, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Milano, Galleria del Corso n. 1;
contro
REGIONE LOMBARDIA, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti Pio Dario Vivone e Maria Emilia Moretti, dell’Avvocatura Regionale, con domicilio eletto presso la sede della stessa Avvocatura in Milano,Via Fabio Filzi n. 22;
per l'annullamento
del Decreto D.G. Sanità 22 gennaio 2008 n. 327, recante “Atto di indirizzo per la attuazione della legge 22 maggio 1978 n. 194”, e della deliberazione di Giunta n. VIII/006454 del 22 gennaio 2008.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Regione Lombardia;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 novembre 2010 il dott. Stefano Celeste Cozzi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
I ricorrenti espongono di essere medici che svolgono tutti, come operatori sanitari presso strutture pubbliche lombarde, attività inerenti alle procedure di interruzione della gravidanza.
Con il presente ricorso vengono impugnati gli atti in epigrafe indicati, con i quali la Regione Lombardia ha inteso dettare linee guida per l’attuazione della legge 22 maggio 1978 n. 194, recante “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”.
In particolare, costituiscono oggetto di impugnazione la deliberazione n. VIII/6454 del 22 gennaio 2008, con la quale la Giunta Regionale ha preso atto delle linea guida predisposte dal Presidente della Regione con l’ausilio di alcuni professionisti del settore, e il decreto del D.G. Sanità 22 gennaio 2008 n. 327 che ha disposto l’approvazione delle medesime.
Si è costituita in giudizio la Regione Lombardia per opporsi all’accoglimento del gravame.
La Sezione, con ordinanza n. 707 dell’8 maggio 2008, ha accolto la domanda di sospensione cautelare degli effetti dei provvedimenti impugnati.
In prossimità dell’udienza di trattazione del merito del ricorso, le parti hanno depositato memorie insistendo nelle proprie conclusioni.
Tenutasi la pubblica udienza in data 4 novembre 2010, la causa è stata trattenuta in decisione.
Ritiene il Collego che il ricorso sia fondato essendo meritevole di accoglimento, per i motivi che verranno di seguito esposti, il quinto mezzo di gravame avente carattere assorbente.
Con tale motivo i ricorrenti evidenziano come le linee guida regionali contengano prescrizioni – relative a materie riservate alla competenza legislativa dello Stato - contrarie al contenuto della legge n. 194/78.
La prima disposizione contenuta nelle linee guida su cui si focalizza l’attenzione dei ricorrenti riguarda la previsione secondo la quale l’interruzione di gravidanza di cui all’art. 6, lett. b), della citata legge n. 194/78 (disciplinante l’interruzione della gravidanza dopo i primi novanta giorni in caso di grave pericolo per la salute della donna) non possa essere effettuata oltre la ventiduesima settimana più tre giorni.
A parere dei ricorrenti, la Regione - con la fissazione di un termine finale oltre il quale non è più possibile far ricorso alle tecniche di interruzione volontaria - avrebbe individuato un nuovo requisito essenziale, non previsto dalla legge, per poter accedere al servizio; in tal modo essa avrebbe inciso sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni espletate nell’ambito del servizio stesso; determinazione che richiederebbe invece disciplina unitaria a livello statale. Ne conseguirebbe la violazione dell’art. 117, comma secondo, lett. m) della Costituzione che, come noto, riserva allo competenza legislativa dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili o sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Aggiungono i ricorrenti che, anche a voler ritenere che l’individuazione del suddetto termine non possa essere ricondotta all’ambito applicativo dell’art. 117, comma 2, lett. m) della Costituzione, andrebbe comunque osservato che la legge n. 194/78, nel disciplinare l’interruzione volontaria della gravidanza, ha innanzitutto di mira la tutela della salute della donna. Ne conseguirebbe che tale disciplina ricadrebbe nell’ambito delle materie di legislazione concorrente di cui all’art. 117, comma terzo, della Costituzione (che fa riferimento, fra l’altro, proprio alla materia “tutela della salute”), per le quali è riservata allo Stato la potestà di dettare norme di principio, mentre resta riservata alle Regioni la sola produzione delle norme di dettaglio.
Anche sotto tale profilo vi sarebbe dunque violazione della norma costituzionale, posto che la fissazione ex novo di un termine massimo oltre il quale non è più possibile accedere alle tecniche di interruzione volontaria della gravidanza non può che essere espressione di un principio generale; principio sancito in un atto emanato dagli organi della Regione che si sarebbero in tal modo indebitamente arrogati l’esercizio di una potestà attribuita dalla Costituzione al legislatore statale.
Si evidenzia ancora che la legge statale – come detto unica fonte deputata a disciplinare la materia di cui è causa -.ha intenzionalmente evitato di fissare un termine rigido oltre il quale impedire l’interruzione volontaria della gravidanza, preferendo stabilire, all’art. 7, ultimo comma, che l’interruzione non può più farsi quando il feto ha possibilità di vita autonoma. Questa scelta si giustificherebbe, secondo i ricorrenti, in quanto si è ritenuto non opportuno cristallizzare in una disposizione normativa un elemento suscettibile di differente apprezzamento a seconda dei diversi casi sottoposti all’esame del medico ed a seconda del livello raggiunto dalla scienza e dalla tecnica in dato momento storico. Pertanto, la disposizione emanata dagli organi regionali, che fissa invece un termine rigido, oltre ad essere contraria a Costituzione, sarebbe altresì contraria alla lettera e alla ratio delle disposizioni recate dalla legge n. 194/78.
In estremo subordine – e cioè anche qualora si dovesse ritenere che la norma che fissa il suddetto termine sia da considerare non già come norma di principio, ma disposizione tecnica di dettaglio – i ricorrenti evidenziano che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 35 del 1997, ha affermato che la legge n. 194/78, nel definire le procedure per l’accesso alle tecniche di interruzione volontaria della gravidanza, detta una disciplina a contenuto costituzionalmente vincolato. Ne conseguirebbe che nessuna fonte potrebbe apportare modifiche alle procedure ivi delineate, neppure per fissare un termine massimo che la legge Statale non prevede.
Sotto quest’ultimo profilo, vengono poi censurate altre disposizioni contenute nelle linee guida che introducono ulteriori modifiche alle procedure stabilite dalla legge n. 194/78.
Ci si riferisce in particolare: alle disposizioni che impongo al ginecologo di avvalersi di specialisti di altre branche della medicina per diagnosticare la sussistenza di gravi pericoli per la salute della donna ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 6, lett. b), della legge n. 194/78, laddove la legge statale lascia al ginecologo la scelta se avvalersi o meno della consulenza di altri specialisti; alle disposizioni che prevedono che tali specialisti debbano fornire consulenza (ai fini di offrire elementi utili per assumere una decisione consapevole) non solo alla donna, come previsto nella legge n. 194/78, ma alla coppia; alle disposizioni che impongono che il certificato medico che diagnostica la sussistenza di gravi pericoli per la salute della donna sia redatto da almeno due ginecologi, e che sia altresì firmato dal dirigente della struttura complessa di ostetricia e ginecologia per presa visione, laddove la legge statale prevede la sottoscrizione del certificato da parte di un solo ginecologo; alle disposizioni che impongono - nei casi di interruzione della gravidanza ai sensi dell’art. 6, lett. b) della legge n. 194/78 – l’effettuazione di un riscontro diagnostico e/o una verifica del cariotipo fetale; alle disposizioni che impongono l’istituzione di un registro regionale dove la diagnosi prenatale è confrontata con l’accertamento eseguito sul feto abortito; alle disposizioni che, con riferimento al procedimento riguardante gestanti minorenni, prevedono l’istituzione di un particolare percorso di aiuto non previsto dalla legge statale; ed infine alle disposizioni che prevedono che le strutture sanitarie seguano con maggior attenzione la donna che si presenta con la richiesta di interruzione volontaria della gravidanza, prendendo in carico non solo la richiedente ma anche la coppia e la famiglia (in tal modo, secondo i ricorrenti, si farebbe intendere che nella scelta di interruzione della gravidanza possano venir coinvolti anche altri soggetti, laddove la legge statale riserva alla sola donna ogni decisione).
In proposito il Collegio osserva quanto segue.
La legge 22 maggio 1978 n. 194, nel disciplinare l’interruzione volontaria della gravidanza, ha di mira la tutela ed il contemperamento di due valori aventi rilevanza costituzionale, e segnatamente la tutela della vita umana sin dal suo inizio (cfr. art. 1, ultimo comma), bene giuridico presidiato dall’art. 2 della Costituzione, e la tutela del diritto alla salute della gestante, a sua volta presidiato dall’art. 32 della Costituzione.
Il legislatore, nel dettare la disciplina contenuta nella suddetta legge, era vincolato, in maniera piuttosto stringente, da una pronuncia della Corte Costituzionale (di qualche anno antecedente alla legge medesima) avente ad oggetto l’art. 546 c.p. che puniva il delitto di procurato aborto (Corte Costituzionale, sent. 18 febbraio 1975 n. 27).
In quella sentenza la Corte dichiarò l’illegittimità della norma del codice penale nella parte cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere interrotta quando l’ulteriore gestazione implicasse danno o pericolo grave per la salute della madre.
La decisione si basava sulla constatazione che l’art. 2 della Costituzione riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi la situazione giuridica del concepito; ma che tuttavia, in base all’art. 32 della Costituzione (il quale impone di dare assoluta prevalenza al bene salute di una persona già nata), le esigenze di tutela del concepito divengono recessive e possono essere sacrificate qualora queste collidano con la necessità di evitare un grave pericolo per la salute della madre.
Sulla base di queste considerazioni la Corte affermò che era obbligo del legislatore dettare una legge che contemperasse, in un giusto equilibrio, i valori sopra enunciati.
La legge n. 194/78 (d’ora innanzi anche “legge”) costruisce proprio il mezzo con quale il legislatore nazionale ha adempiuto all’obbligo imposto dalla Corte Costituzionale.
Il punto di equilibrio individuato dal legislatore si sostanzia, da un lato, nella definizione delle condizioni puntuali al ricorrere delle quali è ammesso il ricorso alle tecniche di interruzione volontaria della gravidanza e, da altro lato, nella definizione della procedure idonee ad attestare l’effettiva sussistenza di quelle condizioni.
L’importanza e la delicatezza della soluzione legislativa sono state sottolineate da un’altra decisione della Corte Costituzionale che, nella sentenza 10 febbraio 1997 n. 35, ha affermato che le disposizioni contenute nella legge n. 194/78 debbono considerarsi disposizioni “a contenuto costituzionalmente vincolato”. Con tale espressione la Corte ha voluto sottolineare che la disciplina contenuta nella suddetta legge, proprio in quanto volta a dare tutela a due valori di rango costituzionale attraverso l’individuazione di un punto di equilibrio che scaturisce da una delicata operazione di contemperamento, è una disciplina che non può venire meno pena il sacrificio di quei valori; sacrificio che, ovviamente, la Costituzione non tollererebbe (per questa ragione è stato dichiarato non ammissibile un referendum avente ad oggetto alcuni articoli di quella legge).
Ritiene il Collegio che questo sia il punto essenziale della questione.
Invero, la suddetta disciplina, proprio perché frutto del contemperamento fra due interessi contrapposti, segna necessariamente il limite di tutela di quei due medesimi interessi, giacché in tal modo si stabilisce a quali condizioni, fino a che punto e secondo quali modalità un interesse può prevalere sull’altro. Emblematici sono ad esempio gli articoli 6 e 7, ultimo comma, della legge i quali individuano le condizioni alle quali è subordinato l’accesso alle tecniche di interruzione volontaria della gravidanza dopo che siano trascorsi novanta giorni dall’inizio della gestazione: queste norme (che verranno analiticamente esaminate nel prosieguo), da un lato, segnano il limite di tutela del diritto alla salute della madre; da altro lato, specularmente, indicano quando invece prevale il diritto alla vita del nascituro.
Ma l’individuazione del limite di tutela di un diritto non è altro che l’individuazione del contenuto del diritto stesso; e, mutando ancora prospettiva, l’individuazione del contenuto del diritto non è altro che l’individuazione delle prestazioni da garantire affinché che quel diritto possa essere soddisfatto.
Tornando all’esempio degli articoli 6 e 7, si può dire che il legislatore con essi indica non solo quando uno dei due interessi sopraindicati debba prevalere sull’altro segnando il limite del contenuto dei diritti che tali interessi hanno a fondamento; ma indica altresì quali sono le condizioni al ricorrere delle quali le prestazioni del servizio sanitario debbono essere rese affinché i diritti rispettivamente di madre e nascituro possano essere tutelati (ad esempio, in caso di pericolo di vita della madre, l’accesso alle tecniche di interruzione della gravidanza deve essere comunque sempre assicurato).
Alla stessa stregua vanno considerate le norme di natura procedurale contenute nella legge che individuano le modalità di accertamento delle suindicate condizioni.
Invero la definizione del modo di accertamento delle condizioni di accesso al servizio serve a determinare il grado di attendibilità che l’accertamento stesso deve raggiungere affinché le sue risultanze possano essere poste a fondamento della decisione circa la scelta dell’interesse che deve prevalere sull’altro. Tale determinazione contribuisce quindi a definire più compiutamente le condizioni alle quali è subordinata la tutela dell’uno piuttosto che dell’altro interesse.
Lo stabilire ad esempio chi debba certificare il pericolo di vita per la madre, e quali procedure debbano essere seguite per addivenire a tale accertamento, implica anche la determinazione del grado di attendibilità che il suddetto accertamento deve raggiungere e quindi una più compiuta definizione delle condizioni alle quali è subordinato l’accesso alle tecniche di interruzione della gravidanza.
Si deve pertanto concludere affermando che le norme contenute nella legge n. 194/78 (sia quelle che dettano le condizioni per accedere al servizio sia quelle che definiscono le modalità procedurali per addivenire a tale accertamento) definiscono concretamente il contenuto dei diritti che fanno capo rispettivamente a madre e a nascituro, e quindi, per le ragioni sopra illustrate, incidono, in base ad altra prospettiva, sulla determinazione del contenuto delle prestazioni da garantire affinché quei diritti possano essere tutelati.
Per comprendere appieno questa affermazione occorre ora esaminare l’art. 117, secondo comma lett. m) della Costituzione; norma che offre il parametro per verificare se la competenza legislativa nella materia di cui è causa spetti allo Stato oppure alle regioni.
La citata norma, come noto, riserva alla legislazione esclusiva dello Stato la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
La Corte Costituzionale ha chiarito che questa disposizione non individua una materia in senso stretto, ma definisce una competenza trasversale del legislatore statale che può investire anche materie riservate alla competenza delle regioni, per le quali tuttavia lo stesso legislatore statale deve poter dettare le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni essenziali garantite che sostanziano il contenuto minimo di tali diritti (cfr. Corte Costituzionale, sentenza 26 giugno 2002 n. 282).
Ritiene il Collegio che una corretta lettura della disposizione e delle statuizioni contenute nelle sentenze della Corte Costituzionale porti a ritenere che per determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni non debba intendersi esclusivamente l’individuazione degli standard strutturali e qualitativi delle prestazioni stesse, come pure ha affermato la Corte (cfr. Corte Costituzionale 4 dicembre 2009 n. 322), ma debba anche (e prima ancora) intendersi l’individuazione delle condizioni cui è subordinato l’accesso a quelle prestazioni, giacché sarebbe del tutto illogico ritenere il contrario, e cioè che la norma costituzionale, pur avvertendo l’esigenza di assicurare prestazioni di contenuto minimo uniforme su tutto il territorio nazionale, lasci poi che ciascuna regione possa stabilire quando quelle prestazioni debbano essere assicurate ai cittadini.
Si deve quindi affermare che le disposizioni contenute nella legge n. 194/78, che individuano le condizioni per l’accesso alle tecniche di interruzione volontaria della gravidanza e che disciplinano le procedure per l’accertamento di quelle condizioni, sono disposizioni riconducibili all’art. 117 lett. m) della Costituzione, e quindi riconducibili a materie riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
La conclusione risulta avvalorata dal rilievo che sarebbe del tutto illogico permettere che una materia tanto sensibile qual è quella afferente all’interruzione volontaria della gravidanza – che involge scelte di fondo riguardanti valori essenziali quali “vita” e “salute” - possa essere disciplinata differentemente sul territorio nazionale, lasciando che le regioni individuino, ciascuna per il proprio territorio, le condizioni per l’accesso alle tecniche abortive e, attraverso la definizione delle procedure, il grado di attendibilità degli accertamenti di quelle medesime condizioni.
Ciò detto occorre ora esaminare le disposizioni contente nella legge n. 194/78 e confrontarle con le disposizioni dettate dalle linea guida regionali, onde verificare se queste siano conformi o in contrasto con la disciplina recata dalla normativa statale, come visto, unica fonte deputata a disciplinare la materia.
Occorre dunque esaminare innanzitutto l’art. 6 della legge il quale, come anticipato, si riferisce ai casi di interruzione della gravidanza dopo che siano trascorsi novanta giorni dall’inizio della gestazione.
Stabilisce questa norma che “l'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.
La disposizione prevede quindi due ipotesi: la prima riguarda il caso in cui la madre possa versare addirittura in pericolo di vita; la seconda il caso in cui ad essere minacciato è il bene salute.
Con specifico riferimento a questa seconda ipotesi, la giurisprudenza ha chiarito che, affinché l’aborto possa essere legittimamente praticato, è necessario che la gravidanza inneschi un processo patologico suscettibile di accertamento medico; e che la prosecuzione della gravidanza sia idonea a determinare l’aggravamento della patologia di modo che possa derivarne grave pericolo per la salute della gestante (cfr. Cassazione civile, sez. III, 1 dicembre 1998 n. 12195).
Si tratta dunque di una disciplina di particolare rigore giacché, a differenza di ciò che è previsto dall’art. 4 della legge per il caso di interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, non è sufficiente la sussistenza di un pericolo futuro, per quanto grave, per la salute della donna (con riferimento all’aborto entro i primi novanta giorni, parte della dottrina ritiene sufficiente il rischio di un perturbamento del benessere psichico), ma è altresì necessaria la sussistenza di una patologia già in atto al momento dell’accesso alle tecniche abortive.
L’art. 6 della legge prevede quindi due condizioni: la prima è la presenza di una situazione patologica già in atto durante la gestazione; la seconda è il rischio che tale situazione patologica possa tradursi, in caso di prosecuzione della gravidanza, in un grave pericolo per la salute psico-fisica della madre.
L’art. 7, ultimo comma, della legge prevede poi che “quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l'interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell'articolo 6 ….”.
Quest’ultima disposizione detta quindi una condizione negativa, che va ad aggiungersi alle due condizioni positive sopra illustrate: se non vi è pericolo di vita per la madre, e non si ricade dunque nell’ipotesi di cui alla lett. a), l’interruzione della gravidanza può farsi solo se vi è impossibilità di vita autonoma del feto, e cioè se questo non ha raggiunto un grado di maturità tale da consentirgli, una volta estratto dal grembo materno, di completare il suo processo di formazione (cfr. Cassazione civile, sez. III, 4 gennaio 2010, n. 13).
Come si vede la legge non ha fissato un termine preciso oltre il quale presumere che il feto sia in grado di condurre vita autonoma, ma consente che tale elemento venga accertato caso per caso dagli operatori.
Ritiene il Collegio che questa omissione non sia frutto di una svista, né che essa sia sintomo di incapacità del legislatore nazionale (che avrebbe, in tal modo, determinato una lacuna nella disciplina da colmare non appena possibile, magari grazie all’efficiente intervento delle regioni).
Al contrario si tratta di una scelta precisa, consapevole e ponderata.
Invero, come spesso l’esperienza insegna, in taluni casi non è opportuno imbrigliare in una disposizione legislativa parametri che possono variare a seconda delle condizioni che si presentano nelle innumerevoli, sempre diverse, fattispecie concrete e che, soprattutto, possono variare a seconda del livello raggiunto dalle acquisizioni scientifiche e sperimentali in dato momento storico. E’ proprio per questa ragione che si è preferito lasciare che l’accertamento circa la possibilità di vita autonoma del feto sia condotto caso per caso dal medico che segue la gestante.
Risulta pertanto chiaro il contrasto fra la disposizione statale e quella contenuta nelle linee guida regionali le quali, individuando un termine oltre il quale si deve presumere, salvo prova contraria, che il feto possa avere vita autonoma, contravvengono alla chiara decisione del legislatore nazionale di non interferire in un giudizio volutamente riservato agli operatori, i quali, come detto, debbono poter effettuare le proprie valutazioni esclusivamente sulla base delle risultanze degli accertamenti svolti caso per caso e sulle base del livello delle acquisizioni scientifiche e sperimentali raggiunto nel momento in cui vengono formulate le valutazioni stesse.
La disposizione in esame dettata dalle linea guida è quindi illegittima.
Ciò detto occorre ora passare all’esame delle procedure individuate dal legislatore nazionale per addivenire all’attestazione di sussistenza delle condizioni di accesso alle tecniche di interruzione volontaria della gravidanza.
In proposito va richiamato l’art. 7, comma 1, della legge il quale stabilisce che i processi patologici che configurino i casi che consentono l’accesso alle tecniche abortive “…vengono accertati da un medico del servizio ostetrico-ginecologico dell'ente ospedaliero in cui deve praticarsi l'intervento, che ne certifica l'esistenza. Il medico può avvalersi della collaborazione di specialisti. Il medico è tenuto a fornire la documentazione sul caso e a comunicare la sua certificazione al direttore sanitario dell'ospedale per l'intervento da praticarsi immediatamente”.
Come si vede questa disposizione non impone al medico del servizio ostetrico-ginecologico di affidarsi alla consulenza di specialisti di altre branche della medicina, ma attribuisce al primo la facoltà di scelta se avvalersi o meno di tale ausilio al fine di certificare la sussistenza di una patologia che possa arrecare, in caso di mancata interruzione della gravidanza, grave pericolo per la salute della madre.
Il legislatore nazionale ha riposto quindi piena fiducia nella capacità di valutazione del medico del servizio ostetrico-ginecologico, anche con riferimento alla capacità di valutare i propri limiti conoscitivi, lasciando che sia tale specialista a dover decidere se avvalersi o meno dell’ausilio di altri medici.
Secondo il legislatore statale, dunque, la valutazione formulata dal suddetto medico (come visto anche con riferimento ai propri limiti conoscitivi) offre di per sé un grado di sufficiente attendibilità.
La Regione, nelle proprie linee guida, ha invece previsto che l’accertamento dei gravi motivi psichici (quando non siano determinati da gravi malformazioni del nascituro) debba avvenire con la consulenza dello psicologo/psichiatra; ed ha previsto altresì che nella consulenza da fornire alla donna, una volta che sia stato accertato il grave pericolo per la sua salute, il medico del servizio di ostetricia e ginecologia si debba avvalere dell’ausilio di altri specialisti .
Si tratta quindi una palese violazione della disposizione contenuta nella legge statale che determina l’illegittimità delle previsioni contenute nelle linee guida regionali.
Parimenti illegittime sono le previsioni delle linee guida che impongono la redazione congiunta da parte di due medici ginecologi (oltre alla firma per presa visione da parte del dirigente di struttura complessa di ostetricia e ginecologia) del certificato che attesta la sussistenza delle condizioni necessarie per poter accedere alle tecniche abortive giacché, come visto, la legge statale non richiede affatto tale redazione congiunta, ritenendo sufficiente l’apporto di un solo medico.
Ritiene il Collegio che l’illegittimità delle disposizioni suesposte determini l’illegittimità di tutta la disciplina impartita dalla Regione; disciplina avente carattere inscindibile ed unitario, per tale ragione non suscettibile di essere annullata solo parzialmente.
In accoglimento del quinto motivo, avente carattere assorbente, il ricorso deve essere pertanto accolto, mentre restano assorbiti gli altri motivi.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sezione terza, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il decreto D.G. Sanità 22 gennaio 2008 n. 327 e la deliberazione di Giunta Regionale n. VIII/006454 del 22 gennaio 2008.
Condanna la Regione a rifondere ai ricorrenti le spese di causa che vengono quantificate in euro 4.000,00 oltre IVA e c.p.a., fermo l’onere di cui all’art. 13 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo integrato dal comma 6 bis dell’art. 21 del decreto-legge n. 223 del 2006, come modificato dalla legge di conversione n. 248 del 2006, a carico della parte soccombente.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 4 novembre 2010 con l'intervento dei magistrati:
Domenico Giordano, Presidente
Stefano Celeste Cozzi, Referendario, Estensore
Dario Simeoli, Referendario


L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 29/12/2010
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

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