venerdì 28 febbraio 2014

Utero in affitto. Buona notte, Legge 40 di Tommaso Scandroglio, 28-02-2014, www.lanuovabq.it

Per celebrare i dieci anni di vita della legge 40 la quinta sezione penale del tribunale di Milano ha pensato bene di far saltare un altro divieto posto da questa norma, quello che fa riferimento alla maternità surrogata. Un’altra candelina sulla torta della festeggiata è stata dunque spenta.

Ecco la vicenda. Una coppia di Milano vola a Kiev e pagando 30mila euro alla clinica Biotexcom “prendono a nolo” una donna perché “doni” il proprio ovocita ed utero (le virgolette sono d’obbligo perché la gestante è stata ricompensata per il disturbo), ovocita fecondato dallo spermatozoo dell’uomo della coppia. Dopo nove mesi ritirano il bebè e secondo la legge ucraina il pargolo è figlio legittimo della coppia. L’ufficiale di stato civile italiano iscrive all’anagrafe l’infante come figlio della coppia milanese ma contestualmente i funzionari dell’ambasciata italiana in Ucraina, interessati dalla vicenda, sentono puzza di bruciato e chiedono all’autorità giudiziaria del nostro Paese di indagare. Infatti per il nostro ordinamento le uniche forme di genitorialità ammesse sono quella naturale o quella per adozione.

Il Tribunale, secondo sentenza pubblicata un paio di giorni fa, assolve invece i due dal reato di alterazione dello stato civile del minore (567 cp) con le seguenti motivazioni.

In primo luogo "l'atto di nascita è stato formato correttamente, in Ucraina, nel rispetto del luogo ove il bambino è nato". Peccato che la Legge di diritto internazionale privato n. 218 del 1995 stabilisce che “in nessun caso le leggi e gli atti di uno Stato estero, gli ordinamenti e gli atti di qualunque istituzione o ente, o le private disposizioni possono aver effetto nel territorio dello Stato, quando siano contrari all’ordine pubblico o al buon costume”. Tale ratio è ripresa da un Decreto del Presidente della Repubblica del 3 novembre 2000, n. 396 in cui si vieta all’ufficiale di stato civile di trascrivere un atto formatosi all’estero quando risultasse contrario all’ordine pubblico. Non vale a superare il divieto nemmeno il fatto, come tentano di spiegare i giudici meneghini, che «questa forma di procreazione assistita è consentita dalla maggior parte dei Paesi che aderiscono all’Unione europea». Detto in altre parole per i magistrati di Milano se il mio vicino di casa ammazza e ruba allora io mi posso sentire autorizzato a fare lo stesso.

Nella sentenza poi si spiega che il figlio è un diritto e tale tecnica è solo un mezzo per soddisfare il diritto (come dare loro torto? E’ la stessa logica che permette l’accesso all’omologa qui in Italia).

Successivamente fanno intendere che la nostra normativa sulla filiazione è superata perché il concetto di genitorialità "è incentrato sull'assunzione di responsabilità", quindi poco rileva il legame biologico. Però per il nostro ordinamento la responsabilità deriva dalla genitorialità naturale e solo in subordine - laddove ci sia abbandono o incapacità da parte dei genitori naturali - si interviene con l'affido e l'adozione. Non esistono altre fonti. Se il criterio indicato dai magistrati fosse davvero valido, basterebbe un single, una coppia omosessuale ed anche un gruppo di amici o un’associazione che dichiarasse di assumersi la responsabilità di crescere un bambino per permettere a tutti costoro di diventare “genitori”. Insomma un altro caso dove la filiazione viene sganciata dalla generazione in seno ad un rapporto di coniugio e finisce per essere divisa in due momenti distinti: la produzione realizzata da terzi del bambino – omologa, eterologa con o senza utero in affitto poco importa – e l’acquisto/gestione del bambino da parte di una coppia.

Inoltre il Tribunale insiste sul fatto che l'eterologa nella variante “maternità surrogata” è "terapia dell'infertilità" che tutela il "diritto alla salute". Domanda tra le molte: in tal modo il concetto di famiglia non viene stravolto? Risposta dei giudici: la famiglia è «istituto fondato sul libero accordo dei contraenti». Quindi la compravendita di ovociti, uteri e sperma sono azioni proprie di questo nuovo modello familiare che si pone sul “mercato del figlio” e dove i genitori prendono nuove qualifiche: acquirenti di gameti, conduttori di uteri, etc.

Come appuntavamo all’inizio, la pratica della maternità surrogata è vietata in Italia dalla legge 40 all’art. 12, ma ancora una volta un giudice è andato per la sua strada infischiandose. Nonostante ciò c’è ancora qualcuno che si incaponisce nell’affermare che la legge 40 è rimasta intatta. Sarà vero dal punto di vista della lettera della legge – sentenza della Consulta a parte – ma molto falso dal punto di vista della prassi. E dato che le leggi servono per disciplinare, vietare, comandare condotte pratiche (altrimenti facciamo accademia), quando queste condotte sono difformi dal testo di legge e per di più ricevono la benedizione della magistratura allora si può dire pianamente che la legge non è più efficace. Ciò a dire che gli effetti previsti dalle norme rimangono sulla carta e non si incarnano in condotte conseguenti dei consociati, vero ed unico fine di una legge. Risultato: la legge 40 già oggi è roba da museo.

In tale situazione la magistratura ha ormai assunto il compito di giustificare a posteriori qualsiasi desiderata delle coppie, una sorta di convalida di carattere amministrativo, di autorizzazione meramente formale. A questo punto allora non solo la legge è superata dall’azione dei giudici, ma la stessa magistratura non ha più ragion d’essere perché superata a sua volta dalle esigenze delle coppie, verso cui occorre sempre essere accondiscendenti. Se la vera ratio su tali materie sensibili è quella del “fate quello che vi pare tanto a noi starà sempre bene”, appare persino superfluo l’imprimatur del giudice. Un inutile passaggio procedurale in un momento in cui nel nostro Paese si tende alla semplificazione burocratica.

giovedì 27 febbraio 2014

Germania: condannati 35 genitori perché contrari all'educazione sessuale - Associazioni di 9 Paesi e 4 continenti difendono i diritti dei genitori, 08 Marzo 2011

MADRID/BERLINO, martedì, 8 marzo 2011 (ZENIT.org).- L'ultimo caso diffuso dai media è quello di una madre tedesca in carcere per non aver fatto frequentare ai propri figli le lezioni di educazione sessuale nella scuola primaria statale.

Dal 2006, in Germania si contano 35 casi di genitori condannati per la stessa ragione. Molte associazioni difendono il diritto dei genitori di scegliere l'educazione dei propri figli in una questione tanto delicata.

Negli ultimi giorni è stata diffuso il caso di Irene Wiens, di Salzkotten, condannata a 43 giorni di prigione per aver rifiutato di far assistere i propri figli alla lezione di educazione sessuale nella scuola primaria.

Secondo una nota stampa inviata a ZENIT da Ignacio Pascual, dell'associazione “Profesionales por la Ética”, “la difesa giuridica di tale incredibile questione, già giunta al Tribunale Europeo dei Diritti Umani di Strasburgo, è diretta da Alliance Defense Fund (ADF), un'entità di ambito sovranazionale esperta nella protezione della libertà religiosa e di coscienza”.

Come ha spiegato il consulente legale dell'ADF, Roger Kiska, “sono i genitori, non il Governo, i responsabili ultimi dell'educazione dei figli. Incarcerare dei genitori perché esercitano dei diritti universalmente accettati è impensabile”.

“La famiglia Wiens basa i suoi diritti sulla Convenzione Europea per i Diritti Umani, che difende il diritto dei genitori di trasmettere ai propri figli la visione della sessualità conforme alle proprie convinzioni”.

“E' dunque perfettamente legale che i genitori decidano di non far frequentare ai propri figli le lezioni e le attività previste dall'educazione statale”, ha aggiunto. “Irene Wiens è in carcere per aver difeso i suoi quattri figli (tra i 10 e i 16 anni) da un'educazione sessuale interattiva che non coincide con la sua visione della sessualità”.

“Il caso della famiglia Wiens non è purtroppo il primo”, spiega la nota di “Profesionales por la Ética”. “Risulta sorprendente che dal 2006 ADF abbia contato in Germania 35 casi di genitori condannati per non aver fatto partecipare i propri figli a questo tipo di attività statali che si introducono pienamente nella morale e nelle credenze dei genitori e coinvolgono i bambini”. Le condanne includono multe (tra i 200 e i 1.200 euro) e/o carcere (da alcuni giorni a un mese e mezzo).

Di fronte a questi casi, “Profesionales por la Ética” – associazione che collabora strettamente con ADF nella difesa dei diritti dei genitori europei – ha diffuso una dichiarazione per il riconoscimento dei diritti dei genitori di educare i figli in base alle proprie convinzioni.

Il documento definisce “inaccettabile” la repressione subita da questa madre tedesca e ricorda che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, il Patto per la Difesa dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali e la Lettera dei Diritti Fondamentali dell'UE, così come il Patto Internazionale di Diritti Civili e Politici, garantiscono il diritto dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni.

A questa dichiarazione si stanno unendo migliaia di cittadini anonimi. Il testo è stato sottoscritto anche da associazioni di nove Paesi e quattro continenti: Europa, Africa, Asia e America.

“Questa dichiarazione – ha spiegato Leonor Tamayo, responsabile dell'Area Internazionale di “Profesionales por la Ética” – sarà inviata al Governo federale tedesco e ai Governi dei vari Stati tedeschi, al resto dei Governi dei Paesi dell'UE e alle istituzioni europee competenti in diritti e libertà fondamentali”.

“La libertà di educazione – ha aggiunto – è drammaticamente ferita in Europa”. “Ancora una volta, è la società civile che deve levare la propria voce e denunciare gli abusi del potere, l'indifferenza e la complicità dei Governi e la mancanza di protezione dei cittadini, e chiedere il rispetto dei diritti fondamentali”.
Per ulteriori informazioni, http://www.profesionalesetica.org/

(08 Marzo 2011) © Innovative Media Inc.

martedì 25 febbraio 2014

Alterazione di stato e maternità surrogata all'estero: una pronuncia assolutoria del Tribunale di Milano, 21 Febbraio 2014, http://www.penalecontemporaneo.it/


Trib. Milano, Sez. V pen., 15 ottobre 2013 (dep. 13 gennaio 2014), Est. Cernuto

[Tommaso Trinchera]



1. In un caso di fecondazione assistita di tipo eterologo e contestuale maternità surrogata (c.d. utero in affitto), il Tribunale di Milano, con la sentenza qui pubblicata, ha escluso che possa configurarsi il reato di alterazione di stato ex art. 567 co. 2 c.p. qualora il neonato venga dichiarato figlio della donna per conto della quale è stata portata avanti la gravidanza - invece che come figlio della partoriente o della donatrice dell'ovulo fecondato - se l'atto di nascita è stato formato validamente nel rispetto della legge del Paese ove il bambino è nato (nel caso di specie, l'Ucraina).



2. Questa, in sintesi, la ricostruzione dei fatti oggetto della sentenza.

Gli imputati, un uomo e una donna che non possono portare a termine una gravidanza tradizionale, decidono di rivolgersi ad una clinica privata di Kiev in Ucraina per ricorrere a una tecnica di procreazione medicalmente assistita - fecondazione eterologa e "utero in affitto" - che non può essere praticata in Italia. In particolare, la tecnica cui ricorrono i due imputati prevede la formazione di un embrione in vitro con metà del patrimonio genetico del padre e l'altra metà proveniente da una donna ovo-donatrice. L'embrione così generato viene poi impiantato nell'utero di una terza donna, maggiorenne e volontaria, che porta a termine la gravidanza.

Nel periodo della gestazione, l'imputata provvede ad indossare un cuscino addominale, in gommapiuma, per simulare di essere in stato interessante. La settimana prima della nascita del bambino la coppia si reca in Ucraina per assistere al parto. Dopo la nascita, la madre surrogata attesta in forma notarile l'inesistenza di qualsiasi relazione genetica con il bambino e presta il consenso all'indicazione degli imputati quali genitori.

Come previsto dalla legge ucraina, l'ufficiale di stato civile di Kiev forma l'atto di nascita indicando nella persona dei due imputati rispettivamente il padre e la madre del neonato. L'atto di nascita originale viene tradotto in lingua italiana e appostillato, cioè munito di un'annotazione che ne attesta sul piano internazionale l'autenticità. Così perfezionato l'atto è suscettibile di divenire efficace anche nell'ordinamento italiano. Al fine di sollecitarne la trascrizione in Italia, i coniugi compilano e presentano all'ambasciata i documenti necessari ai sensi di legge, indicando le qualità di padre e madre attestate dal certificato formato in Ucraina. In quella occasione, senza che fosse necessario ai fini della registrazione dell'atto, gli imputati decidono di simulare nei confronti delle autorità italiane una gravidanza naturale: rispondendo alle domande del funzionario consolare italiano che chiede loro come sia stato possibile effettuare il viaggio in aereo a Kiev al nono mese di gravidanza e solo una settimana prima del parto, la donna riferisce che lo stato interessante non era visibile.

I funzionari dell'ambasciata non vengono comunque tratti in inganno e comunicano alla Procura della Repubblica di Milano, alla Questura di Roma, al Ministro degli interni e all'ufficiale di stato civile di Milano quanto accaduto. Quest'ultimo decide di registrare ugualmente l'atto di nascita attribuendo alla donna la qualità di madre del neonato. La Procura della Repubblica di Milano, invece, dà seguito alla notizia di reato e chiede, e ottiene, il rinvio a giudizio degli imputati ipotizzando a loro carico il reato di alterazione di stato nella formazione dell'atto di nascita del bambino (art. 567 co. 2 c.p.).



3. La quinta Sezione del Tribunale di Milano ha assolto gli imputati ritenendo che, nel caso di specie, non si sia in realtà verificata alcuna alterazione di stato.

Il reato previsto dall'art. 567 co. 2 c.p., punito con una pena assai severa (reclusione da 5 a 15 anni), si verifica allorché, nella formazione dell'atto di nascita, si «altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità».

Nel caso in esame, osserva il Tribunale, l'atto di nascita è stato formato nel rispetto della legge del luogo ove il bambino è nato, all'esito di una procreazione medicalmente assistita conforme alla lex loci. L'indicazione del nominativo della madre c.d. sociale quale genitore del neonato è imposta dalla legge ucraina. Gli imputati non avrebbero potuto agire diversamente. Né sarebbe stato possibile per l'ufficiale di stato civile di Kiev - il quale era perfettamente a conoscenza della maternità surrogata - agire contra legem e riferire la maternità alla donatrice dei gameti o alla donna che ha portato a termine la gravidanza.

D'altra parte, secondo quanto previsto dall'art. 15 del d.P.R. n. 396/2000 recante Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, le dichiarazioni di nascita effettuate da cittadini italiani all'estero «devono farsi secondo le norme stabilite dalla legge del luogo alle autorità competenti». Il rinvio alla lex loci operato dall'ordinamento interno impone, pertanto, ai cittadini italiani all'estero di effettuare le dichiarazioni di nascita all'ufficiale di stato civile straniero secondo la legge del luogo; mentre il limite dell'ordine pubblico fissato dall'art. 18 del d.P.R. n. 396/2000 non attiene al momento di formazione dell'atto di nascita - unico rilevante ai fini della consumazione del delitto di cui all'art. 567 co. 2 c.p. - ma riguarda il momento successivo del recepimento degli effetti dell'atto formato all'estero nel nostro ordinamento a seguito di trascrizione. L'eventuale contrarietà all'ordine pubblico (sulla quale si veda peraltro infra, 4) non inciderebbe, dunque, sulla consumazione del reato di alterazione di stato, ma si limiterebbe a inibire la trascrizione in Italia dell'atto validamente formato all'estero.

Manca pertanto, secondo il Tribunale, l'elemento oggettivo tipico della fattispecie contestata: «solo la falsità espressa al momento della prima obbligatoria dichiarazione di nascita è in grado di determinare la perdita del vero stato civile del neonato, mentre le dichiarazioni mendaci rese in epoca successiva possono eventualmente integrare il meno grave reato di falsa attestazione o dichiarazione su qualità personali ex art. 495 co. 2 n. 1 c.p.».

Come noto, tale norma punisce la condotta di chi «dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l'identità, lo stato o altre qualità della propria o dell'altrui persona». È prevista una circostanza aggravante allorché le dichiarazioni siano rese in atti dello stato civile (art. 495 co. 2 n. 1 c.p.). Ad avviso del Tribunale, la condotta degli imputati, nella parte in cui è stata diretta a simulare nei confronti dell'autorità consolare una gravidanza naturale, conserva rilevanza penale sotto il profilo dell'immutazione del vero in ordine a qualità personali, effettuata innanzi ad un pubblico ufficiale e nell'ambito di un procedimento destinato a riverberarsi in un atto pubblico. L'informazione richiesta, infatti, era destinata a consentire all'ufficiale di stato civile italiano di assumere le proprie determinazioni e di trascrivere o meno l'atto con cognizione del carattere, surrogato o biologico, della maternità.

In conclusione, secondo i giudici milanesi, il fatto presenta tutti gli elementi costitutivi del delitto di false dichiarazioni ad un pubblico ufficiale su qualità personali destinate ad essere recepite in atti dello stato civile, contemplato dall'art. 495 cpv. n. 1. Trattandosi, però, di un reato comune commesso all'estero, punito con la pena minima inferiore ai tre anni, in ordine al quale manca la condizione di procedibilità della richiesta del Ministro della giustizia, l'azione è improcedibile ai sensi dell'art. 9 c.p.



4. Evidentemente via di obiter, la sentenza si spinge peraltro anche a negare che la trascrizione dell'atto di nascita da parte dell'ufficiale di stato civile italiano sia stata contraria all'ordine pubblico, internazionale (perché questa forma di procreazione assistita è pratica consentita nella maggior parte dei Paesi europei e perché il diritto a concepire un figlio ricorrendo alle tecniche di procreazione assistita rientra nella sfera di applicazione dell'art. 8 CEDU), ovvero interno (perché l'ordinamento italiano, nel disciplinare gli effetti della fecondazione eterologa, valorizza il principio di responsabilità procreativa e ne fa applicazione in luogo di quello di discendenza genetica). Una conclusione, questa, sulla quale si dovrà riflettere a fondo, alla luce non solo degli ovvi rischi, in tal modo creati, di aggiramento dell'inequivoco divieto di maternità surrogata espresso dall'art. 12 co. 6 della l. 40/2004 (il cui ambito di applicazione è, peraltro, confinato alle condotte commesse in Italia), ma anche più in generale sotto il profilo della compatibilità di una tale soluzione ermeneutica con i principi in materia di stato civile e di diritto di famiglia vigenti nell'ordinamento italiano. 


Coppie gay, Strasburgo all'assalto dell'Italia di Nicolò Fede, 25-02-2014, www.lanuovabq.it

Nel silenzio totale della stampa nostrana, un nuovo attacco alla famiglia è in corso: questa volta il teatro è la Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo e nel mirino c’è la legislazione italiana. Si tratta di due casi destinati a fare storia: Oliari e altri contro Italia e Orlandi e altri contro Italia. Nel primo caso tre coppie omosessuali denunciano la legislazione italiana come discriminatoria, dal momento che essa non garantirebbe loro alcun tipo di riconoscimento. Nel secondo caso, invece, 6 coppie omosessuali già “sposate” all’estero, ricorrono alla Corte denunciando le autorità italiane che si rifiutano di riconoscere questa loro unione.

Anche se siamo solo agli inizi della procedura, una prima vittoria questi due casi l’hanno già avuta. La Corte europea dei diritti dell’uomo (che nulla ha a che vedere con l’Unione Europea) è il primo tribunale internazionale dedito interamente alla difesa dei diritti umani. Si tratta dell’organo che ha avuto più successo nella storia dell’integrazione europea: non a caso ad essa si rivolgono ogni anno decine di migliaia di persone nelle situazioni più varie, disparate e... Disperate. Si tratta di pericoli di vita o di morte, di ingiustizie subite in varie parti del mondo e non mancano anche numerosissimi casi italiani dovuti al nostro logorato sistema giudiziario. La Corte non può trattare tutti questi casi e allora è costretta a fare una cernita: il fatto che essa abbia preferito trattare i casi di 9 coppie omosessuali che rivendicano il “diritto” di sposarsi di fronte allo stato italiano, piuttosto che trattare altri casi realmente umanitari la dice lunga sulla deriva ideologica che ha ormai coinvolto anche un’istituzione un tempo rispettabile come la Corte di Strasburgo.

Questa Corte ha il compito di sanzionare i casi di violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in vigore nei 47 stati membri del Consiglio d’Europa. Ebbene, cosa dice questa Convenzione, a proposito del matrimonio? “A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto” (Art. 12). Sì, per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo esiste un diritto al matrimonio, ma questo è palesemente contraibile solo tra uomo e donna. Peraltro questa interpretazione (se ce ne fosse stato bisogno) è stata confermata dalla stessa Corte in un simile caso del 2010 (Schalk e Kopf contro Austria), in cui una coppia di uomini denunciava lo Stato austriaco che non permetteva loro di contrarre matrimonio. Non ci sono dubbi, allora: non esiste alcun diritto al matrimonio tra coppie dello stesso sesso.

E allora perché la Corte ha dichiarato ammissibile questo caso? Perché, spinta da furore ideologico, ha ritenuto plausibile la violazione non solo dell’art. 12 (sul diritto al matrimonio) ma anche dell’art. 8 (sul diritto al rispetto della vita privata e familiare), in combinazione con l’articolo 14 (divieto di discriminazione). Non è ancora chiaro quale piega prenderà questo procedimento. Se la Corte non può contraddire se stessa, c’è da temere che essa – usando il passepartout della non-discriminazione – vorrà imporre all’Italia (e di conseguenza a tutta l’Europa) una forma di riconoscimento di tali unioni. Come avvenuto altre volte, con una sentenza, come con una bacchetta magica, i giudici potranno fare ciò che politici e burocrati cercano di fare da anni, dando una spallata definitiva al recinto che protegge ancora la famiglia in Italia.

Dietro questi ricorsi alla più alta corte europea, non ci sono dei poveri perseguitati dalla giustizia, ma ben finanziate associazioni promotrici dei diritti gay. Altrimenti, come mettere assieme 9 coppie omosessuali, provenienti da diverse parti d’Italia? E come organizzarle perché queste attacchino lo Stato italiano a Strasburgo su più fronti, ben studiati e coordinati? No problem. Ci sono avvocati che dedicano la loro carriera a questo, come Francesco Bilotta, che insieme a Maria Elisa D’Amico, rappresenterà le 6 coppie del caso Orlandi contro Italia. Bilotta, tra l’altro, è co-fondatore della “Rete Lenford”, creata per “per rispondere al bisogno di informazione e di diffusione della cultura e del rispetto dei diritti delle persone omosessuali nel nostro Paese”.

Il direttore del Centro europeo per la legge e la giustizia (ECLJ), Gregor Puppinck, ha affermato in un comunicato che “la reale questione in questi casi riguarda la definizione della “famiglia” ed il ruolo dello Stato a suo riguardo: se lo Stato debba riconoscere certe relazioni come “famiglie” sulla base di una domanda sociale, o se esso sia formato da famiglie naturali preesistenti allo Stato stesso”. L’ECLJ interverrà come amicus curiae in favore dello Stato italiano, il quale dovrà convincere la Corte che l’assenza di riconoscimento di unioni tra persone dello stesso sesso non è discriminatoria: al contrario, è l’unione tra l’uomo e la donna a dover essere protetta e sostenuta, per il bene di tutto lo Stato che sulla famiglia si fonda. I lettori della Bussola lo sanno bene... Ma il nuovo governo guidato da Renzi, sarà capace (e desideroso) di difendere la nostra legislazione?

sabato 22 febbraio 2014

Sei donne combattive e quell’idea di aiutare i neonati “terminali” a vivere bene il loro «lampo di vita» febbraio 22, 2014 Benedetta Frigerio, www.tempi.it


neonato incubatrice
«Signora, è necessario l’aborto terapeutico». Sono queste le parole con cui fu accolta dai medici la gravidanza di Concetta Mallitti. Parole che lei rifiutò, anche se sua figlia sarebbe morta alla nascita. Di più: quelle parole spingeranno Concetta addirittura a darsi da fare per portare nell’ospedale in cui partorirà il “comfort care” neonatale, affinché i piccoli “pazienti” senza alcuna speranza di sopravvivenza, come la sua Benedetta, possano essere curati in ogni istante della loro breve vita con tutte le misure necessarie all’alleviamento del dolore.
UNA FIGLIA BENEDETTA. Benedetta nacque il 26 ottobre 2012 e morì il 28. Il 5 luglio scorso sua madre Concetta raccontò a tempi.it il suo durissimo percorso,spiegando che partorire un figlio «significa donargli la dignità di essere umano, con un nome e un’identità, anche se per poche ore, significa battezzarlo e donargli la dignità di cristiano, significa farlo morire nell’amore dei genitori, dei nonni, degli zii e dei familiari, tra le coccole, le cure e le attenzioni di tutti, con un funerale e tutto quello che ogni essere umano dovrebbe ricevere per diritto». Concetta, però, aveva in cuore di poter aiutare altre mamme che aspettano bambini destinati a vivere poco, di fare qualcosa che potesse incoraggiarle a rifiutare come lei la via dell’aborto.
QUELLA CHIAMATA DA NEW YORK. «Dopo la pubblicazione della mia storia – racconta oggi la donna a tempi.it – mi contattò una dottoressa dagli Stati Uniti, Elvira Parravicini». La dottoressa Parravicini è la fondatrice presso il Columbia University Medical Center a New York del primo hospice neonatale in cui si pratica il “confort care”. «Non potevo crederci, faceva quello che sognavo di fare io: e mi disse che mi avrebbe aiutata». Concetta dopo la telefonata tornò all’ospedale in cui aveva partorito, il Villa Betagna di Napoli, per cercare Assia, l’ostetrica che seguendola le aveva fatto nascere quell’idea. «Finché nessuno lo chiede non possiamo cominciare», rispose Assia. E poco dopo Concetta ricevette un’altra telefonata decisiva. Era Imma, la sua migliore amica: «“Mia figlia non vivrà a lungo”, mi disse. La diagnosi era di malformazione cranica con anencefalia, le promisi che Assia l’avrebbe aiutata».
DALL’AFFIANCAMENTO AL BATTESIMO. L’ostetrica, insieme ad altri colleghi, decise di provare a praticare il percorso del “comfort care” neonatale facendosi aiutare da Elvira Parravicini: «Avevamo fatto lo stesso con Benedetta e i suoi genitori, ma questa volta si trattava di essere strutturati meglio», spiega l’ostetrica a tempi.it. «Tutto cominciò con l’affiancamento mio, di Elvira e di uno psicologo alla famiglia. Si aggiunsero poi il primario del reparto di neonatologia, la coordinatrice infermieristica della terapia intensiva neonatale e un team infermieristico dedicato alla famiglia. Finimmo per organizzare anche la Messa del funerale». Il giorno in cui Imma ha dato alla luce Marta Maria, il 17 gennaio 2014, un mese fa, ad accoglierla c’era l’infermiera pediatrica: «Le abbiamo fatto il calco della manina e dei piedi. Un medico si è improvvisato fotografo. Poi la bimba è stata portata dal papà. Imma li ha raggiunti e lì è stato celebrato il battesimo».
«IN QUELLA STANZA C’È GIOIA». Intorno alla stanza di Imma, un’équipe di infermieri era dedicata a lei: «La direzione sanitaria ci ha permesso di organizzare turni straordinari, mentre la famiglia e gli amici potevano entrare in stanza 24 ore al giorno», continua Assia. «Marta Maria ha potuto vivere cinque giorni intensi e lunghi, accudita e amata come una regina». Assia ricorda un commento stupefatto del medico: «Mi ha detto: “Ma come, la bambina sta morendo e in quella stanza c’è gioia? Ridono pure!”. Gli ho risposto che Marta Maria era viva come noi e che mi insegnava a spendere al massimo ogni istante. Perché tutti moriremo, magari prima di lei». Il dottore «era contento di ciò che aveva potuto vedere. Come tutto il personale che si era prestato ad accogliere la famiglia».
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UN PERCORSO CHE TRASCINA. Qualche mese prima di questi fatti, il 1° ottobre 2013, all’ospedale Sant’Orsola di Bologna nasceva Giacomo. La diagnosi dei medici al terzo mese di gravidanza era stata la stessa: anencefalia. La madre, Natascia, e il padre, Mirco, hanno chiesto aiuto a una neonatologa dell’ospedale, Chiara: «Ero stata a New York da Elvira Parravicini – spiega la dottoressa a tempi.it – e da tempo volevo realizzare qui lo stesso percorso, ma per una ragione o l’altra non era mai cominciato nulla». È stato proprio l’arrivo di Natascia a spingere la neonatologa a riprendere i contatti con la Parravicini: «Per prima cosa ho chiesto una stanza dell’ospedale solo per la famiglia, e il reparto di ginecologia me l’ha concessa. Poi la caposala mi ha dato la sua totale disponibilità. Anche il mio professore mi ha appoggiato in tutto». Alla fine persino chi aveva preso le distanze si è unito alla squadra: «Molti vedendo la serenità di Natascia sono rimasti affascinati. C’è stato chi mi ha aiutato a fare la terapia del dolore per Giacomo, chi ha voluto fotografare il piccolo, chi ha preso le sue impronte». Accanto alla famiglia c’è sempre stata anche una schiera di amici che pregava e passava a trovare Giacomo in ospedale: «Le infermiere non riuscivano a credere che così tante persone venissero qui per quel bambino».
IL CONVEGNO NAZIONALE. Dalla collaborazione fra Elvira, Concetta, Assia, Chiara e i loro colleghi è nata poi l’idea di un convegno sul “comfort care” neonatale. «Si terrà il 12 aprile a Bologna – annuncia Chiara – e sarà un evento di livello nazionale grazie all’iniziativa del mio professore che ha deciso chiedere il patrocinio alla Società italiana di neonatologia. Il titolo doveva essere: “Accompagnare al fine vita”. Ma il prof ha preferito cambiarlo così: “Vivere un lampo di vita”». Si parlerà di come attuare la rivoluzione di un percorso in cui la madre e il figlio siano accompagnati fino alla fine, «magari facendo intervenire donne passate attraverso la stessa esperienza, affinché dopo la diagnosi nessuna donna in quella situazione si senta più dire che deve scegliere da sola». La novità viene anche dalla ricerca di una studentessa di psicologia, da cui emerge che il “comfort care” neonatale è sempre un’esperienza arricchente sia per la famiglia sia per tutto il personale medico. «Avevo paura di fare un convegno, temevo che sarebbe stato strumentalizzato da chi ora comincia a parlare perfino di eutanasia infantile. Ma mentre ci pensavo mi si è avvicinata una collega, che non ha fede né convinzioni morali in merito, ma mi ha detto che avevo la sua totale disponibilità. Mi ha confessato che dopo aver visto Natascia quella strada difficile non le sembra più impossibile da percorrere».

venerdì 21 febbraio 2014

Il servizio Lgbt del Comune di Torino ci insegna che Gesù non era omofobo. San Paolo sì, però, 21 febbraio 2014 di Emanuele Boffi, www.Tempi.it

Scorrendo le schede predisposte dal Servizio Lgbt del Comune di Torino non si sa bene se ridere o piangere. Ovviamente si tratta di un lavoro che vuole aiutare i docenti a predisporre «attività formative a contrasto del bullismo omo/transfobico, sia rivolte alle/agli insegnanti sia a studentesse e studenti dei diversi gradi di istruzione». Sull’intento in sé, nulla da dire. Ma addentrandosi poi nei contenuti delle schede e dei “percorsi di lavoro” non si può non rimanere perplessi (eufemismo) dalla banalità e sciatteria con cui questi sono proposti. Mettendo un attimo da parte i propri giudici estetici su

schede presentate in word
fotine scaricate da internet per farci sapere che Michelangelo era gay e Greta Garbo lesbica
citazioni da wikipedia
non si può non rimanere basiti di fronte ad altre, e ben più gravi, affermazioni su alcuni casi di omofobia, il progetto di legge Scalfarotto, Gesù e san Paolo.

Andiamo con ordine.

1) Tra gli esempi di omofobia è citato il caso di Andrea, il ragazzino romano suicida perché, si disse allora, omosessuale e per questo dileggiato dai compagni. Come testo su cui riflettere si propone la lettura di un articolo di Michela Marzano, apparso su Repubblica il 23 novembre 2012. Un articolo intriso di luoghi comuni, che vuole farci credere che «uomo o donna non si nasce, ma si diventa». Ora, a parte il fatto che, già ai tempi del triste avvenimento, due lettere dei compagni e dei docenti dell’istituto avevano sconfessato le ricostruzioni di Repubblica, è notizia di qualche giorno fa che il suicidio del ragazzo dai pantaloni rosa «non era omofobia». Sappiano dunque al Comune di Torino che è ora di aggiornare la scheda, magari proponendo ai ragazzi una riflessione sul fatto che la stessa Repubblica ha confinato la recente notizia a pagina 20. In un boxino minuscolo. A fondo pagina.

2) Nella scheda in cui si tratta il tema “Le leggi contro l’omofobia e la transfobia” si propone la lettura di due testi. Uno è intitolato “La posizione dell’Unione Europea. Lotta all’omofobia: il rapporto dell’Agenzia per i Diritti Fondamentali, testo di Paolo Enrico Giacalone”. Inizia così: «L’Unione Europea rappresenta, ormai da anni, un punto saldo nella lotta contro le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere all’interno dell’Europa e nel mondo». Segue bla bla bla. L’altro è “La posizione di Alleanza Cattolica. Dal Manifesto di Alleanza Cattolica Unioni di fatto e omofobia: cinque punti fermi”. Le conclusioni le lasciamo all’intelligenza del lettore.

3) Il vero capolavoro è la scheda “L’omosessualità nella Bibbia: il Nuovo testamento”. Con essa il Servizio Lgbt del Comune di Torino esce dalle anguste strettoie delle pari opportunità per approdare negli sconfinati campi dell’esegesi neotestamentaria. Dapprima si cita il Vangelo in cui Gesù, parlando del ripudio matrimoniale, spiega ai discepoli che la legge mosaica è stata adottata per la «durezza dei loro cuori». La scheda propone osservazioni e domande sibilline: «Non vi sono nei Vangeli brani riferiti all’omosessualità. In questo testo, che cosa stabilisce Gesù sul matrimonio?». «Quello che dice, è conforme alle prescrizioni dell’Antico Testamento?». «I cristiani devono considerare tutto ciò che è scritto nell’Antico Testamento come norma valida anche per loro?».
Quindi si riporta la Lettera di San Paolo in cui si condannano i rapporti contro natura e i sodomiti. Ecco di nuovo le domande: «Nelle lettere di Paolo di Tarso, come viene considerata l’omosessualità?»; «La condanna cristiana dell’omosessualità è quindi contenuta nel messaggio di Gesù o nelle parole di coloro che lo diffusero?». Chiaro no? Gesù non era omofobo, San Paolo sì. Cari cattolici, adesso che lo sapete, insegnatelo pure a catechismo.

giovedì 13 febbraio 2014

L’eutanasia per i bambini accelera solo l’auto-genocidio dell’Europa. E non è un diritto: è la fine del diritto», 29 novembre 2013 di Leone Grotti, www.tempi.it

«L’Europa ha intrapreso il cammino dell’auto-genocidio. Quello che è successo segnala un calo drastico di umanità, un abbassamento del livello di civiltà». Il cardinale Elio Sgreccia, ex presidente della Pontificia accademia per la vita, si riferisce alla decisione presa dalla Commissione del Senato belga che ha autorizzato l’estensione dell’eutanasia ai bambini. La legge per essere approvata dovrà ottenere il via libera dalle due Camere ma come dichiara Sgreccia a tempi.it questo primo voto «è un salto di inaudita gravità che disumanizza il rapporto tra adulti e bambini e legalizza un grave delitto contro la vita umana».

Eminenza, chi appoggia la legge in Belgio dice di farlo in nome della «dignità dei malati».
L’eutanasia è un grave crimine contro la vita umana. Quella della dignità è solo una scusa: nessuno è padrone della sua vita, che non ci diamo da soli.

L’uomo non ha diritto di essere autonomo fino alla fine?
È giusto invocare il principio di autonomia quando parliamo in generale delle nostre azioni, di cui siamo sempre responsabili, ma noi non siamo autonomi rispetto alla vita, perché non ce la diamo noi. Con l’eutanasia si offende il diritto alla vita e si offende anche la società, che permettendola perde il controllo di se stessa e autorizza un delitto grave. E se parliamo di bambini, il delitto è gravissimo.

Secondo la nuova legge, è il bambino a dover chiedere l’eutanasia e uno psicologo deve valutare la sua capacità di comprendere quello che sta facendo.
I bambini non sono in grado di giudicare o decidere. Il bambino è sempre stato una categoria protetta, infatti non può prendersi la responsabilità di sottoscrivere contratti, di votare né di assumere un servizio come quello militare. La legge poi non fissa limiti di età, quindi il bambino può essere ucciso anche a due anni o quando è ancora neonato. L’idea dello psicologo, poi, è solo un trucco.

Perché?
Se uno vede un soggetto che si sta gettando da un ponte per suicidarsi, cosa fa, va a chiamare lo psicologo perché si accerti se l’aspirante suicida è in grado di decidere o meno? La decisione di uccidere è sempre ingiusta e il diritto alla vita vale di più di un esame psicologico. Lo psicologo è un trucco usato per dare una parvenza di legalità a una legge che distrugge la dignità e la libertà del bambino. Perché, diciamolo, l’aiuto a morire non è affatto un aiuto.

Ma se un bambino dà il suo consenso?
Ma di quale consenso stiamo parlando? Anche se dice di volerlo, magari sta solo passando una crisi di scoraggiamento. Il consenso è solo un pretesto e non era mai successo che aggrappandosi a questo si permettesse di anticipare la morte. Un tredicenne, un adolescente, potrebbe chiedere l’eutanasia solo perché attraversa una crisi, magari dopo una bocciatura o un forte dispiacere. La verità è che il bambino quando soffre deve essere aiutato e curato, non ucciso.

La legge belga autorizza l’eutanasia anche per i pazienti dementi, come in Olanda.
Anche qui si dimostra che il consenso è una scusa, perché la volontà dei malati mentali è ritenuta non valida da sempre. Infatti non possono firmare contratti. Ma c’è di più, perché il Belgio supera anche l’Olanda non fissando limiti di età per l’eutanasia dei bambini. Siamo davanti a un salto di inaudita gravità che disumanizza il rapporto tra le persone. È davvero arrivato il momento per l’Europa di chiedersi che cosa vuole fare dei suoi figli.

Perché?
Già ne nascono sempre di meno: siamo sotto il livello di ricambio tra morti e nati, ormai, per cui si può dire che l’Europa ha intrapreso un cammino di auto-distruzione, auto-genocidio. La sua popolazione infatti va estinguendosi. Se poi, a questi pochi che nascono, si toglie anche la percentuale dei sofferenti che possono essere uccisi, si accelera il processo di distruzione, di abuso del diritto della vita e di crudeltà. Così diventiamo disumani.

Perché un bambino possa ottenere l’eutanasia, però, serve il consenso dei genitori.
Ma di cosa stiamo parlando? I genitori non hanno la potestà neanche di fare delle operazioni sui minori, che non siano necessarie per il loro bene, figuriamoci di autorizzarne la morte. Questa legge non è gravissima solo dal punto di vista giuridico, ma anche da quello morale e umano perché la vita è sacra.

Chi non è religioso, però, non riconosce la sacralità della vita.
Non sono solo le religioni ad opporsi a questa legge perché considerano la vita un dono di Dio, è un problema di rispetto dell’uomo che tutti possono riconoscere.

Eppure da quando l’eutanasia è stata legalizzata in Belgio nel 2002, i casi sono quintuplicati.
Se cresce il numero dei casi è perché si allargano le eccezioni e il rigore delle condizioni iniziali viene meno. È la legge del piano inclinato: quando si fa uno strappo alla legge, è destinato ad allargarsi sempre di più.

Non può essere un atto di umanità alleviare le sofferenze di chi sta male?
No, perché con l’eutanasia si allevia solo il peso di chi sta bene. Diamo alle cose il loro nome: questo è utilitarismo, perché si toglie di mezzo il malato, è la cultura dello scarto di cui parla papa Francesco. Una persona è malata, mi pesa, è scomoda, non produce e quindi la butto. Chi sta bene per aiutare i sofferenti deve sacrificarsi, se uno non vuole sacrifici e non vuole soffrire deve eliminare il prossimo che gli sta vicino. Ma una persona così protegge solo se stesso finché ha piena validità e salute, perché poi finisce per buttare via anche la propria vita: eutanasia e suicidio assistito, infatti, vanno insieme. Dovremmo allarmarci tutti davanti a queste cose perché una legge del genere segnala un calo di umanità, di rispetto della vita umana, un abbassamento del livello di civiltà.

Da dove nasce questo calo di umanità?
La cultura della morte nasce dal fatto che si vuole la vita solo quando è perfetta e capace di produrre denaro o vantaggi. È il principio del piacere che diventa principio di morte: quando la vita non ti dà più soddisfazione, non è più apprezzabile o degna. In ultima analisi, però, è il calo della fiducia nella vita ultraterrena, la mancanza di fede nella vita eterna, in Dio e nell’immortalità a portare al deprezzamento dell’uomo. Come dice il Concilio vaticano II, quando viene meno la fiducia in Dio anche l’uomo svanisce. La vita va verso la pienezza e merita di essere vissuta perché ha un valore eterno. La morte va accettata quando è naturale, quando la fisicità non regge più e per questo non bisogna neanche praticare l’accanimento terapeutico.

Diversi studi dimostrano oltretutto che la legge sull’eutanasia in Belgio è continuamente abusata.
La legge è già un abuso in sé, chi si stupisce se poi se ne aggiungono altri? È tutto un abuso perché, lo ripeto, la vita non ci appartiene.

Non ha ragione chi dice che l’uomo ha diritto di morire?
No, l’eutanasia non è né un diritto né una libertà ma è la fine del diritto e della libertà.

@LeoneGrotti

mercoledì 12 febbraio 2014

La pillola del giorno dopo non è abortiva? Non ci sono prove. Perché l’Aifa ha cambiato parere?, 12 febbraio 2014 di Francesco Amicone, www.tempi.it

«La pillola del giorno dopo è un farmaco potenzialmente abortivo. Mi sorprende che l’Aifa abbia cambiato la dicitura, eliminando questa informazione dalle avvertenze del farmaco». Renzo Puccetti, medico e docente di bioetica, membro della Research Unit della European Medical Association, referenti di Promed Galileo e socio fondatore dell’Associazione Scienza&Vita, confessa il suo stupore di fronte all’improvviso mutamento di parere dell’Aifa sulla pillola a base di levonorgestrel e prodotta dalla Norlevo. «L’autorità del farmaco italiana – spiega a tempi.it - dovrebbe rendere pubblico l’iter e i passaggi che hanno portato a questo cambiamento. Dovrebbe spiegare quale letteratura scientifica è stata citata e come è stata vagliata. E da ultimo dovrebbe comunicare se questo mutamento di parere è l’esito di una istanza partita dall’azienda produttrice della pillola».

Perché tutte queste richieste? La pillola non è già stata sdoganata dalle autorità del farmaco straniere come “contraccettivo d’emergenza”, smentendo ogni suo potenziale effetto abortivo?
Non appartiene alla metodologia scientifica proporre cambiamenti di dicitura sugli effetti di un farmaco solo sulla base dell’autorità che le ha proposte. Si devono controllare le pubblicazioni. Anche nel lavoro del giornalista si va sempre a vedere qual è la fonte primaria, soprattutto se si sta scrivendo un articolo delicato. Non ci si basa soltanto sulle informazioni degli altri giornali. È vero che ci sono dei “position statement”, pareri, sia da parte della Federazione internazionale ginecologia e ostetricia del 2008, sia da parte dell’Associazione ginecologi americani del 2013, che escludono che la pillola possa indurre un aborto, ma la loro attendibilità scientifica lascia molto a desiderare. Si basa su una letteratura specialistica qualitativamente bassa.

Sta dicendo che l’Aifa potrebbe aver eliminato dalle informazioni della pillola il rischio di aborto, basandosi su pubblicazioni scientificamente poco attendibili?
Vorrei sapere come sono arrivati a cambiare la dicitura. La posizione più corretta, dal punto di vista scientifico, sulla pillola del giorno dopo è che le evidenze prodotte non sono assolutamente in grado di escludere effetti antinidatori del farmaco, il cui esito è l’aborto. Sono aspetti estremamente tecnici, ma importantissimi dal punto di vista etico.

Perché insiste nel dire che gli studi che smentiscono gli effetti abortivi della pillola non sono credibili?
Purtroppo è abbastanza diffuso in tutto l’ambito della cosiddetta salute riproduttiva trarre conclusioni forti da ricerche deboli o, peggio, da dati sperimentali che non le confermano assolutamente. Quando si va a vedere i position statement sulla pillola del giorno dopo di quelle associazioni che smentiscono i suoi effetti potenzialmente abortivi, uno penserebbe di trovare un’estesa citazione della letteratura scientifica, viceversa si trova una citazione di tutte le voci bibliografiche orientate e largamente omissive. Inoltre molti di quegli studi giungono alle loro conclusioni grazie alla citazione di altre pubblicazioni che però – se si va a controllare – non dicono affatto quello che gli è stato fatto dire. In quasi tutti le pubblicazioni che propagandano i benefici della pillola del giorno si assiste a questo sovvertimento della realtà. C’è un controllo di qualità estremamente basso su questi studi, molti dei quali pubblicati da autori che o sono in rapporto di collaborazione con le aziende produttrici di questo farmaco o sono in rapporto di collaborazione con strutture che lo dispensano. Difficile dar loro credito.

L’autorità del farmaco italiana rischia di trarre in inganno i consumatori, i medici, i farmacisti, non facendo una corretta informazione? Non c’è un problema deontologico?
Questa domanda è stata affrontata anche all’interno del dibattito scientifico. Sono stati contati almeno cinque studi, fra varie popolazioni, europee e americane, e tutti sono concordi sul fatto che vi sono tantissime donne che non assumerebbero un prodotto che è venduto come contraccettivo d’emergenza quando ha un meccanismo d’azione che è anche solo possibilmente di tipo abortivo. Molte donne affermano che se stessero assumendo uno di questi presidi, venute a conoscenza di questo meccanismo, lo interromperebbero.

Alla luce di questi studi, qualcuno potrebbe aver pensato che fosse meglio eliminare il problema, almeno solo sulla carta. Che effetti potrebbe avere questo comportamento?
Qui si tratta di un problema enorme che riguarda la validazione del consenso informato. Allorquando mi venga prescritto un medicamento che possa essere confliggente con quelle che sono le mie convinzioni etiche si può addirittura profilare un danno alla persona. E che la pillola del giorno dopo possa provocare l’aborto è contemplato dalla letteratura scientifica. Questo fatto non si può ignorare. Basti rimandare al lavoro di Bruno Mozzanega, che ha pubblicato 127 lavori sulle riviste internazionali. Un minimo di serenità nel verificare i dati di cui tutti gli esperti sono a conoscenza.

Perché non si riesce?
C’è un problema di correttezza per quanto riguarda la trasparenza. Quando le comunità scientifiche prendono determinate posizioni sarebbe corretto che allegassero alla presa di posizione una “disclosure” sui loro possibili conflitti d’interesse. D’altra parte, l’autore quando fa una pubblicazione deve comunicare quelli che sono i possibili conflitti d’interesse.

Potrebbe però esserci un motivo sociale e umanitario dietro questo inganno. Meglio la pillola del giorno che abortire in ospedale, si dice.
In realtà la pillola del giorno dopo non ha fermato gli aborti, dove è stata utilizzata. È un dato ormai acclarato in letteratura. Conosciuto e dimostrato da almeno quattro revisioni della letteratura, di cui tre dall’istituto più prestigioso in questo senso che è l’istituto Cochrane. In Francia, per esempio, l’ultimo dato dice che a fronte di 1 milione e 100 mila pillole del giorno dopo distribuite anche nelle scuole, nell’ultimo anno ci sono stati 220 mila aborti, con un tasso di abortività nettamente più alto fra le adolescenti francesi che quelle italiane. Che la diffusione della pillola del giorno dopo non esplichi alcun effetto nell’ambito della salute pubblica è un dato consolidato.

lunedì 10 febbraio 2014

COMUNICATO N.001/2014 L’ITALIA E’ ANCORA UNO STATO DEMOCRATICO E LIBERO? - Associazione italiana ginecologi e ostetrici cattolici

Associazione Italiana Ginecologi Ostetrici CattoliciCOMUNICATO N.001/2014
L’ITALIA E’ ANCORA UNO STATO DEMOCRATICO E LIBERO?
La pubblicazione sul supplemento ordinario n. 10 della Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 4 febbraio ultimo scorso del nuovo foglietto illustrativo del NORLEVO®, nel quale L’AIFA ha apportato una modifica sostanziale ai punti 4.2, 4.4, 4.5, 4.8 e 5.1, dei corrispondenti paragrafi del Foglio Illustrativo e delle Etichette, che in sostanza cancella la vecchia dicitura “il farmaco potrebbe anche impedire l’impianto” sostituendola con “inibisce o ritarda l’ovulazione”, ci sorprende, ci rattrista e ci preoccupa.
Ci sorprende: dal punto di vista scientifico nulla di nuovo è stato provato rispetto a qualche anno fa che possa autorizzare un’Agenzia, che ha come compito primario la tutela della salute di tutti i cittadini e l’informazione corretta, aggiornata e completa sui meccanismi d’azione di tutti i farmaci ed in particolare di quelli che possano avere implicazioni etiche per una popolazione come la nostra, che nella stragrande maggioranza risulta essere appartenente alla Chiesa Cattolica (vedi registri dei Battesimi), sui loro effetti collaterali, ... .
Anzi alcune pubblicazioni più recenti che mettono a confronto ELLAONE® a base di ulipristal acetato (UPA) e NORLEVO® a base di lenonorgestrel (LNG) come pillola post coitale sottolineano che
• L’UPA ha una durata più prolungata del meccanismo di azione rispetto al LNG: secondo la documentazione tecnica, questo non inibisce o ritarda l’ovulazione quando cresce il livello di LH.
• L’UPA ha una efficacia per 5 giorni (anche nel caso di picco HL), in contrasto con il LNG (rapida perdita di efficacia)
• Il LNG mantiene la sua efficacia di controllo delle nascite (non di blocco dell’ovulazione!) anche se assunto entro 96 ore.
Ci rattrista: constatare che anche in Italia si cerchi di spacciare per dato scientifico certo e certificato da un’agenzia, mantenuta in vita con i soldi strasudati e sofferti dei cittadini onesti, un camuffamento linguistico funzionale solo a chi vuole vendere i propri prodotti senza rispettare la coscienza degli acquirenti ed a chi vuole controllare la popolazione mondiale come un burattinaio.
Ci preoccupa: il tentativo ben evidenziato dalle affermazioni di Emilio Arisi, presidente della Smic, su quotidianosanità.it di oggi “Cade definitivamente l’appiglio che consentiva ai medici obiettori di coscienza di negare la somministrazione della 
contraccezione di emergenza. Si colma così un gap noto da anni a tutta la comunità scientifica – ha detto– e si corregge una vecchia scheda tecnica che risale al 2000” di privare il medico della sua libertà di agire “secondo scienza e coscienza” ed i cittadini del diritto di essere rettamente e totalmente informati sui farmaci dall’AIFA. La nostra preoccupazione nasce dal fatto che questo tipo di comportamento, che non è isolato (basti pensare alle direttive dell’UNAR per la Scuola, alle Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT, al disegno di legge Scalfarotto in discussione al Parlamento, ...), è tipico degli stati totalitari che pensano di regolare la vita dei cittadini con leggi o direttive contrari al sentire comune ed alle verità scientifiche.
Ma finché la Costituzione Italiana non verrà modificata nei suoi principi ispiratori il presidente della Smic non si illuda che tutti i medici saranno costretti dal foglietto illustrativo modificato a prescrivere le pillole abortive, perché la clausola di coscienza permette ad ogni cittadino ed a ogni medico di agire nel rispetto della propria coscienza e della dignità di ogni persona umana.
Nei prossimi giorni ci riserviamo di far pervenire al Ministro della Salute ad interim la documentazione scientifica che sta alla base del nostro comunicato.

Gender in classe. Ecco i libri che insegneranno agli scolari italiani ad essere più moderni dei loro «genitori omofobi » febbraio 10, 2014 Benedetta Frigerio, www.tempi.it


È così che la teoria del “gender” verrà insegnata nelle scuole italiane sin dalla più tenera età. Come anticipato nelle famose “linee guida” approvate all’epoca del governo Monti dall’allora ministro del Lavoro con delega alle Pari opportunità, Elsa Fornero, sono pronti i «percorsi innovativi di formazione e aggiornamento per dirigenti, docenti e alunni sulle materie antidiscriminatorie, con particolare focus sul tema Lgbt e sui temi del bullismo omofobico e transfobico».
Schermata 2014-02-07 a 20.54.24«ESSERE GAY INFORMED». Questi percorsi sono delineati in tre libretti partoriti nell’ambito della nuova “strategia nazionale” anti omofobia, affidataper decreto del governo Letta a 29 associazioni del mondo Lgbt e finanziata dai contribuenti con 10 milioni di euro. In sostanza i volumi sono pressoché identici, con qualche variante per “adattarli” ai diversi gradi di scuola: superiore, media inferiore ed elementare. Sotto il generico titolo Educare alla diversità nella scuola, l’obiettivo è diffondere l’idea che omosessuali si nasce, così come si nasce etero. Per averli basta richiederli al sito dell’istituto Beck che li ha prodotti su incarico dell’Unar con l’intento di convincere gli insegnati e quindi gli alunni.Perché, come si legge, non è più sufficiente «essere gay friendly (amichevoli nei confronti di gay e lesbiche), ma è necessario essere gay informed (informati sulle tematiche gay e lesbiche)». Per evitare, cioè, discriminazioni che nascono da affermazioni o comportamenti che «gli insegnanti devono evitare», non basterà impegnarsi a non insultare o a non assumere atteggiamenti di esclusione. D’ora in poi i docenti dovranno evitare «analogie che facciano riferimento a una prospettiva eteronormativa (cioè che assume che l’eterosessualità sia l’orientamento normale)», poiché queste possono tradursi nella pericolosa assunzione «che un bambino da grande si innamorerà di una donna». Attenzione quindi a non dividere mai i maschi dalle femmine o ad assegnare loro diverse attività. Vietato anche elaborare compiti che non contengano situazioni diverse, occorre formulare problemi così: «Per esempio; “Rosa e i suoi papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar. Se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”».
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«NON PUOI CAMBIARE». A dar retta a questi opuscoli, l’identità sessuale sarebbe formata da quattro componenti. La prima componente è l’identità biologica che si riferisce al sesso. La seconda è l’identità di genere che dipende dalla percezione che si ha di sé. E «non sempre l’identità di genere e quella biologica coincidono». Infatti «a volte – si legge – il disagio rispetto al proprio sesso biologico è così forte che la persona è disposta a sottoporsi a cure ormonali e operazioni chirurgiche». La terza componente è poi il ruolo di genere, imposto dalla società, per colpa del quale, ad esempio, una donna «deve imparare a cucinare» o «deve volere un marito e dei figli». Infine c’è l’orientamento sessuale, quello da cui dipende l’attrazione verso altre persone. Le quali ovviamente possono essere indifferentemente di un altro sesso o dello stesso.L’unica cosa che non è normale è che esistano «individui attratti dal proprio sesso che non hanno comportamenti omosessuali o alcuna attività sessuale»: gli scolari italiani impareranno presto che queste persone «hanno forti sensi di colpa rispetto alla propria omosessualità». Secondo i teorici del gender si chiama «omofobia interiorizzata» ed è dovuta a «pregiudizi e discriminazioni che possono rendere più difficile l’accettazione del proprio orientamento». Quanto alle cosiddette «terapie riparative», sono cose «estremamente pericolose». Punto.Segue per sicurezza un bel «ritratto dell’individuo omofobo», che di solito è di «età avanzata» ed è accecato da un alto «grado di religiosità» e di «ideologia conservatrice». Si va dall’«omofobo di tipo religioso che considera l’omosessualità un peccato» a quello «scientifico che la considera una malattia», fino ai «genitori omofobi». Nelle pagine successive vengono poi forniti i dati sulla discriminazione, presi direttamente da Gay.it.
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TUTTA COLPA DEI MEDIA. Nei libretti anti-omofobia sono forniti anche alcuni strumenti: oltre al questionario per misurare il proprio livello di omofobia, si consiglia vivamente di coinvolgere nel progetto anche i genitori, inviando loro una lettera di cui viene presentato un modello tipo. Le due pagine successive sono dedicate alle risposte alle domande più frequenti, come quella sul perché ci sono persone con attrazioni dello stesso sesso, a cui si deve replicare che è così «per la stessa ragione per cui altri individui sono attratti da persone del sesso opposto». A chi domanda se esista una cura per l’omosessualità si deve risponde ovviamente di no, ricordando che «chiunque dica il contrario diffonde un pregiudizio».
COSA GUARDARE IN TV. C’è poi un’ultima sezione dedicata all’insegnamento pratico. Qui viene sottolineato il ruolo dei media italiani che discriminano le famiglie omosessuali, invitando i docenti a chiedere agli alunni come mai «in Italia non ritraggono diverse strutture familiari». Quindi viene caldeggiata la visione di film con modelli di «famiglie allargate» come Modern Family, oppure serie tv su famiglie eterosessuali litigiose come Tutto in famiglia o La vita secondo Jim. Viene proposto inoltre il “Gioco dei fatti e delle opinioni” in cui, ad esempio, se uno studente dice «“due uomini che fanno l’amore sono disgustosi”, a quel punto l’insegnante deve far notare che questa è un’opinione che deriva dal fatto che siamo poco abituati dal cinema e dalla tv a vedere due uomini che si baciano o fanno l’amore». E se questo non bastasse, ecco “Caccia agli stereotipi”, che permette di assicurarsi che gli alunni abbiano capito bene: «L’unica scelta che un omosessuale può fare è accettare questi sentimenti».
Krampack
MASTURBAZIONE COME GIOCO. Dopo di che gli insegnanti dovranno tentare di fare immedesimare gli alunni “eterosessuali” con gli “omosessuali” e mettere gli alunni «in contatto con sentimenti e emozioni che possono provare persone gay o lesbiche». Ci sono storielle, attività e strumenti anche per questo, ed è proposto un elenco di documentari come Kràmpack, in cui la masturbazione fra due ragazzi è presentata come esplorazione e «gioco», e L’altra metà del cielo, che racconta «le vite di donne che amano altre donne» le quali «si sono scontrate con l’omofobia della propria famiglia».
ATTENZIONE AI GENITORI. Non poteva mancare qualche idea per aiutare le maestre a cambiare nelle teste dei loro alunni il concetto di famiglia. Ecco un esempio: «L’insegnante utilizza un tabellone e incolla a caso le immagini di famiglie differenti (ad esempio, l’immagine di una famiglia multi-razziale: due persone bianche con un bambino nero; le foto di un uomo vecchio, di una donna e di un cane; di due donne; di due uomini ecc). Chiede, allora, agli studenti se, secondo loro, le persone nelle foto potrebbero essere una famiglia (…).L’insegnante fa riferimento, dunque, alla definizione comune di famiglia e ricorda agli studenti che non si tratta di come appare, ma piuttosto di come i membri si supportano tra loro, si amano e si accudiscono a vicenda».