Voghera, una sera di inizio ottobre. Due fidanzati si presentano allo sportello del pronto soccorso. Incontrano Margherita, 31 anni, da quattro anni infermiera di ruolo, vincitrice di concorso. Le chiedono come fare per avere il Norlevo, la “pillola del giorno dopo”; è un prodotto comunemente qualificato “contraccettivo post-coitale”, se ne raccomanda l’assunzione entro 72 ore dal rapporto “non protetto” e – così è scritto nella descrizione data – ha la funzione, fra l’altro, «di impedire e rendere più difficoltoso l’annidamento dell’embrione». Se è avvenuta la fecondazione dell’ovulo e si sta formando l’embrione, impedirne l’annidamento significa abortire; dunque, può definirsi un prodotto eventualmente abortivo. Margherita non ha il compito di dare il Norlevo a chi lo chieda; le compete di consegnare un modulo che permette di recarsi a chi è autorizzato a somministrarlo. Poiché è ben consapevole che la sua azione rappresenta comunque un antecedente causale di un possibile aborto, inizia un dialogo con i ragazzi: illustra loro gli effetti del prodotto e le possibili controindicazioni. Deve avere buoni argomenti, perché i suoi interlocutori non insistono e lasciano il pronto soccorso. Qualche zelante collega informa la struttura nella quale Margherita lavora, viene avviato contro di lei un procedimento disciplinare e le viene prospettato un trasferimento in altra sede. La giovane infermiera dà le dimissioni per non piegarsi a quella che legge come una intimidazione e la Asl di Pavia le accoglie.
Margherita ha sbagliato? Assolutamente no. L’art. 9 della legge 194/1978 riconosce l’obiezione di coscienza non solo al medico, ma a tutto il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie, con riferimento non solo agli “interventi” bensì pure alle “procedure” finalizzate all’aborto: con una lettera così chiara da oltre 36 anni, nessuno ha mai dubitato che l’obiezione si estende al rilascio della certificazione alla gestante e a tutto ciò che in qualche misura sia finalizzato all’interruzione della gravidanza.
Obiezione: rispetto all’assunzione del Norlevo l’aborto è una eventualità. Replica: se, in periodo di caccia, vedo un movimento dietro a un cespuglio, può esservi una lepre o un altro animale o una persona. Se sparo a prescindere e colpisco una persona, non posso invocare a discolpa il regolare porto di fucile e il rispetto del calendario venatorio: non ho seguito la prudenza più elementare. Ecco, l’infermiera non ha voluto concorrere a caricare l’arma. Di più, ha rispettato l’art. 5 della 194, nella parte in cui impone alla struttura sanitaria di non limitarsi a consegnare dei moduli, ma di verificare le cause che inducono a interrompere la gravidanza, nella prospettiva di rimuoverle: ha realizzato quel colloquio che la legge prescrive, e che quasi nessuno fa più.
Esistono varie forme di discriminazione: possono fondarsi sul sesso, sull’età, sulla razza; il nostro ordinamento le vieta tutte. La Asl di Pavia ha discriminato Margherita due volte: prima minacciandola di trasferimento in altra sede per punire un’attività conforme alla legge e alla coscienza (che nella sanità dovrebbe ancora avere un peso); la seconda accettando in tempi-record dimissioni condizionate dall’agitazione. E non è che una discriminazione è meno grave perché non va sulle prime pagine dei quotidiani nazionali o non apre i tg; si immagini quale clamore avrebbe avuto – e con ragione! – la minaccia di trasferimento di un dipendente della Asl perché omosessuale: i media ne starebbero ancora parlando e il Parlamento avrebbe dedicato sedute monotematiche all’episodio. Accade invece la discriminazione ai danni di una giovane donna perché rispetta la deontologia sanitaria che impone di agire per la vita e non per la morte, e non un cenno in Parlamento, neanche a fine seduta; non una interrogazione; non un intervento del ministro della Salute; non una protesta di chi si occupa di pari opportunità; non un delegato sindacale che abbia da ridire (solo un consigliere della Lombardia ha sollevato il caso).
Vogliamo che Margherita se la veda da sola? O pensiamo che il suo gesto di difesa della vita, tanto più coraggioso in quanto pagato con la probabile perdita di un lavoro guadagnato con onore, merita di starle a fianco finché le sue sacrosante ragioni siano riconosciute? Cominciamo a scriverlo alla Asl di Pavia e alla Regione Lombardia. E non fermiamoci finché non la rivedremo in un turno di notte al pronto soccorso a dare un po’ di luce e di speranza a suoi coetanei confusi.
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