Corte di cassazione - Sezione I civile - Sentenza 11 novembre 2014 n. 24001
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Non vi è alcuna possibilità di veder riconosciuta nell'ordinamento italiano la maternità surrogata - la cd. pratica dell'utero in affitto - condotta all'estero. A vietarla è, infatti, la ormai famosa, per molti famigerata, legge 40 del 2004 (non toccata dalla Consulta sotto questo aspetto). Non solo, da tale divieto discende necessariamente la dichiarazione dello stato di adottabilità del minore, ed il suo collocamento presso un altro nucleo. A gelare definitivamente le speranze di una coppia che si era recata in Ucraina in cerca di una legislazione più permissiva è la Prima Sezione civile della Corte di cassazione con una sentenza 24001/2014 redatta dal Consigliere Carlo De Chiara che chiude ogni spiraglio. Per la legge, infatti, chi lo ha condotto in Italia, anche se munito di un certificato di nascita estero, è soltanto un «genitore apparente», per cui il minore va considerato «in stato di abbandono».
La fase di merito - La vicenda parte dalle indagini di un Pm insospettitosi di fronte alla dichiarazione di nascita fatta dalla coppia che aveva presentato un certificato ucraino che li riconosceva entrambi come genitori biologici. Dagli accertamenti era emerso che la donna aveva precedentemente subito una isterectomia mentre il padre era affetto da oligospermia. A questo punto la coppia - indagata per alterazione di stato civile - aveva ammesso di aver fatto ricorso alla surrogazione di maternità, pratica legale in Ucraina. A seguito di Ctu però era stato accertato che nessuno dei due dichiaranti era effettivamente genitore del minore. Per cui anche secondo la legge Ucraina che prevede che almeno il 50% del patrimonio genetico provenga dalla coppia committente, il contratto di surrogazione era da ritenersi nullo. Infine, il certificato anche se debitamente postillato non poteva essere riconosciuto in quanto contrario all'«ordine pubblico», visto il divieto posto dalla legge 40. Da qui l'allontanamento del minore dalla coppia ricorrente, «giustificato» anche dal comportamento illegale dei dichiaranti che avevano scientemente eluso la norma italiana.
La motivazione - La Suprema corte ha confermato l'intero impianto della sentenza della Corte di appello di Brescia respingendo uno per uno tutti i motivi sollevati dalla coppia. In primis i giudici di legittimità chiariscono che l'apostille attesta soltanto la «veridicità» del certificato ma non certo la sua efficacia nel nostro ordinamento. Dove, invece, il «limite generale dell'ordine pubblico» vale anche con riferimento alla «disciplina estera sulla filiazione». Inoltre, chiarisce la sentenza, nel concetto di ordine pubblico non rientrano soltanto i «valori condivisi della comunità internazionale» ma esso comprende anche «principi e valori esclusivamente propri» purché «fondamentali e perciò irrinunciabili». E tale non può non ritenersi il divieto della surrogazione della maternità, tanto più che esso è rafforzato anche da una sanzione penale, posta proprio a presidio del principio per cui «madre è colei che partorisce» (269 cc). E tale divieto, ribadisce, la Corte non è stato travolto dalla sentenza 162/2014 della Consulta che ha dichiarato incostituzionale la proibizione della eterologa.
I valori tutelati - Dunque, scrivono gli ermellini, «il divieto di pratiche di surrogazione di maternità è certamente di ordine pubblico» venendo in rilievo «la dignità umana - costituzionalmente tutelata - della gestante e l'istituto dell'adozione», con il quale la surrogazione di maternità «si pone oggettivamente in conflitto» perché soltanto a tale istituto «l'ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità priva di legami biologici con il nato».
Ed anche a guardare le «aperture» registrate in dottrina, esse non riguardano la «surrogazione eterologa», quella cioè realizzata mediante ovociti non appartenenti alla donna committente, «che è priva perciò anche di legame genetico con il nato». Né tantomeno riguardano le ipotesi in cui neppure il gamete maschile appartiene alla coppia committente, come nella specie.
Mentre l'«interesse del minore» si realizza o affidando il nato a chi l'ha partorito oppure ricorrendo all'adozione, non dunque attraverso un «semplice accordo tra le parti», secondo una valutazione operata dalla legge che non attribuisce «alcuna discrezionalità» al giudice.
La giurisprudenza Ue - Bocciato anche il richiamo a due recenti sentenze della Cedu (65192/11 e 65941/11) su due casi francesi che, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, non hanno affermato in generale il diritto del nato con surrogazione ad essere riconosciuto dalla coppia committente - lasciando al contrario su questo ampia autonomia agli Stati - ma prevedendolo soltanto nei casi in cui il padre sia anche padre-biologico, in omaggio al diritto all'«identità personale» del nato.
Potestà genitoriale mai assunta- In definitiva per la Cassazione sia il certificato di nascita ucraino che la locale legge sulla maternità surrogata sono contrarie all'ordine pubblico. Il primo, dunque, non può avere «efficacia» nel nostro paese e la seconda «non può trovare applicazione». Per cui non si pone neppure una questione di perdita della «potestà genitoriale» in quanto essa non è mai stata assunta dalla coppia. Da qui, in assenza di altri parenti, l'accertamento dello stato di abbandono e la dichiarazione di adottabilità da parte del tribunale dei minori.
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