Testo cambiato, ecco perché è pericoloso di Gianfranco Amato, 26-07-2013, http://www.lanuovabq.it/
Lo scorso lunedì 22 luglio il percorso di approvazione del disegno di legge in materia di contrasto dell’omofobia e della transfobia ha avuto un improvviso cambiamento di rotta. A seguito di un emendamento dei relatori, infatti, l’impianto normativo si è ridotto ad un solo articolo con cui viene modificato l’art.3 della Legge 13 ottobre 1975 n.654 e l’art.1 del decreto legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito con modificazioni della legge 25 giugno 1993, n. 205. La modifica consiste essenzialmente nell’aggiungere l’«omofobia» e la «transfobia» alle altre categorie già protette da forme di discriminazione e violenza quali la razza, l’origine etnica, la nazionalità e la religione.
Secondo la nuova formulazione del disegno di legge l’articolo 3, della legge 13 ottobre 1975, n. 654, dovrebbe leggersi nel seguente modo:
«Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell'attuazione della disposizione dell'articolo 4 della convenzione, è punito
a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;
b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, o fondati sull’omofobia o transfobia.
È vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, o fondati sull’omofobia o transfobia».
L’art.1 del decreto legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito con modificazioni della legge 25 giugno 1993, n. 205, invece, dovrebbe leggersi così:
«Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell’attuazione della disposizione dell’articolo 4 della convenzione, è punito:
a) con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, o fondati sull’omofobia o transfobia,
b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, ovvero fondati sull’omofobia o transfobia».
Ora, il punto fondamentale è che, a differenza della precedente proposta – la quale all’art.1 aveva espressamente definito i concetti di orientamento sessuale e identità di genere – l’attuale testo non precisa assolutamente nulla circa l’omofobia e la transfobia. In nessuna normativa del nostro ordinamento giuridico è in alcun modo rinvenibile o desumibile il concetto delle succitate categorie. Se si considera che tali categorie vengono ad assumere la funzione di presupposto di una fattispecie penale, ben si comprende la pericolosità in ordine alla certezza del diritto ed al principio di oggettività del reato. Se non è la legge, chi può essere autorizzato a definire i concetti di omofobia e transfobia? Il rischio è quello di creare una sorta di “reato giurisprudenziale”, il cui contenuto precettivo verrà rimesso all’autorità giudiziaria chiamata a pronunciarsi nel singolo caso. La gravità di tutto ciò si amplifica laddove si consideri che in gioco vi sono diritti fondamentali dell’uomo, quali la libertà di opinione e di credo religioso, garantiti e tutelati dagli articoli 19 e 21 della nostra Costituzione.
Come si colmerà la mancata previsione normativa dei concetti di omofobia e transfobia? Come reagirà l’interprete di fronte a questo vacuum legis? Proviamo ad ipotizzare uno scenario partendo da alcuni presupposti.
Primo. Non vi è una definizione della scienza medica dell’omofobia e della transfobia perché esse non sono inserite in alcuna classificazione clinica delle varie fobie: non compaiono, infatti, né tra le patologie previste nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) né tra quelle contemplate nella International Classification of Diseases (ICD), ovvero la classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati, stilata dall'Organizzazione mondiale della sanità (WHO).
Secondo. L’unico documento cui l’interprete potrebbe eventualmente far riferimento sembrerebbe essere la Risoluzione del Parlamento europeo 2012/2657(RSP) del 24 maggio 2012 sulla lotta all'omofobia in Europa. In tale documento (punto B) si definisce l’omofobia come «paura e avversione irrazionali provate nei confronti dell'omosessualità femminile e maschile e di lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) sulla base di pregiudizi», e si ritiene «assimilabile al razzismo, alla xenofobia, all'antisemitismo e al sessismo». Sempre in quel punto del documento si precisa, altresì, che l’omofobia «si manifesta nella sfera pubblica e privata sotto diverse forme, tra cui incitamento all'odio e istigazione alla discriminazione, scherno e violenza verbale, psicologica e fisica, persecuzioni e uccisioni, discriminazioni a violazione del principio di uguaglianza e limitazione ingiustificata e irragionevole dei diritti, e spesso si cela dietro motivazioni fondate sull’ordine pubblico, sulla libertà religiosa e sul diritto all’obiezione di coscienza».
Occorrerà capire, atteso anche l’orientamento europeo in materia, se l’opposizione al matrimonio omosessuale e all’adozione di minori da parte di coppie dello stesso sesso, possa considerarsi una forma di discriminazione per «violazione dei principio di uguaglianza», o una «ingiustificata limitazione di un diritto». Per non parlare di quanto il concetto di «violenza verbale» può essere esteso, e se esso può arrivare a comprendere, ad esempio, il giudizio di «grave depravazione» rinvenibile nelle Sacre Scritture della religione cristiana (Gn 19,1-29; Rm 1,24-27; 1 Cor 6,9-10; 1 Tm 1,10).
Terzo. Nel caso in cui si volesse fare una valutazione comparativa col diritto in vigore nei Paesi che da anni conoscono una legislazione antiomofoba, si potrebbe guardare a quanto accade, ad esempio, nel Regno Unito. Anche lì nessuna legge dà una definizione di omofobia e transfobia. A supplire il vuoto normativo ci pensa direttamente il Crown Prosecution Service (CPS), corrispondente grosso modo alla nostra Procura della Repubblica. In un documento ufficiale di quell’Autorità (44899 CPS – Hate Policy), una circolare in cui si delineano le direttive da seguire in materia, al punto 2.1 viene testualmente contemplato quanto segue: «There is no statutory definition of a homophobic or transphobic incident. However, when prosecuting such cases, and to help us to apply our policy on dealing with cases with a homophobic or transphobic element, we adopt the following definition: “Any incident which is perceived to be homophobic or transphobic by the victim or by any other person”» (Non esiste una definizione normativa di caso riferibile ad omofobia o transfobia, e al fine di attuare la nostra politica criminale in materia, noi adottiamo questa definizione: “Si ritiene riferibile ad omofobia o transfobia ogni caso in tal modo percepito dalla vittima o da ogni altro soggetto”). In questo caso il presupposto del reato non è lasciato all’arbitrio del giudice ma a quello della vittima.
Ben si possono comprendere, quindi, quali siano i pericoli insiti nella formulazione prevista dal nuovo testo del disegno di legge che andrà in discussione alla Camera dei Deputati. In assenza di un’espressa previsione normativa che definisca cosa sia l’omofobia e la transfobia, il nostro sacrosanto diritto di opinione e di libertà di pensiero sarà in balia dell’interpretazione creativa di un giudice-legislatore, o dell’interpretazione soggettiva di una vittima incarognita. In entrambi i casi non è una bella prospettiva.
In realtà la suddetta Policy, consultabile qui: http://bit.ly/12vgwpl , si limita a estendere ai potenziali crimini d'odio omofobici e transfobici la politica attuata per i potenziali crimini d'odio etnici, religiosi ecc.: "In adopting this definition, the CPS is building on the approach which has generally been accepted for defining other types of hate incidents, such as racist incidents." Il testo specifica inoltre che non è detto che vi sia in effetti un crimine: "not every incident that is reported amounts to a crime". Non si tratta dunque di un documento usato per identificare reati, ma solo di una policy che indica come comportarsi di fronte a potenziali reati. Se un uomo aggredito in una stradina solitaria dichiara di essere stato preso di mira perché nero, o perché portava la tonaca, questo è sufficiente perché il caso venga seguito con la particolare attenzione prevista per gli hate crimes, anche qualora il fatto non dovesse poi dimostrarsi un crimine d'odio, non potendo venire provato l'elemento discriminatorio (come specifica il paragrafo 2.6). A riprova che la percezione della discriminazione in sé e per sé non è ritenuta prova sufficiente.
RispondiEliminaUn po' più di onestà intellettuale non guasterebbe.