Questo il testo dell'articolo scritto a quattro mani dai cardinali di Milano e Vienna, Angelo Scola e Christoph Schönborn e pubblicato dal quotidiano francese Le Figaro. E' una sorta di appello a tutti gli europei: nel loro articolo i due cardinali elogiano il movimento Manif piur tous che il 5 ottobre manifesterà contro il progetto di legge per introdurre tecniche per la «fabbricazione di bambini senza genitori». Cento anni fa, il nostro Continente si impantanava nella guerra, trascinando il mondo in un conflitto di cui non abbiamo ancora finito di calcolare le conseguenze. La guerra del 1914-1918 poneva, in un modo tragico e nuovo, la questione del valore della vita umana: quanti uomini e donne avrebbero dovuto per quella guerra pagare il prezzo di sangue? Quante famiglie piansero un figlio, un padre, un fratello, un amico che non è più tornato? Quanti genitori senza figli e quanti bambini senza genitori? Tutta l’intera famiglia europea era in lutto. Oggi nuovi pericoli minacciano il nostro Continente. Essi pongono la stessa domanda sul valore della vita umana, sia pure in termini diversi. Nella nostra economia di libero mercato, il mercato non può essere il criterio ultimo, il bisogno materiale non è l'unica bussola e l’uomo non deve trasformarsi in una variabile tra domanda e offerta. In vari Paesi europei, le leggi e i regolamenti ora permettono la maternità surrogata. Assistiamo a un doppio attentato alla dignità umana, contro i bambini da una parte, condannati «a essere di fatto orfani di genitori vivi», come ha detto Giovanni Paolo II nella sua lettera alle famiglie, e contro le madri, i cui corpi vengono cosificato, sfruttati, affittati. Se si è preoccupati per la recente decisione della Corte europea dei Diritti dell'uomo che ha dato via libera alla fecondazione artificiale, diamo il benvenuto alla reazione tonica, giovane, creativo e duratura della Francia. La Francia ha avuto il coraggio di dire no. Il Presidente della Repubblica francese si è impegnata contro l’utero in affitto. Manif pour tous, oggi conosciuta in tutta Europa, aveva previsto che cambiando la natura del matrimonio si sarebbe passati ad altre rivendicazioni che snaturano l’adozione e organizzano la fabbricazione di esseri umani. Nella maternità surrogata, ci sono in germe tutte le condizioni di una schiavitù moderna dove il bambino è concepito come un prodotto, un commercio in cui i più ricchi sfruttano i più poveri, mentre si accelera l’eugenetica occidentale. Visto dai nostri Paesi, è indubbio che è il movimento francese di Manif è sicuramente formato da molti cattolici, di credenti di altre religioni e di non credenti. Non è quindi una voce ecclesiale, ma una voce francese che è sentita, a livello europeo e internazionale. Questa espressione popolare e dovrebbe ispirare le nazioni occidentali e spingere la Convenzione europea dei diritti dell'uomo a elaborare un dispositivo di legge che protegga i diritti dei bambini. E questa non sarebbe una logica estensione della Dichiarazione universale dei diritti umani? Dobbiamo garantire i diritti dei bambini a conoscere le proprie origini, a crescere con il padre e la madre, a escludere ogni forma di contratto, economico o di altra natura, che li privi di uno o di entrambi i genitori. Come espresso dai nostri fratelli vescovi in Francia, se l'accesso per la procreazione medicalmente assistita e la maternità surrogata vengono liberalizzati, tutta la filiazione resta disorientata e una generazione di bambini sarà privata intenzionalmente di uno dei loro genitori Papa Francesco ci invita costantemente ad uscire da noi stessi e andare verso la periferia: non è una questione di geografia, ma di innanzitutto di vita. Le periferie della nostra umanità sono l’estrema fragilità, piccolezza e povertà: quella della vecchiaia e quella dell'infanzia. La nostra attenzione a queste periferie è il cuore della nostra civiltà. Noi non solo vogliamo ringraziare i francesi per il loro risveglio inaspettato, stimolare il loro impegno che sarà molto utile quando arriva il momento, nel nostro Paese, ma chiediamo soprattutto di restare fedeli alla loro storia. Non è solo questione di radici, ma di rami, germogli e frutti. Insomma, c’è in gioco il futuro dell’Europa.
martedì 30 settembre 2014
sabato 27 settembre 2014
L’aborto e il cancro al seno: nuove prove scientifiche li collegano, 27 settembre 2014, www. notizieprovita.it
L’aborto motiplica i rischi di sviluppare il cancro al seno. Ne abbiamo già parlato in altre occasioni, su questo sito e sulla rivista mensile Notizie Pro Vita. Ovviamente la notizia è censurata dai media, dalla cultura della morte, e anche dalla comunità scientifica politicamente corretta. Anche da quelli che blaterano ogni tre per due di “diritto alla salute”, soprattutto delle donne. Da ultimo, si sono aggiunti 12 studi scientifici provenienti dall’India, a confermare il “Link ABC” (legame tra Aborto e Breast Cancer, cancro al seno). Secondo questi, considerando che una donna di per sé può essere più o meno predisposta al tumore, un aborto volontario aumenta di 5 volte le possibilità che il tumore si sviluppi.
Noi continuiamo a ripetere: chi veramente fosse “femminista” dovrebbe essere contrario all’aborto. Non stiamo parlando del diritto a vivere del bambino – che pure, ovviamente, va rispettato – ma stiamo considerando la questione solo nell’ottica della tutela della donna, che è madre – volente o nolente – quando resta incinta; e che se abortisce deve quanto meno essere avvisata delle possibili gravi conseguenze, psichiche e anche fisiche, a cui il suo gesto la espone. Invece, da quasi 40 anni, la 194 e la cultura mortifera che l’ha prodotta e che la sostiene, non ha fatto altro che banalizzare l’aborto: a discapito non solo dei bambini, ma anche delle madri. Francesca Romana Poleggi
venerdì 26 settembre 2014
Pazze, pazze, pazze Regioni. I costi, le donazioni, l’anonimato. Ora come la mettiamo con l’eterologa?, Settembre 26, 2014 Redazione, http://www.tempi.it/
martedì 23 settembre 2014
Trentino, dietro la finta emergenza sull'omofobia di Alfredo Mantovano, 23-09-2014, http://www.lanuovabq.it
Approvando una propria legge anti-omofobia la Provincia di Trento gioca d’anticipo. Un po’, cambiando quel che c’è da cambiare, come fa in queste ore il sindaco di Bologna col registro delle trascrizioni dei matrimoni fra persone dello stesso sesso contratti fuori dall’Italia, o come ha provato a fare tre mesi fa il presidente della Regione Lazio con misure limitative all’obiezione del medico all’aborto. Questi provvedimenti sono legati dall’impazienza per le determinazioni del Parlamento: il legislatore nazionale va posto di fronte al fatto compiuto. Dunque, perché attendere i comodi del Senato sul disegno di legge “Scalfarotto” quando da subito si possono piantare degli efficaci paletti?
Emergono due interrogativi. Il primo: la pur ampia autonomia della Provincia ha confini così estesi da permettere che si vari una legge in questa materia? Il secondo è distinto, ma non separato: quale emergenza sociale esiste nel Trentino per far approvare tale legge provinciale? Ve ne è la reale necessità? Non si corre il rischio – al di là delle intenzioni – che le nuove norme diventino essere stesse discriminatorie? La lettura del testo unificato all’esame dell’assemblea provinciale fa capire che i proponenti si sono posti la prima questione: si coglie lo sforzo perché il testo non invada la sfera di competenze dello Stato. È però innegabile che in più d’un passaggio si proceda lungo il confine: lo si oltrepassa? Sì, a mio modesto avviso. L’art. 9, per es., prescrive che, «per la salvaguardia del diritto di ogni persona alla libera espressione e manifestazione del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere, la Provincia (…) adotta modalità linguistiche e comportamentali ispirate alla considerazione e al rispetto dei principi di questa legge»; e aggiunge che «le sanzioni disciplinari previste dai contratti collettivi» sono aggravate «se le violazioni evidenziano una discriminazione fondata in particolare sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere e sull'intersessualità». Evocando «modalità linguistiche», è evidente che il riferimento non è al bilinguismo, bensì a una sorta di neo-lingua “gendericamente corretta” cui tutti, in primis i dipendenti della Provincia, sarebbero chiamati ad attenersi, pena l’aggravamento delle sanzioni disciplinari. Chiedo: quando si stabiliscono criteri di carattere generale per colpire disciplinarmente si è ancora nella sfera della competenza di una Provincia autonoma?
Per restare sullo stesso articolo – ma il testo ne contiene altri, altrettanto discutibili –, e passando al merito: quali sarebbero i parametri del rispetto di «modalità linguistiche» non discriminatorie, e chi ne sarebbe l’arbitro? Se Caio ingiuria Tizio o lo diffama è sanzionato dalle norme del codice penale; se ne lede nella dignità in quanto omosessuale la pena è aggravata dal medesimo codice, che punisce in modo più pesante chi agisce per motivi abietti o futili, o profittando di una minore difesa. Sul presupposto dell’accertamento penale, Caio non sfuggirà poi alla sanzione disciplinare. Questa è la legge in vigore, nel Trentino come nel resto d’Italia; quale è allora il senso di stabilire «modalità linguistiche» vincolanti a pena di sanzione disciplinare? Sarà punito chi sosterrà che la famiglia è quella costituita da un uomo e da un donna uniti in matrimonio, o – peggio ancora – che la famiglia in tal senso intesa ha una utilità sociale superiore a quella di altre unioni?
Non è un quesito privo di senso; basta guardare quanto accade in ordinamenti con norme simili a queste. In Canada – pure questo è un es. fra i tanti – agli studenti di un prestigioso campus di Vancouver, la Trinity West University, viene chiesto di sottoscrivere all’ingresso l’impegno a non accedere a siti pornografici utilizzando il wi-fi dell’università, a non assumere alcool nel campus, e ad astenersi «da forme di intimità sessuale che violino la sacralità del matrimonio tra un uomo e una donna». La Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Legge canadesi ha avviato un procedimento amministrativo contro l’università e ha chiesto agli Ordini degli Avvocati di non ammettere alla pratica forense i laureati di quell’ateneo perché “omofobi”. In quel codice di comportamento l’omofobia sta nel riferimento alla «sacralità del matrimonio tra un uomo e una donna» e al fatto che sia menzionato solo questo matrimonio, e non quello fra omosessuali. È il caso di rischiare assurdità del genere anche dalle nostre parti?
Da ultimo. Pur essendo meridionale, conosco le strade e i sentieri del Trentino fin da bambino. Nel corso dei decenni ho sempre apprezzato, con le bellezze della natura, la cortesia e l’ospitalità degli abitanti. Non sono mai stato sfiorato dal pensiero che una terra e delle persone tanto benedette da Dio fossero animate da impulsi omofobi, sì da non potersi attendere le decisioni del Parlamento nazionale, e da dover intervenire con una legge provinciale. Esiste veramente un’emergenza del genere?
domenica 21 settembre 2014
Sentenza choc in Olanda sulla pedofilia Via libera al club che la promuove, 03/04/2013, http://www.lastampa
Secondo la Corte d’appello non va vietata la fondazione che propone la liberalizzazione del sesso coi minori,
La pedofilia è «un comportamento aberrante». Ma non può essere negato il diritto di fare campagne per promuoverla. È il senso della sentenza shock di una corte d’appello olandese che ieri, ribaltando la decisione di primo grado, ha stabilito come non debba essere vietata l’attività di una fondazione che da oltre trenta anni promuove la pedofilia.
Lo scorso anno il tribunale civile di Assen aveva ingiunto lo scioglimento del gruppo `Sticthing Martijn´ rilevando che le sue proposte per legalizzare i contatti sessuali tra adulti e bambini erano contrarie alle norme ed ai valori della società olandese.
Ieri la corte d’appello di Leeuwarden ha affermato che i testi e le foto presenti sul sito web della fondazione non contravvenivano la legge. Aggiungendo che il fatto stesso che alcuni dei suoi membri siano stati condannati per reati sessuali, non andava connesso al lavoro della fondazione stessa.
La Corte d’appello ha anche rilevato che le proposte per la liberalizzazione della pedofilia sono «una seria contravvenzione di alcuni principi del sistema penale olandese», in particolare per quanto concerne la minimizzazione dei «pericoli dei contatti sessuali con giovani». Ma i giudici hanno sentenziato che la società olandese è sufficientemente «resistente» per affrontare «le dichiarazioni indesiderabili ed il comportamento aberrante» promosso dal gruppo fondato nel 1982 e sciolto lo scorso anno in seguito alla sentenza di primo grado. Un suo ex presidente, Martijn Uittenbogaard, ha affermato che i 60 soci non si riuniranno per decidere i prossimi passi, mentre l’ufficio del procuratore sta valutando l’ipotesi di un ricorso in terzo grado. Una portavoce della pubblica accusa ha definito la sentenza «deludente».
Nel corso degli anni l’attività della lobby pro-pedofilia è stata al centro di una serie di proteste. Ma il colpo più duro lo subì nel 2007, dopo aver pubblicato sul suo sito le foto della principessa Amalia, figlia del principe ereditario Guglielmo Alessandro (che il prossimo 30 aprile sarà incoronato re al posto della madre, la regine Beatrice). Il futuro re fece causa, chiedendo la rimozione immediata delle foto ed il pagamento di una multa. Richieste accolte dal tribunale.
Tre anni dopo l’abitazione del presidente dell’epoca, Ad van den Berg, fu perquisita, portando alla scoperta di ingenti quantità di materiale pedopornografico e all’arresto dello stesso van den Berg. Ma l’associazione ha continuato il suo «lavoro», forte del parere emesso dal ministero per la sicurezza e la giustizia che nel giugno 2011 aveva stabilito che per la legge olandese la sua attività non era illegale. Ciò nonostante il 27 giugno 2012 il tribunale di Assen ne aveva decretato la chiusura. Annullata oggi nel nome della libertà di associazione.
martedì 16 settembre 2014
Mamma è femminile, papà è maschile. Perché è così di Roberto Marchesini 16-09-2014, http://www.lanuovabq.it
L'ideologia di genere ha avuto, tra i pochi, il merito di focalizzare l'attenzione di alcuni osservatori sulla figura del padre e della madre, sul ruolo paterno e materno, e sulla loro importanza nella formazione dell'identità di genere. È importante, si osserva, che ci siano entrambi i genitori, il padre e la madre; ma è ancora più importante che, nei confronti del bambino, siano presenti il ruolo paterno e materno, al di là di chi li riveste: non è necessario che il ruolo paterno sia esercitato dal padre e quello materno dalla madre; un ruolo paterno può essere esercitato anche da altri uomini (uno zio, un nonno, un prete...) e addirittura da una donna (dalla madre, ad esempio nel caso della vedovanza). Questa affermazione è di solito corroborata da casi in cui un bambino orfano di padre è cresciuto senza alcun problema di identità di genere; oppure di ottime famiglie nelle quali il ruolo tradizionalmente paterno è stato svolto dalla madre e viceversa. Personalmente, credo che la questione sia semplicemente una riproposizione del dibattito sul genere. Si discute, infatti, del sesso dei genitori (padre e madre) e del loro ruolo di genere (ruolo paterno o materno). L'ideologia di genere sostiene che non esista alcun legame tra sesso e genere; e che il genere, essendo una pura costruzione sociale, deve (per qualche motivo mai chiarito) essere decostruito. Nel nostro caso abbiamo padri (di sesso maschile) che cambiano i pannolini (ruolo di genere materno) e madri (di sesso femminile) che hanno un ruolo normativo (ruolo di genere paterno); bambini che crescono senza qualcuno che svolga un ruolo paterno (necessario solo, dunque, per convenzione sociale); e casi in cui i ruoli genitoriali di genere sono state stravolte e i bambini non ne hanno avuto alcun danno (e che dovrebbero dimostrare come sia possibile decostruire tali ruoli). Proviamo dunque ad affrontare le domande poste dall'ideologia di genere, per poi applicarle alla relazione tra sesso dei genitori e i loro ruoli genitoriali di genere. Molti ritengono che le questioni relative al genere possano essere affrontate dal punto di vista scientifico. È senz'altro vero che la scienza (cioè l'utilizzo della misurazione come metodo di conoscenza) è un valido strumento per conoscere la realtà, ma non tutta la realtà può essere misurata (quindi conosciuta attraverso la scienza): l'uomo, ad esempio, nella sua profonda identità, non può essere misurato. Lo strumento che fino alla metà dell'Ottocento (cioè fino al Positivismo) è stato utilizzato con successo per conoscere l'uomo è la filosofia, in particolare l'antropologia. L'antropologia può aiutarci a dipanare le questioni poste dall'ideologia di genere? Personalmente credo di sì; credo, in particolare, che alcuni strumenti antropologici della filosofia aristotelico-tomista possano essere particolarmente utili per affrontare tali interrogativi. Nel IX libro della Metafisica, Aristotele sostiene che il movimento, il divenire, il mutamento consiste nel passaggio dallo stato di “potenza” a quello di “atto”. La potenza è la capacità di un ente di essere ciò che ancora non è; l'atto è, invece, la realizzazione di ciò che precedentemente era solamente in potenza. La “natura” è il principio, insito negli enti, che guida il divenire dallo stato di potenza a quello di atto. Il termine “natura”, dunque, non indica semplicemente ciò che esiste, la realtà; né può indicare generalmente ciò che fanno gli animali o i vegetali, semplicemente perché ogni specie ha una propria natura, ossia un proprio progetto, diverso da quello di altre specie. In termini correnti potremmo definire la natura come il “progetto” che guida lo sviluppo di ciò che esiste, la sua realizzazione. In che modo la dottrina del movimento di Aristotele riguarda l'ideologia di genere? Mentre l'identità sessuale (cioè l'essere maschio o femmina) è definita sin dal concepimento – il momento dal quale ogni cellula del corpo umano è caratterizzata dai cromosomi XX nella femmina e XY nel maschio -; l'identità di genere (cioè l'essere uomo o donna), invece, si acquista con lo sviluppo. Parafrasando la Bibbia si potrebbe dire che “maschio e femmina li creò” (Gn 1, 27), ma uomo e donna si diventa. Potremmo quindi descrivere il sesso e il genere in termini aristotelici, definendo il sesso come “potenza” e il genere come “atto”, cioè la realizzazione di un progetto (la “natura”) presente fin dal concepimento ma che si realizza nel corso della vita. Il compimento della propria identità sessuale consiste quindi nell'acquisire pienamente l'identità di genere, ossia nel diventare pienamente uomini (se maschi) e donne (se femmine). Sorge spontanea, a questo punto, un'obiezione: esistono situazioni nelle quali le persone nascono maschi o femmine, ma non raggiungono la piena identità di uomini e di donne. Questo significa che queste persone non hanno un progetto che li conduce a diventare uomini e donne se concepiti maschi e femmine? Affrontiamo questa difficoltà con un esempio. Se noi andassimo al mercato e comprassimo una piantina di limone, lo faremmo perché fiduciosi che quella piantina darà dei limoni, ossia confideremmo nel fatto che la piantina di limone abbia una natura, un progetto che prevede la produzione di frutti, e nemmeno frutti qualsiasi (ad esempio angurie o ciliegie) ma proprio dei limoni. Può tuttavia accadere che, giunto il periodo appropriato, la piantina non fruttifichi: forse non ha ricevuto abbastanza acqua o luce, forse è stata assalita dai parassiti, forse era in una posizione non adeguata. Ciò non significa, ovviamente, che la natura della pianta non prevedesse la presenza di frutti, bensì che l'ambiente ha ostacolato lo sviluppo della piantina secondo la sua natura. Questo è, infatti, secondo la filosofia aristotelica, il ruolo dell'ambiente; quello di permettere od ostacolare lo sviluppo della natura delle cose. Tornando all'uomo, questo significa che esiste una natura che guida la realizzazione del progetto della persona; e che se una persona non riesce a sviluppare pienamente le sue potenzialità non significa che non ne avesse, ma solamente che l'ambiente e le esperienze che ha vissuto (la cultura) non glielo hanno permesso. Tutto ciò non deve far pensare che la cultura abbia solamente un ruolo negativo nello sviluppo dell'identità, come sosteneva Rousseau. È vero piuttosto il contrario: le relazioni sono lo strumento essenziale per la propria realizzazione, e l'uomo non può vivere senza relazioni. Aristotele, nel primo libro de La politica, definiva infatti l'uomo zòon politikòn, animale sociale; e san Tommaso, ne La politica dei principi cristiani, ribadisce che «agli uomini è necessario vivere in società». La necessità delle relazioni per la vita umana è testimoniata anche da un esperimento condotto da Federico II di Svevia e riportato nelle Cronache di fra Salimbene da Parma. Volendo l'imperatore scoprire quale fosse la lingua orginaria dell'uomo, fece rinchiudere dei neonati in una torre, ordinando che fossero nutriti e lavati, senza tuttavia parlargli, cullarli o cantare loro canzoni, ossia privandoli di alcun tipo di relazione; i bambini morirono tutti. Torniamo all'ideologia di genere. Essa sostiene l'assoluta indipendenza della parte biologica della sessualità (il sesso) da quella non-biologica (il genere). Per l'antropologia artistotelico-tomista ogni cosa esistente è un “sinolo” - ossia una unione – di materia e forma; nel caso dell'uomo la materia è il corpo e la forma è l'anima. L'anima e il corpo sono inscindibili, tanto che la separazione dell'anima dal corpo comporta la morte dell'uomo; e il loro rapporto non è una “somma”, quanto piuttosto un “prodotto”. Che differenza c'è tra la somma di anima e corpo e la loro unione? Più o meno la differenza che passa tra gli ingredienti per fare una torta e la torta. Quando noi abbiamo la somma degli ingredienti per fare una torta – ad esempio ammucchiati in un sacchetto per la spesa – essi sono separabili l'uno dall'altro, e ognuno mantiene le sue caratteristiche: le uova sono fragili, la farina svolazza se soffiata, il cioccolato si scioglie al calore. Una volta che noi abbiamo impastato e cotto la torta (ne abbiamo fatto dunque un sinolo) non ci è più possibile separare gli ingredienti, o togliere dalla torta la farina o le uova; e la torta ha caratteristiche diverse dalle caratteristiche dei singoli ingredienti che la compongono: non è fragile, non svolazza e non si scioglie. Questo è, secondo l'antropologia aristotelico-tomista, la relazione che lega anima e corpo nell'uomo: esse sono unite indissolubilmente. Per questo motivo è lecito, ed anche utile distinguere la componente biologica della sessualità da quella psicologica e relazionale; ma esse sono le due facce della stessa medaglia, inscindibili se non al prezzo di annientare l'uomo. Spero che quanto scritto finora abbia convinto il lettore che l'antropologia aristotelico-tomista può fornire gli strumenti che permettono non solo di capire con semplicità e lucidità l'ideologia di genere, ma anche di dare ad essa una risposta convincente ed efficace. Detto questo, come possiamo affrontare il dilemma iniziale? È necessario che il padre eserciti un ruolo paterno e la madre uno materno? Eppure talvolta accade, coma mai? Perché alcuni bambini non sono cresciuti in questa situazione e non hanno riportato dei problemi nello sviluppo dell'identità di genere? Diciamo (senza ripetere tutto) che essere padre è la potenza, esercitare un ruolo paterno l'atto, che la natura (il progetto) di un padre è quello di esercitare il ruolo paterno. La realizzazione del progetto è potenziale, non obbligatoria; quindi può accadere che un padre non eserciti un ruolo paterno, e che qualcun altro (uomo o donna) si sostituisca a lui in questo ruolo. Ciò non toglie che l'esercitare un ruolo paterno è legato all'essere padre, ne è lo sviluppo, ne costituisce la natura. Consideriamo adesso il bambino. Anch'esso ha una natura, cioè un progetto. Il fatto che una persona diversa dal padre abbia svolto per lui un ruolo paterno può essere un ostacolo alla realizzazione del suo progetto (sicuramente non è un vantaggio); ma può trovare nell'ambiente sociale altre risorse (cioè altre persone che, bene o male, ricoprano tale ruolo) che lo aiutino nella propria realizzazione. Riassumendo: essere padre ed esercitare un ruolo paterno non sono due cose avulse, ma la seconda è il compimento della prima; compimento potenziale, in quanto può darsi che un padre non possa o non riesca ad esercitare il suo ruolo naturale. In questo caso, il bambino può trovare un ruolo paterno in figure vicarie (che, per questo, sono sostituti della figura paterna, naturale interprete del ruolo educativo paterno.
sabato 13 settembre 2014
Norlevo, la pillola "potrebbe" essere abortiva di Gianfranco Amato, 13-09-2014, http://www.lanuovabq.it
Il 29 maggio 2014 la Sezione Terza-quater del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, con l’ordinanza n. 2407/2014, ha respinto la richiesta di sospensione degli effetti del provvedimento dell’Aifa sul farmaco Norlevo, la cosiddetta “pillola del giorno dopo”, affermando che «non sussistono, sotto il profilo del fumus, i presupposti per l’accoglimento della proposta istanza cautelare avuto presente, in linea con quanto evidenziato dalle resistenti amministrazioni, che recenti studi hanno dimostrato che il farmaco Norlevo non è causa di interruzione della gravidanza». Questo era il giudizio tranchant e lapidario dei giudici amministrativi di primo grado. I Giuristi per la Vita e l’associazione Pro Vita Onlus hanno deciso di impugnare quell’ordinanza avanti il Consiglio di Stato. Ieri, 11 settembre, a Palazzo Spada si è tenuta l’udienza di discussione. I giudici di secondo grado hanno emesso l’ordinanza n.4057/2014, dimostrando una maggior capacità riflessiva rispetto ai colleghi del TAR. Per comprenderlo basta leggere il seguente passo del provvedimento: «Considerato che la questione coinvolge aspetti complessi anche sul piano tecnico, che non possono essere adeguatamente approfonditi in una fase cautelare e che in particolare devono necessariamente essere chiariti in sede di merito le seguenti questioni: - se l’affermazione contestata dalle appellanti (“Non può impedire l’impianto nell’utero di un ovulo fecondato”) nel foglio illustrativo per gli utenti sia coerente con i risultati degli studi sottostanti da riportare nel riassunto delle caratteristiche del prodotto, strumenti di primaria rilevanza per l’informazione del medico; - se il documento impugnato derivi da una modifica di autorizzazione all’immissione in commercio di un medicinale correttamente rilasciata secondo la procedura di reciproco riconoscimento che coinvolge le valutazioni di più autorità sanitarie nazionali in ambito comunitario; - se in tal caso sussistano le fondate ragioni di tutela della salute pubblica – richieste dalla direttiva CE 2001/83 (CE – per rifiutare quanto deciso a livello comunitario); - se deve attribuirsi rilevanza al recente comunicato del 24 luglio dell’Agenzia europea dei medicinali secondo il quale i medicinali a base di“levonorgestrel” agiscono bloccando e/o ritardando l’ovulazione, senza fare alcun riferimento a effetti sull’impianto nell’utero dell’ovulo fecondato». Nulla di scontato, quindi, sul piano scientifico, come pareva invece ai giudici di primo grado. Se è vero che il Consiglio di Stato ha respinto la richiesta di sospensiva del provvedimento poiché la complessità della vicenda non consente una decisione nella fase cautelare, è altrettanto vero che l’ordinanza di ieri, in realtà, riapre i giochi e rimette in discussioni le granitiche certezze scientifiche dei magistrati del TAR Lazio. L’Aifa non potrà più trincerarsi dietro l’apodittica affermazione secondo cui «il farmaco Norlevo non è causa di interruzione della gravidanza», assunto sbrigativamente fatto proprio dai giudici amministrativi romani. Almeno su questo punto il Consiglio di Stato pare inequivocabilmente chiaro.
giovedì 4 settembre 2014
Atea pro-life presenta una potente argomentazione laica contro l'aborto, 9 agosto 2014, di Kristine Kruszelnicki, http://www.aleteia.org/
mercoledì 3 settembre 2014
La «maldestra» sentenza di Roma che ha aperto all’adozione per i gay. Un esperimento rischioso, Settembre 3, 2014 Benedetta Frigerio, www.tempi.it
martedì 2 settembre 2014
Così il governo seppellisce il matrimonio di Alfredo Mantovano, 02-09-2014, http://www.lanuovabq.it
E due! Per il divorzio il governo Renzi segue il “metodo-droga”. Fra marzo e maggio, cogliendo l’occasione di una sentenza della Consulta e mentre l’attenzione relativa ai temi eticamente sensibili era concentrata sul “d.d.l. Scalfarotto”, esso varò un decreto legge che, come su questo giornale abbiamo ripetutamente documentato, fa tornare indietro di trent’anni, depenalizzando di fatto la detenzione e lo spaccio di strada: i tempi ristretti di conversione del decreto hanno impedito l’approfondimento che sarebbe stato indispensabile; il doppio voto di fiducia in entrambi i rami del Parlamento hanno precluso il confronto sull’essenziale. Ci risiamo sul divorzio: il Consiglio dei ministri di venerdì scorso ha licenziato un decreto legge e sei disegni di legge in materia di giustizia. Il decreto legge, non ancora uscito sulla Gazzetta Ufficiale, le cui norme avranno vigore dal momento dalla pubblicazione, è stato enfaticamente denominato “taglia-liti” e punta a snellire i ruoli dei giudici civili, introducendo forme alternative – non del tutto nuove – di risoluzione delle controversie. Il meccanismo prevede che, prima di avviare una causa davanti al giudice, le parti, con l’aiuto dei propri avvocati, tentino la soluzione amichevole della lite con un accordo denominato “convenzione di negoziazione assistita”; il tentativo di accordo è obbligatorio per alcune controversie, come i danni da circolazione stradale, facoltativo per altre, ed è invece vietato quando il contenzioso riguardi “diritti indisponibili”. L’articolo 6 del decreto estende questa procedura anche ai “coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale”, di divorzio, “di modifica della condizioni di separazione o di divorzio”, purché non vi siano figli minori o figli di maggiore età non autosufficienti. Per cogliere la portata della modifica va ricordato che la legge ancora in vigore prevede quale presupposto più diffuso per il divorzio la pronuncia di una sentenza definitiva di separazione fra i coniugi, o di omologa della consensuale; prevede altresì che siano trascorsi almeno tre anni dalla comparizione di marito e moglie davanti al presidente del tribunale per l’udienza di separazione. La separazione precede il divorzio e il tempo fissato dalla legge ha lo scopo di favorire ripensamenti o ricomposizioni: il giudizio di separazione è l’occasione per prendere le distanze da una situazione di difficile convivenza/coabitazione, lasciando aperta la prospettiva di un ritorno alla vita comune insieme (poco probabile, ma non impossibile), derivante da una congrua esperienza di vita per conto proprio. La legge stabilisce poi che il giudice che incontra la coppia ai fini della separazione e del divorzio è il presidente del tribunale, o un suo delegato: quasi a caricare di significato – in virtù della maggiore autorevolezza del magistrato – la verifica della effettiva volontà e possibilità di mantenere il rapporto matrimoniale. E fa in modo che l’udienza davanti a tale giudice ci sia realmente; così il comma 7 dell’articolo 4 della legge sul divorzio: “I coniugi devono comparire davanti al presidente del tribunale personalmente, salvo gravi e comprovati motivi, e con l'assistenza di un difensore. Se il ricorrente non si presenta o rinuncia, la domanda non ha effetto. Se non si presenta il coniuge convenuto, il presidente può fissare un nuovo giorno per la comparizione, ordinando che la notificazione del ricorso e del decreto gli sia rinnovata. All'udienza di comparizione, il presidente deve sentire i coniugi prima separatamente poi congiuntamente, tentando di conciliarli.” La ragione di tutto ciò è evidente: pur disciplinando il divorzio, la legge non trascura che il matrimonio è il fondamento naturale della famiglia; e poiché la famiglia ha rilievo pubblico e ha peso per l’intero ordinamento, il magistrato più elevato dell’ufficio giudiziario, colui che lo presiede, ha il compito, per quel che gli è possibile, di evitare la frattura, con un iter che di per sé richiama alla serietà e alla gravità di quanto accade. Per completezza di quadro, l’articolo 12 del decreto-legge prevede una modalità concorrente per giungere al medesimo risultato: l’accordo di separazione personale o di divorzio – con le stesse limitazioni riguardanti i figli – può raggiungersi senza avvocati se i coniugi lo concludono andando in Comune davanti all’ufficiale dello stato civile, anche in un Comune diverso da quello nel quale si sono sposati. Le modifiche introdotte dal decreto “taglia-liti” non sono un semplice snellimento della procedura. Sono un’altra cosa: con due brevi articoli istituiscono un regime diverso. Si arriva alla separazione o al divorzio (lo si ripete: purché non ci siano minori o figli non autosufficienti) senza passare dal giudice, con la mera assistenza di un avvocato o di un impiegato del municipio. Il che vuol dire più cose contemporaneamente: a. privatizzazione del matrimonio e del suo vigore. L’avvocato non è né diventa un pubblico ufficiale, e ancor meno un sostituto del giudice. La sua assistenza è finalizzata in via esclusiva a conferire veloce efficacia a una manifestazione di volontà delle parti. Che questa procedura non sia ammissibile in presenza di figli minorenni (fino a quando?) conferma che questi ultimi rappresentano il residuo del profilo pubblicistico del matrimonio: l’assunzione di reciproci doveri e impegni fra i coniugi perde invece questo tratto; b. eliminazione del tentativo di comporre le divergenze fra i coniugi. Non si può replicare che se un coniuge arriva a chiedere il divorzio non ha nessuna volontà di giungere a una conciliazione: sia perché non è vero in assoluto, sia perché togliere di mezzo il giudice – e il giudice formalmente più autorevole, il presidente del tribunale – è conseguenza logica della cancellazione della rilevanza sociale e pubblica del matrimonio; c. dichiarare che tutto ciò che riguarda il matrimonio è “diritto disponibile”. È l’effetto della contemporanea previsione della “convenzione di negoziazione assistita” per separazione e divorzio e della preclusione della convenzione medesima quando sono in discussione “diritti indisponibili”: sarà interessante sapere quale sarà la qualifica del diritto agli alimenti… Quando queste nuove disposizioni verranno affiancate da quelle del “divorzio sprint” all’esame del Senato, lo scioglimento del vincolo matrimoniale avverrà sgommando: le norme passate quasi alla unanimità alla Camera riducono fino a sei mesi il tempo necessario per pervenire al divorzio, facendo decorrere il termine dalla notifica del ricorso per separazione. Il che vuol dire divorzio assicurato in meno di otto mesi dall’istanza di separazione, dal momento che la “convenzione di negoziazione assistita” deve completarsi in un tempo non inferiore a un mese. Fra qualche settimana, quindi, una volta approvati il decreto legge e il “divorzio sprint”, il nuovo “matrimonio all’italiana” sarà un contratto privatistico, rescindibile con una velocità maggiore rispetto a quella necessaria per interrompere la somministrazione dell’elettricità o per cambiare gestore telefonico; i giuristi si diletteranno nel definire l’aspetto prevalente del nuovo patto fra i coniugi, ma la riduzione del peso di esso per l’ordinamento sarà nella lettera delle nuove norme. Intendiamoci. La discussione in Parlamento deve ancora iniziare, e i voti – in Commissione e in Aula – non sono ancora stati espressi. L’esperienza del decreto droga non conforta: se il governo porrà la fiducia, o comunque insisterà per l’approvazione del testo così come è, tutti i deputati e i senatori che ne compongono la maggioranza si allineeranno anche stavolta?