giovedì 28 giugno 2012
Il crimine è "malattia" Serve la giustizia? - Più si
approfondiscono gli studi sul cervello, più diventa labile il concetto di
«capace di intendere e volere». E c’è il rischio di un ritorno lombrosiano di
Matteo Sacchi - 28 giugno 2012, http://www.ilgiornale.it
Delitto e castigo: la base del
diritto. Ragione e azione: la base presunta della libertà umana. Volontà e
pulsioni: la base della psicologia, come la conoscono i più. E questi tre
binomi normalmente sembrano potersi sovrapporre abbastanza facilmente.
Ingrandisci immagineTant’è che
per essere punibili di un delitto, in quasi tutti gli ordinamenti giuridici del
mondo, bisogna essere considerati capaci di intendere e di volere, non
sottoposti, durante la sua esecuzione, a cause di forza maggiore. Ecco perché
se una persona in preda a uno stato allucinatorio picchia un vicino di casa
credendolo Bin Landen finisce all’ospedale psichiatrico e non in prigione, o un
cassiere di banca che apre la cassaforte sotto la minaccia di una pistola non è
un ladro. Negli ultimi vent’anni però la possibilità di stabilire solidi confini,
tra lucida volontà di far del male e pulsione incontrollabile, è diventata più
labile. Un esempio noto agli esperti del settore: nel 1999 un tranquillo
insegnante della Virginia, che mai aveva dato segni di comportamenti devianti,
iniziò a molestare la figliastra. Venne immediatamente denunciato, condannato,
allontanato dalla famiglia e dalla scuola. Ogni tentativo di riabilitazione
all’inizio sembrò vano... Poi all’improvviso i medici gli diagnosticarono un
tumore, comprimeva la parte destra del lobo frontale (zona del cervello dove si
trovano le funzioni superiori di cognizione). Appena operato il suo carattere
tornò normale, scomparvero le tendenze pedofile, scattò il senso di colpa...
Tornò a casa. Meno di due anni dopo l’irrefrenabile impulso si presentò di
nuovo. Fu un enorme trauma per la famiglia, però il professore si recò
immediatamente all’ospedale... Il tumore era tornato, lo operarono di nuovo,
«guarì» immediatamente.
Ma se in questo caso, grazie alle
nuove tecnologie, la differenza tra sanità e malattia è immediatamente e
(quasi) univocamente percepibile, in altri le nuove cognizioni provenienti
dalle neuroscienze creano situazioni ambigue. Ci sono scienziati che cercano di
dimostrare che la presenza di una variante genetica (localizzata nel gene MAOA)
aumenta la propensione alla violenza.
Ma allora scatta il dilemma. Il
giudice che deve fare? Considerare questa variante genetica un’attenuante, dare
base scientifica alla frase di Dostoevskij: «Il criminale, nel momento in cui
compie il delitto, è sempre un malato»? Oppure all’estremo opposto della scala
del diritto «scietifizzato», dove si preferisce la sicurezza dei molti alla
tutela dei pochi, si deve decidere che tutte le persone che hanno quella
caratteristica devono essere sorvegliate o private del diritto di portare armi?
Sono domande difficilissime e che per il momento non sfiorano la mente dei
legislatori, spesso in tutt’altro affaccendati, però rischiano di diventare
sempre più pressanti visto il ritmo del progresso scientifico... Ecco il senso
del saggio di Andrea Lavazza (filosofo esperto di neuroscienze) e Luca
Sammicheli (giurista e psicologo) intitolato Il delitto del cervello (Codice
edizioni, pagg. 280, euro 15; sarà presentato oggi, alle 18, alla Feltrinelli
di via Manzoni a Milano). I due hanno voluto indagare il complesso rapporto tra
il diritto della società a difendersi dai criminali e ciò che ci dice la
scienza sulla responsabilità del singolo. E i discrimini sono sottili.
Come spiega Andrea Lavazza: «La
scienza ci dice che dobbiamo cambiare il nostro modo di intendere il libero
arbitrio... Molti dei nostri processi cerebrali sono più automatici di quanto
siamo soliti immaginare. Le nostre capacita decisionali molto meno razionali di
quanto sembrino. Sono fattori in cui allo stato attuale delle nostre conoscenze
il giudice deve decidere ancora caso per caso... non c’è ancora una
giurisprudenza». Però esistono già dei rischi: «Sì, per come la vedo io gli
scienziati troppo deterministi rischiano di riproporre teorie di stampo
lombrosiano... o comunque di trascurare fattori come quelli ambientali nel
delineare la propensione al delinquere».
Però entrambi gli autori, da
scienziati, pur difendendo l’esistenza di ampi margini di autodeterminazione
dell’individuo e rifiutando determinismi genetici, pensano che il diritto debba
prepararsi a una corsa in avanti: «Se sulla genetica del cervello siamo agli
inizi, in altri settori di studio siamo più avanti. Invece ciò che le persone
pensano nella loro “psicologia ingenua” su come si determinino nel cervello i
concetti di Bene e Male è rimasto legato a concetti vecchi... È inevitabile che
il modo di giudicare cambi». Un esempio? Per Maometto a un ladro si tagliava la
mano. Se qualcuno gli avesse spiegato l’esistenza della cleptomania magari ci
avrebbe pensato su. Pare esistano molte cleptomanie che non siamo ancora
abituati a vedere, ma i neuroscienziati iniziano a scorgerle... Forse anche la
giustizia dovrà levarsi la benda e smettere di essere ceca.
Etichette:
biodiritto,
determinismo,
genetica,
giustizia,
libertà
DIETA MISTICA – Fonte di Mariapia Veladiano – La Repubblica, 28 GIUGNO
2012, http://www.dirittiglobali.it/
POLITICO, RELIGIOSO E PROFANO LE
MILLE ANIME DEL DIGIUNO
Paradossale nell’età e nelle
terre dell’opulenza il tempo speso a parlare di diete, a leggere libri di
diete, ad acquistare “cibi senza” (grassi, zuccheri, calorie comunque) che
costano più dei “cibi con”. A cercare la più “veloce”, a non temere dolori e
allucinazioni. Diete-digiuno che ci seducono, parlano a qualcosa di profondo e
insuperabile. Quanto tempo della nostra unica vita se ne va così?
In natura il digiuno non è una
scelta. Può essere strategico: il letargo, per non disperdere le energie alla
ricerca di cibo che d’inverno non c’è. Oppure necessario: si digiuna se non si
trova di che mangiare. Oppure ancora è sintomo: non si mangia quando si sta
male, nel corpo e nello spirito. E basta convivere con un animale da compagnia
e lo si sa per certo che non solo di noi umani questo si può dire. Anche se un
po’ bisogna intenderci sui termini.
Di certo tutti conosciamo
l’inappetenza da dolore: inflitto, subito, temuto, pena d’amore.
Solo per noi uomini il digiuno
può esser scelta. A volte strumento, drammatico, di protesta: dalle suffragette
che rifiutavano il cibo per affermare il diritto di voto, ai digiuni per i
diritti civili nei nostri anni ancora così segnati dall’ingiustizia.
Digiuno con valore politico e
culturale e, spesso, strettamente culturale, legato alla religione: nella forma
attenuata dell’astensione da alcuni cibi oppure in forme più radicali che hanno
attraversato anche la storia del cristianesimo portandosi appresso un sospetto
di patologia. Sì, perché il cibo è vita, benedizione,
salute, ospitalità, allegria
condivisa, dono di Dio, Dio stesso addirittura. Il profeta Ezechiele che mangia
il rotolo della Parola è sia realtà dell’uomo che assimila quel che Dio gli dà
sia, visto dalla parte di Dio, un consegnarsi senza trattenere nulla di sé.
Per questo gli ordini monastici e
la tradizione della chiesa sono sempre stati prudenti sul digiuno. Gli eccessi
erano sospettati di autocompiacimento, di un voler accampar meriti davanti a
Dio.
Oggi molte di quelle che chiamano
diete somigliano a un laico, ostinato digiunare.
Certo che la dieta non è un
digiuno, in senso stretto. O almeno non dovrebbe esserlo. È un mangiar corretto.
Come un mangiar corretto doveva essere quello di Adamo ed Eva. Tutto tranne il
frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Dieta di salute
spirituale, molto prudente. In realtà esercizio di fiducia in Dio: tutto bene è
stato fatto nella creazione, possiamo fidarci di un divieto dal senso oscuro?
La Bibbia è attraversata da cibi fatali. Se il frutto di Adamo ed Eva e il
piatto di lenticchie di Esaù sono stati infausti, i pani e i pesci del Vangelo
o la meravigliosa manna dell’Antico Testamento, che si trovava al mattino nella
misura giusta e non si poteva conservare per il giorno dopo, ci raccontano
invece la bontà del cibo, vero e metaforico. La libertà di saper vivere il
giorno che ci è dato nella fiducia di un pane che viene.
La dieta di oggi sembra il
contrario, un digiuno appunto che è un giocar d’anticipo per la paura del pane
che non verrà. Forse perché non è venuto e temo che non verrà. Ho paura e
allora lo rifiuto. Non verrà e allora non mi serve, angelo divento.
Certo che nel parlare di cibo
oggi si deve essere prudenti, perché anoressia e bulimia sono malattie vere,
che devastano il corpo e lo spirito, se stessi e gli altri.
Eppure, tutto intorno a questi
abissi della malattia, c’è un collettivo “giocare con il pane” che, ci è stato
detto fin da piccoli a tavola, non si fa, non si dovrebbe fare.
Ma quale pane? Il pane-cibo o il
pane-affetto? Se il primo affetto per tutti noi passa attraverso la cura del
corpo, e attraverso il cibo che lo fa vivere, quando questo manca allora il
rifiuto del cibo diventa insieme rifiuto del corpo e protesta, potere con cui
punire chi il cibo non ha dato. O non abbastanza, senza colpa, o non nel
momento giusto, per incapacità o impossibilità.
Forse qualcosa di quel che è
capitato alle “sante anoressiche”, secondo l’espressione di Rudolph Bell, può
raccontarci un pezzo di noi. Il digiuno da “preghiera del corpo”, come era
inteso dalla tradizione cristiana sia occidentale che orientale, diventa in
loro un mezzo per esercitare il “potere attraverso il corpo”.
Il controllo del corpo era una
delle pochissime forme di potere in mano anche alle donne in un tempo di guerre
sante e santi poteri maschili. E infatti sono soprattutto le donne a praticare
l’ascesi del cibo nella storia passata, e anche recente: da S. Caterina da
Siena (muore nel 1380) a Teresa Neumann (muore nel 1962, dopo aver vissuto per
35 anni di solo pane eucaristico). Una scelta che sfiora il sogno di
anticipare, nel corpo fatto sottile quasi come l’anima, la sua stessa
incorruttibilità.
Forse le donne lo conoscono per
natura il potere del corpo. Che possono esser mangiate lo sanno da sempre.
Esser cibo senza che sia una metafora. Lo sanno ben prima che il corpo lo
insegni con la maternità. Il trattenersi dal cibo le sottraeva a questa storia
scritta, sia nella realtà che nella metafora.
Anche oggi un sogno anoressico
accompagna consapevolmente tanti giovanissimi e inconsapevolmente un po’ tutti,
senza più guardare al genere. Le diete-digiuno che ammiccano dalle classifiche
dei libri, dai reparti light dei supermercati, dalle vetrine tutte taglie-mini
dei negozi, ci raccontano un desiderio ormai nostro.
Forse ancora c’entra il potere,
che non sappiamo ben più dove risieda, ma certo non in noi. E c’entra anche la
fiducia, che non coltiviamo più, per paura. E certamente il corpo. Assillo
presente oggi come nel medioevo. Una diversa, strumentale, malata, costruita e
bugiarda devozione del corpo ci obbliga ancora. Corpo esibito, giudicato,
rifatto, perfetto sennò rifiutato. Un’ossessione che ci rende giudicati e
infelici. E allora forse proprio il corpo che ci occupa, invade l’esistenza
fino all’ultimo interstizio, conquista il pensiero, ci impedisce la vita
sociale, sempre visto con gli occhi degli altri e soppesato, non nostro, non
alleato in quel che desideriamo, e noi a percepire ogni centimetro che deborda
dalla cintura, dai pantaloni che pure vogliamo mettere stretti come tutti,
proprio il corpo è il nemico. Un altro paradosso, e non solo del nostro oggi ma
della vita tutta che è corpo in noi, di certo. Quale che sia la nostra speranza
che ci porta oltre. Così il tempo della dieta in forma di digiuno diventa un
tempo del bisogno dei bisogni, quello dell’affetto in forma di cibo, sentito
potentemente e negato, per non sentirlo più un giorno. Fame d’amore, di esser
visti, amati, riconosciuti. Di potersi fidare e affidare a un futuro di pane
che c’è. La manna del credere. Ma se prevale la paura, ci resta allora il
potere sul corpo. Pieni del proprio essere vuoti, nemici a se stessi per
diventare forse finalmente amici, un giorno. Nella forma di una leggerezza
sognata. E così, angeli diventiamo. Come le sante mistiche anoressiche.
Leggerissimi da volare via.
Sla, staminali da un feto possono sconfiggerla, 28 giugno 2012, http://affaritaliani.libero.it
Per il momento e' solo uno studio
di fase I, ma potrebbe preannunciare una svolta rivoluzionaria per curare la
Sla: un'equipe di ricercatori italiani ha trapiantato per la prima volta al
mondo in un malato cellule staminali cerebrali, sperando rallentino o frenino
la morte dei motoneuroni, che porta alla paralisi dei pazienti. E' successo
lunedi' scorso, ma la notizia e' stata diffusa solo oggi: l'equipe coordinata
dal Prof. Angelo Vescovi, direttore dell'IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza
di San Pio (San Giovanni Rotondo) e, per la parte neurologica, dalla Dr.ssa
Letizia Mazzini Responsabile del Centro SLA dell'Ospedale Maggiore della
Carita' (Novara), ha portato a termine il trapianto di cellule staminali del
cervello umano nel midollo spinale del primo dei diciotto pazienti affetti da
Sclerosi Laterale Amiotrofica, reclutato nel trial clinico di fase 1
autorizzato dall'Istituto Superiore di Sanita'.
A questo seguiranno gli
interventi sui rimanenti pazienti, con cadenza inizialmente mensile. Il
trapianto delle cellule, prodotte nella Banca delle Staminali Cerebrali di
Terni e' avvenuto a opera dell'equipe di Neurochirurgia dello stesso ospedale,
diretta dal Dr. Sandro Carletti, coadiuvato dal Dr. Cesare Giorgi e dal
neurochirurgo Prof. Nicholas Boulis, della Emory University Clinic di Atlanta,
Georgia. Grazie ad una tecnica tutta italiana, messa a punto nel 1996 da
Vescovi, professore di biologia cellulare all'universita' Bicocca di Milano, e'
stato quindi realizzato il primo trapianto al mondo che impiega cellule
staminali cerebrali scevre da qualunque problematica etica, poiche' provenienti
da un frammento di tessuto cerebrale prelevato daun singolo feto deceduto per
cause naturali, utilizzando una procedura analoga a quella della donazione
volontaria di organi negli individui adulti. Le cellule da questo donatore
saranno sufficienti per l'intera sperimentazione e per quelle successive che la
stessa equipe sta gia' organizzando su altre malattie neurodegenerative, in
collaborazione anche con cliniche europee e statunitensi.
Il paziente affetto da SLA,
dell'eta' di 31 anni, ha ricevuto tre iniezioni nel lato sinistro del midollo
spinale lombare, ciascuna di un volume di 15 millesimi di millilitro, che
contenevano in totale poco meno di due milioni e mezzo di cellule staminali
cerebrali. Le cellule staminali sono state trapiantate in prossimita' delle
cellule nervose chiamate motoneuroni, che nella SLA muoiono gradualmente,
paralizzando progressivamente i muscoli, fino a causare la morte del paziente.
Si spera che questo possa rallentare la morte dei motoneuroni e quindi la
malattia. Il paziente si e' risvegliato dal trapianto in buone condizioni,
respira autonomamente e le sue condizioni cliniche e psicologiche sono al
momento piu' che soddisfacenti. Gli scienziati sottolineano che questa
sperimentazione, come ovvio per una fase I, e' mirata specificamente a valutare
la sicurezza delle procedure di trapianto e dell'innocuita' delle cellule. Non
si tratta, quindi, di una cura per la SLA. La condizione clinica dei pazienti
assoggettati a trapianto sara' monitorata nei mesi e anni a seguire
documentando l'evoluzione della malattia. Questa e' la prima sperimentazione al
mondo di questo genere di natura interamente filantropica e quindi non-profit,
ed e' stataconcepita e sviluppata dall'Associazione Neurothon Onlus
(www.neurothon.com), presidente Mons. Vincenzo Paglia Vescovo di Terni, e
supportata, oltre che dagli enti sopracitati, dalla Fondazione Cellule
Staminali (www.cellulestaminaliterni.it), presidente Prof. Enrico Garaci.
Ulteriore e generoso supporto e' stato fornito dall'Associazione Pro Roberto
Onlus di Gavoi (Nuoro), dalla Fondazione Stefano Borgonovo (Milano) e dalla
Fondazione Milan A.C.
Editoriale: i pro life italiani giocano in difesa e la Corte
Costituzionale salva la 194, 27 giugno
2012 Corrispondenza romana - http://www.corrispondenzaromana.it
(di Mario Palmaro) Erano in
molti, fra gli storici oppositori alla 194 e all’aborto legale, a temere una
sentenza di rigetto da parte della Corte Costituzionale italiana. E così è
stato: la Consulta ha per l’ennesima volta rispedito al mittente un’eccezione
di incostituzionalità alla legge 194. Chiamati a pronunciarsi dal giudice di
Spoleto sulla costituzionalità della legge sull’aborto, i membri della suprema
Corte hanno proseguito sulla linea piratesca tenuta da quando in Italia
l’aborto è legale: evitare di entrare nel merito della legge, e così facendo
renderla intoccabile.
Stiamo parlando di una legge che
in 30 anni ha fatto 5 milioni di morti innocenti, abortiti a spese dello Stato
negli ospedali pubblici. Ma questa strage non sembra turbare il sonno dei
giudici, cattolici compresi, che in tutti questi lustri si sono susseguiti
nella prestigiosa funzione di difensori della Costituzione e dei suoi principi.
Qualcuno dovrebbe pubblicamente denunciare questa impressionante notte della
coscienza, che impedisce in particolare ai credenti – ma anche i laici sono
dotati di coscienza morale – di alzarsi e prendere le distanze da un’orribile
legge di morte.
Esiste dunque una ormai
consolidata, squalificante complicità della Corte Costituzionale nel garantire
la sopravvivenza di una legge gravemente ingiusta, cioè di una “non-legge” in
base alla dottrina del diritto naturale. Ma, detto questo, c’è un’altra
fondamentale considerazione da svolgere, e cioè chiedersi che cosa è stato
fatto in questi ultimi decenni in Italia, in termini culturali, politici e
giuridici, dal cosiddetto mondo pro life ufficiale.
Tutti sanno, infatti, che la
Corte Costituzionale è esposta a molteplici forme di pressione politica e
culturale che ne orientano le decisioni. Questo avviene non solo in Italia.
Negli Stati Uniti, ad esempio, la Corte Suprema fu l’artefice della
legalizzazione dell’aborto quando, nel 1973, scrisse la storica sentenza Roe
vs. Wade. Da quel giorno i pro life americani iniziarono una battaglia pubblica
formidabile, che continua ancora oggi, condotta nelle piazze, nelle chiese,
nelle aule parlamentari, nelle campagne per le presidenziali. Nessun esponente
della cultura per la vita statunitense si è mai sognato di dire che «la
sentenza Roe vs Wade è stata applicata male, ma in realtà era a favore della
vita».
Nessun esponente del mondo pro
life d’oltreoceano si è mai sognato di dire che l’importante è «garantire il
diritto della donna di scegliere di non abortire». Nessun presidente della
conferenza episcopale degli Stati Uniti si è mai sognato di dire a milioni di
telespettatori che «noi la legge sull’aborto non vogliamo toccarla». In
quarant’anni di aborto legale, i pro life americani – e non solo quelli
americani – hanno sempre tenuto alto il livello dello scontro, ripetendo a
chiare lettere: «stop abortion», cioè no all’aborto legalizzato.
Lo scenario italiano è sotto
questo profilo totalmente diverso: da molti, da troppi anni, autorevoli
esponenti del mondo cattolico e del mondo pro life hanno smesso di attaccare la
legge 194, sostenendo che essa è una legge «che contiene parti buone»; che «va
applicata tutta»; che «è stata applicata male»; che «non vogliamo cambiare o
abolire la 194». Questo festival del compromesso politico ha generato un clima
surreale, nel quale gli oppositori della legge sono rimasti un’esigua
minoranza, censurata dagli stessi organi di informazione di area cattolica.
La pavidità della Corte
Costituzionale è indubbiamente anche il frutto del progressivo processo di
omologazione del movimento pro life in Italia. Alfredo Mantovano, in una
coraggiosa intervista rilasciata a una giornalista intelligente come Benedetta Frigerio di “Tempiˮ, ha usato
un’immagine efficacissima per descrivere questo lento suicidio della cultura
della vita in Italia: «il mondo pro life, confessionale e non, gioca in
difesa». Mantovano lamenta nella stessa intervista di essere stato inascoltato
dal Movimento per la Vita italiano, e conclude: «spero che chi preferisce
giocare in difesa finalmente ci ripensi».
Dobbiamo dire con molta chiarezza
che, per paradosso, i più preoccupati del ricorso del Giudice di Spoleto erano
proprio gli ambienti cattolici compromissori: infatti, se la Corte
Costituzionale avesse dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 4 della
194, ne sarebbe scaturito un terremoto politico e giuridico. Sarebbe sorto il
problema di come riscrivere la legge sull’aborto, vietando almeno in parte ciò
che oggi è permesso; ma per vietare occorre minacciare sanzioni per chi
contravviene alla norma; e dunque sarebbe stato necessario riprendere in mano
il tema della punibilità dell’aborto; ma una fetta importante del mondo
cattolico e del mondo pro life non vuole nemmeno sentir parlare di “punibilità
dell’aborto”.
Aggiungiamo che la cultura
teologico-penalistica prevalente nel cattolicesimo contemporaneo disprezza la
dottrina classica della retribuzione, e insegna che al delitto e al reato non
si debba rispondere con una pena, appunto, retributiva, soprattutto di fronte a
quei delitti che l’opinione pubblica considera ormai dei diritti. Così, su
aborto, fecondazione artificiale, eutanasia, il Magistero della Chiesa esige
dallo Stato il divieto e la sanzione; ma il mondo cattolico e pro life
“ufficiale”, le conferenze episcopali e i loro giornali, predicano comprensione,
perdono giuridico, assistenza sociale. In una parola: depenalizzazione.
Questa è, purtroppo, la
sconcertante conclusione cui dobbiamo giungere oggi: il mondo pro life
ufficiale vuole che lo status quo non sia modificato, vuole proseguire con le
azioni – meritorie – di aiuto socio-economico-psicologico alla maternità; ma
non vuole promuovere uno scontro pubblico culturale e politico intorno al
principio di autodeterminazione della donna. La «scelta» è diventata il
paradigma fondamentale di non pochi operatori pro life, seppure declinata nella
versione della “scelta per la vita”.
Ecco perché, per paradosso, la
non-decisione della Corte Costituzionale ha fatto tirare un sospiro di sollievo
a quegli ambienti che, teoricamente, dovevano tifare per la dichiarazione di
incostituzionalità.
Una piccola prova del nove: i
giornali laici e abortisti hanno dedicato alla decisione della Corte moltissimo
spazio, mentre “Avvenireˮ ‒ il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana
– ha trattato il ricorso del Giudice di Spoleto con imbarazzata discrezione.
Unica positiva eccezione, un (tardivo e forse riparatorio) editoriale di
Francesco D’Agostino che domenica 24, molti giorni dopo la sentenza, criticava
apertamente la legge 194 e la non-decisione della Consulta.
All’indomani della sentenza,
invece, sempre sul giornale della Cei si poteva leggere una rassicurante
intervista al Ministro della Salute Renato Balduzzi – in “quota cattolica” al
Governo tecnico Monti – che diceva: «la legge 194 è una legge dello Stato, e quindi
va applicata in tutte le sue parti». Titolo dell’articolo: «Balduzzi: applicare
tutta la 194».
Ecco: questa è diventata la
“linea” da tenere. E chi non la rispetta – come i 15.000 scesi in piazza a Roma
per la Marcia Nazionale per la Vita – semplicemente non esiste. “Avvenireˮ ha
censurato quella Marcia, così come continua a censurare chi, sull’aborto,
vorrebbe provare a giocare all’attacco.
In uno scenario del genere,
nessun giudice della Consulta alzerà la mano per dire “io non ci sto”. L’ultimo
in ordine di tempo a farlo fu il Presidente della Corte, Antonio Baldassarre.
Significativamente, non si trattava di un cattolico, ma di un laico coraggioso
e onesto, in quota alla sinistra. (Mario Palmaro)
Etichette:
aborto,
biodiritto,
biopolitica,
chiesa,
vita nascente
mercoledì 27 giugno 2012
In Italia è boom di baby-mamme. "Colpa della scarsa
informazione" - Mercoledì, 27 giugno 2012 - http://affaritaliani.libero.it
Crescono le coppie infertili. Ma
è boom di baby-mamme. Sembrerebbe un paradosso, ma non è così. Si è discusso
proprio di questo all'Esc di Atene nel convegno organizzato dalla European
Society of Contraception and Reproductive Health. E l'Italia occupa una
posizione particolare in questo panorama, perché di figli se ne fanno sempre meno e sempre più tardi.
Ma se le coppie adulte hanno
problemi di fertilità, si sta assistendo nell'ultimo periodo a una grande
crescita di gravidanze tra i giovani. Delle 360mila pillole del giorno dopo
vendute in Italia, quasi il 55% viene utilizzato dalle under 20. Ogni anno sono
circa 10mila le gravidanze indesiderate in questa fascia di età.
La causa? Secondo gli esperti
alla base c'è una scarsa informazione in materia di contraccezione. Al convegno
di Atene è stato ribadito che le false credenze a generare una scarsa adesione
ai metodi contraccettivi. Per esempio, molte giovanissime credono che al primo
rapporto sessuale non si possa rimanere incinta.
I dati, riportati da la Stampa,
parlano però anche di una coppia su sette con problemi di fertilità. Anche per
questo c'è un continuo aumento del numero di persone che si sottopongono in
maniera ossessiva alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Dalle
46 mila coppie nel 2005 si è arrivati oggi a toccare quota 65 mila. Su questo
influisce anche l'innalzamento dell'età media dei neo-papà e neo mamme, che
oggi è intorno ai 31 anni di media.
Ci sono comunque altri fattori.
Negli uomini, soprattutto, una delle cause principali dell'infertilità è uno
stile di vita non corretto. La causa possono essere infezioni, varicocele,
alterazionio ormonali e problemi di metabolismo. La vita sedentaria e
un'alimentazione senza frutta incidono notevolmente. Secondo gli esperti,
smettere di fumare e controllare il peso possono migliorare la situazione.
Consigliata prudenza anche pe
rl'abitudine di tenere il computer portatile sulle gambe, anche se la
correlazione tra questa azione e l'infertilità ancora non trova riscontro.
Obesi e persone con varicocele hanno temperature elevate ai testicoli, più elevate
di quelle dovute dai computer
Malato di Sla, sceglie di moriresuicidio assistito per l’ex assessore -
Vittorio Bisso, esponente del Pdci veneziano, raccontò il suo male in Facebook.
Il viaggio in una clinica svizzera: «Noi per lo Stato non esistiamo», Monica
Zicchiero,27 giugno 2012©, http://corrieredelveneto.corriere.it
DOLO - L’annuncio è arrivato dal
sindaco Maddalena Gottardo ieri alle 17, all’inizio del consiglio comunale. «E’
mancato un caro amico e una persona importante per la città, il consigliere dei
Comunisti Italiani Vittorio Bisso», ha detto visibilmente provata. E’ rimasta
nell’aria la notizia che tutti gli amici sapevano: Vittorio, 55 anni, era
ammalato di Sla ed era partito lunedì per la Svizzera per porre fine alle sue
sofferenze. Non aveva fatto mistero delle sue intenzioni, postate ciclicamente
sul profilo Facebook dove lo seguivano parenti, amici e collaboratori. Lo
scorso febbraio aveva raccontato alla sua città che non aveva intenzione di
lasciare che il suo alito restasse attaccato ad un respiratore slegato dalla
sua consapevolezza e dalla sua volontà e aveva scelto di spiegare la sua
battaglia lo stesso giorno nel quale aveva nominato la moglie Marisa Piovesan
amministratore di sostegno con un atto presentato dal suo legale, Massimiliano
Stiz, al Tribunale di Dolo.
Bisso durante le cure
Nel documento anche il suo
testamento biologico che scandisce la sua volontà: non subire «accanimento
terapeutico». La moglie dovrebbe tornare oggi, per la cerimonia laica di
commiato gli amici e compagni attenderanno qualche giorno. Ufficialmente,
Vittorio è andato in una clinica in Svizzera. Punto. Suicidio assistito è
espressione che non si pronuncia, neanche il suo avvocato Massimiliano Stiz
parla di scelta di fine vita. La legge italiana non tollera certe iniziative,
ma quella svizzera si adegua alle norme che prevedono di comunicare subito
all’anagrafe delcomune di residenza il decesso di un cittadino straniero. Così
ieri mattina la notizia è arrivata a Dolo e gli amici hanno postato su Facebook
il loro saluto sulla sua bacheca. Nel suo profilo le info sono un testamento
laico. Citazione preferita: «Voglio decidere io della mia vita…» e i puntini di
sospensione dicono nella grafia ciò che è la sospensione a fine vita per alcuni
destini. Destino non è la parola che Vittorio avrebbe scelto, «ateo e poi ateo»
si definisce nel suo profilo sul social network, lui che si era fatto pure
«sbattezzare perché era avvelenato dal fatto di non poter disporre della
propria vita e aveva detto a tutti che non voleva finire intubato senza
coscienza», racconta l’ex consigliere regionale Nicola Atalmi. Ma se non chiami
destino il fatto che ti comunichino di essere ammalato di Sclerosi laterale
amiotrofica praticamente lo stesso giorno in cui ti riconoscono la pensione
anticipata per essere stato esposto all’amianto, allora bisogna dire sfortuna.
Si può dire, ma è una parola che si pronuncia una sola volta nell’esistenza di
chi si è messo sempre dalla parte degli ultimi, nel partito da sempre come
assessore comunale allo Sport a Dolo, come consigliere in Provincia con la
giunta di sinistra di Davide Zoggia, ancora consigliere a Dolo e un impegno nel
gruppo di Comunisti Italiani in Regione fino alla scorsa legislatura.
Una volta sola, sfortuna, come a
definire un dato di fatto, una constatazione, poi si va avanti. «Ha sempre
affrontato con grande ottimismo la malattia - racconta il compagno mestrino di
partito Francesco Di Cataldo - la sua passione erano le maratone e la
motocicletta e ha continuato a correre finché ha potuto. Era sereno, si
muoveva, si informava e si proponeva per ogni nuova sperimentazione, nuove
terapie». La scorsa estate era stato in Thailandia per un trapianto di
staminali, le foto su Facebook lo ritraggono in piscina durante la sua
permanenza in ospedale. Nella galleria di immagini ci sono anche gli articoli
di giornale nei quali reclama la possibilità di fare testamento biologico e le
foto di atleti in lotta contro la Sla come Hemerson. Dopo l’estate la malattia
ha preso il sopravvento, il lento fermo del corpo, i muscoli che non rispondono
e a febbraio la decisione di nominare la moglie amministratore di sostegno.
L’associazione Luca Coscioni ha
lanciato la sua denuncia sul testamento biologico: «Oggi è Vittorio Bisso
malato di Sla che da Dolo, in provincia di Venezia, reclama inmodopubblico per
sé, ma anche per tutti i cittadini, il diritto di poter decidere sul proprio
fine vita attraverso il testamento biologico. Anche in Veneto non mancano i
comuni che hanno voluto negare questo diritto lasciando inascoltate le richieste
dei cittadini per l’istituzione del registro comunale dei testamenti
biologici». «Vittorio è un uomo e un compagno che combattuto malattia con un
coraggio invidiabile - sospira ora l’avvocato Stiz -. In questo Paese malattia
e sofferenza sono all’ordine del giorno ma c’è un’ispirazione religiosa che
muove il Parlamento che non sente la necessità di intervenire su questo tema
che interessa chi soffre, ma la cosa non è nella sensibilità di chi governa.
Vittorio ha vissuto in grande coerenza con i suoi principi, fino alla fine».
Cultura - 27 giugno 2012 – DIBATTITO - Geni & universo, un nuovo
Tommaso? Andrea Galli, http://www.avvenire.it
Il problema della separazione tra
sapere scientifico e riflessione teologica è uno dei temi che stanno più a
cuore a Michael Heller, sacerdote e illustre cosmologo nato nel 1936 a Tarnow,
in Polonia, membro della Pontificia accademia delle Scienze e della Specola
vaticana. Insignito del premio Templeton nel 2008, Heller ha devoluto la somma
di denaro ricevuta (un milione e seicentomila dollari) al nuovo Centro
Copernico per gli studi interdisciplinari di Cracovia, che ha la scopo di
formare personalità che sappiano superare lo iato tra fede e scienza.
E sempre da questo punto dolente
prende avvio la stimolante intervista che ha rilasciato a Giulio Brotti,
pubblicata dall’editrice La Scuola (Dio e la scienza) e anticipata ieri da
"Avvenire". «Se la conoscenza scientifica è impresa di verità – ed in
buona parte lo è, al di là delle inevitabili incompletezze del formalismo
scientifico – non può essere ignorata o ridimensionata, semplicemente perché
non si sa maneggiarla». Così Giuseppe Tanzella-Nitti, ordinario di Teologia
fondamentale alla Pontificia Università della Santa Croce, oltre che ideatore
del miglior portale in Italia su scienza e fede, Disf.org, commenta le
dichiarazioni di Heller. «Si tratta di una preoccupazione che condivido e di
cui ho parlato più volte con Heller, in diverse occasioni. La necessità di un
dialogo più fruttuoso fra teologia e pensiero scientifico fu percepita con
chiarezza da Giovanni Paolo II e, con linguaggio diverso, è stata espressa a
suo tempo anche da Joseph Ratzinger, adesso da Benedetto XVI».
Gianfranco Basti, decano della
facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense, dove insegna
Filosofia della scienza, nota che «è rinascente, purtroppo, nelle nostre
istituzioni accademiche ecclesiastiche una certa insensibilità – dopo il felice
periodo degli scorsi vent’anni – verso la ricerca e la pratica scientifica,
come se si potesse parlare sensatamente di scienza da parte di filosofi e
teologi, senza aver mai, non dico fatto ricerca scientifica, ma neanche
collaborato ad un progetto di ricerca scientifica, come invece il sempre più
sterminato e multiforme campo della cosiddetta interdisciplinarietà oggi
richiede, ma dove le nostre facoltà e istituti ecclesiastici, filosofici e
teologici, sono sempre depressivamente assenti».
E sul rischio segnalato dallo
scienziato polacco, ovvero che «una teologia disinteressata alle acquisizioni
della scienza possa auto-relegarsi ai margini della vita culturale, in un
futuro non distante», Basti è tranchant: «Credo che qui Heller pecchi di
ottimismo: tutto questo già sta avvenendo sotto i nostri occhi. Quel futuro è
già presente. Il grido di dolore di Heller verso una teologia e anche una
filosofia delle nostre facoltà ecclesiastiche, fortemente tentate di ripiegarsi
su se stesse a "parlarsi addosso" deve farci riflettere. Soprattutto
perché le sfide oggi vengono non tanto dalla vera scienza e dai veri
scienziati, ma dalla falsa divulgazione scientifica.
Si pensi, per esempio, allo
sciocchezzaio mediatico su temi di cosmologia e di genetica di cui vengono
sistematicamente nutrite le nostre famiglie, grazie alla televisione. Ma non
saper distinguere fra falsa divulgazione scientifica e vera scienza è sintomo
di quella mancanza di cultura scientifica che affligge l’Italia, e che è una
delle cause del nostro declino, anche economico. Il fatto che, allora, in
Italia, sempre gli stessi imbonitori laicisti tengano banco sui media quando si
parla di scienza dipende anche e forse soprattutto dalla grave latitanza di
pensatori cattolici in grado di porsi autorevolmente a fare da interfaccia fra
laboratori e accademia scientifica, da una parte, e opinione pubblica
dall’altra».
Registrata la spaccatura, altra
questione è però l’impianto filosofico sui cui fare leva per superarla.
Tanzella-Nitti ci tiene a sottolineare un fraintendimento in cui sembra cadere
il cosmologo polacco: «Dobbiamo ricordare che Aristotele non è Tommaso, né il
superamento della fisica aristotelica, al quale Heller fa riferimento nel
passaggio in cui ricorda la nascita del metodo scientifico, vuol dire
superamento della metafisica o della filosofia della natura. Le scienze della
natura si poggiano implicitamente su una filosofia della natura e quest’ultima
si poggia implicitamente su un’ontologia.
È probabilmente questo, ridotto
all’osso, il suggerimento di Maritain ed è quello che Tommaso stesso
ricorderebbe se potesse parlare il linguaggio dei nostri tempi. Il teologo ed
il filosofo possono imparare molto dagli uomini di scienza, ma al tempo stesso
possono anche aiutarli a riconoscere quella filosofia implicita senza della
quale la scienza stessa non potrebbe lavorare. La scienza del XX secolo lo ha
confermato, quando essa torna a percepire il "problema dei
fondamenti", ad esempio in cosmologia e nella matematica, oppure quando
percepisce l’irriducibilità della vita o l’insufficienza del riduzionismo.
Personalmente ritengo che la metafisica di Tommaso d’Aquino, in particolare la
filosofia dell’actus essendi e la sua dottrina della causalità, conservino
ancora considerevoli virtualità per impostare correttamente il rapporto fra
scienze, filosofia e teologia».
Per Basti, anche lui fine
conoscitore di Tommaso, non è accettabile confondere costui con la
neoscolastica: «Sebbene io sia perfettamente d’accordo con Heller che quello
che serve alla teologia e in genere alla cultura è una filosofia completamente
nuova, in continuità con la ricerca scientifica, e che affronti da un punto di
vista diverso antiche questioni, non sono d’accordo col suo giudizio sulla
filosofia tommasiana, da lui identificata con una particolare versione tomista
di essa, quella di Jacques Maritain». Sulla strada da percorrere, poi, Basti
ricorda l’importanza del filone a cui si è dedicato come pochi altri in Italia,
ossia quello di una formalizzazione del discorso filosofico, più precisamente
di un ’«ontologia formale» che abbia «basi logiche distinte e complementari da
quelle della logica matematica, non correndo così il rischio di cadere nelle
secche del riduzionismo neo-positivista».
Sergio Galvan, ordinario di
Logica all’Università Cattolica di Milano, partendo dalla provocazione di
Heller, sintetizza così la sua posizione: «Concordo apertamente
sull’insufficienza dei modelli classici di analisi del rapporto tra fede e
scienza. Il modello fideistico, da una parte e il modello neoscolastico,
dall’altra». Quale può essere un modello soddisfacente alternativo ai due
precedenti? «In accordo con la concezione espressa da Heller, ritengo che un
modello epistemologico adeguato debba essere capace di interpretare le istanze
di apertura presenti nella scienza e non debba avvallare un’immagine dualistica
della realtà che si giustapponga a quella della scienza. In conformità a tale
modello il sapere scientifico verrebbe per sua natura ad interagire con un
sapere razionale di carattere metascientifico, entro il cui orizzonte sarebbero
collocabili anche i contenuti di una fede teologica matura.
Entro il contesto di un simile
modello troverebbero, infatti, probabile risposta le istanze di una fede ragionevole,
in quanto ogni forma di sapere presuppone qualche forma di fede e, d’altro
lato, una fede teologica vissuta e pensata in coesione con l’intero corpus
delle proprie credenze razionali, anche scientifiche, sarebbe per ciò stesso
ragionevole e quindi giustificata in misura adeguata».
Etichette:
conoscenza,
scienza,
scienza e fede,
teologia
Il Cnr distratto sulla cultura umanista, Tullio Gregory, 27 giugno 2012,
http://www.corriere.it
Il Cnr ha pubblicato il
«Documento di visione strategica» per il prossimo decennio: documento
importante nelle sue scelte e raccomandazioni, redatto da una commissione -
nominata dal ministro Profumo - composta di 16 membri, dei quali due stranieri.
In larga maggioranza autorevoli esperti delle cosiddette scienze dure, con un
solo rappresentante delle scienze filologiche, storiche, filosofiche, Michel
Gras, studioso francese di primo piano nel campo della ricerca archeologica: di
questo «equilibrio imperfetto» il documento porta le conseguenze, come si
vedrà.
Poiché il presidente Nicolais,
presentando il Documento, ha auspicato che si apra un dibattito, cerchiamo qui
di avviarlo.
Tra le proposte molto positive e
innovative mi sembra da segnalare l'istituzione di Scuole internazionali di
dottorato presso i Dipartimenti e le aree di ricerca Cnr: si avrebbero
finalmente scuole con corsi regolari, di alta specializzazione, con laboratori
e biblioteche, cosa che avviene raramente nelle università dove i dottorandi
sono per lo più abbandonati a se stessi, al massimo affidati a un tutor, senza
corsi regolari.
Molto spazio è giustamente dato
alle tecnologie informatiche e al trasferimento tecnologico. Ma quando si passa
alla definizione delle aree tematiche (differentemente presentate nel Documento
e nella I appendice) ci si trova innanzi a un elenco piuttosto disordinato di
buone intenzioni, di saggi consigli, che prescindono del tutto dal bilancio del
Cnr (la spesa per le iniziative proposte non è mai quantificata) e soprattutto
sembrano ignorare le ricerche in corso presso i vari Istituti. Siamo di fronte
a programmi che potrebbero trovare forse spazio in una rinata Casa di Salomone,
di baconiana memoria.
Già qualche perplessità desta la
serpeggiante insofferenza per la ricerca di base, riconosciuta come
caratteristica del Cnr, insistendo piuttosto sul rapporto con il mondo
dell'impresa, che è come dire vincolare la ricerca a commesse esterne per un
immediato utile economico, mettendo in crisi quelle attività che garantiscono
il progresso del sapere, come già era posto in evidenza dal panel generale di
valutazione.
In questa prospettiva non
stupisce l'emarginazione delle discipline umanistiche: in tutto il Documento di
63 pagine, i cenni a queste discipline (accorpate nell'ambigua dizione «scienze
sociali e umane e patrimonio culturale») se fossero raccolti tutti insieme non
occuperebbero più di una pagina; delle stesse discipline si torna a parlare
nella I appendice, occupando due pagine su quindici complessive. Si aggiunga
che in tutto il Documento sono ignorate le ricerche storiche, filologiche,
filosofiche, la cui presenza nel Cnr e il cui valore sul piano internazionale
era stato messo in evidenza dal panel di valutazione dell'ente collocando al
vertice, su 107 istituti, proprio i due istituti che svolgono ricerche in
questo campo. Dato del tutto ignorato nel Documento che pur utilizza, per altri
settori, le valutazioni del panel.
Peraltro, quando definisce le
aree tematiche, il Documento propone per le scienze economiche, sociali e umane
e il patrimonio culturale (inserite nell'area intestata alla «sicurezza e
inclusione sociale») temi di una genericità significativa: «innovazioni sociali
creative», «lotta contro il crimine e il terrorismo», «libertà di accesso a
Internet», «sensori per stati di crisi», «coesione sociale», «pace», «legalità
e sicurezza», «la rappresentazione dei beni», «l'eredità storica», «le
strategie territoriali». Il tutto servito con affermazioni di assoluta ovvietà:
«il patrimonio culturale va valorizzato», «il patrimonio culturale immateriale
va incrementato».
Né maggiore chiarezza troviamo
nella I appendice, dedicata alle aree tematiche, ove - ancora una volta ignorando
settori di ricerca nei quali l'ente ha posizioni di prestigio - si indicano
alcune priorità: per il patrimonio culturale, «conoscenza approfondita dei
litorali», «turismo planetario, «miglioramento della rappresentazione e
dell'immagine dei beni culturali, in relazione soprattutto alla persona umana e
alla natura». Per le scienze sociali e umane le priorità sono: «cambiamenti
demografici», «coesione sociale e culturale, legalità e sicurezza»,
«competitività del sistema economico», «pace», «pensare il futuro della città».
Affermazioni tutte che si commentano da sole per la loro banalità.
Come spiegare questa
disattenzione del Documento per le discipline umanistiche senza riaprire un
inutile dibattito - del tutto privo di senso - sulle cosiddette due culture?
Semplicemente ricordando l'endemica indifferenza, a volte diffidenza, di larghi
settori del Cnr verso le discipline umanistiche (ammesse nell'ente cinquanta
anni orsono) che, come ho avuto altra volta occasione di ricordare, sono state
recentemente «compresse» dal nuovo CdA del Cnr in un unico Dipartimento, così
da mettere insieme l'archeologia micenea con il diritto privato europeo, la
psicologia con il restauro, la filologia classica con la sociologia
industriale. Va anche riconosciuto che la prospettiva del Documento non
differisce dalla politica del Miur e del Cipe (come si rileva anche dal Piano
nazionale della ricerca 2011-2013), espressione del più miope aziendalismo,
tutto volto al prodotto (tanto caro all'Anvur) vendibile sul mercato e
valutabile con criteri «quantitativi» (oggi ampiamente criticati da tutte le
grandi istituzioni scientifiche europee); di qui l'emarginazione della ricerca
di base, scientifica e umanistica, e più ancora di una cultura che crei valori,
non commerciabili ma essenziali per la crescita della società civile.
Dimenticavo: il Documento auspica l'avvento di apostoli specialisti di «analisi
bibliometriche» per «posizionare la ricerca del Cnr nell'ambito europeo ed
internazionale»; per i direttori scientifici di dipartimenti e istituti
richiede «esperienze gestionali e manageriali», come vuole l'Anvur per i professori
universitari, con i noti risultati.
Algoritmi voce spia diagnosi Parkinson - Matematico cerca 10mila
volontari nel mondo, 26 giugno, http://www.ansa.it
(ANSA) - MILANO, 26 GIU - Il morbo di
Parkinson potra' essere diagnosticato dalla voce del malato. Il matematico Max
Little, infatti, ha messo a punto un test non invasivo ed economico per
rilevare la malattia, che funziona tramite algoritmi informatici che analizzano
la voce registrata. Il sistema e' stato presentato in occasione della
TedConference in corso a Edimburgo, come riporta la Bbc. Il sistema messo a
punto da Little, un database, 'impara' a rilevare le differenze nella voce.
NON C'È SVILUPPO VERO SENZA DOTTRINA SOCIALE - Una riflessione sui
risultati della conferenza internazionale Rio +20 di Carmine Tabarro Comunità
Cattolica Shalom
ZI12062616 - 26/06/2012
Permalink:
http://www.zenit.org/article-31413?l=italian
ROMA, martedì, 26 giugno 2012
(ZENIT.org).- La crisi di cui si è discusso a Rio+20 è figlia a quella di cui
si parla al G20: difatti anche Rio+20 è frutto di un modello di sviluppo che
non tiene in considerazione il bene comune ne dal un punto di vista economico,
finanziario, sociale e ambientale.
Invece il mondo globalizzato ha
bisogno di un nuovo modello fondato sulla sostenibilità rispetto dell'uomo e
del creato.
A distanza di 20 anni dal Earth
Summit di Rio del 1992, i dirigenti del mondo politico ed economico si sono
ritrovati nella stessa città per una conferenza mondiale sullo Sviluppo
Sostenibile, denominata Rio+20, con la missione di riprendere il cammino per
promuovere lo sviluppo senza danneggiare l’ambiente e cercare nuove strategie
per il perseguimento di uno sviluppo sostenibile a livello globale.
Purtroppo, lo sviluppo
sostenibile viene declinato solo dal punto di vista ambientale, dimenticando
come affermava già Paolo VI nella sua Populorum Progressio, "tutta la
Chiesa, in tutto il suo essere e il suo agire, quando annuncia, celebra e opera
nella carità, è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell'uomo" e tale
"autentico sviluppo dell'uomo", quando avvenga con le modalità su
dichiarate, "riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua
dimensione".
Questa affermazione di Paolo VI
suggerisce una prospettiva di lungo periodo, ma questa cultura della
sostenibilità non è stato valutata dai policy-makers una priorità assoluta
nell'agenda politica dia fronte di problemi economici ritenuti più urgenti.
In maniera profetica Paolo VI
sempre nell'enciclica Populorum Progressio ricorda in tal senso che le
Istituzioni in sé non sono garanzia di sviluppo, benessere e rispetto
dell'uomo.
Difatti l'attuale recessione
mostra quanto sia vero che le Istituzioni non sono state in grado né di dare
vita ad una sostenibilità dello sviluppo, né di garantire uno sviluppo
durevole. Questo è il problema che incide in maniera preponderante sulla salute
del sistema economico globale.
Questo squilibrio ha provocato
una riduzione tendenziale della domanda aggregata delle famiglie ed un
conseguente rallentamento del tasso di crescita dell’economia nei paesi
industrializzati.
La riduzione sistemica della
domanda aggregata delle famiglie è stata in parte compensata dal crescente
indebitamento delle stesse e da un impetuoso processo di finanziarizzazione che
ha accresciuto progressivamente il contributo del settore FIRE (Finance,
Insurance and Real Estate) alla formazione del reddito.
Il FIRE, dapprima ha sottomesso la
politica e nonostante una legislazione mondiale di favore, non è riuscita a
mantenere il tasso di crescita tendenziale dei paesi industrializzati al
livello del periodo di Bretton Woods (1945-1971), dominato da una politica
economico-sociale di tipo Keynesiano, ed hanno messo a repentaglio la stabilità
finanziaria del sistema mondiale.
A sua volta la crisi finanziaria
ha deteriorato considerevolmente gli indici di sostenibilità ambientale,
economica, sociale, in un circolo vizioso che rischia di propagarsi per un
lungo periodo di tempo.
Ma la crisi non sarebbe forse
neppure iniziata se come ha scritto Benedetto XVI nel n. 67 dell’enciclica
Caritas in veritate, si fosse dato vita ad un "governo dell'economia
mondiale; per risanare le economie colpite dalla crisi, per prevenire
peggioramenti della stessa e conseguenti maggiori squilibri; per realizzare un
opportuno disarmo integrale, la sicurezza alimentare e la pace; per garantire
la salvaguardia dell'ambiente e per regolamentare i flussi migratori, urge la presenza
di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio
Predecessore, il Beato Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere
regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e
di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi
nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori
della carità nella verità".
Ne è prova il picco del prezzo
del petrolio del luglio 2008 non dovrebbe essere interpretato come un fenomeno
casuale, ma come l’indice di un sistema energetico insostenibile basato
sull’uso dei combustibili fossili che hanno vincoli di scarsità stringenti e
sono i principali responsabili dell’inquinamento atmosferico e dei danni
conseguenti all’alterazione della qualità dell’aria.
Inoltre, anche tenendo conto
delle fonti di petrolio non convenzionali, la maggior parte degli studi
esistenti prevedono che l'offerta di petrolio sia destinata a raggiungere negli
anni a venire il picco della cosiddetta curva di Hubbert per poi cominciare a
decrescere nel tempo.
In assenza di provvedimenti
urgenti e massicci che accelerino la transizione ad un sistema energetico
alternativo basato sulle fonti di energia rinnovabile, il prezzo del petrolio
sarà presumibilmente un ostacolo insormontabile alla sostenibilità della
ripresa economica.
Nonostante il cattivo giudizio
espresso dalle associazioni ambientaliste, siamo convinti che bisogna guardare
avanti con coraggio e speranza.
E’ molto positivo il punto di
vista della Santa Sede che invece è riuscita nell’intento di separare le
politiche di salvaguardia del creato dall’imposizione di programmi per la
riduzione delle nascite.
Nel documento finale ci sono
punti positivi sicuramente apprezzabili, come l’affermazione che l’uomo è il
centro dell’economia e anche la definizione di ciò che va meglio compreso come
l’economia sostenibile.
I tre punti di riferimento sono:
lo sviluppo economico in quanto tale, lo sviluppo sociale che pone l’uomo,
l’essere umano nel centro della preoccupazione e che l’economia sostenibile sia
anche ecologicamente sostenibile, quindi che abbia sempre in considerazione
anche l’ecosistema.
Altro dato positivo di questa
Conferenza è stata la presenza di circa 190 rappresentanti di Paesi. Questo
testimonia un crescente interesse della comunità internazionale sulle tematiche
ambientali e dei vecchi e nuovi beni comuni. Questo fa cultura contribuisce a
cambiare gli stili di vita.
Il rammarico nasce per l’assenza
di alcuni capi di Stato, di Paesi importanti come la stessa Italia, gli Stati
Uniti, il Giappone... I maggiori protagonisti sono stati i Paesi in via di
sviluppo, sempre più leadership nel campo dei temi globali.
Un ruolo importante è stato
svolto anche dalla Santa Sede, in cui sono stati ribaditi tutti i temi del
Magistero Papale e in particolare di Benedetto XVI. E’ stato riaffermato il
significato autentico del progresso come vocazione umana, un appello
trascendente cui l'uomo non può e non sa rinunciare: in tal senso nascerebbe
l'esigenza di coniugare la tecnica al suo significato.
Lo sviluppo umano integrale come
vocazione esige anche che se ne rispetti la verità. La vocazione al progresso
spinge gli uomini a “fare, conoscere e avere di più, per essere di più”; e, in
tal senso, la Dottrina sociale della Chiesa ha il pregio di essere il viatico
per questa affermazione integrale dello sviluppo umano.
Il Vangelo sarebbe elemento
fondamentale dello sviluppo, perché in esso Cristo, “rivelando il mistero del
Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo”. Infatti,
“quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l'ordine
naturale, lo scopo e il bene comincia a svanire”.
martedì 26 giugno 2012
Decifrati a Bari i segreti del piccolo genoma dimenticato, 26 Giugno
2012, http://m.lagazzettadelmezzogiorno.it/
Partendo da frammenti di sequenze
genomiche prodotte per tutt’altro scopo, è possibile recuperare le informazioni
necessarie a ricostruire in maniera pressoché completa il genoma mitocondriale,
ovvero il Dna di quegli organelli che rappresentano la «centrale energetica»
delle cellule e che hanno un patrimonio genetico indipendente da quello
nucleare racchiuso nei cromosomi. L’innovativa metodica bioinformatica è stata
messa a punto da Ernesto Picardi e Graziano Pesole, rispettivamente ricercatore
e direttore dell’Istituto di biomembrane e bioenergetica del Consiglio nazionale
delle ricerche (Ibbe-Cnr) e docenti di Biologia molecolare del dipartimento di
Bioscienze, biotecnologie e scienze farmacologiche dell’Università di Bari. I
risultati sono pubblicati sulla rivista «Nature Methods».
«Il genoma mitocondriale, questa
piccola molecola di Dna, è rimasto finora quasi ignorato dai ricercatori che si
sono dedicati al sequenziamento dell’esoma, ovvero delle regioni di Dna
codificanti per proteine, allo scopo di trovare mutazioni associate a malattie
genetiche», spiega Pesole. Questa «caccia» alle mutazioni finalizzata alla
ricerca di possibili terapie ha portato quindi all’elaborazione di protocolli
sperimentali che non contemplano tutte le informazioni disponibili e
necessarie, come quelle riguardanti il Dna mitocondriale e il suo contributo
nella patogenesi di molte malattie genetiche.
«Quello dei mitocondri
costituisce circa il 2% del Dna cellulare e assolve funzioni di importanza
vitale», prosegue il direttore dell’Ibbe-Cnr. «Mutazioni del genoma
mitocondriale sono responsabili di malattie gravissime che compromettono la
funzionalità del sistema muscolare e nervoso o che sono associate a processi di
invecchiamento e tumorigenesi. Le malattie cosiddette mitocondriali, come la
sindrome di Leigh, di Kearns-Sayre, di Pearson o diverse encefalopatie e
neuropatie, hanno un’incidenza media di 1/4000, colpiscono soprattutto bambini
e si distinguono per il fatto che, come il Dna mitocondriale, sono ereditate
esclusivamente per via materna».
L’avvento delle piattaforme di
sequenziamento di nuova generazione, pur determinando una trasformazione
epocale nella ricerca biomolecolare, richiede l’elaborazione di strategie che
consentano l’interpretazione biologica dell’enorme mole di dati prodotti. In
questo ambito, la metodologia messa a punto dai ricercatori del Cnr e di Uniba,
che consente di ricostruire l’intero Dna mitocondriale utilizzando l’enorme
mole di dati di sequenziamento massivo già esistenti per moltissime patologie,
apre un nuovo orizzonte per la ricerca sulle malattie genetiche.
«Sarà possibile, infatti -
conclude Pesole - studiare il coinvolgimento del genoma mitocondriale in
centinaia di malattie di cui non si conoscono il gene o i geni responsabili.
Questo porrà le basi per la predisposizione di nuovi protocolli, sia
diagnostici che prognostici, e per l’applicazione di nuove strategie
terapeutiche». [r. sc.]
I GIUDICI CANADESI IMPONGONO L'EUTANASIA - Il parlamento avrà un anno
per approvare la legge di padre John Flynn LC
ZI12062511 - 25/06/2012
Permalink:
http://www.zenit.org/article-31388?l=italian
ROMA, lunedì, 25 giugno 2012
(ZENIT.org) – Venerdì 15 giugno la Corte Suprema della provincia canadese della
Columbia Britannica ha stabilito che l'attuale legge che proibisce il suicidio
medicalmente assistito, è illegittima.
Al parlamento è stato dato un
anno per abbozzare una nuova normativa che permetta l'eutanasia, sebbene il
governo abbia l'opzione di appellarsi alla Corte Suprema federale canadese.
La sentenza è relativa a un caso
portato in tribunale da Gloria Taylor, una donna sofferente di Sclerosi
Laterale Amiotrofica.
La sentenza è stata accolta
favorevolmente da taluni, tra cui Grace Pastine, dell'Associazione per le
Libertà Civili della British Columbia, che ha definito il provvedimento “una
grande vittoria per i diritti individuali sul fine-vita” (cfr. Globe and Mail,
15 giugno 2012).
Il verdetto del giudice Lynn
Smith è stato descritto dal National Post come “basato sulle nuove
interpretazioni della Carta dei Diritti e delle Libertà”, ha scritto Brian
Hutchinson, il giorno della sentenza.
Due anni fa, ha osservato il
giornalista, un progetto di legge personale con l'obiettivo di legalizzare il
suicidio assistito è stato sconfitto 228 a 59. “Ma il parlamento eletto dal
popolo non può competere con le Corti; la Carta solitamente prevale”, ha
commentato.
Il giudice Smith ha anche
stabilito che Taylor godrà dell'esenzione dalle leggi attuali, ovvero non dovrà
attendere che il parlamento approvi la nuova legge, se la paziente desidera
morire.
La bioeticista Margaret
Sommerville descrive la sentenza come “una pessima idea ed un passo indietro
per il Canada e i valori, l'etica e la legge canadesi” (cfr. Globe and Mail, 16
giugno 2012).
Violare il tabù
“Legalizzare il suicidio
assistito/eutanasia significa violare il tabù secondo il quale non dobbiamo
uccidere intenzionalmente, salvo quando farlo sia il solo ragionevole modo per
proteggere la vita umana”, ha spiegato Sommerville.
La bioeticista ha anche spiegato
che ci sono serie preoccupazioni riguardo l'abuso di eutanasia, in particolare
per i più anziani, in un momento in cui il governo e gli ospedali sono sotto
pressione per le crescenti richieste.
Perché, piuttosto, si è domandata
Sommerville, non alleviare il dolore ed assistere i morenti, facendoli sentire
dignitosi e rispettati?
La decisione della Corte di
spazzare via la legge contro l'eutanasia “riflette tristemente una distorta
visione dei diritti d'uguaglianza che enfatizzano l'autonomia sulla dignità
umana e il valore della vita”, ha dichiarato l'Arcivescovo di Vancouver, J.Michael
Miller, lo scorso 16 giugno.
“Abbiamo già percorso questa
strada parecchie volte nel mondo e tutte le garanzie inizialmente poste, sono
state liquidate, ignorate o addirittura dispensate”, ha detto il presule. “Il
risultato è che l'eutanasia non è dannosa solo alle vite che si prende ma anche
a chi se le prende”, ha aggiunto.
La Conferenza Episcopale Canadese
ha deplorato la decisione, in un comunicato diffuso lunedì scorso.
I presuli canadesi hanno citato
il Catechismo della Chiesa Cattolica (2280) che afferma: “Siamo amministratori,
non proprietari della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo”.
Ci troviamo di fronte a una
opzione fondamentale, proseguono i vescovi: “Mostriamo preoccupazione per i
malati, gli anziani, gli handicappati e i vulnerabili, incoraggiandoli a
suicidarsi o uccidendoli deliberatamente con l'eutanasia? O, piuttosto,
edifichiamo una cultura della vita e dell'amore in cui ogni persona, in ogni
momento e in tutte le circostanze della propria vita, è valorizzata come un dono?”.
Difendere, non essere complici
Scrivendo sul National Post dello
scorso 18 giugno, Will Johnston ha fatto notare che: “la Carta ha lo scopo di
difenderci contro le violazioni perpetrate dallo stato, non quello di rendersi
complice di lesioni autoinflitte o della morte”.
Nelle campagne contro la pena di
morte, Johnston osserva che un argomento è che spesso vengono commessi errori e
muoiono degli innocenti. Eppure non possiamo essere sicuri che non saranno
commessi errori con l'eutanasia, specie con persone colpite da depressione.
Inoltre, in alcuni paesi che hanno legalizzato l'eutanasia, le norme che la
regolano sono spesso ignorate.
Gli ospedali olandesi hanno
ammesso l'eutanasia a bambini con deformità e a persone con disturbi mentali ed
incapaci di dare il consenso informato, sottolinea la columnist del Toronto
Star, Rosie DiManno. “Il pendio scivoloso non è un'esagerazione; è la natura
umana”, ha osservato.
Il bicchiere mezzo pieno
Non tutte le notizie recenti
sull'eutanasia sono negative. Sempre il 15 giugno è stata emessa un'altra
sentenza da parte del giudice di un'Alta Corte inglese, Peter Jackson, su una
donna sofferente di una grave forma di anoressia e desiderosa di morire,
obbligata ad alimentarsi.
“Viviamo una sola volta – una
volta nasciamo e una volta moriamo – e la differenza tra morte e vita è la più
grande differenza che conosciamo”, ha scritto Jackson nella sua sentenza.
Nel frattempo in Svizzera, più di
100 delegati di organizzazioni per il diritto alla morte si sono radunati a
Zurigo per il Congresso della Federazione Mondiale delle Società per il Diritto
alla Morte, tenutosi dal 13 al 16 giugno.
Successivamente, il 17 giugno,
gli elettori del cantone svizzero di Vaud hanno approvato una legge che regola
l'eutanasia.
Le nuove norme si propongono di
contrastare una iniziativa dell'organizzazione pro-eutanasia Exit, che è andata
oltre garantendo alle persone ricoverate in strutture sanitarie, il diritto
incondizionato a morire. Gli elettori hanno comunque rigettato la proposta di
Exit.
Una cosa è certa: la battaglia
sul suicidio assistito proseguirà ancora per vari anni.
[Traduzione dall'inglese a cura
di Luca Marcolivio]
Fecondazione in vitro,giovani a rischio - Hanno piu' possibilita' di
sviluppare un cancro al seno, 25 giugno, 2012, http://www.ansa.it
(ANSA) - MELBOURNE, 25 GIU - Le giovani donne
che ricorrono alla fecondazione in vitro avrebbero maggiori possibilita' di
sviluppare un cancro al seno rispetto a quelle che optano per altri trattamenti
di fertilita'. E' quanto emerge da uno studio dell' Universita' della Western
Australia pubblicato sulla rivista "Fertility and Sterility", che ha
coinvolto 21mila pazienti. Le donne giovani, secondo la ricerca, sarebbero
esposte a più alti livelli di estrogeni durante i cicli di trattamento per la
fecondazione in vitro.
“Il buon medico è obiettore”, parla Renzo Puccetti - Avviata la
campagna UCCR in difesa della libertà di coscienza – 25 giugno, 2012, http://www.uccronline.it/
Come abbiamo già informato, il 6
giugno 2012 la Consulta di Bioetica Laica (già nota per altre vicende) ha
avviato una crociata contro il diritto dei medici di essere obiettori di
coscienza nei confronti dell’interruzione della vita dell’essere umano nella
prima fase della sua esistenza (tecnicamente “aborto”). L’intollerante campagna
è stata chiamata “Il buon medico non obietta”, e ha il chiaro intento di
debellare l’obiezione di coscienza dei medici (grande ospitalità sui media e
volantinaggio fin dentro gli ospedali).
UCCR ha voluto contattatare
alcuni medici, giuristi ed esperti di bioetica per chiedere loro un parere su
questa azione intimidatoria verso la libertà di coscienza
Il dott. Renzo Puccetti, è
specialista in medicina Interna, membro della Research Unit della European
Medical Association, referente per l’area bioetica della società
medico-scientifica interdisciplinare Promed Galileo e socio fondatore
dell’Associazione Scienza & Vita. Ha cortesemente risposto così ad alcune
nostre domande:
“Dott. Puccetti, perché lei ha
deciso di essere obiettore di coscienza?”
«Perché è la cosa più naturale
che il medico non uccida gli esseri umani, così come è naturale che un
ingegnere non progetti ponti destinati a crollare. La parola “medico” deriva
dal sanscrito “madh” che indica colui che che sa e colui che cura. Questo è il
medico, colui che cura perché sa farlo. L’aborto è l’uccisione di un essere
umano su indicazione di un altro essere umano che stabilisce la diagnosi e che
indica al medico come unica cura detta uccisione; beh, credo sia difficile
negare che l’aborto abbia davvero poco a che fare con la vera medicina, per
questo, appena laureato, scrissi al medico provinciale, allora si faceva così,
la mia dichiarazione di obiezione di coscienza, una scelta che non mi ha
portato alcun beneficio economico o di carriera, ma che ha portato un enorme
beneficio alla mia coscienza.»
“Cosa ne pensa di questi tentativi di limitare
la libertà del medico, obbligandolo a compiere azioni contro la sua coscienza?”
«Sono la sostanza feroce che si
cela dietro l’apparenza melliflua del buonismo relativista. Da un lato la
bioetica relativista adotta il dogma dell‘assenza di verità ed il conseguente
precetto assoluto che tutto è buono, purché liberamente scelto, ma dall’altra
questa stessa bioetica si fa latrice di un attacco alla libertà di dire “no” di
fronte a determinate richieste come quella di abortire. C’è qualcosa
d’incoerente in tutto questo; sbaglierò, ma ho l’impressione che abbia a che
fare con l’odio per colui che si sottrae alla logica del “tutti partecipi,
tutti d’accordo, nessun misfatto, tutto è bene”, forse il medico obiettore
disturba questo disegno.»
“I medici obiettori sono accusati
di non essere dalla parte della donna, cosa ne pensa lei?”
«Questa è la più grossa
sciocchezza sotto il profilo scientifico. Abbiamo una mole di dati a questo
proposito. È stato dimostrato dallo studio STAKE, una valutazione di tutte le
donne in Finlandia per un periodo di oltre 14 anni, che la mortalità totale delle
donne che abortiscono ad un anno dall’evento è tre volte maggiore rispetto a
quella delle donne che danno alla luce un figlio. È stato dimostrato sia
dall’American Psychiatric Association che dal British Royal College of
Psychiatrists che l’aborto non offre nessun beneficio effettivo in termini di
salute mentale per la donna, l’aborto è cioè sotto questo profilo un intervento
futile. Infine è da poco uscito su PlosOne, una delle riviste ad impatto
scientifico più alto, uno studio che sfata un altro mito, quello per cui
attraverso la legalizzazione dell’aborto si riduce la mortalità materna, cioè
la mortalità entro 14 giorni dal termine della gravidanza: l’analisi condotta
su 50 anni di mortalità materna in Cile ha mostrato che la proibizione legale dell’aborto
ha condotto ad una riduzione delle donne morte. Per questi fatti, per delle
evidenze scientifiche, posso affermare con serenità che la contrarietà
all’aborto significa essere dalla parte delle donne.»
“Perché secondo lei ci sono così
tanti medici obiettori (80% in Italia, 86% negli Usa)?”
«Ci sarebbe da stupirsi del
contrario. Affermare che il buon medico non obietta significa sostenere che i
medici obiettori non sono buoni medici? Se così è si tratta di un’affermazione
offensiva nei confronti della quale sarebbe interessante valutare i profili di
responsabilità legale. Significa che l’aborto è un bene perché è legale? Ma
allora anche l’obiezione è legale, allora perché attaccarla? Forse la
stragrande maggioranza dei medici non effettua né partecipa agli aborti perché
la scienza ci ha dimostrato chiaramente che dal momento della fecondazione si è
in presenza di un essere umano vivente unico ed irripetibile, cioè di un valore
incondizionato, una preziosità che la maggioranza dei medici intende quale
propria missione tutelare e non sopprimere.»
Iscriviti a:
Post (Atom)