mercoledì 29 agosto 2012


UN ALTRO COLPO DI PICCONE AI PALETTI DELLA LEGGE 40 SULLA FECONDAZIONE ARTIFICIALE, Giacomo Rocchi, 29 agosto 2012


1. La decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha ritenuto il divieto di diagnosi genetica preimpianto  sull’embrione prodotto in vitro contrario all’articolo 8 della Convenzione, è assolutamente contestabile e assai debole.

In particolare, la Corte ha sorvolato sul fatto che i ricorrenti italiani non avevano promosso alcuna causa in Italia, benché il ricorso alla Corte sia possibile solo se i rimedi interni sono esauriti; non solo: l’unico precedente di un giudice italiano che è stato prodotto in giudizio riconosceva la possibilità di procedere alla diagnosi genetica preimpianto, con l’ovvia conseguenza che Costa e Pavan avevano la concreta possibilità di ottenere un provvedimento a loro favorevole. Si comprende chiaramente il disegno dei ricorrenti: ottenere una decisione dalla Corte Europea per costringere i giudici italiani e la Corte Costituzionale italiana ad adottare un’interpretazione della legge 40 che permetta questa pratica barbara (la diagnosi genetica preimpianto consiste nel sezionamento dell’embrione, ancora formato da un piccolo numero di cellule, e nel prelevamento di una o due cellule: l’esito dell’analisi genetica sulle cellule prelevate è, di solito, di carattere probabilistico e non dà certezze; inoltre spesso gli embrioni – sani o malati che siano – muoiono per il solo fatto di essere stati sottoposti al prelievo). La funzione della Corte Europea, però, non è questa: ma quel Collegio si è prestato a questo disegno che traspare chiaramente.

Un secondo motivo di debolezza della decisione sta nel fatto che la coppia Costa-Pavan non ha il diritto ad accedere alle tecniche di fecondazione artificiale, in quanto coppia fertile, anche se i bambini che può generare hanno una buona probabilità di essere malati. Se, quindi, essi non possono sottoporsi alle tecniche, il ragionamento fondato sull’incoerenza tra il divieto di diagnosi genetica preimpianto e la possibilità di un aborto eugenetico non vale affatto: essi, infatti, secondo la legge italiana, non hanno alcuna possibilità di trovarsi di fronte prima alla diagnosi genetica e poi alla diagnosi prenatale (con conseguente decisione di abortire il bambino eventualmente malato) perché, semplicemente, le tecniche di fecondazione in vitro non possono essere a loro consentite.
Su questo punto ha giocato a favore della decisione della Corte la modifica delle linee guida da parte del Ministro Turco (2008) che ha introdotto un’eccezione, definendo in sostanza infertile una coppia affetta da malattia sessualmente trasmissibile: un’eccezione che si pone chiaramente contro il testo della legge, ma che è servita prima al Giudice di Salerno e poi alla Corte europea per ritenere che, in sostanza, la possibilità di accesso alla fecondazione artificiale alle sole coppie sterili o infertili (che, cioè, non riuscissero a concepire) sia caduta. Non è servito al Governo italiano sottolineare che l’eccezione in questione non permette affatto il ricorso alla diagnosi genetica preimpianto dell’embrione (infatti, in questi casi, si procede al “lavaggio” del seme maschile prima di procedere alla fecondazione in vitro): l’eccezione ha “funzionato” e così – come il ministro Turco sperava – lo stesso Governo italiano ha dato il suo contributo all’affossamento della legge.

2. Tuttavia, questa sentenza – quale che sia l’esito di un ricorso in appello alla Corte superiore da parte del Governo italiano – è un altro passo verso lo smantellamento dei “paletti” che il legislatore aveva posto alle pratiche di fecondazione artificiale con la legge 40.

Quella legge “imperfetta” portava in sé una domanda per il futuro: era possibile permettere il ricorso a quelle tecniche, ormai sviluppatesi da molti anni e che avevano caratteristiche ben definite, pretendendo, però, di “piegarle” ad esigenze diverse?
E allora: ricordiamo quale è l’ideologia della fecondazione in vitro (che, non a caso, la Corte Europea ricorda, menzionando uno studio del Comitato per la bioetica del Consiglio d’Europa del 2010): l’uomo viene “prodotto”, diventa “cosa”, priva di qualunque valore in sé; viene prodotto in gran quantità, mediante il prelievo e la fecondazione del massimo numero possibile di ovociti femminili, estratti dopo che la donna è stata sottoposta ad una stimolazione ormonale (che porta con sé anche gravi rischi per la sua salute); viene osservato e selezionato tra gli altri, sia verificando la sua maturazione, sia, appunto, sezionandolo con la diagnosi genetica; viene congelato; gli embrioni selezionati vengono trasferiti artificialmente nel corpo della donna nella certezza che la maggior parte di loro moriranno, soprattutto per mancato attecchimento; gli altri restano congelati, oppure vengono buttati o, meglio ancora, utilizzati per le ricerche scientifiche, previa la loro “dissoluzione”.
L’effetto di queste tecniche, quindi, è la realizzazione di un prodotto che deve essere esente da difetti di qualunque tipo; le banche del seme e degli ovuli dimostrano che non si tratta soltanto di eliminare gli embrioni malati, ma di realizzare e scegliere embrioni del sesso desiderato e con le caratteristiche fisiche volute.

L’eugenetica è parte integrante, si direbbe “fondante”, della fecondazione extracorporea:
gli esseri umani imperfetti non devono venire alla luce, soprattutto quelli affetti da malattie genetiche, per impedire che, a loro volta, le trasmettano ai loro discendenti.
Altro principio fondante è la negazione di ogni diritto all’embrione, che è “prodotto”: non è un caso che la sentenza della Corte Europea incidentalmente lasci cadere l’affermazione che il concetto di “bambino” non è assimilabile a quello di “embrione”. Solo negando qualsiasi valore all’embrione si può sostenere che l’eliminazione degli embrioni malati integri una forma di terapia contro le malattie cui l’embrione è affetto. In conseguenza della stessa negazione, gli embrioni possono essere congelati, soppressi, tagliuzzati e sottoposti ad esperimenti scientifici; possono diventare materiale vivente utile per cercare (pare senza successo) terapie. Ancora; proprio considerando gli embrioni privi di ogni valore si può accettare che, in ogni ciclo, la stragrande maggioranza di essi muoia come conseguenza normale dell’applicazione delle tecniche.

3. La legge 40, da una parte riconosceva il diritto degli adulti a ricorrere a queste tecniche (un diritto soggettivo pieno: non a caso le coppie ricorrono ai giudici civili); dall’altra pretendeva di limitare l’accesso alle sole coppie sterili, negava la fecondazione eterologa, pretendeva che gli aspiranti genitori non fossero troppo anziani, vietava il congelamento e soprattutto stabiliva il principio della soggettività dell’embrione creato e del suo diritto (e il corrispondente obbligo di tecnici e genitori) ad essere trasferito nel corpo della madre per avere una chance di sopravvivenza, a prescindere dalle sue condizioni di salute.

Una tecnica disumana “convertita” in un servizio all’uomo, allora? Obbiettivo ambizioso, ma, per la verità, assai ingenuo o, per dirla tutta, pienamente ipocrita.
Ammettere come diritto soggettivo il ricorso alle tecniche di fecondazione in vitro, infatti, significava prevedere che moltissimi embrioni sarebbero morti poche ore dopo la loro produzione in provetta: l’abortività intrinseca delle tecniche non si elimina con il divieto di produzione soprannumeraria e di congelamento, perché tanti embrioni muoiono ugualmente. Dalle statistiche ministeriali si ricavano dati eclatanti, che dimostrano che, prima ancora che i “paletti” iniziassero a cedere, ogni anno decine di migliaia di embrioni prodotti sono morti, così come era stato puntualmente previsto.
La seconda ipocrisia era l’accettazione della definizione di queste tecniche come “terapia”, quando esse non curano nessuno ma, appunto, servono a “produrre” al di fuori dell’uomo e della donna. Riconoscere la natura di terapia (procreazione “medicalmente assistita”) comporta non solo finanziare con i soldi pubblici queste tecniche, ma riconoscere alle coppie il diritto a curarsi. Qui si coglie un punto di contatto con l’ipocrisia dell’aborto volontario: anche in quel caso l’uccisione dell’essere umano viene definito atto “terapeutico”, che dovrebbe essere giustificato per i pericoli alla salute della donna.

L’ipocrisia del legislatore si coglie fin dall’esame dei “paletti”, alcuni dei quali sembrano disegnati per essere aggirati, prima ancora che abbattuti.
La sterilità di coppia? Non viene definita e, così, nella maggior parte dei casi è sostanzialmente “autocertificata”.
Il ricorso alle tecniche dei single? Possibile, ancora una volta autocertificando una convivenza in atto, che nessuno controllerà (sì, perché non è necessario essere sposati e nemmeno conviventi da un determinato periodo…).
L’età avanzata della coppia? Definita in modo così vago che attualmente si sottopongono alla fecondazione in Italia donne anche di 43 – 45 anni.
Il divieto di congelamento degli embrioni? Lo stesso legislatore prevede un’eccezione per i casi imprevedibili di salute della donna …
Il divieto di diagnosi genetica preimpianto? Non è previsto esplicitamente (nonostante la tecnica fosse conosciuta già da molti anni), ma si dovrebbe ricavare dall’interpretazione di un articolo sulla sperimentazione sugli embrioni (come stupirsi che alcuni Giudici abbiano interpretato il testo nel senso che il divieto non esiste?)
La “soggettività” dell’embrione? Nessuno strumento è previsto per la sua tutela, cosicché le cause “pilota” si svolgono tra gli aspiranti genitori e le cliniche per la fertilità, due parti che sono d’accordo tra di loro …
e così via.

4. Ecco che questo legislatore “distratto” (o ipocrita) ha messo nelle mani dei fautori della fecondazione artificiale un diritto soggettivo pieno, da esercitare senza alcun contraddittorio (e, temiamo, senza alcun controllo: le norme penali assomigliano a grida manzoniane…), cosicché – come era stato addirittura preannunciato prima dell’approvazione della legge! – la spinta verso l’abbattimento di ogni limite è immediatamente iniziata.

Se pensiamo alla sentenza del 2009 della Corte Costituzionale, che ha eliminato il limite massimo di tre embrioni producibili per ogni ciclo, ci accorgiamo che essa è prevedibile conseguenza delle scelte del legislatore: non aveva detto che si tratta di una terapia? E allora, dice la Corte, lasciate scegliere ai medici il numero degli embrioni! Ma che fare degli embrioni soprannumerari? Congelateli, dice la Corte, non ne state già congelando altri?

Ecco che il numero degli embrioni prodotti aumenta vertiginosamente; ecco che – ovviamente – i tecnici selezionano gli embrioni “migliori” per tentare il trasferimento in utero, congelando gli altri; ecco che ritornano le richieste di usare gli embrioni “abbandonati” per gli esperimenti scientifici …

5. Cosa manca al riconoscimento esplicito della liceità della diagnosi genetica preimpianto?
Qui cade il riferimento all’aborto “terapeutico” che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo fa, e con buone ragioni!

La Corte sostiene che la legge 194 del 1978 permette alla donna di abortire – di uccidere, quindi - un bambino affetto da malattia genetica. Ha davvero letto male quella legge? Davanti a sé aveva una coppia che ha potuto interrompere la gravidanza per quel motivo negli anni passati! Ma – come riferiscono esplicitamente le relazioni ministeriali sull’attuazione della legge sull’aborto –
tutti gli aborti volontari eseguiti nel secondo trimestre di gravidanza in Italia conseguono all’esito sfavorevole di diagnosi prenatali.
Sì: in Italia, non solo nel primo trimestre la donna può abortire in ogni caso (quindi anche se le diagnosi prenatali precoci hanno indicato la probabilità di una malattia o malformazione del concepito), ma anche successivamente l’aborto può essere effettuato a richiesta della donna a seguito di diagnosi negative!
Gli ingenui dicono: ma la legge 194 richiede che la malformazione del nascituro determini un grave pericolo per la salute della donna! Ma se il concetto di “salute psichica” è inteso come “assenza di completo benessere fisiopsichico”, pensate che sarà possibile negare il certificato necessario per l’aborto ad una donna stravolta e angosciata dalla notizia che il figlio che porta in grembo forse è malato? Non è possibile: è un “diritto soggettivo” della donna che (come ha riconosciuto la Cassazione) comporta il diritto al risarcimento del danno se è stato negato non riferendole dell’esito negativo della diagnosi.

6. Le conclusioni – assolutamente ciniche – della Corte Europea colgono quindi nel segno.

Traduciamole: voi, in Italia, da 35 anni fate già eugenetica, uccidendo, a semplice richiesta della madre, i bambini prima della nascita se sono malati o affetti da malformazioni; le tecniche di fecondazione in vitro sono nate e sono state sviluppate con un’impronta eugenetica; gli embrioni possono essere prodotti e congelati in gran quantità: volete spiegarci perché non permettete di sottoporre ad analisi invasive gli embrioni, così da eliminare quelli difettosi? Eppure agire prima per eliminare gli imperfetti evita alla donna il trauma dell’aborto! L’embrione, poi, non è nulla …

Già: vogliamo spiegare perché, da trentacinque anni manteniamo questa legge che ha permesso di uccidere legalmente milioni di bambini e ci ha educati all’eugenetica spicciola?

E perché abbiamo una legge che permette di produrre embrioni in gran quantità, di farli morire a migliaia, di congelarli a tempo indeterminato, di selezionarli?

La Corte Europea ha sbagliato?
Sì, l’ha fatto quando ha definito la legislazione italiana “incoerente”: al contrario, quanto sono coerenti le due leggi! Come dimenticare che, per ogni evenienza, la legge 40 “fa salva” esplicitamente la legge 194, confermando che anche i bambini creati in provetta e fortunosamente riusciti a sopravvivere possono essere soppressi durante la gravidanza?

Occorrerà abrogare entrambe le leggi!

Giacomo Rocchi

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