IL CASO/ Anche un neonato sa distinguere il bene dal male, ecco le prove - martedì 18 giugno 2013 - http://www.ilsussidiario.net/
I lattanti sanno “stare dalla parte giusta”, quando vedono una cattiveria? Sembrerebbe proprio di sì, secondo quanto riporta uno studio giapponese pubblicato sulla rivista Plos One. Vedendo delle immagini di aggressione in cui è chiaro chi aggredisce e chi è aggredito, i piccoli ancora non in grado di parlare mostrano una preferenza affettiva verso l’aggredito. Questo strano ma interessante esperimento ci apre al mondo dei nostri figli ancora in fasce o quasi: quanto poco ne sappiamo e quanti pregiudizi impediscono di capire il loro livello di socialità ed empatia. Insomma: i bambini ci guardano, anche se non lo capiamo, ci giudicano anche se non sanno parlare.
I “prematuri sono socio-biologicamente sociali” scriveva qualche anno fa la pioniera degli studi sulla sociologia del neonato, Heidi Als, e per i piccolissimi ha creato un sistema basato sull’interazione sociale anche quando parrebbe che non capiscono, anche quando sono gravemente malati, e anche quando la tradizione pediatrica li condannava ad essere trattati come animaletti d’allevamento.
L’idea che i lattanti sanno stare dalla parte giusta ci apre al loro mondo, con una riflessione: quanto ci relazioniamo con loro in maniera strampalata, quanti “ghe ghe ghe” “bubù bubù bubù” facciamo loro come se fosse logico che a chi non sa parlare ci si rivolga con un linguaggio tra il derisorio e lo scimmiesco. Eppure ci viene spontaneo questo balbettare impazzito, questa dislalia demenziale di fronte al lattante che certo sa solo vagire ma non per questo ha un cervello che merita i nostri vagiti e sproloqui gutturali. Non che con un lattante dobbiamo discorrere di filosofia o di calcio, ma è sempre importante tener presente che è una persona, che è sociale, e magari usare un linguaggio umano ci aiuterebbe a sottolinearlo… anche se “sembra che non capisca!”.
Sottolineare cosa? Che non può essere trattato come un pacco postale, depositato davanti alla Tv già a 5 mesi, lasciato piangere anche quando si dispera per la solitudine. Già, perché anche il pianto è un linguaggio. Rinvenni questo eseguendo di recente alcuni studi in cui analizzando matematicamente il pianto del neonato emergeva una sorta di proto-linguaggio, una sorta di linguaggio rudimentale che è pianto ma che possiamo tradurre in termini comprensibili, cioè una capacità di esprimere il dolore forte, piangendo in un modo diverso dal pianto da dolore basso (Bellieni CV e al., Cry features reflect pain intensity in term newborns: an alarm threshold. Pediatr Res. 2004 Jan;55(1):142-6.) e che non è una pura “intensità” del pianto, ma una netta differenza negli accordi acustici usati.
Ma già da altri studi che avevamo pubblicato in precedenza era apparso chiaro come anche il piccolissimo neonato è alla ricerca di una compagnia nel momento del dolore, anche se la tradizione fino allora era quella di fare - ad esempio - prelievi di sangue senza curarsi troppo spesso delle ricadute dolorose. Ed escogitammo una tecnica detta Saturazione sensoriale, che si basa proprio sull’interazione del neonatino con il personale che lo cura, con la stessa mamma, che eseguendo dei semplici atti interattivi di conforto riesce a far sparire il suo dolore (per una rassegna vedi Bellieni CV e al. Sensorial saturation for infants' pain. J Matern Fetal Neonatal Med. 2012 Apr;25 Suppl 1:79-81. ).
Già, l’interazione con l’altro essere umano calma il dolore anche nel piccolissimo: non è un ritrovato sconvolgente per le mamme, ma lo è stato per tanti ospedali. Insomma, il mondo del piccolo bambino è pieno di sorprese e di insegnamenti per l’adulto. Quanto potrebbero trarne giovamento i genitori se solo lo sapessero. Purtroppo viene loro troppo spesso inculcato dai massmedia un’idea di figlio come di giocattolo da mostrare ad amiche e amici, di bambolotto che non si capisce che necessariamente ti deve cambiare la vita, mentre non siamo in grado di accettare altro se non quello che noi abbiamo programmato.
Non sappiamo accettare l’imprevedibilità (e le capacità nascoste) di un bambino, tanto che non se ne fanno più. E di questo tutta la società occidentale sta pagando il pegno.
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